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Filosofia e guerra nel lavoro di Grégoire Chamayou
di Riccardo Antoniucci
Dopo aver in Les chasses à l’homme (2010) scritto la storia delle operazioni di caccia
all’uomo, il giovane filosofo francese Grégoire Chamayou è passato con Théorie du
drone ad analizzare gli effetti derivanti dalla nuova tecnologia militare del drone.
Dividendo la sua analisi nella consueta tripartizione disciplinare foucaultiana (sapere,
potere, sé), Chamayou ricostruisce il profilo non solo di una tecnologia militare, non solo
di una tecnica di guerra, ma di un vero e proprio dispositivo di potere(-sapere) che
assicura e rinforza la forma occidentale contemporanea di governo.
Chiunque abbia subito, una volta o l’altra, il fascino del celebre aforisma nietzscheano circa la
necessità che la filosofia si trasformi un campo di battaglia non potrà non apprezzare l’ultimo
lavoro di Grégoire Chamayou (Théorie du drone, La Fabrique, 2013)* quando dimostra che,
specularmente, un campo di battaglia può fare da base per l’esercizio della attività filosofica.
Come il precedente Les chasses à l’homme (in italiano Le cacce all’uomo, Manifestolibri, 2010),
anche questo lavoro si rifà a un approccio multidisciplinare, al limite tra la filosofia e il reportage
giornalistico, che forse non sarebbe errato definire “inchiesta teorica” e che accresce l’interesse
per l’attività di questo giovane filosofo classe 1976.
Al centro di Théorie du drone vi sono, com’è intuibile, le modalità di sviluppo della guerra
contemporanea, analizzate allo scopo di trarne una teoria. Nel senso da dare a quest’ultimo
termine sta tutto il lavoro del libro. Quello di Chamayou non è un manuale militare, infatti, né un
trattato morale sulla guerra. Piuttosto, si tratta di un lavoro che si inscrive nel solco della Teoria
del partigiano di Carl Schmitt: l’ipotesi, in una parola, consiste nell’affermare che, così come la
guerra partigiana, o guerra di guerriglia, si è rivelata un paradigma del politico del Novecento,
anche le nuove tecnologie militari introdotte in questo inizio di secolo incidono sulle forme della
politica contemporanea.
La trasformazione tecnologica da registrare, in questo caso, è relativa all’introduzione e
all’utilizzo massiccio di una nuova arma, il drone, capace di uccidere senza mettere in pericolo
chi la utilizza.
Come si vede, la posta in gioco del volume oltrepassa la semplice analisi dell’ambito militare:
questa teoria del drone vuole essere a tutti gli effetti una teoria politica. Ma in che forma? Certo,
non nel senso inveterato, e anche profondamente moderno, del detto di Clausewitz per cui la
politica è una guerra continuata con altri mezzi. Ma nemmeno nella forma di quel ribaltamento
dialettico operato negli anni ’70 (registrato e definito concettualmente da Foucault in Bisogna
difendere la società) per cui è la guerra a diventare una politica continuata con altri mezzi. Al
contrario, la novità dell’analisi di Chamayou sta nell’affermare, contro e oltre la logica dialettica,
che, se è vero che il nostro secolo di pax americana è lungi dal mettere in crisi il legame a
doppio filo del politico e del militare, come vorrebbero i suoi apologeti (la fine della storia è
sempre stata anche una pacificazione della storia), tuttavia questo legame si realizza oggi
secondo una nuova “modalità di effettuazione”.
Per un singolare effetto di parallasse, infatti, in epoca contemporanea politica e guerra finiscono
per coincidere; come a dire che “la politica è la guerra, la guerra è la politica” e tuttavia, nella
loro coincidenza, si mostrano entrambe come una forma di un terzo elemento: la
governamentalità neoliberista.
Chamayou premette alla sua analisi una dichiarazione di metodo materialista. Citando Simone
Weil (p. 27) afferma che non sono i fini della guerra a interessargli, ma i mezzi, in quanto
portatori di una necessità propria e autonoma rispetto alla logica teleologica. Il punto, infatti, non
è fare della morale, giudicare la guerra, ma “dimostrare il meccanismo della violenza. Andare a
vedere le armi e mostrare le loro peculiarità”. Questo perché una conoscenza della tecnica e dei
materiali è il punto di partenza per una conoscenza del sapere politico che a essi ricorre: “non
importa tanto cogliere il funzionamento tecnico dello strumento in sé, ma piuttosto di
determinare, a partire dalle sue caratteristiche proprie, quali possano esserne le conseguenze
applicative per l’azione di cui si fa strumento”. Perché i mezzi determinano la forma delle azioni.
Si capisce allora il senso di cosa sia questa “teoria” politica di un’arma: una teoria politica di un
drone.
Per dare corpo a questa teoria, si deve “esporre cosa significa farla propria [l’arma-drone],
cercare di capire quali effetti produce su chi la usa e su chi ne è l’obiettivo”. Ciò che si deve
studiare, afferma Chamayou, è dunque il “rapporto di determinazione” (p. 28) tra l’arma, come
infrastruttura materiale, e la “strategia” o, come si dice altre volte nel testo, l’“intenzionalità”, cioè
il lato discorsivo da cui si producono le giustificazioni e le descrizioni di queste stesse tecnologie
militari e che ne assicurano anche una totale applicabilità politica.
Di qui il serrato piano di analisi del saggio. Si tratta innanzitutto di capire cosa sia un drone, in
altri termini di costituirne la genealogia all’interno della storia delle armi. In secondo luogo
l’obiettivo è capire quali effetti questa nuova arma possa comportare nello scenario
contemporaneo della guerra, cioè quali trasformazioni questo mezzo ingeneri nella materialità
del conflitto e del combattimento. Infine, si tratta di determinare gli effetti del drone sul piano del
sapere, cioè sul piano dei discorsi di giustificazione (ma anche di critica) del suo impiego come
arma nello scenario di guerra. È questo passaggio, rivela Chamayou, che porta a rintracciare
una vera e propria “necroetica” della guerra (cfr. cap. 3, pp. 177-197), cioè una trasformazione
contemporanea della concezione della morte, dell’uccisione e della moralità legata a questi due
ambiti.
La tesi è limpida: l’introduzione di questa nuova arma porta a una trasformazione non solo delle
tecniche della guerra, ma anche del modo di concepirla. Il drone modifica il rapporto tra forze in
campo, portando al massimo grado la disparità tra gli eserciti occidentali, detentori di mezzi
tecnologici avanzati, e tutti gli altri eserciti o formazioni militari, che di questi mezzi non
dispongono. Più dell’aviazione classica, più del napalm, il drone è l’arma che uccide senza
esporre al pericolo di essere uccisi. Ma non solo: la trasformazione tecnologica produce
un’eguale mutazione antropologica negli attori della guerra, cioè nei soldati. Che diventano
ormai meri “operatori di guerra”, controllando da un ufficio climatizzato in Arizona l’arsenale
esplosivo di un aereo telecomandato in volo sopra le montagne dell’Afghanistan.
Altra trasformazione è quella che riguarda il rapporto con il nemico e con la sua
rappresentazione: l’individuo-nemico non è più un anello di una catena gerarchica, un elemento
di un corpo transorganico e transindividuale organizzato (che ha un cuore, una testa e degli arti),
ma diventa un “nodo” di una rete, con lo stesso valore di tutti gli altri nodi che la compongono
(p.53).
Che cos’è, dunque, un drone; oppure si dovrebbe dire, con maggiore proprietà, che cosa può
un drone. Riprendendo e radicalizzando l’analisi del dispositivo panottico di Michel Foucault (e
non a caso il capitolo in questione si intitola Surveiller et anéantir) Chamayou propone di vedere
nel drone una sorta di realizzazione meccanica del concetto di “occhio divino”. E tuttavia,
surclassando il panottico, il drone mescola il principio della sorveglianza perenne (portato tra
l’altro all’ennesima potenza tecnica) con quello della “punizione divina”, punizione dall’alto o
punizione superiore (cfr. pp. 58-63). Un altro elemento di scarto rispetto all’architettura
benthamiana è costituito dal fatto che il dispositivo del drone è caratterizzato dalla mancanza di
una localizzazione determinata (la cella o la torre panottica), e quindi da un raggio d’azione
potenzialmente totale sul pianeta. In secondo luogo, esso ha la possibilità di incidere
direttamente, e perfino definitivamente sulla vita dei soggetti. Questa caratteristica è
generalizzabile anche oltre il terreno militare, tanto che, andando al di là dei confini tracciati
dall’analisi di Chamayou, si potrebbe sottolineare come la tecnologia del drone, anche quando
non sia utilizzata in senso militare, contempli sempre un elemento di ingerenza nella vita degli
individui (basti pensare al progetto di Amazon, reso noto di recente, di sviluppare un sistema di
consegna dei pacchi sfruttando i droni).
Di fatto, ci dice Théorie du drone, dal punto di vista “speculativo” il drone realizza quella
saldatura tra tecnologia di controllo e tecnologia biopolitica di gestione della popolazione che il
Panopticon non era riuscito a rappresentare, e che Foucault non era mai riuscito a individuare.
In altri termini, il drone aggiunge al principio della sorveglianza sociale quello della sorveglianza
della condotta, di conoscenza della condotta (archiviazione dei dati filmati dai droni) e di
modellizzazione della vita individuale (identificazione del nemico mediante caratteristiche predeterminate) secondo un “principio di schematizzazione delle forme di vita” (cfr. p. 63).
Ma c’è ancora dell’altro, perché, nota Chamayou, al rilevamento e alla schematizzazione delle
condotte, volto a identificare le condotte anomale e quindi “nemiche”, si aggiunge il principio di
previsione degli sviluppi in termini di anomalia di qualunque comportamento: proprio quello che
il Panopticon non riusciva a fare (pp. 65-66).
Ora, tutto questo insieme di tecnologie e di dispositivi va a costituire la base materiale di un
sapere, di un insieme discorsivo con le sue logiche e le sue forme di espressione. Sistema di
sapere che, in maniera davvero singolare, si chiama “analisi della forma di vita”: pattern of life
analysis. Ma non solo, questo sistema discorsivo produce anche tutta una serie di
rappresentazioni dei suoi oggetti e di discorsi che riguardano i rapporti dei soggetti militari (gli
operatori piloti di drone) con sé stessi: si produce, insomma, una necroetica, fondata su una
virtualizzazione del concetto di morte, speculare alla rimozione della corporeità del nemico.
Certo, Chamayou precisa che questa virtualità è più complessa di una rimozione pura e
semplice della morte del nemico (cfr. pp. 231 sgg.), in quanto la morte produce comunque degli
effetti di ritorno sui soggetti uccisori (termine che traduce tueur e con cui si tenta di neutralizzare
la connotazione morale dell’italiano “assassino”), visibili a livello psichico e sociale. Tuttavia
resta il fatto che i contemporanei “operatori militari” non sono soggetti al rischio di vedere gli
occhi di un uomo che muore.
Dividendo dunque la sua analisi nella consueta tripartizione disciplinare foucaultiana (sapere,
potere, sé), Chamayou ricostruisce il profilo non solo di una tecnologia militare, non solo di una
tecnica di guerra, ma di un vero e proprio dispositivo di potere(-sapere) che assicura e rinforza
la forma occidentale contemporanea di governo.
*Il testo è in corso di traduzione per la casa editrice DeriveApprodi (www.deriveapprodi.org)
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