Liberali: moderni o reazionari?

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Liberali: moderni o reazionari?
Il rapporto intimo fra il cristianesimo e la libertà sfugge sovente all’osservatore contemporaneo:
imbevuto di slogan definiti “laici” – in realtà nemmeno troppo larvatamente anticattolici ed
anticlericali -, egli è portato a vedere nelle istituzioni ecclesiastiche dei potenziali nemici
irriducibili della libertà individuale. Questa visione – ascrivibile ad una sensibilità che potremmo
definire “radicale”, o genericamente left-liberal – non tiene conto purtroppo dell’importanza
cardinale della religione cattolica nel progredire della libertà dell’uomo e nella resistenza alla
bramosia del potere politico. In particolare, la moderna liberal-democrazia tende a descrivere se
stessa come il traguardo – o come una tappa ineludibile – di un percorso di liberazione
dell’umanità dalle catene del passato e da un potere assoluto e arbitrario. Soprattutto
nell’interpretazione anglosassone, all’origine di questa esplosione di libertà vi sarebbe la
“liberalizzazione della religione”, la rottura del monopolio religioso della Chiesa cattolica
operata da Lutero e dalla Riforma. A seguire, il risplendere della luce dell’Illuminismo sulle
tenebre del Medioevo, della superstizione e della religione; la Rivoluzione francese, il trionfo
della “sovranità popolare” sulla società dell’ancien régime; si giungerebbe così all’Ottocento,
secolo borghese e liberale per definizione. La “lunga marcia” della libertà avrebbe spazzato sul
suo cammino ogni opposizione, dall’assolutismo monarchico alle resistenze della Chiesa. Anzi,
la moderna democrazia liberale nascerebbe proprio dall’autoliberazione dello Stato dalle
catene della religione cattolica e degli altri retaggi medievali, col fine dichiarato di “emancipare”
i cittadini. Scoprire la fallacia di questa soave narrazione potrebbe rendere ragione della
siderale distanza che si interpone fra il pensiero liberaldemocratico e quello libertario: non una
semplice distinzione di grado, bensì di sostanza, che trova nella lettura del ruolo del
cattolicesimo una cartina di tornasole e un importante discrimine.
Le radici storiche della modernità. Innanzitutto, è bene comprendere che ciò che rende il
cattolicesimo tanto pruriginoso agli occhi della cultura dominante è il suo carattere intimamente
antimoderno. Non dice il falso chi ripete a piè sospinto che la Chiesa cattolica – almeno negli
ultimi due secoli – si è opposta con forza alla modernità. Quest’ultima è stata a sua volta
eminentemente anticattolica. Si pensi alla filosofia della storia di due figure intellettuali così
diverse, addirittura agli antipodi, come Antonio Gramsci e Papa Pio IX. Entrambi individuano
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un percorso chiaro nella genesi e nel dispiegarsi della modernità, le cui fasi salienti sono il
Rinascimento, la Riforma protestante, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, il “liberalismo
laico” ottocentesco e infine il trionfo del socialismo. Naturalmente, ciò che per Gramsci è
un’ascesa idilliaca – il filosofo marxista parla della secolarizzazione come del processo di
“autoliberazione” dell’uomo – viene descritto da Pio IX come un’ineluttabile e tragico declino,
destinato a liquidare la civiltà cristiana e a sprofondare l’umanità in una “Repubblica
Universale, anarchica ed egualitaria”. Gramsci in questo senso incarna lo Zeitgeist della
modernità laica e socialista; gli fa da contraltare la figura autenticamente reazionaria di Pio IX,
espressione di quella cultura cattolica conservatrice destinata in un modo o nell’altro ad essere
sconfitta dalla Storia. Ma il Beato Papa Mastai non è solo in questa fallimentare crociata
antimodernista: egli ha al suo fianco tutti i pensatori contro-rivoluzionari dell’Ottocento, i quali
difesero la legittimità delle monarchie tradizionali contro il fiume in piena della Rivoluzione.
Joseph de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés e Carl Ludwig von Haller: sono
questi i più noti esponenti della resistenza legittimista e pervicacemente cattolica dinnanzi
all’avanzare trionfante delle idee rivoluzionarie, dietro alle quali si nascondono il “liberalismo”
illuminista, gli ideali massonici e – cosa neanche troppo bizzarra – le velleità protestanti.
Sotto il mantello romantico della Rivoluzione si cela dunque l’ultima e più potente incarnazione
dello Stato moderno, fuoriuscito dalla monarchia assoluta solo per inaugurare l’assolutismo
delle assemblee: per dare insomma origine ad una concentrazione di potere inusitata ed
inaudita, da far impallidire le brame del Re Sole. L’avvento della società di massa e della
democrazia – al netto delle costruzioni ideologiche di cui quest’ultima si è ammantata, invero
piuttosto radicate nel commune verbum – ha consentito una intensificazione spaventosa del
potere dello Stato, che ha trovato il proprio infausto parossismo nei totalitarismi del XX secolo.
Ebbene, a tutto questo i cattolici reazionari più ostinati e testardi si sono opposti con risoluzione,
seppur con diverse sfumature. Per quanto ciò possa sembrare paradossale agli occhi degli
odierni liberali laici, in tale contesto è stata la Chiesa cattolica – con l’ausilio dell’Internazionale
nera! – a difendere a spada tratta la libertà contro l’affermazione spaventosa di un nuovo
potere irriducibile.
La favola della modernità democratica. Sotto l’analisi spietata e acuta dei suoi critici, la
favola autocelebrativa della modernità democratica dimostra tutta la propria inconsistenza. E’
possibile concordare con il liberale inglese John Stuart Mill quando rinviene nella Riforma
luterana il primo felice barlume del futuro liberalismo? La domanda è in realtà mal posta: la
Riforma pone in effetti le basi per l’affermarsi del pensiero liberaldemocratico, laico e moderno,
ma ben difficilmente potrebbero esservi ritrovati i prodromi della filosofia libertaria. In questo
senso, la riflessione di Murray N. Rothbard – il “padre nobile” del libertarismo contemporaneo
– è di grande ausilio. Egli non fa mistero della propria avversione culturale al protestantesimo,
così come del suo apprezzamento per il cattolicesimo. A suo avviso, deprecabili sono gli aspetti
antirazionalistici del protestantesimo, dubbia è la relazione causale fra il calvinismo e la genesi
del capitalismo, e semmai la vera relazione sarebbe da rinvenire fra la Riforma e all’affermarsi
dell’assolutismo statale in età moderna. Alla radice della religione cattolica vi è la convinzione
che Dio possa essere percepito non solo mediante la fede, ma attraverso tutte le facoltà
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dell’uomo, compresi i sensi e la ragione. Il protestantesimo, specie quello calvinista, pone
invece Dio completamente al di fuori dalla portata delle facoltà umane, oggetto soltanto della
pura fede nella rivelazione. Per i protestanti l’uomo è troppo corrotto perché possa fidarsi della
sua ragione o dei suoi sensi nella ricerca delle leggi naturali, e deve pertanto affidarsi
all’arbitraria volontà di un Dio padrone. In questo modo essi non hanno avuto a disposizione
nessuno standard di norme etiche per valutare l’azione dei governanti, e perciò hanno fornito
poca o nulla difesa contro la marea montante dell’assolutismo. Affidandosi inoltre a passaggi
isolati della Bibbia anziché ad una solida tradizione teologica, Lutero e Calvino arrivarono a
sostenere che tutti i poteri sono ordinati da Dio, e che pertanto ai sovrani - non importa quanto
tirannici - occorre sempre prestare obbedienza. In contrasto con il tentativo cattolico di applicare
i principi morali a tutta la vita sociale e politica, Lutero tendeva così a “privatizzare” la moralità
cristiana e a lasciare i governanti del mondo secolare liberi di operare in una maniera di fatto
incontrollata
Il ruolo della Chiesa cattolica. Lo studioso newyorkese ricorda peraltro che furono i gesuiti i
primi a cogliere lo stretto legame fra i due “padri fondatori” del moderno Stato secolarizzato,
Lutero e Machiavelli. Entrambi, rifiutando per differenti ragioni la legge naturale elaborata dalla
scolastica cattolica come base morale della politica, si liberarono degli unici criteri sviluppati nei
secoli per criticare le azioni dei governanti. Non il papato, ma lo Stato rappresentava per Lutero
lo strumento di Dio, e i sudditi gli dovevano la più cieca obbedienza. Per Machiavelli invece
occorreva abbandonare ogni tentativo di giudicare la politica o il governo sul metro dell’etica
cristiana, dato che quest’ultima andava subordinata all’imperativo supremo del mantenimento
e dell’espansione del potere. Non si è dunque parlato a sproposito di una “inconsapevole
collaborazione di Machiavelli e Lutero per l’emancipazione dello Stato”, che avrebbe dato
modo a Thomas Hobbes di formulare “un sistema politico che è insieme perfettamente
machiavellico e perfettamente protestante”. Lo Stato moderno, il vero ed unico nemico dei
libertari e dei diritti naturali, avrebbe dunque trovato nelle sette riformate dei grandiosi puntelli
per la propria compiuta affermazione agli albori della modernità: quest’ultima partorita così
parimenti statuale e anticattolica. Come ricorda H.W. Crocker, durante la Riforma era la Chiesa
Cattolica che difendeva la libertà, e non solamente perché proteggeva l’Europa dai turchi. Era
infatti la Chiesa ad affermare il libero arbitrio dell’uomo, mentre i protestanti insistevano che il
destino di ogni uomo fosse determinato prima della sua nascita, per la dottrina della “doppia
predestinazione”. Soprattutto, era la Chiesa che si opponeva al potere assoluto dello Stato,
rivendicando il suo ruolo di corte d’appello universale, indipendente e suprema, contro gli editti
dei re, mentre i protestanti fecero della religione un semplice dipartimento del governo: sotto lo
stretto controllo dei principi in Germania, del monarca in Inghilterra e in Scandinavia, o del
consiglio cittadino a Ginevra, dove Calvino avrebbe fondato la prima teocrazia poliziesca
cristiana della storia.
Il razionalismo "liberatore". Proclamando il sacerdozio universale, il libero esame della Bibbia
ed il carattere eminentemente privato del cristianesimo, la Riforma protestante contribuì
enormemente al processo di secolarizzazione della società, un fenomeno miliare della
modernità che sarebbe culminato nelle speculazioni dei philosophes del XVIII secolo, per poi
concretizzarsi tragicamente nella Rivoluzione francese. Quest’ultima – che dell’Illuminismo fu
la naturale e logica conclusione, e non come spesso si sostiene un suo pervertimento
estremistico – non fu propriamente una reazione antireligiosa: il razionalismo “liberatore” era
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rivolto esclusivamente contro il cattolicesimo “papista”, mentre né l’ebraismo né il
protestantesimo ebbero a soffrirne. Obiettivo privilegiato dei giacobini furono i preti cattolici che
rifiutarono di piegarsi alla Costituzione civile del clero del 1790, così come furono i “cattolici
reazionari“ della Vandea ad essere brutalmente sterminati nel 1793. Nondimeno, quella
operata dai rivoluzionari non fu semplicemente una laicizzazione della società: fu altresì una
sacralizzazione del potere, che si estrinsecò nell’edificazione – e nell’implementazione coatta –
di una religione civile, “laica” nel senso più pregnante del termine, cioè schierata a difesa del
carattere sacrale e perpetuo della sovranità dello Stato. Proprio come aveva suggerito
profeticamente Jean Jacques Rousseau. In questo contesto nasce l’idea francese di laïcité:
come scrive Carlo Lottieri, “la laicità è impensabile senza lo Stato e al di fuori delle sue
categorie”. Cosa replicare dunque ai liberaldemocratici che leggono nei principi della
Rivoluzione l’universalizzazione del diritto naturale e la vittoria della sovranità popolare
sull’assolutismo dei re? Basti citare due autentici liberali. Alexis de Toqueville, innanzitutto, per
il quale dalla Rivoluzione nacque “un governo più forte e molto più assoluto di quello rovesciato
dalla rivoluzione” stessa. E poi Lord Acton, che efficacemente rileva: “L’essenza delle idee del
1789 non è la limitazione del potere sovrano, ma l’abolizione dei poteri intermedi”. Si compie
così, almeno parzialmente, il progetto originario della statualità moderna: sul campo rimangono
solo due soggetti, lo Stato e l’individuo; i “residui feudali” che si interponevano fra i due –
corporazioni, Chiesa, famiglia – vengono dissolti o marginalizzati. Si chiama democrazia
liberale, ma al suo confronto il policentrismo medievale era stato ben più autenticamente
libertario – come gli stessi libertari, e alcuni conservatori come Robert Nisbet, non hanno
mancato di rilevare.
Torniamo così circolarmente al punto di parteza, a Pio IX e alla sua lotta contro l’allora più
temibile incarnazione della modernità, quel complesso fenomeno ottocentesco noto come
“Rivoluzione”. Si tratta dell’eredità della Rivoluzione del 1789, che sopravvive alla
Restaurazione e si ripropone nei moti carbonari, nei complotti massonici e nelle presunte
sollevazioni liberali. In Italia essa si concretizza nel Risorgimento, nel tentativo sabaudo di
unificare la penisola. Anch’esso, come ben comprese il Pontefice, era intimamente
anticattolico, aveva cioè come primo obiettivo quello di sradicare il potere temporale della
Chiesa e di marginalizzare il ruolo del cattolicesimo nell’Italia unita. Non è un caso che durante
la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 – che segnò la resa dello Stato pontificio -, furono
segnalati diversi carri che portavano in Roma copie di Bibbie protestanti. Anche nel
Risorgimento il legame strettissimo fra le forze laiche – massoni, “liberali”, Savoia, protestanti –
si ripresenta con forza. Con il Sillabo del 1864 e con il successivo “non expedit” l’ultimo Papa
re presenta in tutto il suo perentorio vigore una rinnovata condanna di questa modernità
secolarizzata. E alla luce di quanto si è visto, la disfatta di Pio IX coincide ancora una volta col
trionfo dello Stato, contemporaneamente laico e plenipotenziario.
Se le cose stanno così, si comprende la ragione per cui Lottieri ha definito il liberalismo dei
libertari come una “reazione” nei confronti della modernità. Scrive infatti Guglielmo Piombini:
La concezione politica liberale esprimerebbe infatti la resistenza (o “insorgenza”) della società
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di fronte all’avanzata dello Stato, che, dall’inizio dell’età moderna in poi, ha progressivamente
ridotto gli spazi di libertà degli individui proprietari, delle comunità locali, delle tradizioni
religiose, delle consuetudini giuridiche. Il liberalismo classico e il libertarismo, secondo Lottieri,
sono dottrine moderne da un punto di vista cronologico, ma antimoderne nel contenuto; e se
prima della modernità non c’era una teoria liberale, non significa che il mondo fosse dominato
dalla tirannia e dall’oppressione, ma che di tale teoria non se ne sentiva il bisogno. Non
essendoci lo Stato come lo conosciamo noi, non vi era nemmeno l’esigenza di reagire al suo
monopolio. La teoria liberale e libertaria emerge quindi a difesa della società civile, minacciata e
oppressa dal trionfo dello Stato moderno.
E così, mentre i libertari ammirano il pluralismo competitivo dell’età di mezzo e sposano il
realismo del pensiero contro-rivoluzionario – in von Haller autenticamente privatistico e
proprietarista -, i liberaldemocratici sono gli eredi di quel “liberalismo” illuminista e rivoluzionario
che, dopo aver contribuito a demolire i retaggi medievali e ad edificare il monopolio legislativo
del Leviatano, si sono poi cullati nell’illusione che fosse possibile limitarne il potere mediante
artifizi e congegni interni (lo “Stato di diritto”, il costituzionalismo, la divisione dei poteri, le
elezioni, la generalità e astrattezza della legge e così via) rivelatisi poi in buona misura
inefficaci.
Le radici del libertarismo sono dunque – con buona pace di molti libertari laici e atei militanti –
intimamente cattoliche, mentre anticattoliche e proprio per questo veramente moderne sono
quelle del liberalismo democratico. Si tratta con ogni evidenza di due mondi del tutto diversi.
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