La “percezione attraverso” e la caratterizzazione dei narratori in La casa in collina e in La luna e i falò Daniele Ferrari 1 Il punto di vista e la narrativa pavesiana Nei mesi antecedenti alla composizione de La casa in collina Pavese, riprendendo a distanza di qualche anno i suoi scritti sui narratori americani, annotava sul diario: «Ecco perché Moby Dick è una scoperta del nostro tempo. Non è personaggio è puro ritmo. Narrerà ora non chi “conosce la natura umana” e ha fatto scoperta di psicologie significative e profonde, ma chi possiede blocchi di realtà, esperienze angolari che ritmano e cadenzano il discorso»1 . La parola «ritmo» viene assunta da Pavese come cardine del suo ideale estetico: il centro costitutivo e costruttivo dell’edificio narrativo pavesiano è un’«esperienza angolare», un grip of reality, ossia un nucleo vitale di esperienze, che si dispiega nella pagina attraverso cadenze ritmiche. L’unica mimesi che la scrittura pavesiana è disposta ad accordare alla pagina è quella di tali strutture ritmiche che mimano l’indugiare della parola intorno a un nucleo «non-detto» tentando, come in una «danza»2 , di portarne alla luce degli aspetti. Lo stile pavesiano tende all’ellissi, al non detto: esso è frutto dei due procedimenti di selezione e iterazione che investono tutta la materia, lessicale, sintattica, strutturale, tematica. Il ricorso a questi due strumenti per la caratterizzazione del punto di vista dei narratori de La casa in collina e de La luna e i falò risponde all’esigenza, sempre presente in Pavese, di permettere al significato di emergere 1 C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1990, p. 330. Cfr. Id., “Raccontare è come ballare”, in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990, pp. 295-298. 2 c 2004 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera) Copyright Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali. ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura nella sua non-misurabilità, nella sua ultima inafferrabilità, in una ricerca che, lungi dall’apparire come una continua ridefinizione del tiro, si presenta invece come uno scavo, che procede sempre più in profondità. È in questa ricerca stilistica che risiede il valore conoscitivo affidato alla scrittura da Pavese. Pavese connette sempre la ricerca del significato della realtà con la ricerca degli strumenti espressivi adeguati, dove adeguato significa capace di costruzione unitaria. Conoscere la realtà, infatti, è per Pavese costruirla3 , ri-costruirla in racconto: la pietra angolare, l’esperienza angolare intorno a cui la vita si fa racconto è il punto di vista del narratore protagonista, del personaggio. Non si tratta, come Pavese ha sottolineato più volte, di un personaggio psicologicamente inteso, ma di quello che definirei un personaggio-ritmo. La necessità di cogliere i vari aspetti del reale e della vita secondo una prospettiva globale che leghi ogni particolare in un tutto giustificato in se stesso, dotato di senso compiuto e riconoscibile dal soggetto, cioè «un destino»4 , pone la centralità del punto di vista e delle strutture con cui il soggetto giunge a questa visione complessiva. La rielaborazione della realtà attraverso l’occhio del protagonista-narratore ha quindi come frutto una composizione dominata dal «ritmo»5 . 2 La “percezione attraverso” ne La casa in collina Nelle pagine finali de La casa in collina Corrado, l’intellettuale torinese protagonista del romanzo, si accinge a fare un bilancio della sua esperienza attraverso una similitudine: «Mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscirne mai più»6 . Nel continuo esame di coscienza che determina il tono e le forme di questo romanzo, la metafora del gioco cristallizza la tendenza alla solitudine che caratterizza l’animo del narratore-protagonista sul piano morale dell’irresponsabilità. A tale espressione metaforica della propria condizione troviamo legata un’immagine ben definita, che costituisce il centro d’interesse di questo lavoro. Costruita sull’opposizione aperto/chiuso (cielo/cespuglio) e sulla presenza di un osservatore che mette in relazione a sé tali determinazioni spaziali, l’immagine costituisce sicuramente uno 3 4 «Per conoscere il mondo bisogna costruirlo» (Id., Il mestiere di vivere, cit., p. 356). Cfr. C. Pavese, “La poetica del destino”, in La letteratura americana e altri saggi, cit., pp. 311- 314. 5 È lo stesso Pavese, parlando di sé in terza persona, a fissare la centralità della nozione di «ritmo» nella sua produzione narrativa: «Pavese non si cura di “creare personaggi”. I personaggi sono per lui un mezzo, non un fine. I personaggi gli servono semplicemente a costruire delle favole intellettuali il cui tema è il ritmo di ciò che accade: lo stupore come di mosca chiusa sotto un bicchiere, in Carcere, la trasfigurazione angosciosa della campagna e della vita quotidiana nella Casa in collina, la ricerca paradossale di che cosa siano campagna, civiltà cittadina, vita elegante e vizio nel Diavolo sulle colline, la memoria dell’infanzia e del mondo in La luna e i falò» (Id., “Intervista alla radio”, in La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 266). 6 Id., La casa in collina, in Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti, Einaudi, Torino 2000, pp. 483-484, corsivi nostri. 2 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura dei tratti più importanti della caratterizzazione stilistico-narrativa del narratore, e può essere definita come percezione attraverso. Tutta l’esperienza narrata dal protagonista è epifoneticamente definita da uno sguardo attraverso: dalla chiusura di una condizione verso l’apertura di un’altra, cui il protagonista non partecipa, ma verso cui – e questo è il nodo dell’azione del romanzo e il contenuto del tormentato monologare di Corrado – è inesorabilmente mosso dalle circostanze. Che l’apertura si volga alla insostenibile realtà storica da cui fuggire, o alle vagheggiate lontananze mitiche della collina della sua infanzia, si può in ogni caso rinvenire in essa una struttura costante, che agisce nel plasmare i rapporti tra la realtà naturale e la coscienza del protagonista. Il risultato di tale rapporto è propriamente stilistico: si tratta di un habitus, di una costante prospettica che caratterizza in modo inequivocabile il punto di vista di Corrado. La realtà entra nell’orizzonte percettivo del protagonista-narratore de La casa in collina secondo uno schema fisso, facendosi così stile; in altre parole, ogni dato naturale e spaziale investito dallo sguardo di Corrado si deforma secondo (o si conforma a) i moduli della percezione attraverso. Inoltre, una serie ben individuabile di figure sintattiche e iconiche caratterizza stilisticamente il punto di vista del narratore-protagonista. Tutto il materiale narrativo de La casa in collina risulta così investito da questa ossessione figurativa, da questa insistita angolatura prospettica, che alla fine risulta essere, in termini semantici, ancora più decisiva nella caratterizzazione del personaggio di quanto non siano gli stessi toni di confessione esplicita che assume la sua voce. Ho già accennato al fatto che la manifestazione di questa figura è affidata stilisticamente all’iterazione di alcune forme sintattiche utilizzate nella descrizione di paesaggi naturali quali il cielo, il bosco e la collina. Le principali, poiché più ricorrenti, forme sintattiche che esemplificano questa figura sono le preposizioni «tra» e «dietro», insieme alle loro varianti sinonimiche. Si tratta di un modulo sintattico abbastanza insistito. La prospettiva cui si apre lo sguardo del protagonista non si impone mai da sé, ma si presenta sempre filtrata da una percezione che si fa strada in un pertugio, come se lo sguardo, dopo aver indugiato fino alle sommità di oggetti a lui prossimi, fosse naturalmente sospinto a proseguire oltre, verso spazi aperti. Le piante, gli alberi, e gli altri elementi paesistici si frammettono tra il protagonista e l’orizzonte visivo come una griglia, una vera e propria soglia che apre alle lontananze della collina, «in fondo al viale, tra le piante, si vedeva la gran schiena delle colline, verdi e profonde nell’estate»7 ; a quelle della città, «tra i versanti, in fondo, Torino fumava tranquilla»8 ; o a quelle del cielo, «fra gli alberi spogli si apriva il grande cielo, leggero, mai visto così. Compresi cos’è il cielo per i carcerati»9 . Si può dire che lo sguardo di Corrado non riesca a percepire gli elementi paesistici se non attraverso una soglia. Anche quando il suo punto di vista non è ostruito, la percezione avviene sempre attraverso il filtro di una soglia: «Io scrutavo la strada, se ci fossero posti di blocco, e vidi 7 Ibid., p. 384, corsivi nostri. Ibid., p. 422. 9 Ibid., p. 452. 8 3 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura in fondo all’orizzonte, tra i pali e le nuvole basse un azzurrino leggero e un po’ brullo [. . . ] io morsi il mio pane e guardavo le piante, la collina selvosa, il cielo aperto»10 . A questo tipo di percezione attraverso si affianca una figura della medesima natura: «dietro, al di là» di un dato di realtà si trova un oltre che si presenta al protagonista come lontano, misterioso, profondo: «Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l’antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d’infanzia»11 ; «Dietro alla casa la collina si stendeva nel cielo, seminata di case e di boschi»12 . L’essere dietro, l’essere nascosto è sempre legato, infatti, a una dimensione misterica, a una dimensione metaforica della collina, del bosco o del cielo. Non si tratta mai semplicemente della descrizione di uno scorcio prospettico, ma della rappresentazione di una dinamica percettiva che tende a evidenziare la profondità simbolica della collina e dei paesaggi a essa associati. Perciò, quella che poteva apparire come una inclinazione ad un realismo descrittivo, o tutt’al più a un marcato stilismo rurale, si svela invece come una tendenza alla continua metaforizzazione del dato naturale, o, meglio, alla continua metaforizzazione dell’operazione percettiva del dato naturale. Si tratta di una scelta stilistico-narrativa che si ricollega più in generale alla centralità del punto di vista nell’opera pavesiana. Lo scrittore langarolo, interrogandosi sulla natura delle strutture percettive dell’immaginario, svela con chiarezza come il suo interesse per le immagini non sia rivolto esclusivamente al loro contenuto, quanto alla loro genesi e alla funzione conoscitiva a esse associata: «So di un uomo che una semplice finestra di scala, spalancata sul cielo vuoto, mette in stato di grazia. [. . . ] Ognuno è sensibile all’idea d’infinito, e già il Leopardi ne ha chiarito l’operazione, ma perché una finestra invece che una fuga di piante o il profilo di una balaustra sul mare? Comunque l’accenno al Leopardi suggerisce un sospetto. 10 Ibid., p. 466. Nel testo sono rintracciabili numerose occorrenze di questa figura: «Pareva incredibile che, nel buio della notte, anche su quel calmo cielo tra le case avesse infuriato il finimondo» (p. 380); «Giunsi sotto la fontana, nella conca di erbe grasse e fangose. Tra le piante apparivano buchi di cielo e aerei versanti. C’era in quel fresco un odore schiumoso, quasi salmastro. “Cosa importa la guerra, cos’importa il sangue, – pensavo, – con questo cielo tra le piante?”» (p. 398); «D’or innanzi anche la solitudine, anche i boschi, avrebbero avuto un diverso sapore. Me ne accorsi a una semplice occhiata che gettai tra le piante. Avrei voluto saper già tutto, aver già letto i giornali, per potermi allontanare fra i tronchi e contemplare il nuovo cielo» (p. 401); «Sbucavamo tra le piante, scrutandoci intorno» (p. 414); «Le stelle rade tra gli alberi spogli parevano i boccioli sui rami» (p. 462). 11 Ibid., pp. 371-372. 12 Ibid., p. 407. Nel testo sono rintracciabili numerose occorrenze di questa figura: «Imbruniva, e di là dal muretto sporgevano creste» (p. 370); «La luna cadeva dietro le piante»; «Cantavano dal prato dietro la casa» (p. 385); «Quando sbucai sulla strada e ascoltavo guardando nel buio, di là dalla cresta, quasi sommerso nelle voci dei grilli suonava l’allarme», (p. 373); «Passammo per una stradina fra gli alberi, che ci portò dietro la costa in un piccolo mondo ignorato di rive ed uccelli. Torino era a due passi, remota» (p. 402); «Avevo visto dietro i tetti la collina, la collina del Pino lontana, violacea», (p. 458); «Mentre sfogliavano le carte io fissavo il paese. Un volo di rondini passò sopra i tetti. Dietro la testa dal berretto tondo c’era il cielo e i versanti lontani, boscosi. Di là da quei boschi ero a casa» (p. 473, corsivi nostri). 4 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura Quanto, nel costruirsi di una di queste nostre scoperte-ricordo, gioca l’influsso della poesia, la scuola della lettura, dell’audizione, della contemplazione? Per quali di questi simboli andiamo debitori ai poeti che ce ne hanno scavato in cuore l’impronta? [. . . ] Può darsi che la scala-finestra fosse quella della scuola dove si sono passati i primi anni e frequentati, sia pure con insofferenza, i poeti, ma ciò che in essa contava e conta ancora è il cielo vuoto e immemoriale»13 . La finestra, come qualsiasi altro oggetto che nell’immaginario del poeta svolga la medesima funzione, ha dunque valore in quanto strumento di una «scoperta-ricordo», che conduce il poeta in un territorio che sta al di là della sua singola percezione. L’immagine stessa della finestra, dunque, non è altro che una realizzazione particolare del concetto di percezione attraverso o di soglia. Come ha rilevato Marcello Verdenelli, il «fondamentale significato» dell’immagine della finestra è quello «di barriera tra l’“io” e l’“altro”, di divisione tra la realtà interna ed esterna, di oggettività del punto di vista narrativo»14 . Non si capirebbe però tale immagine se non si tenesse conto che essa, proprio mentre sancisce l’insanabile alterità tra l’io e ciò che sta al di là di essa, al tempo stesso è l’anello di congiunzione tra le due realtà. Se la ricerca stilistica pavesiana si concentra su un repertorio selezionato di immagini è proprio perché l’immagine trascelta costituisce una soglia, ossia quel punto di contatto che solo può mettere in relazione l’io con l’altro. Nell’ambito della metaforizzazione dell’operazione percettiva la soglia svolge un ruolo centrale. Sia «il bosco» e «la macchia», sia «la collina» sono paesaggi naturali che contengono e oggettivano il concetto di soglia. Entrambi, infatti, evidenziano un limes: il bosco segna il confine tra l’umano (la vigna coltivata) e il selvatico, mentre il profilo della collina è la linea dell’orizzonte tra la terra, il finito, e il cielo, l’infinito. Fin dalle prime pagine l’elemento dominante nella descrizione dei vari paesaggi è il margine che separa il conosciuto (l’abitato, il coltivato) dal selvatico, dal mistero (il bosco). Lo sguardo di Corrado indugia così sul punto di contatto tra le due opposte realtà, come se fosse quello il luogo da cui aspettarsi la rivelazione del significato. Per sua natura, infatti, l’oltre non può essere conosciuto, ma solo intravisto, spiato, percepito attraverso: «A ville e giardini io preferivo la campagna dissodata, e i suoi margini dove il selvatico riprende terreno. Le Fontane era il luogo più adatto, di là cominciavano i boschi»15 . Nel passo che segue la natura profonda, inafferrabile del bosco è descritta attraverso la formula, molto cara a Pavese, della similitudine costruita sul «come». Il primo termine, qui omesso, è l’osteria «Le Fontane»: «Pareva un luogo abbandonato, senza vita, una parte di bosco. E come succede di un bosco, si poteva spiarlo, fiutarlo; non viverci o possederlo a fondo»16 . Il selvatico rimane sempre qualcosa di cui non si può avere conoscenza diretta, completa, ma qualcosa che va percepito attraverso, in questo caso «spiato». 13 C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., pp. 279-280. M. Verdenelli, La teatralità della scrittura. Castiglione, Parini, Leopardi, Campana, Pavese, Longo, Ravenna 1989, pp. 139-140. 15 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 398, corsivo nostro. 16 Ibid., p. 413, corsivo nostro. 14 5 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura Questo frammento basta da solo a richiamare alla memoria un famoso articolo di Pavese intitolato La selva17 , in cui lo scrittore piemontese mette in luce come il sottobosco, la macchia, non siano altro che simboli del mistero che abita nell’uomo, svelando così la funzione conoscitiva affidata alla caratterizzazione del narratore secondo i moduli della percezione attraverso: «Dobbiamo accettare i simboli – il mistero di ognuno – con la pacata convinzione con cui si accettano le cose naturali. La città ci dà i simboli come la campagna ci dà frutti. Ma nessuno conosce o possiede la pianta. Viene da un altro mondo. Si lascia seminare e potare, si lascia abbattere e bruciare, ma chi può dire che quella pianta è cosa sua?»18 . Il collegamento tra la funzione conoscitiva attribuita da Pavese alla scrittura e le figure della percezione attraverso e della soglia è dunque evidente: attraverso esse viene indicata la misura della irriducibilità del significato della realtà. Esso è percepibile, ma non esauribile, non possedibile razionalmente dalla coscienza. Il solo modo per indagarlo è soffermarsi su quella soglia, su quell’immagine di soglia che lo rende percepibile. La collina pavesiana costituisce in questo senso un’amplificazione del concetto di soglia e può essere riconosciuta come il «vero protagonista»19 de La casa in collina. La capacità della collina di essere una soglia che apre a spazi altri (a volte suggerendoli a volte nascondendoli: «dietro», «al di là») potrebbe essere assimilata alla funzione che svolge la siepe nel famoso idillio di Leopardi. Il riferimento al poeta recanatese non è casuale, in quanto, come sottolinea Marcella Rusi, la presenza di Leopardi nell’opera di Pavese20 passa fondamentalmente, più che per citazioni esplicite, attraverso una serie di «funzioni»21 . È quindi una funzione-Leopardi che troviamo nell’immagine della collina. In particolare insisto sul paragone tra la funzione-siepe dell’Infinito e la funzione-collina. La collina è spesso rappresentata attraverso le sinestesie di «svolta», «cresta», oppure attraverso l’insistenza sul suo profilo: una soglia, appunto, attraverso la quale il protagonista si apre (o si protegge da) a visioni più ampie. Come si è già avuto modo di notare, questa è propriamente una funzione, in quanto è svolta non solo dal profilo della collina, ma anche dal bosco, e, in particolare, da alcuni suoi elementi quali le «sommità» e le «punte» degli alberi. Ecco un esempio in cui domina non la descrizione naturalistica, che pure sembra essere in primo piano, ma la funzione17 C. Pavese, “La selva”, in La letteratura americana e altri saggi, cit., pp. 291-293. Ibid., p. 293. 19 E. Gioanola, Cesare Pavese: la poetica dell’essere, Marzorati, Milano 1971, p. 307. 20 Pavese ritiene il Leopardi sia uno degli iniziatori del romanzo italiano: «I grandi iniziatori del romanzo italiano – i cercatori disperati di una prosa narrante – sono anzitutto dei lirici – Alfieri, Leopardi, Foscolo? La Vita, i Framm. Di Diario e il Viaggio Sentimentale, sono il sedimento di una fantasia tutta data alle illuminazioni d’eloquenza lirica» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 280). 21 Scrive M. Rusi: «Leopardi attraversa il “monolito” pavesiano e ne misura una costante, la capacità cioè, di evolversi per stratificazioni successive riassumendo con diversa connotazione materiali già utilizzati e lasciati momentaneamente da parte. È così possibile motivare le ragioni di una presenza che a livello di sintagmi e struttura sintattica è attiva nella memoria di Pavese fin dagli esordi e ancora nella parte finale della sua produzione» (M. Rusi, Le malvagie analisi. Sulla memoria leopardiana di Cesare Pavese, Longo, Ravenna 1988, p. 85). 18 6 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura siepe: «Assistetti alla loro partenza verso il cielo del tramonto. Mi ricordai che dalla parte di quel cielo guardavo la sera quando, ragazzo, vivevo oltre i boschi, e forse nel profilo incendiato dall’ora c’era una curva, una vetta, un alberello di questi»22 . L’apertura all’altro ha sempre la connotazione di un’apertura vertiginosa, di una apertura su un oltre che, come abbiamo visto per il bosco, è insostenibile per la coscienza. Tale oltre, infatti, viene identificato con una gamma di aggettivi, sostantivi e verbi afferenti tutti al domino della lontananza e della vertigine. La vertigine altro non è che il riflesso nell’io della sproporzione tra il soggetto e l’alterità: «Intanto andavo per la strada, sempre teso alle svolte, agli sbocchi, non sporgendomi mai contro il cielo»23 . In questo caso la «svolta» apre a un inaspettato pauroso, ma, anche quando l’apertura sarà a un cielo rassicurante, il valore della «svolta» è sempre quello legato a una vertigine dovuta all’improvviso affacciarsi su una prospettiva altra24 . Ecco una serie di frammenti in cui gli elementi legati alla soglia sono connotati inequivocabilmente secondo la percezione vertiginosa. Si tratta di sostantivi: «svolta», «cresta», «ciglione», «orlo», «vetta», ecc; aggettivi: «sgombro», «sconfinato», «fumoso», «immenso»; e verbi: «dominare», «sbucare», «affacciarsi», «strapiombare», «spaziare», «salire»: «Ma quella sera preferii soffermarmi su una svolta della salita sgombra di piante, di dove si dominava la gran valle e le coste»25 ; «Belbo piantato sul ciglione»26 ; «Sbucavo dal ciglione sulla strada solitaria, che un tempo era stata asfaltata. Ero a due passi dalla cresta e avevo intorno delle schiene boscose. [. . . ] in realtà mi soffermavo per il piacere di sentirmi sull’orlo dei boschi, di affacciarmi di lì a poco lassù»27 ; «Raggiungendo lo stradone sulla vetta, andavamo spediti. Era il borgo del Pino. Di qui, dai balconi delle case che strapiombavano s’intravedeva la pianura di Chieri, sconfinata, fumosa»28 ; «Girai nei viali dopo il ponte; avevo a destra la collina chiara e immensa. [. . . ] il cielo era più caldo e più aperto»29 ; «Tornando passai per una cresta da cui si dominava il versante delle Fontane. Molte volte con Dino avevamo cercato di lassù lo stradone e la casa»30 ; «Lasciai Chieri, palpitante e felice, e al tramonto, col sole negli occhi, sulla vetta dei colli brulli ma umidi di primavera, spaziavo lo sguardo come da tempo avevo ormai dimenticato»31 . Gli esempi qui riportati sono forse i più significativi della ricorrenza di questo tipo di lessemi, ma se si volesse estendere l’analisi a tutti i luoghi de La casa in collina, e dunque non solo a quelli 22 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 475, corsivi nostri. Ibid., p. 478, corsivi nostri. 24 Un caso emblematico è quello che verrà analizzato più avanti: la collina in cui torna Anguilla, protagonista della Luna e i falò, si chiama “collina del Salto”. 25 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 371, corsivi nostri. 26 Ibid., p. 372, corsivi nostri. 27 Ibid., p. 391. 28 Ibid., p. 399. 29 Ibid., p. 405. 30 Ibid., p. 448. 31 Ibid., p. 462. 23 7 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura legati alla visuale paesaggistica, si scoprirebbe che la loro frequenza è molto più alta. Questi esempi fanno parte di quella che la Rusi chiama «funzione Leopardi», ossia una certa influenza di immagini di stampo leopardiano, che però non si traducono mai in citazioni letterali, ma diventano «parte integrante della dinamica narrativa»32 . Ecco un esempio bellissimo di come il motivo leopardiano della lontananza e della vaghezza33 sia trasfigurato dalla similitudine di stampo contadinocampagnolo, caratteristica del repertorio stilistico pavesiano: «Adesso il sole aveva rotto le nubi, e dappertutto scintillava: i versanti lontani vaporavano / come letame fresco»34 . L’ultimo dato che vorrei prendere in considerazione è quello dell’immagine, già citata, della finestra. La molteplicità di contesti in cui essa compare e le differenti caratterizzazioni a cui soggiace nella La casa in collina confermano ancora una volta che è proprio la dinamica percettiva insita nell’immagine a interessare Pavese. La finestra può aprire a orizzonti ampi e vagheggiati, anche se precari: «Certe mattine alla finestra, guardando le punte degli alberi, mi chiedevo fin quando sarebbe durato quel mio privilegio. Le tendine bianche, fresche si aprivano sulle foglie profonde e sul versante lontano dov’era un prato in mezzo ai boschi e forse qualcuno dormiva all’addiaccio»35 ; oppure può diventare la cerniera che chiude l’orizzonte del proprio isolamento: «Che importano gli allarmi in collina, quando tutti sono rientrati e non trapelano fessure»36 . La proprietà primaria della soglia, come ricordato, non è però quella di separare, ma di mantenere aperto un canale tra l’io e l’altro-da-sé. Così la finestra svolge la funzione di soglia quando assume i tratti di ciò che sta di là da essa: «L’antiaerea cominciò subito a sparare. Ci ritirammo nella stanza che tremava dai colpi. Fuori le schegge morte sibilavano tra gli alberi. [. . . ] Continuamente la finestra s’arrossava e s’apriva abbagliante»37 . Tale funzione è così sempre operante nella bipartizione dello spazio e nella determinazione della percezione della realtà da parte del protagonista, che alla disperata ricerca di un isolamento, si trova sempre dietro una soglia che lo connette inesorabilmente con l’altro da sé: «Quando la luce s’annunciava per le fessure dell’imposta, ero da un pezzo tutto sveglio, inquieto»38 . C’è una fessura presente in ogni dato della realtà, un punto di fuga, che rende impossibile alla coscienza di Corrado il richiudersi in se stessa: la finestra non può nascondere la provocazione che fuori di essa richiama Corrado alla coscienza di sé e della realtà. Letta dal 32 M. Rusi, Le malvage analisi. Sulla memoria leopardiana di Cesare Pavese, cit., p. 96. Ibid., pp. 87-91. La Rusi compie una breve, ma esemplificativa panoramica nei racconti pavesiani del ricorrere del tema della lontananza e della vaghezza come specificazioni del tema della distanza nel tempo mitico espresso dall’aggettivo “remoto”. Conferme di questa analisi nel campo della produzione poetica pavesiana sono offerte in A.M. Andreoli, Il mestiere della letteratura. Saggio sulla poesia di Pavese, Pacini, Pisa 1977, pp. 97-126. 34 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 472, corsivi nostri. 35 Ibid., p. 429, corsivi nostri. 36 Ibid., p. 379. 37 Ibid., p. 379. 38 Ibid., p. 455. 33 8 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura punto di vista della ricerca della solitudine, infatti, La casa in collina mette in scena l’inseguimento di un isolamento impossibile: ogni esperienza di isolamento si presenta contrassegnata da un’originale fessura, da una strutturale apertura che rivela al protagonista la continua incombenza di ciò che vorrebbe fuggire (il ritorno del proprio passato – Cate e Dino –, la pervasività del presente di una guerra che raggiunge anche i luoghi dell’infanzia). Ne La casa in collina, più che in ogni altro romanzo, Pavese cerca un punto di contatto tra le due realtà del mito e della storia. Cerca di instaurare un dialogo tra esse attraverso il canale rappresentato dalle figure della percezione attraverso. Il mito e la storia sono così percepiti prospetticamente attraverso l’oggettivazione del loro punto di contatto in un delineato repertorio iconografico. Come abbiamo visto l’oggettivarsi in immagine del rapporto tra mito e storia avviene nella connessione delle due realtà attraverso una soglia che le divide e che al tempo stesso le congiunge, permettendo la percezione dell’una attraverso l’altra. Ogni paesaggio descritto da Corrado nel corso della narrazione (dunque ogni orizzonte di cui consiste la sua esperienza: la permanenza sulla collina del Pino, il rifugio in collegio, il finale ritorno nelle colline dell’infanzia), a ben guardare, è costruito su una sostanziale bipartizione dello spazio. Corrado intraprende il viaggio verso la collina dell’infanzia in seguito a un progressivo risveglio della sua coscienza. Si tratta di un viaggio dall’isolamento all’isolamento, in cui però il lettore assiste alla progressiva apertura (sull’onda della figura della percezione attraverso) della sua coscienza e memoria al problema del rapporto tra storia e mito. Dall’incontro con Cate, fino all’episodio di guerriglia partigiana numerose finestre (soglie) hanno messo Corrado di fronte alla vertigine del rapporto tra la storia, con la sua eventualità e il suo continuo accadere, e la dimensione di mistero presente in ogni azione dell’uomo (un mistero che si presenta innanzitutto come oltre). Anche al termine del viaggio di ritorno, infatti, si apre un altro orizzonte: quello della domanda sul senso della morte. Di fronte a tale mistero Corrado è costretto a sospendere il suo giudizio, dichiarandosi incapace di comprendere: rimane però aperta la possibilità che la prospettiva opposta alla sua (dall’oltre alla realtà e non dalla realtà all’oltre) contenga tale giudizio. La condizione della guerra è dunque quella dell’uomo mortale (tanto che sembra lontana la possibilità che essa si risolva a breve39 ): la metaforizzazione delle coordinate spazio temporali è così completa. La casa in collina si inserisce in questo modo nel solco della ricerca pavesiana dell’origine di sé e della realtà, un tema che sarà sviluppato ulteriormente ne La luna e i falò. La guerra che Corrado ha combattuto e combatte al momento della scrittura (in questo caso la metaforizzazione dell’atto della scrittura raggiunge un vertice altissimo) è così quella che si combatte stando sul fronte, sulla soglia tra mistero e storia. È questa una posizione vertiginosa, ma l’unica tragicamente umana. La figura della percezione attraverso, la cui presenza 39 «Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che ne facciamo? perchè sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero» (ibid., p. 485). 9 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura ritma le pagine de La casa in collina, può essere considerata l’approdo conoscitivo del romanzo: l’indagine sul reale, sul suo significato, inizia con una presa di coscienza della forma in cui il reale si rende conoscibile e, come abbiamo visto, il reale si rende conoscibile sempre come una soglia che apre a un oltre vertiginoso. Di fronte a tale vertigine ogni azione risulta parziale in quanto incapace di rispondere alla domanda sulla morte (in questo, mentre l’indole di Corrado fuggiva l’azione, la coscienza di Corrado la rifiutava). È a questa posizione della coscienza che Pavese si riproponeva di dar ritmo nel personaggio di Corrado: «Il personaggio di Corrado oltre alla viltà davanti all’azione rappresenta l’estremo problema di ogni azione, l’angoscia davanti al mistero»40 . 3 «Il mestiere di trasformare tutto in poesia»41 Con l’ascesa sulla collina di Gaminella e il racconto della tragica morte di Santina si chiude la vicenda dell’ultimo romanzo di Pavese, La luna e i falò. Tale ascesa costituisce il momento culminante della ricerca dell’origine che attraversa tutto il romanzo e permette di comprendere come Pavese abbia definitivamente legato tale tema della ricerca dell’origine di sé all’immagine della collina e agli stilemi a essa associati. In La luna e i falò, infatti, trova espressione compiuta tutta la simbologia relativa alla collina che ho rilevato nell’analisi de La casa in collina: la funzione conoscitiva affidata da Pavese alla scrittura esplica così tutta la sua valenza narrativa: la ricerca dell’origine di sé si svela essere la ricerca dell’origine delle proprie immagini mitiche. Nella prospettiva che l’ultimo capitolo de La luna e i falò getta su tutto il romanzo, il concetto di soglia, associato alla percezione della collina e alla costruzione delle altre forme paesistiche42 , può essere considerato il tema dominante. La figura che ho definito della percezione attraverso, che ne La casa in collina ricopriva un ruolo prevalentemente stilistico (anche se mi sono riservato di mostrarne alcuni riflessi narrativi), subisce ne La luna e i falò un deciso incremento: da immagine stilistica a fondamento narrativo-strutturale del romanzo43 . L’immagine paesistica 40 Id., “A Rino da Sasso”, in Lettere 1926-1950, Einaudi, Torino 1986, cit., p. 705. Cfr. Id., “A Fernanda Pivano”, in Lettere, cit., p. 425. 42 La costruzione del paesaggio sottostà alle regole della sua trasfigurazione ad opera del punto di vista del narratore-protagonista. In questo senso si può parlare di deformazione espressionistica del paesaggio. Tale espressionismo va inteso sempre come forma di costruzione stilistica e non come impeto anti-realistico: il realismo simbolico pavesiano prevede l’assunzione del dato reale sotto l’unico rispetto del punto di vista del protagonista-narratore che opera una forte selezione e rielaborazione dei vari elementi naturali. Tali elementi sono connessi tra loro non attraverso rapporti naturalistici, ma secondo i nessi che il «vedere una seconda volta» genera. Parlare di espressionismo pavesiano significa dunque costatare la centralità del punto di vista nella concezione narrativa pavesiana, che si muove sempre nella direzione del vedere una seconda volta. L’espressionismo pavesiano non si qualifica quindi come proiezione dell’io sul dato reale o come deformazione di esso, ma come costruzione dell’intelligenza che plasma il reale secondo un giudizio di valore. La scena de La luna e i falò è costruita, potremmo dire, al termine della ricognizione, dello scandaglio del paesaggio naturale: ciò che resta sulla pagina sono quei dati (simboli) che l’occhio del narratore trasceglie. 43 Senza addentrarmi ora in questioni di ordine poetico, tale traguardo di compenetrazione di stile 41 10 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura diventa il paradigma di tutto il racconto: la partenza, il viaggio di allontanamento e il ritorno sono contenuti tutti in un’immagine sola, in un quadro che viene dipinto a strati successivi nel corso della narrazione, ma che trova la sua espressione epifonetica nel primo capitolo: «Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo»44 . Il narratore sottolinea come l’immagine di Canelli «porta del mondo» nasca in un preciso momento di tempo, e si fissi poi nella memoria dell’io narrante divenendo esperienza a-temporale, «schema mitico»45 . Attraverso il racconto della sua infanzia presso la casa della Mora, Anguilla ripercorre le tappe del consolidarsi in lui di questa immagine, fino a dover riconoscere che tutto il suo destino è dipeso da essa46 . Il viaggio di andata e ritorno descritto ne La luna e i falò trova la sua giustificazione proprio in tale immagine: «Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto?»47 . 4 Lo stradone e la collina: le tre dimensioni dello spazio di La luna e i falò Dal punto di vista della strutturazione dello spazio ne La luna e i falò si nota che uno degli aspetti più rilevanti nella costruzione ritmica del romanzo è proprio quello della scena, del paesaggio. Sappiamo bene come la tendenza pavesiana nel trattare il dato paesistico non sia determinata da intenti di tipo naturalistico-descrittivi o dalla volontà di trasformare il paesaggio in sfondo all’azione. In questa direzione opera l’estrema selettività che guida la scelta degli elementi naturali presenti nel romanzo: «pochi, essenziali alberi (i domestici: il fico, i noccioli, i tigli, in opposizione ai fuori luogo della villetta del Cavaliere), pochi fiori, quelli rustici (zinie, dalie, gerani, oleandri). Pochi, ma reiterati»48 . Ma ancor più selezionati e iterati sono gli elementi intorno ai quali ogni elemento è organizzato nello spazio: lo «stradone» e la «collina». Sulla loro presenza si gioca gran parte del significato dell’azione stessa. Questi due elementi strutturano le dimensioni dello spazio e struttura si può considerare il superamento positivo, o il compimento dell’immagine-racconto (cfr. C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 229). 44 C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2001, p. 13. 45 Gli indicatori temporali (indicazione temporale del brano, uso del presente con valore iterativo) individuano, infatti, una durata che tende all’a-temporalità. 46 «Strano momento in cui (tredici o dodici anni) ti staccavi dal paese, intravedevi il mondo, partivi sulle fantasie (avventure, città, nomi, ritmi enfatici, ignoto) e non sapevi che cominciava un lungo viaggio che, attraverso città avventure nomi rapimenti mondi ignoti, ti avrebbe ricondotto a scoprire come ricco di tutto quell’avvenire proprio quel momento del distacco – il momento in cui eri più paese che mondo –, a riguardare indietro. È perché il mondo, l’avvenire ora l’hai dentro come passato, come esperienza, come tecnica, e il perenne e ricco mistero si ritrova a essere quel tu infantile che non hai fatto in tempo a possedere. / Tutto è nell’infanzia, anche il fascino che sarà avvenire, che soltanto allora si sente come urto meraviglioso. (Cfr. 26 giugno ’48. II)» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 364). 47 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 55. 48 G.L. Beccaria, “Introduzione”, in C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. XII. 11 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura de La luna e i falò e costituiscono la principale novità rispetto a La casa in collina. Alla collina-rifugio – luogo da cui guardare tutte le cose attraverso, da sotto le foglie, da cui guardare il lontano cielo della città su cui imperversa la guerra – si sostituisce una collina, uno scorcio di colline attraversate da uno stradone da percorrere, uno stradone su cui Anguilla ha visto passare carrozze provenienti da Canelli, uno stradone che ha poi percorso convinto che oltre il paese ci fosse la propria realizzazione49 . Dalla bidimensionalità dello spazio de La casa in collina (alto e basso, cielo e terra messi in contatto nelle immagini della cresta della collina, dalla punta degli alberi), si passa alla tridimensionalità dello spazio de La luna e i falò. Rimane la funzione-siepe associata alla collina, la sua capacità di nascondere altro, di essere «svolta», «cresta», «soglia», «orlo» (dunque la sua bidimensionalità come di una tela divisa tra cielo e mare dalla linea dell’orizzonte); si aggiunge ne La luna e i falò la terza dimensione del punto di fuga, individuato dalla visione prospettica dello stradone. È una tridimensionalità che rispecchia la storia del protagonistanarratore e non, innanzitutto, una caratteristica fisica dello spazio: se prima era un percepire attraverso, ora è un andare attraverso. Tra la collina di Gaminella, luogo del non-io, della non-realizzazione, e la collina del Salto, luogo dell’affermazione cosciente di sé, passa uno stradone che porta notizie dall’al-di-là delle colline dove Anguilla immaginava si potesse riscattare il peccato d’origine della sua condizione d’orfano. Tutti gli spazi de La luna e i falò sono costruiti intorno a questa fondamentale «visione»50 : alla foga del narratore di accumulare nella scrittura nomi, figure, ricordi – foga che porta spesso la scrittura ad assumere le caratteristiche del catalogo, della nomenclatura – agisce, in direzione opposta, una tensione centripeta che struttura, ordina la scena nel quadro dell’immagine dello stradone e della collina. Tutti i dati di realtà e di memoria, tutti i racconti-nel-racconto di cui è fatta La luna e i falò sottostanno a queste due conformazioni morfologiche. Non solo, com’è ovvio del resto, lo spazio del paese natale di Anguilla, in cui è ambientato gran 49 «Tra me pensavo “Mangio un cane se non vado a Canelli. Se non vinco la bandiera. Se non mi compro una cascina. Se non divento più bravo di Nuto”» (C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 75). 50 Il termine dantesco non è usato a caso. Nel 1940 Pavese, che si preparava a raccogliere i frutti dei primi esperimenti narrativi, scriveva nel suo secondo, e possiamo dire ultimo, testo teoricopoetico, A proposito di certe poesie non ancora scritte: «Sarà questione di descrivere – non importa se direttamente o immaginosamente – una realtà non naturalistica ma simbolica. In queste poesie i fatti avverranno – se avverranno – non perché così vuole la realtà ma perché così decide l’intelligenza. Singole poesie e canzoniere non saranno un’autobiografia ma un giudizio. Come succede insomma nella Divina Commedia – (bisogna arrivarci) – avvertendo che il tuo simbolo vorrà corrispondere non all’allegoria ma all’immagine dantesca» (C. Pavese, Le poesie, Einaudi, a cura di M. Masoero, Torino 1998, pp. 114-120). Circa nove anni dopo, in una lettera da Torino, del 17 luglio 1949, indirizzata agli amici Adolfo ed Eugenia Ruata, Pavese prefigura la stesura de La luna e i falò (che inizierà a scrivere due mesi dopo, il 18 settembre): «Io sono come pazzo perché ho avuta una grande intuizione – quasi una mirabile visione (naturalmente di stalle, sudore, contadinotti, verderame e letame ecc.) su cui dovrei costruire una modesta Divina Commedia. Ci penso sopra, e tutti i giorni diminuisce la tensione – che alle visioni siano necessarie le beatrici? Bah, si vedrà» (C. Pavese, Lettere, cit., p. 659). 12 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura parte del romanzo, ma anche quello che Gioanola definisce l’«anti-paese»51 (quella America che ben poco ha a che fare con l’ambiente delle colline langarole) è costruito secondo il filtro della partizione dello spazio in collina e stradone. La caratterizzazione di questo spazio permette di evidenziare in maniera esemplificativa il ruolo che questi due elementi svolgono nell’economia dell’intero romanzo. Gioanola ha giustamente evidenziato che, quando Pavese si misura con la realtà della collina e della campagna langarola, la sua scrittura raggiunge il massimo dell’espressività, mentre dove si avventura nella descrizione di paesaggi a lui sconosciuti (come appunto i capitoli della Luna e i falò dedicati ai paesaggi americani) i risultati sono più discutibili: «La frettolosità e approssimazione del racconto, l’atmosfera da incubo, la sommarietà descrittiva, mentre conferiscono a questi capitoli americani un’evidente irrilevanza stilistica, ne segnano anche la funzione di simboli rappresentativi dell’inautentico. Mentre Anguilla va riscoprendo il paese e la propria essenza in esso radicata, l’America assume ai suoi occhi le caratteristiche dell’anti-paese, luogo della totale “sradicatezza”»52 . Se è vero che in tali casi la liricità perde mordente, è altrettanto vero che nel complesso non viene mai meno l’unità della costruzione – il vero obiettivo della scrittura pavesiana – ovvero la possibilità che il punto di vista del narratore costituisca il centro ritmico di tutta la composizione. 5 Lo stradone e la musica di Nuto Appena giunto in California, Anguilla si sente a casa: «Ero arrivato in California e vedendo quelle lunghe colline sotto il sole avevo detto: “Sono a casa”»53 . A tale familiarità succede, al termine del capitolo, un nuovo senso di smarrimento che porta Anguilla a decidere di intraprendere il viaggio di ritorno. Questa decisione è di fondamentale importanza, poiché segna il fallimento del viaggio stesso: oltre e attraverso le colline non c’è l’origine di sé. L’episodio che determina la risoluzione del ritorno è l’incontro con un altro emigrato, il quale, rievocando vicende del paese di Anguilla, innesca il paragone tra i due luoghi. La tecnica con cui Pavese innesca questo confronto è quella del paragone a distanza, del paragone implicito in cui il senso della diversità tra i due luoghi non viene esplicitamente formalizzato dal narratore, ma emerge attraverso l’accostamento di un aspetto marginale dei due luoghi, di un aspetto che rimane in secondo piano come un rumore di fondo. Si tratta, infatti, di un elemento musicale. Anguilla lavora «nel locale sulla strada del Cerrito»54 con una ragazza, Nora, la quale, come tutti gli americani, vorrebbe percorrere la strada che va verso il mare «per andare al cinema»55 . La strada, in queste pagine americane, è il simbolo 51 E. Gioanola, Cesare Pavese, cit., p. 359. Ibid., p. 359. 53 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 20. 54 Ibid., p. 20, corsivi nostri. 55 Ibid., p. 21. 52 13 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura dell’andare continuo e inarrestabile dell’uomo senza radici; il movimento continuo agisce come palliativo all’angoscia che altrimenti prende chi si ferma a osservare che proprio l’andare non ha una meta (è la situazione descritta nell’altro capitolo americano del romanzo, quando l’automobile di Anguilla si ferma nel deserto). Anguilla al voler andare di Nora contrappone il suo desiderio di fermarsi su una collina per dare un senso a tutta quella frenesia. Tale frenesia ha un descrittore sonoro, il «baccano di grilli e di rospi»: «La sera uscivo fuori e lei mi raggiungeva correndo sull’asfalto coi tacchetti, mi prendeva un braccio e voleva che fermassimo una macchina per scendere al mare, per andare al cinema. Appena fuori dalla luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e di rospi. Io avrei voluto portarmela in quella campagna, tra i meli, i boschetti, o anche soltanto l’erba corta dei ciglioni, rovesciarla su quella terra, dare un senso a tutto il baccano sotto le stelle. Non voleva saperne. Strillava come fanno le donne, chiedeva di entrare in un altro locale»56 . Solo lontano da quell’andare frenetico Anguilla scopre la reale profondità del suo desiderio che è, come abbiamo visto, quello di farsi «terra e paese», perché la carne «valga e duri più che un comune giro di stagione»57 : «Quella notte, prima di scendere a Oakland, andai a fumare una sigaretta sull’erba, lontano dalla strada dove passavano le macchine, sul ciglione vuoto. Non c’era luna ma un mare di stelle, tante quante le voci dei rospi e dei grilli. Quella notte se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba, non mi sarebbe bastato. I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa»58 . Sulla strada il baccano è il segno del non significato, della non corrispondenza, del non-io: l’immagine dell’America si svela agli occhi di Anguilla come fallimentare. Sempre in questo capitolo è raccontata un’altra strada, e precisamente lo stradone di S. Stefano rievocato dall’amico di Gubbio incontrato per caso da Anguilla. Riascoltare il nome di Nuto risveglia nel protagonista una serie di ricordi che sembrano rendere superfluo il racconto dell’avventore: al lettore pare di sentire nelle parole dell’uomo il suono dei ricordi di Anguilla59 . A dominare la scena di questa breve rievocazione è, ancora una volta, una strada, quello stradone che Anguilla conosce più che bene: «E allora l’amico disse a me chi era Nuto e che cosa faceva. Raccontò che quella stessa notte, per farla vedere agli ignoranti, Nuto s’era messo sullo stradone e avevano suonato senza smetterla fino a Calamandrana. Lui li aveva seguiti in bicicletta, sotto la luna, e suonavano così bene che dalle case le donne saltavano giù dal letto e battevano le mani e allora la banda si fermava e cominciava un altro pezzo. Nuto, in mezzo, portava tutti col clarino».60 56 Ibid., p. 21, corsivi nostri. Ibid., p. 9. 58 Ibid., pp. 22-23. 59 L’uso del discorso indiretto permette che la voce del narratore filtri le parole del narratore di secondo grado: l’effetto è che il lettore assiste al racconto dell’uomo con gli occhi (la memoria) di Anguilla. 60 Ibid., p. 22. 57 14 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura Senza che sia esplicitamente tematizzata, l’opposizione tra l’anti-paese e il paese di Anguilla si gioca sulla diversa caratterizzazione dello stesso elemento paesistico. Anche nel caso del racconto di secondo grado lo stradone è il luogo dell’andare, ma ciò che trasporta i suoi viandanti è quella musica che Anguilla conosce così bene: lo stradone che da S. Stefano porta a Calamandrana è come incantato al suono della musica di un Nuto-pifferaio magico. Il paragone con l’America si gioca dunque proprio sulla cacofonia che nasce tra la dolcezza del ricordo di Nuto e il «baccano di grilli e di rospi». Tornando all’analisi degli elementi caratterizzanti il paesaggio americano, infatti, si nota come l’immagine sonora dei «grilli e dei rospi» è iterata in tutto il capitolo. In particolare essa caratterizza la figura di Nora, che con la musica dei «ballabili» cerca di coprire il disturbo di fondo delle voci dei grilli e dei rospi: – A te queste donne piacciono? Passai lo straccio sul banco. – Colpa nostra, – dissi. – Questo paese è casa loro. Lui stette zitto ascoltando la radio. Io sentivo sotto la musica, uguale, la voce dei rospi. Nora, impettita, gli guardava la schiena con disprezzo.61 Nora mi chiamò dalla strada, per andare in città. Aveva una voce, in distanza, come quella dei grilli.62 Così, per caratterizzare l’America come l’anti-paese, Pavese si affida all’iterazione di una figura («il baccano dei grilli e dei rospi»), che acquista il suo significato solo se paragonata con un’altra immagine, a lei equivalente per genere, ma di segno opposto: la musica di Nuto che percorre lo stradone del paese di casa. L’iterazione di uno o più dati naturali, oltre ad essere fattore di unità strutturale (nel senso che la scena è riconducibile a pochi elementi significativi) è anche la tecnica di costruzione semantica. Il narratore pavesiano, limitandosi a nominare le cose (limitando e comunque controllando in maniera forte l’uso dell’aggettivazione), opta per una tecnica di amplificazione semantica basata sull’accostamento e sull’iterazione. Infatti lo stesso modulo sintagmatico viene ripetuto, come abbiamo visto nel caso del «baccano dei grilli e dei rospi», in situazioni narrative e contesti funzionali diversi: il significato esatto dell’espressione iterata (del dato reale) non viene così mai esplicitato, ma deve essere colto proprio nell’ampiezza dell’immagine, nella inesauribilità (anche narrativa) del suo valore simbolico. Tale scelta semantica pavesiana non ingenera però una sovrapposizione incontrollata di sensi; genera, questo sì, una circolazione del senso intorno a un nucleo semantico (il «monolito») che però è sempre possibile rintracciare. La luce con cui tutti gli oggetti rappresentati sono investiti è quella dell’unico punto di vista del protagonista narratore, che è a sua volta costituito dall’ossessività con cui ritorna sugli stessi oggetti, sulle stesse immagini. Il connettivo che attua il paragone tra l’anti-paese 61 62 Ibid., p. 22. Ibid., p. 24. 15 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura e il paese è, infatti, «lo stradone»: esso diventa così la cartina tornasole della natura del luogo e si candida a essere l’immagine strutturante e unificante l’intero romanzo, costituito dalla giustapposizione di quadri separati. Dunque l’immagine cacofonica diventa principio metaforico: il tentativo del narratore di «dare un senso a quel baccano di grilli e di rospi» fallisce perché tutto in America è cacofonico – «le uova al lardo, le buone paghe, le arance grosse come angurie, non erano niente, somigliavano a quei grilli e a quei rospi»63 – e la gente viaggia per non sentire questo disturbo di fondo; al paese di Anguilla invece sullo stradone si va portati dalla dolce melodia (dolce come il ricordo) di Nuto. Il viaggio di Anguilla è dunque fallito, ma l’immagine mitica da cui esso si è generato non si è indebolita. Al contrario essa si è confermata come un nucleo esperienziale da sempre fissato nello sguardo del protagonista. Anguilla segue lo stradone fino al paese in un ritorno ambivalente: da un lato, trovando tutto cambiato, Anguilla decreta l’impossibilità di un ricongiungimento di presente e passato64 , ma dall’altro ritrova ancora quell’immagine archetipica immutabile che sfugge al tempo perché si è consolidata nella memoria: l’inesplorata sommità della collina di Gaminella. Essa, proprio in quanto calcificatasi nella memoria, presiede alle dinamiche di rappresentazione dello spazio e di strutturazione della parabola del viaggio di andata e ritorno. Al paese lo aspetta, come abbiamo visto, un altro viaggio, forse l’ultimo dal punto di vista della profondità semantica: l’ascesa sulla collina. L’ascesa si compie proprio sulla cresta della collina, sul luogo della soglia, ossia dove si attua il contatto tra finito e infinito, tra storia e mito: essa è il solo luogo in cui il significato si può rivelare (è appunto in cresta che Nuto proferirà il suo racconto della morte di Santina). Dunque il viaggio di Anguilla conduce inevitabilmente al ritorno nel luogo che ha originato il viaggio stesso. Sulla cima 63 Ibid., p. 23. Anguilla era partito per tornare e godersi così la gloria del suo riscatto sociale. Scrive a questo proposito Muñiz Muñiz: «Chi non è nessuno, chi ignora la propria origine, deve ricomparire dopo esser stato dimenticato e rispecchiarsi negli stessi occhi che lo hanno visto nel passato: solo così potrà aver luogo l’auto riconoscimento agognato» (M.N. Muñiz Muñiz, “Cesare Pavese: ritorno «en abîme»”, in Poetiche della temporalità, cit., p. 187). In un appunto del Mestiere di vivere risalente all’8 febbraio 1949, vale a dire al periodo di preparazione del romanzo, Pavese scriveva: «Perché la gloria venga gradita devono resuscitare morti, ringiovanire vecchi, tornare lontani. Noi l’abbiamo sognata in un piccolo ambiente, tra facce familiari che per noi erano il mondo e vorremmo vedere, ora che siamo cresciuti, il riflesso delle nostre imprese e parole in quell’ambiente, su quelle facce. Sono sparite, sono disperse, sono morte. Non torneranno mai più. E allora cerchiamo intorno disperati, cerchiamo di rifare l’ambiente, il piccolo mondo che c’ignorava ma voleva bene e doveva essere stupefatto di noi. Ma non c’è più» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 363 [solo il primo corsivo è dell’autore]). Questo spunto si trova ripreso ne La luna e i falò: «La voglia che un tempo avevo avuto in corpo (un mattino, in un bar di San Diego, c’ero quasi ammattito) di sbucare per quello stradone, girare il cancello tra il pino e la volta dei tigli, ascoltare le voci, le risate, le galline, e dire “Eccomi qui, sono tornato” davanti alle facce sbalordite di tutti – dei servitori, delle donne, del cane, del vecchio – e gli occhi biondi e gli occhi neri delle figlie mi avrebbero riconosciuto dal terrazzo – questa voglia non me la sarei cavata più. Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi non c’erano più. Da un pezzo non c’erano più» (C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 74, corsivi nostri). 64 16 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura della collina origine e fine del viaggio coincidono, secondo quella dimensione di ambivalenza65 che domina la scoperta del significato ne La luna e i falò. La «collina-essenza»66 de La casa in collina si palesa come luogo della rivelazione del significato ne La luna e i falò proprio in quanto luogo in cui origine e fine della ricerca coincidono. Seguire il proprio destino vuol dire per il personaggio pavesiano ritornare al luogo che fin dal primo momento conteneva in sé il mistero, l’ignoto che nel viaggio il protagonista avrebbe voluto portare alla luce. Alla collina de La luna e i falò sono legate tutte quelle sfumature di significato che abbiamo visto essere presenti ne La casa in collina, e decisamente intensificate. Senza replicare l’analisi effettuata in precedenza (anche solo uno sguardo corsivo alle pagine de La luna e i falò mostrerebbe il proliferare delle immagini e delle costruzioni sintattiche della percezione attraverso e della soglia), vorrei comunque mettere in evidenza come la scelta del nome di collina del Salto (è questa forse l’unica indicazione toponimica fittizia del romanzo) costituisca una declinazione di quella percezione vertiginosa della collina caratteristica del punto di vista del narratore pavesiano. In una lettera a Fernanda Pivano, Pavese svela la simbologia legata alla collina, alle svolte delle sue strade, alla vertigine degli strapiombi che la collina apre: Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo. Deve pensare che immagini primordiali come a dire l’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane, la frutta, ecc. mi si sono dischiuse in questi luoghi, anzi in questo luogo, a un certo bivio dove c’è una gran casa, con un cancello rosso che stride, con un terrazzo dove ricadeva il verderame che si dava alla pergola e io ne avevo sempre le ginocchia sporche; e rivedere perciò questi alberi, case, viti, sentieri, ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro l’immagine assoluta di queste cose, come se fossi bambino, ma un bambino che porta, in questa sua scoperta, una ricchezza di echi, di stati, di parole, di ritorni, di fantasia insomma, che è davvero smisurata! Non sono vissuto altri vent’anni per niente. (Questo dovrebbe anche consolare Lei che piange su Bardi e sulla Cervara; là è nata la Sua fantasia, là può rinascere ogni volta che ci ritorno – in corpo o in spirito –, e gli anni intermedi sono tanto cacio su questo maccherone). Ora, questo stato di aurorale verginità che mi godo, ha l’effetto di farmi soffrire perché so che il mio mestiere è di trasformare tutto in «poesia». Il che non è facile. Anzi, la prima idea è stata che quanto ho scritto finora erano sciocche cose, tracciate secondo schemi allotri, che non hanno nessun sapore dell’albero, della casa, della vite, del sentiero, ecc. come li conosco. Andando la strada del salto nel vuoto, capivo appunto che ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo. Pensavo che descrivere storie di contadini (sia pure psicanalizzati e trasfigurati) non 65 Cfr. M.N. Muñiz Muñiz, “Cesare Pavese: ritorno «en abîme»”, in Poetiche della temporalità, cit., pp. 188-190. 66 E. Gioanola, Cesare Pavese, cit., p. 305. 17 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura basta ancora. Descrivere paesaggi poi è cretino. Bisogna che i paesaggi – meglio i luoghi, cioè l’albero la casa, la vite, il sentiero, il burrone, ecc. – vivano come persone, come contadini, e cioè siano mitici. La grande collinamammella dovrebbe essere il corpo della dea, cui la notte di San Giovanni si potrebbero accendere i falò di stoppie e tributare culto. La dolce vetta a crinale, in fuga verso il salto nel vuoto, sarebbe la strada seguita dall’eroe civilizzatore (un Ercole, un Adone) quando, dopo beneficata la gente, parte per un’impresa ignota. Il campo nudo e tremendo in vetta al colle più alto, desolato, di là dagli alberi e dalle case, una specie di altare dove scendono le nubi e si danno ai loro connubi con i mortali più innocenti.67 L’eroe civilizzatore, seguendo lo stradone che porta oltre la dolce vetta a crinale, fa un salto nel vuoto, attraversa il mondo e ritorna a contemplare quel luogo mitico da cui tutto si origina. La scelta del ritorno alle origini e della contemplazione della collina si pone dunque come l’alternativa pavesiana al «dolce naufragare» leopardiano. Ne La luna e i falò la ricerca dell’origine di sé si chiarisce definitivamente come la ricerca e l’approfondimento della genesi delle proprie immagini mitiche. La cima della collina è dunque il luogo sacro, il luogo unico in cui il personaggio pavesiano cerca le tracce del dio, ossia del significato profondo di sé, dell’origine della realtà. Il rapporto tra il narratore pavesiano e la realtà è dunque sempre un rapporto tragicamente religioso, in cui rimane una domanda sempre aperta: «Come è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?»68 . Il tema del viaggio, della costante apertura a un oltre di significato, presente sia ne La casa in collina sia ne La luna e i falò, assume nella caratterizzazione del punto di vista del narratore-protagonista la forma dell’iterazione di tale domanda di significato: sotto il profilo percettivo, attraverso la tematizzazione e metaforizzazione di paesaggi costituiti da alture che aprono a prospettive di limiti e orizzonti infiniti; sotto il profilo ideologico, attraverso l’approccio della questione del destino umano nei termini di un’indagine circa l’origine delle proprie immagini mitiche. Come scrive Gioanola: «La luna e i falò testimonia l’avvenuto ed integrale recupero dell’entità mitica della collina, o la completa riduzione della campagna da “selvaggio”, e quindi altro-da-sé, a memoria-infanzia e quindi a fondamento-di-sé»69 . È una ricerca per certi versi tragica, ma sicuramente tra le più alte nel panorama italiano del ventesimo secolo. 67 C. Pavese, Lettere, cit., pp. 425-426, corsivi nostri. Id., Il mestiere di vivere, cit., p. 303. 69 E. Gioanola, Cesare Pavese, cit., p. 354. 68 18