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Blade Runner, di Ridley Scott, 1982
Celeberrimo film di fantascienza, liberamente tratto dal romanzo Il cacciatore
di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep ?) di Philip K. Dick,
ambientato nella anti-utopica Los Angeles del 2019.
Qui la multinazionale Tyrell Corporation ha creato una nuova specie di
androidi dalle sembianze perfettamente umane (i “replicanti Nexus 6”),
programmati per vivere solo quattro anni come operai-schiavi o come soldati
nei pianeti del sistema solare. La “perfezione” con cui sono stati creati,
però, ha fatto sviluppare in essi emozioni umane, tra cui l’angoscia, a causa
della consapevolezza della morte, programmata da un timer. Questo spinge
alcuni di loro, guidati da Roy Batty, alla ribellione e alla ricerca del loro creatore, <<per chiedergli la giustificazione del loro crudele
destino “a orologeria”. Divenuti dei criminali, sono braccati dalle unità “Blade Runner” (“colui che corre sul filo di una lama”) della
polizia della California>> 1. Il poliziotto Rick Deckard, forzatamente richiamato in servizio per “ritirare” i quattro replicanti fuggitivi, si reca
nell’ufficio del Dr. Tyrell per sottoporre un replicante a un test. Il Dr. Tyrell lo invita prima a provare il test su un “umano”, la sua
segretaria Rachel, che si rivelerà invece essere una replicante altamente evoluta, dotata di una serie di ricordi d’infanzia e di fotografie
del suo presunto passato. A differenza degli altri replicanti, Rachel non sa di essere un androide e, quando comincia a nutrire qualche
dubbio sulla sua identità, si reca nell’appartamento di Deckard per saperne di più. Nonostante la rivelazione della verità sconvolgente
sulle sue origini e la sua “natura” artificiale, tra il cacciatore e la replicante nascerà l’amore.
Nel frattempo i replicanti superstiti, il leader Roy Batty e la sua compagna Pris, riescono a raggiungere il Dr. Tyrell per chiedergli se
esiste un modo per posticipare la loro “fine” programmata. Di fronte alla risposta negativa del loro “padre” creatore, Roy uc cide
brutalmente il Dr. Tyrell. Deckard, informato dell’omicidio, si mette sulle tracce dei replicanti e riesce ad uccidere Pris, ma viene
raggiunto dal fortissimo Roy che, alla vista di Pris morta, decide di vendicarsi. Nel concitato inseguimento, saltando sui tetti della
futuristica Los Angeles, Rick Deckard si aggrappa ad una trave per non precipitare nel vuoto. Roy Batty, che sa di vivere gli ultimi minuti
della sua esistenza programmata, con un colpo di scena, invece di uccidere Rick, lo trae in salvo, pronunciando le parole del famoso
epilogo: <<Io ne ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi...>>, morendo di fronte allo stupito e sgomento poliziotto.
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Il filmato che qui viene proposto (l’epilogo del film) ci mostra il fortissimo leader degli androidi, Roy Batty, che
sta per avere la meglio sul suo “cacciatore”, il poliziotto Rick Deckard. Ma Roy, proprio a pochi minuti dallo
scadere del suo tempo vitale, “si rivela più umano degli umani”2, risparmiando infatti la vita al suo nemico
e rivolgendosi a lui con queste sublimi parole:
<<Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi... navi da combattimento in fiamme al
largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E
tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia... È’ tempo di morire>>.
L’idea bergsoniana che la continuità della coscienza, ovvero l’identità della persona, coincida con la
memoria, è magistralmente rappresentata in questa e altre scene del film.
Nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) Bergson distingue il tempo della vita dal tempo della
scienza. Il tempo della scienza, ovvero il tempo dell’orologio, non è altro che la misura del movimento,
quello di un punto che si sposta uniformemente nello spazio, è quindi un tempo “spazializzato”.
La divisione dello spazio percorso in un certo numero di intervalli tutti uguali, piccoli a piacere, fornisce le
cosiddette unità di tempo, con relativi multipli e sottomultipli che rendono possibile la calcolabilità
matematica. Infatti, le esigenze di calcolo della meccanica e l’organizzazione della vita quotidiana hanno
prodotto una concezione del tempo strettamente dipendente dal problema della sua misurabilità.
Questo tempo “quantitativo” è anche discontinuo, ripetibile e reversibile. “Discontinuo” poiché le unità che lo
compongono sono “discrete”, ovvero separate spazialmente e non formano un flusso continuo, come accade
per esempio in una melodia musicale. “Ripetibile” perché ogni unità è qualitativamente identica all’altra e
quindi priva di individualità e unicità. “Reversibile” in quanto, tornando indietro nella serie temporale, non si
incontra una realtà passata qualitativamente diversa dalla realtà presente, ma si ripete semplicemente
l’enumerazione di unità spaziali uniformi e omogenee tra di loro.
Secondo Bergson questa forma di tempo non è “sbagliata”, anzi è utile all’uomo per lo studio scientifico dei
fenomeni e per l’applicazione tecnologica che ne consegue, ma non può pretendere, in virtù
dell’autorevolezza della scienza, l’esclusiva dell’unicità e della “verità”. Esiste infatti un altro modo di
concepire il tempo, considerando il modo in cui viene vissuto dalla coscienza. Questo tipo di tempo, che
“scorre” dentro di noi, viene chiamato anche “durata reale” per non confonderla con la durata cronometrica.
1
2
A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Le Lettere, Firenze, 2002, p. 140
A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, cit., p. 141
©Angelo Mascherpa
Infatti, mentre quest’ultima è quantitativa e spaziale, la durata reale è “qualitativa” poiché i vari momenti che
la compongono non sono mai paragonabili tra di loro sulla base della loro ampiezza, essendo vissuti sempre
in modo diverso dalla nostra coscienza. Quindi, nonostante l’omogeneità spaziale delle unità di tempo, la
“durata reale” è fatta da intervalli “eterogenei” tra di loro che, inoltre, sono avvertiti dalla coscienza come un
flusso continuo, un fluire ininterrotto di stati di coscienza, ognuno dei quali “preannuncia quello che lo
segue e contiene quello che lo precede”, in modo tale che, mentre li viviamo, non siamo in grado di dire
quando finisce l’uno e quando comincia l’altro. L’io vive il presente con la memoria del passato e
l’anticipazione del futuro; passato e futuro possono vivere soltanto in una coscienza che li salda nel
presente: “coscienza significa memoria”.
Ora, il desiderio di identità (coincidente con il desiderio di umanità) dei replicanti viene rivendicato da
Roy, e “sbattuto in faccia” al Blade Runner, proprio attraverso la memoria. E’ infatti la memoria che
determina lo specifico umano, il risultato di una compenetrazione tra tutti i ricordi passati e il presente a
formare la continuità della coscienza in perenne ristrutturazione di se stessa.
Nella finzione filmica i replicanti, per esigenze operative, sono dotati di una memoria artificiale molto
sofisticata, al punto da ricordare e imparare dalle esperienze. La formazione di un barlume di identità,
attraverso la memoria, e l’anticipazione del futuro, accompagnata dall’angosciosa consapevolezza della
morte, rendono loro inaccettabile la “vita meccanica” come mezzi al servizio degli umani.
Proprio sul punto di morire, quando massimi si fanno l’attaccamento alla vita e la ricerca di senso, è come se
l’androide dicesse all’umano: <<sono più uomo io, con la mia breve vita, così ricca di ricordi straordinari
(“navi da combattimento in fiamme... i raggi B...”), di voi uomini meschini che mi fate morire, perdendo per
sempre tutti quei momenti...“come lacrime nella pioggia”>>.
Questa interpretazione bergsoniana del film è confermata anche dal personaggio di Rachel (vedi
SCHEDA FILM: Ricordi e identità - Ricordi della “replicante” Rachel), una replicante che, a differenza di tutti
gli altri, non sa di essere un androide ed è dotata di una memoria artificiale, con cui ricorda un passato che
non è mai esistito.
©Angelo Mascherpa
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