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BOLLETTINO
PER LE RAPPRESENTANZE PONTIFICIE
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ANNO XVIII, N. 6 – VENERDÌ 6 GENNAIO 2017
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DOCUMENTAZIONE
INFORMAZIONE
* UDIENZE E IMPEGNI S. PADRE
* AGENDA DEL PAPA
RINUNCE E NOMINE
COMUNICAZIONI SANTA SEDE
DISCORSI PONTIFICI
INIZIO MISSIONE NUNZI
MESSAGGI PONTIFICI
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* OMELIE DEL SANTO PADRE
VARIAZIONI ANNUARIO
* CHIESA NEL MONDO
UDIENZA GENERALE
* ANGELUS DOMINI
NECROLOGIE
STAMPA E AGENZIE
COMUNICATI SALA STAMPA
RASSEGNE DI STAMPA
* ARTICOLI E DOCUMENTI
* RADIO VATICANA
AGENZIE CATTOLICHE
AGENZIE DI STAMPA
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DOCUMENTAZIONE
UDIENZE E IMPEGNI DEL SANTO PADRE
VENERDÌ 6 GENNAIO 2017
Ore 10,00
BASILICA VATICANA:
Celebrazione eucaristica
Ore 12,00
ANGELUS DOMINI
DISCORSI PONTIFICI
Discorso “a braccio” del Santo Padre ai Partecipanti al convegno nazionale vocazionale della
Conferenza Episcopale Italiana nell’ Aula Paolo VI, il 5 gennaio 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Ho preparato questo discorso [mostra quello scritto]: sono cinque pagine. È troppo presto
per addormentarsi un’altra volta! Così io lo consegnerò al Segretario Generale e cercherò di dirvi
quello che mi viene in mente, quello che mi viene da dire... Lei [si rivolge a Mons. Galantino] poi
lo fa conoscere…
Quando Mons. Galantino ha incominciato a parlare [nel suo saluto al Santo Padre] e ha detto
il motto dell’incontro, “Alzati!...”, mi è venuto in mente quando questa parola è stata detta a Pietro,
in carcere, è stata detta dall’angelo: «Alzati!» (At 12,7). Lui non capiva nulla. “Prendi il
mantello…”. E non sapeva se sognava, se non sognava. “Seguimi”. E le porte si aprirono, e Pietro
si ritrovò sulla strada. Lì si accorse che era realtà, che non era un sogno: era l’angelo di Dio e
l’aveva liberato. “Alzati!”, gli aveva detto. E lui si alzò, di fretta, e se ne andò. E dove vado? Vado
dove sicuramente c’è la comunità cristiana. E davvero è andato in una casa di cristiani, dove tutti
pregavano per lui. La preghiera… Bussa alla porta, esce la domestica, lo guarda… e invece di aprire
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la porta torna indietro. E Pietro, spaventato perché c’era la guardia lì, che girava per la città. E lei:
“Va’, c’è Pietro!” – “No, Pietro è in carcere!” – “No, è il fantasma di Pietro” – “No, c’è Pietro, è
Pietro!”. E Pietro bussava, bussava… Quell’“Alzati!” è stato fermato per il timore, per la
sciocchezza – ma, non sappiamo – di una persona. Credo che si chiamasse… [Rode]. E’ un
complesso, il complesso di quelli che per paura, per mancanza di sicurezza preferiscono chiudere le
porte.
Si veda breve videoclip con la sintesi dell’incontro cliccando sul link qui sotto riportato:
https://youtu.be/DrdfrZvJ_2s
Io mi domando quanti giovani, ragazzi e ragazze, oggi sentono nel loro cuore quell’“alzati!”,
e quanti – preti, consacrati, suore – chiudono le porte. E loro finiscono in frustrazione. Avevano
sentito l’“alzati!”, e bussavano alla porta. … “Sì, sì, stiamo pregando” – “Sì, adesso non si può,
stiamo pregando”. Fra parentesi, qualcuno, quando ha saputo che venivo da voi a parlare sulle
vocazioni, ha detto: “Dica loro che preghino per le vocazioni, invece di fare tanti convegni!”. Non
so se sia vero, ma pregare ci vuole, però pregare con la porta aperta! Con la porta aperta. Perché
soltanto accontentarsi di fare un convegno, senza assicurarsi che le porte siano aperte, non serve. E
le porte si aprono con la preghiera, la buona volontà, il rischio. Rischiare con i giovani. Gesù ci ha
detto che il primo metodo per avere vocazioni è la preghiera, e non tutti sono convinti di questo. “Io
prego… sì, io prego, tutti i giorni un Padre Nostro per le vocazioni”. Cioè, pago la tassa. No, la
preghiera che esce dal cuore! La preghiera che fa che il Signore dica più volte quell’“alzati!”:
“Alzati! Sii libero, sii libera! Alzati, ti voglio con me. Seguimi. Vieni da me e vedrai dove abito.
Alzati!”. Ma con le porte chiuse, nessuno può entrare dal Signore. E le chiavi delle porte le abbiamo
noi. Non solo Pietro, no, no. Tutti.
Aprire le porte perché possano entrare nelle chiese. Ho saputo di alcune diocesi, nel mondo,
che sono state benedette di vocazioni. Parlando con i vescovi [ho chiesto]: “Che cosa avete fatto?”.
Prima di tutto, una lettera del vescovo, ogni mese, alle persone che volevano pregare per le
vocazioni: le vecchiette, gli ammalati, gli sposi… Una lettera ogni mese, con un pensiero spirituale,
con un sussidio, per accompagnare la preghiera. I vescovi devono accompagnare la preghiera, la
preghiera della comunità. Bisogna cercare un modo… Questo è un modo che quei vescovi – tre o
quattro che ho sentito – hanno trovato. Ma tante volte i vescovi sono impegnati, ci sono tante
cose… Sì, sì, ma non bisogna dimenticare che il primo compito dei vescovi è la preghiera! Il
secondo compito l’annuncio del Vangelo. E questo non lo dicono i teologi, questo è stato detto
dagli Apostoli, quando ebbero quella piccola rivoluzione in cui tanti cristiani si lamentavano perché
le vedove non erano ben curate, perché gli Apostoli non avevano tempo; allora hanno “inventato” i
diaconi, perché si occupassero delle vedove, degli orfani, dei poveri… Noi, in questa Chiesa di
Roma abbiamo un bravo diacono, abbiamo avuto Lorenzo, che ha dato la sua vita; si occupava di
queste cose… E alla fine dell’annuncio, quando annuncia alla comunità cristiana, Pietro dice: “E a
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noi tocca la preghiera e l’annuncio del Vangelo” (cfr At 6,4). Ma qualcuno può dirmi: “Padre, lei sta
parlando alla nuora perché senta la suocera?”. Sì, è vero. La prima cosa è pregare, è questo che
Gesù ci ha detto: “Pregate per le vocazioni”. Io potrei fare il piano pastorale più grande,
l’organizzazione più perfetta, ma senza il lievito della preghiera sarà pane azzimo. Non avrà forza.
Pregare è la prima cosa. E la comunità cristiana, quella notte nella quale Pietro bussava alla porta,
era in preghiera. Dice il testo: “Tutta la Chiesa pregava per lui” (cfr At 12,5). Era in preghiera. E
quando si prega, il Signore ascolta, sempre, sempre! Ma pregare non come i pappagalli. Pregare con
il cuore, con la vita, con tutto, con il desiderio che questo che io sto chiedendo si faccia. Pregare per
le vocazioni.
Pensate se voi potete fare una cosa del genere, come hanno fatto questi vescovi, che è gente
umile: “Tu prendi questo impegno, tutti i giorni fai qualche preghiera”; e alimentare questo
impegno, sempre. Oggi un libretto, il mese prossimo una lettera, poi un’immaginetta…, ma che si
sentano collegati in preghiera, perché la preghiera di tutti fa tanta forza. Lo dice il Signore stesso.
Poi, la porta aperta. E’ da piangere quando tu vai in parrocchia, in alcune parrocchie… E fra
parentesi voglio dire che i parroci italiani sono bravi!, sto parlando in genere, ma questa è una
testimonianza che voglio dare: mai ho visto in altre diocesi, nella mia patria, in altre diocesi,
organizzazioni fatte dai parroci così forti come qui. Pensate al volontariato: in Italia il volontariato è
una cosa che non si vede altrove. E’ una cosa grande! E chi l’ha fatta? I parroci. I parroci di
campagna, che servono uno, due, tre paesini, vanno, vengono, conoscono i nomi di tutti, anche dei
cani… I parroci. Poi, l’oratorio nelle parrocchie italiane: è un’istituzione forte! E chi l’ha fatto,
questo? I parroci! I parroci sono bravi. Ma alcune volte – e parlo di tutto il mondo – si va in
parrocchia e si trova una scritta sulla porta: “Il parroco riceve lunedì, giovedì, venerdì dalle 15 alle
16”; oppure: “Si confessa da questa a questa ora”. Queste porte aperte… Quante volte – e sto
parlando della mia diocesi precedente – quante volte ci sono le segretarie, donne consacrate, a
ricevere la gente, a spaventare la gente! La porta è aperta ma la segretaria fa loro vedere i denti, e la
gente scappa! Ci vuole accoglienza. Per avere vocazioni, è necessaria l’accoglienza. E’ la casa nella
quale si accoglie.
E parlando dei giovani, accoglienza ai giovani. Questa è una terza cosa un po’ difficile. I
giovani stancano, perché hanno sempre un’idea, fanno rumore, fanno questo, fanno quell’altro… E
poi vengono: “Ma, vorrei parlare con te…” – “Sì, vieni”. E le stesse domande, gli stessi problemi:
“Io te l’ho detto …”. Stancano. Se vogliamo vocazioni: porta aperta, preghiera e stare inchiodati
alla sedia per ascoltare i giovani. “Ma sono fantasiosi!...”. Benedetto il Signore! A te tocca farli
“atterrare”. Ascoltarli: l’apostolato dell’orecchio. “Vogliono confessarsi, ma confessano sempre le
stesse cose” – “Anche tu, quando eri giovane, ti sei dimenticato? Ti sei dimenticata?”. La pazienza:
ascoltare, che si sentano a casa, accolti; che si sentano ben voluti. E più di una volta fanno
ragazzate: grazie a Dio, perché non sono vecchi. E’ importante “perdere tempo” con i giovani.
Alcune volte annoiano, perché – come dicevo – vengono sempre con le stesse cose; ma il tempo è
per loro. Più che parlare loro, bisogna ascoltarli, e dire soltanto una “goccina”, una parola lì, e via,
possono andare. E questo sarà un seme che lavorerà da dentro. Ma potrà dire: “Sì, sono stato con il
parroco, con il prete, con la suora, con il presidente dell’Azione Cattolica, e mi ha ascoltato come se
non avesse niente da fare”. Questo i giovani lo capiscono bene.
Poi, un’altra cosa sui giovani: dobbiamo stare attenti a che cosa cercano, perché i giovani
cambiano con i tempi. Ai miei tempi c’era la moda delle riunioni: “Oggi parleremo dell’amore”, e
ognuno preparava il tema dell’amore, si parlava… Eravamo soddisfatti. Poi, uscivamo da lì,
andavamo allo stadio a vedere la partita – non c’era ancora la televisione – eravamo tranquilli. Si
facevano opere di carità, visite agli ospedali… tutto sistemato. Ma eravamo piuttosto “fermi”, in
senso figurato. Oggi i giovani devono essere in moto, i giovani devono camminare; per lavorare per
le vocazioni bisogna far camminare i giovani, e questo si fa accompagnando. L’apostolato del
camminare. E come camminare, come? Fare una maratona? No! Inventare, inventare azioni
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pastorali che coinvolgano i giovani, in qualcosa che faccia fare loro qualcosa: nelle vacanze
andiamo una settimana a fare una missione in quel paese, o a fare aiuto sociale a quell’altro, o tutte
le settimane andiamo in ospedale, questo, quello…, o a dare da mangiare ai senzatetto nelle grandi
città… ci sono… I giovani hanno bisogno di questo, e si sentono Chiesa quando fanno questo.
Anche i giovani che non si confessano, forse, o non fanno la Comunione, ma si sentono Chiesa. Poi,
si confesseranno, poi, faranno la Comunione; ma tu, mettili in cammino. E camminando, il Signore
parla, il Signore chiama. E viene un’idea: dobbiamo fare questo…; io voglio fare…; e si
coinvolgono nei problemi altrui. Giovani in cammino, non fermi. I giovani fermi, che hanno tutto
sicuro… sono giovani in pensione! E ce ne sono tanti, oggi! Giovani che hanno tutto assicurato:
sono pensionati della vita. Studiano, avranno una professione, ma il cuore è già chiuso. E sono
pensionati. Dunque, camminare, camminare con loro, farli camminare, farli andare. E nel cammino
trovano domande, domande a cui è difficile rispondere! Io vi confesso, quando ho fatto le visite in
alcuni Paesi o anche qui in Italia, in alcune città, di solito faccio una riunione o un pranzo con un
gruppo di giovani. Le domande che ti fanno, in quei momenti, ti fanno tremare, perché tu non sai
come rispondere… Perché sono inquieti [in senso positivo: sono in ricerca], e questa inquietudine è
una grazia di Dio, è una grazia di Dio. Tu non puoi fermare l’inquietudine. Diranno stupidaggini, a
volte, ma sono inquieti, e questo è ciò che conta. E questa inquietudine è necessario farla
camminare.
“Alzati!”. La porta aperta. La preghiera. La vicinanza a loro, ascoltarli. “Ma sono noiosi!...”.
Ascoltarli, farli camminare, farli andare, con proposte da “fare”. Loro capiscono meglio il
linguaggio delle mani che quello della testa o quello del cuore; capiscono il fare: capiscono bene!
Pensano così così, ma capiscono, fanno bene se tu dai loro da fare. Capiscono bene: hanno una
capacità di giudicare acuta; dobbiamo sistemare un po’ la testa, ma questo viene, viene con il
tempo.
E infine, l’ultima cosa che mi viene in mente per la pastorale vocazionale, è la
testimonianza. Un ragazzo, una ragazza, è vero che sente la chiamata del Signore, ma la chiamata è
sempre concreta, e almeno la maggioranza delle volte, la più parte delle volte è: “Io vorrei diventare
come quella o come quello”. Sono le nostre testimonianze quello che attira i giovani.
Testimonianze dei preti bravi, delle suore brave. Una volta è andata una suora a parlare in un
collegio – era una superiora, credo una madre generale, in un altro Paese, non qui – ha riunito –
questo è storico – la comunità educativa di quel collegio di suore, e questa madre generale invece di
parlare della sfida dell’educazione, dei giovani che si stanno educando, di tutte queste cose,
incominciò a dire: “Noi dobbiamo pregare per la canonizzazione della nostra madre fondatrice”, e
ha passato più di mezz’ora parlando della madre fondatrice, che si deve fare questo, chiedere il
miracolo… Ma la comunità educativa, i professori, le professoresse [pensavano]: “Ma perché ci
dice queste cose, mentre noi abbiamo bisogno di altro… Sì, questo sta bene, che sia beatificata e
canonizzata, ma noi abbiamo bisogno di un altro messaggio”. Alla fine, una delle professoresse –
brava, era brava questa, l’ho conosciuta – disse: “Madre, posso dire una cosa?” – “Sì” – “La vostra
madre non sarà mai canonizzata” – “Ma perché?” – “Eh, perché sicuramente è in purgatorio” – “Ma
non dire queste cose! Perché dici questo?” – “Per avere fondato voi. Perché se tu che sei la generale
sei tanto – diciamo – sciocca, per non dire di più, la tua madre generale non ha saputo formarvi”.
Non è così? E’ la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha
portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non
gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non
interessano, che annoiano i giovani, che non hanno tempo… “Sì, sì, ma sono un po’ di fretta…” No.
Ci vuole una testimonianza grande!
Non so, questo è quello che mi scoppiato nel cuore a partire da quell’“alzati!” che ho sentito
dire da Mons. Galantino, dal motto del vostro incontro. E ho parlato di quello che sento. E vi
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ringrazio per quello che fate, vi ringrazio per questo convegno, vi ringrazio per le preghiere… E
avanti! Che il mondo non finisce con noi, dobbiamo andare avanti…
Adesso, prima della benedizione, preghiamo la Madonna: “Ave Maria…”.
[Benedizione]
Discorso del Santo Padre alle popolazioni terremotate dell’Italia centrale nell’ Aula Paolo VI,
il 5 gennaio 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Io ho scritto qui le due testimonianze che abbiamo ascoltato, e ho sottolineato qualche
espressione, qualche parola, che mi ha toccato il cuore, e di questo voglio parlare.
Una parola che è stata come un ritornello, quella del ricostruire. Quello che Raffaele ha detto molto
concisamente e molto forte: “Ricostruire i cuori ancor prima delle case”. Ricostruire i cuori.
“Ricostruire – ha detto Don Luciano – il tessuto sociale e umano della comunità ecclesiale”. Ricostruire. Mi viene in mente quell’uomo che ho trovato, non ricordo in quale dei paesi che ho
visitato in quella giornata [quando si è recato nei luoghi terremotati, il 4 ottobre 2016], ha detto:
“Per la terza volta incomincerò a costruire la mia casa”. Ricominciare, non lasciarsi andare – “ho
perso tutto” –, amareggiare… Il dolore è grande! E ricostruire col dolore… Le ferite del cuore ci
sono! Qui, alcune settimane fa, ho incontrato la piccola Giulia, con i suoi genitori, che aveva perso
il fratello, con la sorellina… Poi ho incontrato quella coppia di sposi che ha perso i gemellini… E
adesso incontro voi che avete perso gente della vostra famiglia. I cuori sono feriti. Ma c’è la parola
che abbiamo sentito oggi da Raffaele: ricostruire i cuori, che non è “domani sarà meglio”, non è
ottimismo, no, non c’è posto per l’ottimismo qui: sì per la speranza, ma non per l’ottimismo.
L’ottimismo è un atteggiamento che serve un po’ in un momento, ti porta avanti, ma non ha
sostanza. Oggi serve la speranza, per ricostruire, e questo si fa con le mani, un’altra parola che mi
ha toccato.
Per rivedere l’intervento integrale del Santo Padre si può cliccare nel link qui sotto riportato (Ctrl+)
https://youtu.be/T2UediBwo6c
Raffaele ha parlato delle “mani”: il primo abbraccio con le mani a sua moglie; poi quando
prende i bambini per tirarli fuori dalla casa: le mani. Quelle mani che aiutano i famigliari a liberarsi
dai calcinacci; quella mano che lascia il suo figlio in braccio, nelle mani di non so chi per andare ad
aiutare un altro. “Poi c’era la mano di qualcuno che mi ha guidato”, ha detto. Le mani. Ricostruire,
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e per ricostruire ci vogliono il cuore e le mani, le nostre mani, le mani di tutti. Quelle mani con le
quali noi diciamo che Dio, come un artigiano, ha fatto il mondo. Le mani che guariscono. A me
piace, agli infermieri, ai medici, benedire le mani, perché servono per guarire. Le mani di tanta
gente che ha aiutato a uscire da questo incubo, da questo dolore; le mani dei Vigili del Fuoco, tanto
bravi, tanto bravi... E le mani di tutti quelli che hanno detto: “No, io do del mio, do il meglio”. E la
mano di Dio alla domanda “perché?” – ma sono domande che non hanno risposta, la cosa è andata
così.
Un’altra parola che è uscita è la ferita, ferire: “Noi siamo rimasti lì per non ferire di più la
nostra terra”, ha detto il parroco. Bello. Non ferire di più quello che è ferito. E non ferire con parole
vuote, tante volte, o con notizie che non hanno il rispetto, che non hanno la tenerezza davanti al
dolore. Non ferire. Ognuno ha sofferto qualcosa. Alcuni hanno perso tanto, non so, la casa, anche i
figli o i genitori, quel coniuge… Ma non ferire. Il silenzio, le carezze, la tenerezza del cuore ci aiuta
a non ferire.
E poi si fanno miracoli nel momento del dolore: “Ci sono state riconciliazioni”, ha detto il
parroco. Si lasciano da parte antiche storie e ci ritroviamo insieme in un’altra situazione. Ritrovarsi:
col bacio, con l’abbraccio, con l’aiuto mutuo…, anche con il pianto. Piangere da soli fa bene, è
un’espressione davanti a noi stessi e a Dio; ma piangere insieme è meglio, ci ritroviamo piangendo
insieme.
Queste sono le cose che mi sono venute al cuore quando ho letto e sentito queste
testimonianze.
Un’altra frase, detta anch’essa da Raffaele: “Oggi la nostra vita non è la stessa. E’ vero, siamo
usciti salvi, ma abbiamo perso”. Salvi, ma sconfitti. E’ una cosa nuova questa strada di vita. La
ferita si guarisce, le ferite guariranno, ma le cicatrici rimarranno per tutta la vita, e saranno un
ricordo di questo momento di dolore; sarà una vita con una cicatrice in più. Non è la stessa di prima.
Sì, c’è la fortuna di essere usciti vivi, ma non è lo stesso di prima.
Poi, Don Luciano ha fatto accenno alle virtù, alle virtù vostre: “Voglio testimoniare – ha detto – la
fortezza d’animo, il coraggio, la tenacia e insieme la pazienza, la solidarietà nell’aiuto vicendevole
della mia gente”. E questo si chiama essere “ben nati”, non so se in italiano si usa questo [modo di
dire], in spagnolo si usa “bien nacido”, nato bene, una persona che è nata bene. E lui, come pastore,
dice: “Sono orgoglioso della mia gente”. Anch’io devo dire che sono orgoglioso dei parroci che non
hanno lasciato la terra, e questo è buono: avere pastori che quando vedono il lupo non fuggono.
Abbiamo perso, sì, abbiamo perso tante cose: casa, famiglie, ma siamo diventati una grande
famiglia in un altro modo.
E c’è un’altra parola che è stata detta due volte soltanto, un po’ di passaggio, ma era un po’
il nocciolo di queste due testimonianze: vicinanza. “Siamo stati vicini e rimaniamo vicini l’uno
all’altro”. E la vicinanza ci fa più umani, più persone di bene, più coraggiosi. Una cosa è andare
soli, sulla strada della vita, e una cosa è andare per mano con l’altro, vicino all’altro. E questa
vicinanza voi l’avete sperimentata.
E poi un’altra parola che si è perduta nel discorso, ricominciare, senza perdere la capacità di
sognare, sognare il riprendersi, avere il coraggio di sognare una volta in più.
Queste sono le cose che più hanno toccato il cuore delle due testimonianze, e per questo ho voluto
prendere le vostre parole per farle mie, perché nella vostra situazione il peggio che si può fare è fare
un sermone, il peggio. Soltanto, [ho voluto] prendere quello che dice il vostro cuore e farlo proprio
e dirlo con voi, e fare una riflessione un po’ su questo.
Voi sapete che vi sono vicino. E vi dico una cosa: quando mi sono accorto di quello che era
accaduto quella mattina, appena svegliato ho trovato un biglietto dove si parlava delle due scosse;
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due cose ho sentito: ci devo andare, ci devo andare; e poi ho sentito dolore, molto dolore. E con
questo dolore sono andato a celebrare la Messa quel giorno.
Grazie per essere venuti oggi e in alcune udienze di questi mesi. Grazie per tutto quello che
voi avete fatto per aiutarci, per costruire, ricostruire i cuori, le case, il tessuto sociale; anche per
ricostruire [riparare] col vostro esempio l’egoismo che è nel nostro cuore che non abbiamo sofferto
questo. Grazie tante a voi. E sono vicino a voi.
OMELIE DEL SANTO PADRE
Omelia del Santo Padre in occasione della Celebrazione Eucaristica nella Solennità di
Pentecoste
Per riascoltare l’omelia integrale del Santo Padre si può cliccare il link qui sotto riportato (Ctrl+)
https://youtu.be/C6Yswh9AzDY?t=37m13s
«Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad
adorarlo» (Mt 2,2).
Con queste parole i magi, venuti da terre lontane, ci fanno conoscere il motivo della loro
lunga traversata: adorare il re neonato. Vedere e adorare: due azioni che risaltano nel racconto
evangelico: abbiamo visto una stella e vogliamo adorare.
Questi uomini hanno visto una stella che li ha messi in movimento. La scoperta di qualcosa
di inconsueto che è accaduto nel cielo ha scatenato una serie innumerevole di avvenimenti. Non era
una stella che brillò in modo esclusivo per loro né avevano un DNA speciale per scoprirla. Come ha
ben riconosciuto un padre della Chiesa, i magi non si misero in cammino perché avevano visto la
stella ma videro la stella perché si erano messi in cammino (cfr San Giovanni Crisostomo).
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Avevano il cuore aperto all’orizzonte e poterono vedere quello che il cielo mostrava perché c’era in
loro un desiderio che li spingeva: erano aperti a una novità.
I magi, in tal modo, esprimono il ritratto dell’uomo credente, dell’uomo che ha nostalgia di Dio; di
chi sente la mancanza della propria casa, la patria celeste. Riflettono l’immagine di tutti gli uomini
che nella loro vita non si sono lasciati anestetizzare il cuore.
La santa nostalgia di Dio scaturisce nel cuore credente perché sa che il Vangelo non è un
avvenimento del passato ma del presente. La santa nostalgia di Dio ci permette di tenere gli occhi
aperti davanti a tutti i tentativi di ridurre e di impoverire la vita. La santa nostalgia di Dio è la
memoria credente che si ribella di fronte a tanti profeti di sventura. Questa nostalgia è quella che
mantiene viva la speranza della comunità credente che, di settimana in settimana, implora dicendo:
«Vieni, Signore Gesù!».
Fu proprio questa nostalgia a spingere l’anziano Simeone ad andare tutti i giorni al tempio,
sapendo con certezza che la sua vita non sarebbe terminata senza poter tenere in braccio il
Salvatore. Fu questa nostalgia a spingere il figlio prodigo a uscire da un atteggiamento distruttivo e
a cercare le braccia di suo padre. Fu questa nostalgia che il pastore sentì nel suo cuore quando lasciò
le novantanove pecore per cercare quella che si era smarrita, e fu anche ciò che sperimentò Maria
Maddalena la mattina della domenica per andare di corsa al sepolcro e incontrare il suo Maestro
risorto. La nostalgia di Dio ci tira fuori dai nostri recinti deterministici, quelli che ci inducono a
pensare che nulla può cambiare. La nostalgia di Dio è l’atteggiamento che rompe i noiosi
conformismi e spinge ad impegnarsi per quel cambiamento a cui aneliamo e di cui abbiamo
bisogno. La nostalgia di Dio ha le sue radici nel passato ma non si ferma lì: va in cerca del futuro. Il
credente “nostalgioso”, spinto dalla sua fede, va in cerca di Dio, come i magi, nei luoghi più
reconditi della storia, perché sa in cuor suo che là lo aspetta il Signore. Va in periferia, in frontiera,
nei luoghi non evangelizzati, per potersi incontrare col suo Signore; e non lo fa affatto con un
atteggiamento di superiorità, lo fa come un mendicante che non può ignorare gli occhi di colui per il
quale la Buona Notizia è ancora un terreno da esplorare.
Come atteggiamento contrapposto, nel palazzo di Erode (che distava pochissimi chilometri
da Betlemme), non si erano resi conto di ciò che stava succedendo. Mentre i magi camminavano,
Gerusalemme dormiva. Dormiva in combutta con un Erode che, invece di essere in ricerca, pure
dormiva. Dormiva sotto l’anestesia di una coscienza cauterizzata. E rimase sconcertato. Ebbe paura.
E’ lo sconcerto che, davanti alla novità che rivoluziona la storia, si chiude in sé stesso, nei suoi
risultati, nelle sue conoscenze, nei suoi successi. Lo sconcerto di chi sta seduto sulla ricchezza senza
riuscire a vedere oltre. Uno sconcerto che nasce nel cuore di chi vuole controllare tutto e tutti. E’ lo
sconcerto di chi è immerso nella cultura del vincere a tutti i costi; in quella cultura dove c’è spazio
solo per i “vincitori” e a qualunque prezzo. Uno sconcerto che nasce dalla paura e dal timore
davanti a ciò che ci interroga e mette a rischio le nostre sicurezze e verità, i nostri modi di attaccarci
al mondo e alla vita. E così Erode ebbe paura, e quella paura lo condusse a cercare sicurezza nel
crimine: «Necas parvulos corpore, quia te necat timor in corde» (SAN QUODVULTDEUS, Sermo 2 sul
simbolo: PL 40, 655). Uccidi i bambini nel corpo, perché a te la paura uccide il cuore.
Vogliamo adorare. Quegli uomini vennero dall’Oriente per adorare, e vennero a farlo nel
luogo proprio di un re: il Palazzo. E questo è importante: lì essi giunsero con la loro ricerca: era il
luogo idoneo, perché è proprio di un Re nascere in un palazzo, e avere la sua corte e i suoi sudditi.
E’ segno di potere, di successo, di vita riuscita. E ci si può attendere che il re sia venerato, temuto e
adulato, sì; ma non necessariamente amato. Questi sono gli schemi mondani, i piccoli idoli a cui
rendiamo culto: il culto del potere, dell’apparenza e della superiorità. Idoli che promettono solo
tristezza, schiavitù, paura.
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E fu proprio lì dove incominciò il cammino più lungo che dovettero fare quegli uomini
venuti da lontano. Lì cominciò l’audacia più difficile e complicata. Scoprire che ciò che cercavano
non era nel Palazzo ma si trovava in un altro luogo, non solo geografico ma esistenziale. Lì non
vedevano la stella che li conduceva a scoprire un Dio che vuole essere amato, e ciò è possibile
solamente sotto il segno della libertà e non della tirannia; scoprire che lo sguardo di questo Re
sconosciuto – ma desiderato – non umilia, non schiavizza, non imprigiona. Scoprire che lo sguardo
di Dio rialza, perdona, guarisce. Scoprire che Dio ha voluto nascere là dove non lo aspettavamo,
dove forse non lo vogliamo. O dove tante volte lo neghiamo. Scoprire che nello sguardo di Dio c’è
posto per i feriti, gli affaticati, i maltrattati, gli abbandonati: che la sua forza e il suo potere si
chiama misericordia. Com’è lontana, per alcuni, Gerusalemme da Betlemme!
Erode non può adorare perché non ha voluto né potuto cambiare il suo sguardo. Non ha
voluto smettere di rendere culto a sé stesso credendo che tutto cominciava e finiva con lui. Non ha
potuto adorare perché il suo scopo era che adorassero lui. Nemmeno i sacerdoti hanno potuto
adorare perché sapevano molto, conoscevano le profezie, ma non erano disposti né a camminare né
a cambiare.
I magi sentirono nostalgia, non volevano più le solite cose. Erano abituati, assuefatti e
stanchi degli Erode del loro tempo. Ma lì, a Betlemme, c’era una promessa di novità, una promessa
di gratuità. Lì stava accadendo qualcosa di nuovo. I magi poterono adorare perché ebbero il
coraggio di camminare e prostrandosi davanti al piccolo, prostrandosi davanti al povero,
prostrandosi davanti all’indifeso, prostrandosi davanti all’insolito e sconosciuto Bambino di
Betlemme, lì scoprirono la Gloria di Dio.
ANGELUS DOMINI
Parole del Santo Padre in occasione della preghiera dell’Angelus
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Celebriamo oggi l’Epifania del Signore, cioè la manifestazione di Gesù che risplende come
luce per tutte le genti. Simbolo di questa luce che splende nel mondo e vuole illuminare la vita di
ciascuno è la stella, che guidò i Magi a Betlemme. Essi, dice il Vangelo, videro «spuntare la sua
stella» (Mt 2,2) e scelsero di seguirla: scelsero di farsi guidare dalla stella di Gesù.
Anche nella nostra vita ci sono diverse stelle, luci che brillano e orientano. Sta a noi
scegliere quali seguire. Per esempio, ci sono luci intermittenti, che vanno e vengono, come le
piccole soddisfazioni della vita: anche se buone, non bastano, perché durano poco e non lasciano la
pace che cerchiamo. Ci sono poi le luci abbaglianti della ribalta, dei soldi e del successo, che
promettono tutto e subito: sono seducenti, ma con la loro forza accecano e fanno passare dai sogni
di gloria al buio più fitto. I Magi, invece, invitano a seguire una luce stabile, una luce e gentile, che
non tramonta, perché non è di questo mondo: viene dal cielo e splende… dove? Nel cuore.
Questa luce vera è la luce del Signore, o meglio, è il Signore stesso. Egli è la nostra luce:
una luce che non abbaglia, ma accompagna e dona una gioia unica. Questa luce è per tutti e chiama
ciascuno: possiamo così sentire rivolto a noi l’odierno invito del profeta Isaia: «Alzati, rivestiti di
luce» (60,1). Così diceva Isaia, profetizzando questa gioia di oggi a Gerusalemme: “Alzati, rivestiti
di luce”. All’inizio di ogni giorno possiamo accogliere questo invito: alzati, rivestiti di luce, segui
oggi, tra le tante stelle cadenti nel mondo, la stella luminosa di Gesù! Seguendola, avremo la gioia,
come accadde ai Magi, che «al vedere la stella, provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10); perché
dove c’è Dio c’è gioia. Chi ha incontrato Gesù ha sperimentato il miracolo della luce che squarcia le
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tenebre e conosce questa luce che illumina e rischiara. Vorrei, con tanto rispetto, invitare tutti a non
avere paura di questa luce e ad aprirsi al Signore. Soprattutto vorrei dire a chi ha perso la forza di
cercare, è stanco, a chi, sovrastato dalle oscurità della vita, ha spento il desiderio: alzati, coraggio, la
luce di Gesù sa vincere le tenebre più oscure; alzati, coraggio!
E come trovare questa luce divina? Seguiamo l’esempio dei Magi, che il Vangelo descrive
sempre in movimento. Chi vuole la luce, infatti, esce da sé e cerca: non rimane al chiuso, fermo a
guardare cosa succede attorno, ma mette in gioco la propria vita; esce da sé. La vita cristiana è un
cammino continuo, fatto di speranza, fatto di ricerca; un cammino che, come quello dei Magi,
prosegue anche quando la stella sparisce momentaneamente dalla vista. In questo cammino ci sono
anche delle insidie che vanno evitate: le chiacchiere superficiali e mondane, che frenano il passo; i
capricci paralizzanti dell’egoismo; le buche del pessimismo, che intrappola la speranza. Questi
ostacoli bloccarono gli scribi, di cui parla il Vangelo di oggi. Essi sapevano dov’era la luce, ma non
si mossero. Quando Erode chiede loro: “Dove dovrà nascere il Messia?” – “A Betlemme!”.
Sapevano dove, ma non si mossero. La loro conoscenza è stata vana: sapevano tante cose, ma per
niente, tutto vano. Non basta sapere che Dio è nato, se non si fa con Lui Natale nel cuore. Dio è
nato, sì, ma è nato nel tuo cuore? E’ nato nel mio cuore? E’ nato nel nostro cuore? E così lo
troveremo, come i Magi, con Maria, Giuseppe, nella stalla.
I Magi lo hanno fatto: trovato il Bambino, «si prostrarono e lo adorarono» (v. 11). Non lo
guardarono soltanto, non dissero solo una preghiera di circostanza e se ne sono andati, no, ma
adorarono: entrarono in una comunione personale di amore con Gesù. Poi gli donarono oro,
incenso e mirra, ovvero i loro beni più preziosi. Impariamo dai Magi a non dedicare a Gesù solo i
ritagli di tempo e qualche pensiero ogni tanto, altrimenti non avremo la sua luce. Come i Magi,
mettiamoci in cammino, rivestiamoci di luce seguendo la stella di Gesù, e adoriamo il Signore con
tutto noi stessi.
DOPO-ANGELUS
Domani le comunità ecclesiali dell’Oriente che seguono il Calendario Giuliano celebreranno
il Santo Natale. In spirito di gioiosa fraternità auguro che la nuova nascita del Signore Gesù le
ricolmi di luce e di pace.
L’Epifania è la Giornata dell’Infanzia Missionaria. Incoraggio tutti i bambini e i ragazzi che
in tante parti del mondo si impegnano a portare il Vangelo e ad aiutare il loro coetanei in difficoltà.
Saluto quelli che oggi sono venuti qui da Lazio, Abbruzzo e Molise, e ringrazio la Pontificia Opera
dell’Infanzia Missionaria per questo servizio educativo.
Saluto i partecipanti al corteo storico-folcloristico, che quest’anno è dedicato alle terre
dell’Umbria meridionale e che si propone di diffondere i valori di solidarietà e fratellanza.
Saluto i gruppi venuti da Malta, dalla California e dalla Polonia; ed estendo la mia
benedizione ai partecipanti al grande Corteo dei Re Magi che si svolge a Varsavia con tante
famiglie e tanti bambini.
Saluto i fedeli di Ferrara, Correggio, Ruvo di Puglia, Robecco sul Naviglio e Cucciago;
come pure i cresimandi di Rosolina e di Romano di Lombardia, i ministranti della diocesi di Asti, i
ragazzi di Cologno al Serio, e gli amici e volontari della Fraterna Domus.
I Magi offrono a Gesù i loro doni, ma in realtà Gesù stesso è il vero dono di Dio: Lui infatti
è il Dio che si dona a noi, in Lui noi vediamo il volto misericordioso del Padre che ci aspetta, ci
accoglie, ci perdona sempre; il volto di Dio che non ci tratta mai secondo le nostre opere o secondo
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i nostri peccati, ma unicamente secondo l’immensità della sua inesauribile misericordia. E parlando
di doni, anche io ho pensato di farvi un piccolo dono… mancano i cammelli, ma vi darò il dono. Il
libretto “Icone di misericordia”. Il dono di Dio è Gesù, misericordia del Padre; e per questo, per
ricordare questo dono di Dio, vi darò questo dono che vi verrà distribuito dai poveri, dai senzatetto
e dai profughi insieme a molti volontari e religiosi che saluto cordialmente e ringrazio di vero
cuore.
Vi auguro un anno di giustizia, di perdono, di serenità ma soprattutto un anno di
misericordia. Vi aiuterà leggere questo libro: è tascabile, potete portarlo con voi.
Per favore, non vi scordate di farmi anche voi il dono della vostra preghiera. Il Signore vi
benedica. Buona festa, buon pranzo e arrivederci!
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INFORMAZIONE
AGENDA DEL PAPA
TWEET: TRATTIAMOCI CON CARITÀ E NONVIOLENZA (RADIOGIORNALE DELLA
RADIO VATICANA DEL 05.01.16)
Papa Francesco ha pubblicato oggi un nuovo tweet sull’account @pontifex in nove lingue: “Che
siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri”.
2017, UNE ANNÉE DE CONSOLIDATION POUR LE PAPE FRANÇOIS (LA CROIX DEL
05.01.17)
Après une année 2016 marquée par le Jubilé de la miséricorde et l’exhortation Amoris laetitia,
François va surtout s’attacher, en 2017, à consolider ses réformes.
ZOOM
Pour le pape François, l’année 2017 va débuter dès la semaine prochaine avec, après la clôture des
fêtes de Noël, ce vendredi à l’occasion de la célébration de l’Épiphanie, le discours au corps
diplomatique, lundi matin 9 janvier.Ce rendez-vous traditionnel sera l’occasion pour François d’un
vaste tour d’horizon sur la situation internationale pour laquelle le pape a été particulièrement
sollicité en 2016, que ce soit au Venezuela ou en Colombie, au Moyen-Orient ou, dernièrement, en
RD-Congo.
Il devrait aussi évoquer la question des migrants qui, de l’aveu d’un diplomate européen, est
aujourd’hui une question clivante entre le pape et les États de l’Union européenne.
LES VISITES AD LIMINA
Mais, après une année 2016 marquée par le Jubilé de la Miséricorde et la publication de
l’encyclique Amoris laetitia, 2017 devrait surtout être, pour François, une année de consolidation
des réformes entreprises depuis le début du pontificat.
Comme le pape l’avait lui-même relevé dans l’avion du retour de Géorgie et d’Azerbaïdjan, en
octobre 2016, les visites ad limina – ces voyages à Rome que les évêques du monde sont tenus de
faire tous les 5 ans – avaient été suspendues pendant le Jubilé.
« Je dois donc faire, l’année prochaine, les visites ad limina de deux années en une», avait-il
expliqué. Ce qui remplira donc singulièrement l’agenda pontifical.
Les visites ad limina devrait commencer dès le 15 janvier avec l’arrivée, à Rome, des évêques
d’Irlande.
Les évêques du Salvador sont, quant à eux attendus fin mars. Ils pensent, à cette occasion, en
apprendre plus sur l’éventuelle canonisation du bienheureux Oscar Romero qu’ils espèrent voir être
canonisé par le pape François, en août prochain à San Salvador.
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UN AGENDA DES VOYAGES ENCORE FLOU
L’agenda des voyages pontificaux est d’ailleurs, pour le moment, singulièrement flou. Seul le court
pèlerinage des 12 et 13 mai à Fatima (Portugal), pour le centenaire des apparitions mariales, a été
officiellement confirmé.
Toujours dans l’avion qui le ramenait de Bakou (Azerbaïdjan), le pape avait aussi évoqué un
voyage « quasi sûr » en Inde et au Bangladesh. « Les dates ne sont pas encore fixées mais nous
projetons le voyage à la fin de l’année 2017 », expliquait en décembre le cardinal Patrick
D’Rozario, archevêque de Dacca, à l’agence Églises d’Asie.
Le pape a aussi évoqué un voyage en Afrique – sans qu’aucun lieu ni date ne soient précisés –
tandis qu’aucune précision n’a été fournie sur les voyages, eux aussi cités par François, en
Colombie et en France.
Primat d’Italie, le pape François reprendra par contre en 2017 ses visites pastorales dans la
péninsule : il se rendra ainsi à Milan le 25 mars et à Gênes le 27 mai.
LES VISITES PASTORALES
Ces deux voyages italiens seront aussi pour lui l’occasion de saluer deux grandes figures de
l’épiscopat italien : le cardinal Angelo Scola (qui, ayant passé l’âge de la retraite épiscopale, devrait
bientôt être remplacé sur le siège milanais), et le cardinal Angelo Bagnasco (le mandat de
l’archevêque de Gênes à la tête de la conférence épiscopale italienne arrivant à son terme).
C’est donc vers le mois de mai que la Conférence épiscopale italienne (CEI) devrait élire son
nouveau président selon la nouvelle procédure voulue par François : alors que, jusqu’ici, le pape
nommait directement le président de la CEI, celui-ci sera choisi par les évêques italiens eux-mêmes
sur une liste de trois noms proposée par l’évêque de Rome.
Comme évêque de Rome, justement, François reprendra aussi en 2017 les visites pastorales dans les
paroisses de son diocèse. Dès le dimanche 15 janvier, le pape se rendra ainsi à la paroisse Santa
Maria a Setteville, dans la grande banlieue Est de la ville.
UN NOUVEAU DICASTÈRE
En outre, au cours de cette année qui a vu, le 1er janvier, la mise en place du nouveau dicastère pour
le développement humain intégral et la fusion effective, au sein du Secrétariat pour la
communication, de Radio Vatican et du Centre de télévision du Vatican, le travail de réforme de la
Curie devrait se poursuivre.
Dans son discours à la Curie, le pape avait souligné les lignes directrices de cette réforme qu’il
envisage moins comme un changement d’organigramme que comme une conversion personnelle
dans un esprit plus pastoral et missionnaire.
UN SYNODE DES ÉVÊQUES
Enfin, 2017 sera marquée par la préparation du Synode des évêques prévu en 2018 sur la question
des jeunes et des vocations. Un questionnaire élaboré par le Secrétariat général du Synode doit
prochainement être envoyé aux diocèses.
CHIESA NEL MONDO
IL SETTIMANALE IN LINGUA ITALIANA RINNOVATO. DI GIAN MARIA VIAN
(L’OSSERVATORE ROMANO DEL 06.01.17)
Nuova e antica si presenta da oggi l’edizione settimanale in italiano dell’Osservatore Romano.
Nuova perché accentua alcune caratteristiche rispetto al quotidiano, in coerente sviluppo con il
continuo rinnovamento della testata della Santa Sede e nel quadro dell’attuale necessaria riforma
dei media vaticani. Antica perché ha quasi settant’anni di vita: il primo numero uscì infatti il 19
gennaio 1948, aprendo la strada alle altre sei in diverse lingue, quasi tutte nate poco dopo il
concilio, certo non per caso. Nuova per la sua linea editoriale aperta e per la sua grafica ariosa,
ispirate a quelle del quotidiano e soprattutto del mensile «donne chiesa mondo», che ogni mese sarà
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allegato. Antica perché alcuni suoi elementi si ritrovano anticipati nei periodici illustrati pubblicati
dagli anni trenta nel minuscolo Stato appena costituito, in particolare nella rivista settimanale uscita
per quasi mezzo secolo.
La struttura del settimanale si articolerà così nelle quattro sezioni del quotidiano: informazione
vaticana, internazionale, culturale e religiosa. Naturalmente le notizie vaticane resteranno
fondamentali, con una documentazione dei testi papali selezionata rispetto a quella completa
pubblicata dal quotidiano (e facilmente reperibile sui siti del giornale e della Santa Sede) e con una
panoramica dell’attività del Pontefice. Le altre tre sezioni offriranno una scelta di articoli usciti sul
quotidiano. Ciascuna sezione sarà arricchita da nuove rubriche nelle quali si alterneranno laici e
cattolici (Luciano Violante e Antonio Zanardi Landi per l’internazionale, Dario Fertilio e Roberto
Righetto per l’attualità culturale), e contributi scritti da esponenti di religioni e confessioni cristiane
diverse (Zouhir Louassini, Anna Foa, Marcelo Figueroa, Gualtiero Bassetti), con una meditazione
di Enzo Bianchi sul brano evangelico domenicale.
Nato da un confronto appassionato tra colleghe e colleghi che collaborano al quotidiano e al
mensile, il settimanale rinnovato vuole nella sua specificità integrare l’informazione quotidiana
dell’Osservatore Romano, oggi accessibile per intero e gratuitamente sul suo sito, e ovviare anche
in questo modo alla cronica «ristrettezza del suo raggio di diffusione» di cui scriveva già più di
mezzo secolo fa il cardinale Montini. Con lo scopo di farsi eco giornalistica del Papa, «un uomo
che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l’adorazione di Gesù Cristo» sta aiutando «la
Chiesa a uscire da se stessa», secondo la radicale descrizione missionaria che ne diede l’arcivescovo
di Buenos Aires quattro giorni prima di essere eletto successore dell’apostolo Pietro.
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STAMPA E AGENZIE
ARTICOLI E DOCUMENTI
USO E ABUSO DEI SOCIAL MEDIA ATTENZIONE AL CINGUETTIO DI ANTONIO
ZANARDI LANDI (L’OSSERVATORE ROMANO DEL 06.01.17)
Nella tarda serata del 3 gennaio l’agenzia statale cinese Xinhua ha pubblicato un commento molto
critico nei confronti della Twitter diplomacy del presidente eletto Donald Trump, che poche ore
prima aveva diffuso un tweet con cui accusava Pechino di non sostenere gli Stati Uniti nello sforzo
di contenere le ambizioni nucleari della Corea del Nord. In realtà il commento riflette un marcato
disagio non solo per il contenuto di svariate dichiarazioni di Trump su temi molto sensibili per i
cinesi, ma anche per le modalità di “diffusione immediata e globale” tramite i social media, che si
pone all’opposto della tradizione di riservatezza e di toni contenuti propria della diplomazia cinese.
Si pensi che il presidente Xi Jinping ha in vita sua utilizzato una sola volta i social media con un
post sul sito Weibo (l’equivalente di Twitter, non consentito in Cina) delle forze armate a seguito di
una sua visita a comandi e installazioni militari.
L’articolo di Xinhua, intitolato Addiction to Twitter diplomacy is unwise, cita d’altra parte
autorevoli figure pubbliche americane, tra cui Madeleine Albright, che hanno di recente criticato
l’uso che Trump fa dei social media e lascia chiaramente intendere di considerare il modo di
comunicare del prossimo presidente degli Stati Uniti come un ostacolo alla ricerca di soluzioni
equilibrate e pacifiche ai non pochi problemi presenti nelle relazioni bilaterali.
Da un punto di vista generale, è in effetti ormai banale sottolineare che la comunicazione via rete
sta profondamente cambiando il nostro modo di apprendere, rendendo le nostre conoscenze più
vaste, ma spesso anche più superficiali. Stanno cambiando le dinamiche del rapporto tra paesi e tra
entità non statuali, come abbiamo potuto constatare dai devastanti effetti del messaggio del
fondamentalismo terrorista diffuso tramite comunicazioni criptate o accessibili a tutti.
E stanno mutando radicalmente le modalità e il tono del dibattito politico all’interno dei singoli
paesi e tra i leader della vita internazionale. È forse quest’ultimo aspetto quello che sta avendo gli
effetti più destabilizzanti per il mondo che abbiamo conosciuto e per il futuro della politica nel
mondo occidentale. Nessun attore della politica nei paesi occidentali sembra oggi essere in grado di
far a meno di Twitter e indubbiamente la comunicazione “cinguettata” consente di stabilire un
collegamento diretto, e non mediato, con l’opinione pubblica e gli elettori, ma nel far questo
inevitabilmente superficializza il messaggio o lo rende apodittico e radicale.
Anche Papa Francesco comunica sui social, ma sembra essere il solo in grado di contenere nei 140
caratteri dei suoi tweet idee e concetti, sul fondamento del Vangelo, che si rivolgono all’animo e
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alla coscienza. La quasi totalità sembra invece utilizzare la comunicazione in rete non per
trasmettere delle idee, ma semplicemente per affermare la propria esistenza, in altre parole per
“esserci”. La lettura dei tweet dei leader europei ripresa dalle agenzie è esercizio avvilente e
conferma la percezione della profondità della crisi che il nostro continente sta attraversando.
Deplorazioni, partecipazione, preoccupazione, compiacimento e fiducia sono espressioni
debordanti, mentre sono quasi del tutto assenti le risposte ai quesiti e alle angosce dei nostri giorni.
Dare in 140 caratteri una risposta ai problemi della contemporaneità sarebbe effettivamente
un’impresa sovrumana e quasi impossibile. L’effetto è una banalizzazione scoraggiante di questioni
complesse e non riducibili nello spazio di un “cinguettio”, con una percezione fuorviata e
peggiorativa delle capacità dei leader europei, che si occupano, spesso con competenza e passione,
di temi gravi e importanti per la vita nostra e per quella dei nostri figli.
Assistiamo peraltro a esempi di utilizzazione con pieno successo nel campo della politica interna di
molti paesi di Twitter, Facebook o YouTube da parte di alcuni, e il già citato neoeletto presidente
degli Stati Uniti ne è l’esempio più eclatante. Soprattutto con YouTube lancia messaggi
efficacissimi e che sono stati capaci di sconvolgere ogni previsione sul risultato delle recenti
elezioni, ma si tratta di messaggi che non consentono alcun contraddittorio e neppure di porre
domande. Se questo sarà un bene per il paese che è un modello di democrazia, si potrà giudicare tra
qualche anno.
Lasciando dunque da parte il caso Trump, non possiamo non rilevare che l’uso e l’abuso dei social
media sta provocando un appiattimento sull’oggi e una ricerca di un consenso quasi giornaliero che
impoverisce drammaticamente il dibattito politico e lo priva di ogni prospettiva di largo respiro, con
una percepibile disaffezione degli elettori, se non di quelli entrati in un meccanismo perverso che si
alimenta dello scontento e ne crea di nuovo e più aspro.
Insomma, i social media, che ben si possono prestare a proporre e diffondere sentimenti negativi,
oltre al nazionalismo più spinto e al rigetto del diverso, mal si prestano invece al dibattito nelle
democrazie avanzate. Quello che è apparso, e che ancora potrebbe essere, come uno strumento
efficacissimo di condivisione e di partecipazione popolare alla politica si sta invece trasformando in
un pericoloso fattore di disaffezione e di paralisi del dibattito pubblico e del funzionamento delle
democrazie, creando uno iato di efficacia rispetto a paesi più autoritari e meno democratici.
Oggi, di fronte a prospettive molto preoccupanti per il futuro, i cittadini hanno davvero bisogno di
un dibattito serio sulle prospettive di medio e di lungo periodo. E si vorrebbe ascoltare la voce della
rete, certo, ma soprattutto, articolata e chiara, quella degli eletti e dei responsabili dei grandi corpi
intermedi delle società.
SEMPRE PIÙ DONNE NELLE CARCERI DELL’AMERICA LATINA TRA LORO MOLTE
SONO STATE SFRUTTATE COME LE “MULE” DAI TRAFFICANTI DI DROGA
(L’OSSERVATORE ROMANO DEL 06.01.17)
Lo scontro scoppiato il primo gennaio tra due gruppi rivali in un carcere del Brasile è terminato in
un bagno di sangue. Sessanta persone hanno perso la vita e sei detenuti sono stati selvaggiamente
decapitati. Quella del primo giorno dell’anno è stata una delle sommosse più sanguinose dopo la
ribellione nella prigione Carandiru a San Paolo, in cui morirono 111 detenuti, la maggior parte di
loro negli scontri con la polizia. L’anno che è appena cominciato dovrà essere decisivo per evitare
una situazione di collasso più o meno generalizzato del sistema carcerario nei paesi latinoamericani.
Un collasso che determina un quotidiano trattamento disumano e degradante alla persona detenuta e
innumerevoli sofferenze in più, non previste in nessuna sentenza di condanna. Oggi, nelle carceri
dell’America latina ci sono sempre più donne: in soli quindici anni la popolazione carceraria
femminile è aumentata del 51,6 per cento e continua a crescere con un ritmo allarmante, che
insieme a quello dell’Asia supera qualsiasi altra parte del mondo.
In alcuni istituti di pena del continente la cifra è aumentata addirittura del 271 per cento tra il 1989 e
il 2015, e soltanto in Brasile del 290 per cento dal 2005 al 2015. La maggior parte sono accusate di
spaccio o trasporto di droghe su piccola scala, e in paesi come Argentina, Brasile, Costa Rica e Perú
più del 60 per cento della popolazione femminile nei penitenziari si trova lì per questo tipo di reato.
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In stragrande maggioranza le prigioniere sono madri single, che rimangono invischiate nel
commercio di droghe per poter mantenere i figli, e quando vengono arrestate perdono il contatto
con loro; situazione che ha un fortissimo impatto sulla crescita dei bambini.
Lo spaccio e il trasporto sono due cose molto diverse nel mondo della commercializzazione della
droga. Il primo riguarda donne molto povere, che operano in circoli ristretti, in particolare nei
quartieri disagiati dove vivono e per lo più vendono marijuana. Il trasporto è invece un fenomeno
molto più vario e articolato. In gergo le donne che trasportano droghe vengono chiamate le “mule”
e rappresentano il gradino più basso della catena dei narcotrafficanti: questo dato determina una
vera e propria mutazione di genere nell’utilizzo di manodopera nelle reti della distribuzione.
In entrambi i casi, la maggior parte di queste donne è poco istruita, vive in condizioni di povertà ed
è inserita in modo precario nel mondo del lavoro. Sono responsabili di altre persone — non solo i
figli, ma anche anziani o disabili — che dopo la loro incarcerazione rimangono esposte a situazioni
di abbandono ed emarginazione. Sono in gran parte a capo di famiglie monogenitoriali e si tratta di
«prime delinquenze», nel senso che prima di essere arrestate non avevano mai avuto conflitti con la
legge. Migliaia di donne latinoamericane negli ultimi dieci anni sono state condannate o indagate
anche per crimini minori relativi alla droga: perché la coltivano, perché la distribuiscono (“fanno le
mule”) o anche solo perché ne possiedono in quantità che eccedono l’uso personale. Nelle carceri
colombiane oggi ci sono 3861 donne arrestate per crimini legati alla droga (il 46 per cento del
totale), delle quali 3153 (l’81 per cento) per coltivazione, trasformazione, possesso o
compravendita, senza che abbiano mai avuto comportamenti violenti o commesso altri crimini, e
senza che sia stata dimostrata la loro appartenenza a un’organizzazione criminale. Si tratta per la
maggior parte di donne povere, con scarse opportunità: il 76 per cento delle detenute in Colombia
non ha nemmeno potuto terminare le superiori.
I dati sono stati raccolti dall’Institute for Criminal Policy Research e rielaborati per il monitoraggio
annuale del rapporto «Donne, politiche sulle droghe e carcere», creato da varie organizzazioni
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internazionali tra cui la Commissione interamericana delle donne (Cim), che fa parte
dell’Organizzazione degli stati americani (Osa). Il quadro descritto è preoccupante, si arriva ad
affermare che «la situazione delle carceri latinoamericane è uno dei principali problemi di diritti
umani della regione», e sembra peggiorare con il tempo.
Secondo i dati ufficiali, il Brasile è il paese con la maggiore sovrappopolazione carceraria, con
607.000 detenuti in un sistema che può contenerne 310.000, il quarto paese con più reclusi dopo la
Russia, la Cina e gli Stati Uniti. Il 59 per cento del totale dei detenuti attende il giudizio accanto ai
già condannati, per via della lentezza dei processi, e questa è considerata una violazione dei diritti
internazionali. Dei dieci paesi con la maggiore sovrappopolazione carceraria del mondo, quattro
sono latinoamericani.
Haiti ha una percentuale di occupazione carceraria del 416 per cento, El Salvador del 320 per cento,
il Venezuela del 270 per cento, la Bolivia del 256 per cento e in Paraguay la sovrappopolazione
raggiunge il 131 per cento, secondo i dati del Centro internazionale di studi penitenziari
dell’università di Essex (Icps). L’affollamento nelle celle e i numerosi casi di violenza, la creazione
di sistemi di stampo mafioso nelle carceri e la mancanza di risposta da parte del sistema giudiziario
che dovrebbe emettere sentenze sono solo una parte della gravità del problema. Il centro denuncia
che «le forze motrici» che stanno dietro agli «esorbitanti tassi di incarcerazione» sono le leggi sulle
droghe «estremamente punitive» e l’imposizione di «pene sproporzionate» al tipo di reato e alla
pericolosità sociale.
Al momento la maggior parte degli istituti di pena in America latina non ha nemmeno i requisiti
minimi di luce e igiene e spesso maternità e femminilità non sono tutelate. Il rapporto tenta di
attirare l’attenzione dei governi affinché introducano riforme nelle leggi sulla droga, concentrandosi
sui diritti umani e la prospettiva di genere.
«Bisogna pensare seriamente che una persona costretta dalla sua realtà socio-economica a mettere
in pericolo la propria vita per una somma spesso insignificante potrebbe rappresentare un tipo di
sfruttamento lavorativo paragonabile alla tratta di esseri umani». Ora la parola passa alla politica.
RADIO VATICANA
Radio Giornale delle ore 14,00 del 5 gennaio 2017
Il Radio Giornale delle ore 14 di oggi è disponibile sul sito ufficiale della Radio Vaticana entro le
ore 15 di Roma. Per accedervi è sufficiente cliccare sul collegamento qui di seguito, tenendo
schiacciato il tasto “Ctrl”: http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
MYANMAR: LA FOTO DI UN BIMBO SIMBOLO DEL DRAMMA DEI ROHINGYA
Ha fatto il giro del mondo la terribile foto del piccolo Mohammed, il bimbo Rohingya di 16 mesi
annegato mentre tentava con la sua famiglia di fuggire verso la salvezza in Bangladesh dal
turbolento Stato del Rakhine, nel Myanmar occidentale.
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Così come nel 2015 l’immagine del piccolo siriano Aylan, morto sulle coste della Turchia, scosse
molte coscienze in Europa sul dramma dell’immigrazione, potrebbe anche questa fotografia
accendere i riflettori su uno dei gruppi più perseguitati al mondo? Lo abbiamo chiesto al prof.
Stefano Caldirola, docente di Storia contemporanea dell’Asia all’Università di Bergamo:
R. – Si tratta chiaramente di una tragedia che senza dubbio non può far altro che colpire e
commuovere. È possibile che questa storia in qualche modo scuota l’opinione pubblica
internazionale sulla questione dei Rohingya, che ormai si è incancrenita da diversi anni e che è
molto trascurata dall’opinione pubblica, in particolare in Europa e negli Stati Uniti.
D. – Secondo l’Oim, negli ultimi mesi, 34mila Rohingya sono fuggiti dallo Stato di Rakhine, dove
la maggioranza dei birmani li considera immigrati illegali , verso il Bangladesh; anche l’Acnur ha
denunciato un’operazione militare molto cruenta nei loro confronti, che si sarebbe intensificata
negli ultimi mesi ...
R. – La situazione è estremamente difficile, ma lo è almeno dal 2012, da quando cioè si sono
verificati scontri interetnici e una vera e propria pulizia etnica in alcune zone dello Stato di Rakhine.
Dopodiché l’emergenza umanitaria è notevolmente cresciuta a partire dal 2015, quando abbiamo
sentito le notizie sui "boat people” che partivano dal Myanmar verso la Malaysia e l’Indonesia, con
un numero imprecisato di morti in mare. La situazione è peggiorata negli ultimi mesi, ma sono
poche le notizie che arrivano e che sono fatte filtrare, in seguito a un attacco ad alcuni posti di
polizia a ottobre. L’accusa è stata mossa da parte del governo birmano verso non ben precisati
militanti musulmani e in seguito a questo episodio c’è stata una vera e propria caccia all’uomo, in
una regione che negli ultimi anni era già stata devastata da violenze.
D. – Sulle accuse di violenze contro l’etnia Rohingya il governo ha creato una commissione
d’inchiesta che, finora, ha affermato di non aver trovato prove di abusi, ma che renderà noti i
risultati conclusivi solo a fine gennaio. Cosa è lecito aspettarsi?
R. – Poco, nel senso che questa commissione presieduta da un militare, peraltro molto discusso in
passato, ha già fatto filtrare una parte molto parziale dei risultati delle indagini, da cui risulterebbe
che non vi sono stati abusi quando invece, dalle fonti che provengono dalle testimonianze di diversi
Rohingya fuggiti in Bangladesh, sappiamo che ci sono state uccisioni arbitrarie, torture, stupri.
D. – Questa situazione pesa sul primo esecutivo eletto in Myanmar, in particolare sul Premio Nobel
per la Pace, Aung San Suu Kyi, leader del partito al governo…
R. – Indubbiamente pesa molto, anche perché Aung San Suu Kyi era già stata criticata prima di
andare al governo per alcune sue affermazioni relative alla questione dei Rohingya e per il suo
disinteresse per questa grave crisi umanitaria. Ora che Aung San Suu Kyi controlla il governo, di
fatto la situazione non è migliorata. Questo nuoce indubbiamente alla sua immagine in quanto
Premio Nobel per la Pace e a lungo considerata paladina dei diritti umani in Myanmar, ma getta
ombre anche sul futuro, perché il processo di democratizzazione e di armonizzazione tra le diverse
componenti etniche del Myanmar non comprende i Rohingya, che vengono ufficialmente
considerati dal governo birmano come “immigrati illegali”, nonostante la loro presenza nella
regione di Rakhine, un tempo chiamata “Arakan”, sia ormai molto datata. La negazione dei diritti di
questa popolazione, che conta oltre un milione di persone attualmente residenti nello Stato di
Rakhine, è sicuramente una delle ombre principali su un processo che non è solo di
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democratizzazione, ma anche di armonizzazione all’interno di una società, come quella birmana,
molto composita dal punto di vista etnico.
D. – La Chiesa locale, attraverso l’arcivescovo di Yangon, il cardinale Bo, non più tardi di pochi
giorni fa auspicava che il 2017 fosse per il Myanmar l’”anno della pace”. Quanta strada c’è ancora
da fare?
R. – Il percorso è ancora lungo. Sicuramente molto è stato fatto per quanto riguarda alcuni gruppi
etnici e alcune minoranze, ma il problema dei Rohingya dimostra chiaramente che ancora c’è molto
da fare. Va considerato, inoltre, che la questione Rohingya è poco presa in considerazione in
Occidente, ma compare spesso, invece, nelle cronache dei Paesi musulmani, in particolare in quelli
del Sud-est asiatico e questo sta creando e potrà creare anche in futuro frizioni e problemi tra il
Myanmar e alcuni Paesi vicini, come la Malaysia o l’Indonesia.
ISRAELE SI DIVIDE SULLA CONDANNA DEL SOLDATO AZARIA
Israele si divide sul caso di Elor Azaria, il soldato 21enne condannato da un tribunale militare di Tel
Aviv per l’assassinio a freddo di un assalitore palestinese che, ferito, giaceva a terra. Il militare
rischia fino a 20 anni di carcere. I giudici devono decidere nei prossimi giorni, probabilmente il 15
gennaio, quale pena comminare. Nel frattempo, però, il Paese è in preda alle proteste con, da una
parte, il premier Netanyahu, il governo e gli ultras di destra schierati al fianco del giovane e,
dall’altra, le forze di centrosinistra e parte della società che condannano il comportamento del
militare. Sul significato di questa condanna, abbiamo intervistato Janiki Cingoli, direttore del
Centro italiano per la pace in Medio Oriente:
R. – Intanto mette in luce il fatto che in Israele c’è democrazia, perché se c’è una sentenza che
condanna giustamente un soldato che ha ucciso a bruciapelo un palestinese che stava compiendo atti
terroristici, ma che era stato già neutralizzato e steso a terra, questo vuol dire che qualcosa funziona.
È stata importante, da questo punto di vista, la presa di posizione di Gadi Eizenkot, capo di Stato
maggiore dell’esercito, che ha detto che i soldati non sono dei figli di papà in preda a reazioni
emotive, ma sono soldati e come tali devono comportarsi, con tutto l’onore che questo comporta.
Questa presa di posizione di Eizenkot è stata importante, così come quella dell’ex ministro della
Difesa Moshe Ya'alon, che è stato poi dimissionato da Netanyahu, ma che ha difeso
l’incriminazione di questo soldato. Ora, seppur comprensibile da un punto di vista elettorale,
secondo me è abbastanza scandalosa la reazione di Netanyahu che, senza neanche attendere la
sentenza, ha chiesto che il soldato venisse graziato, ma questo può farlo o il ministro della Difesa,
Avidgor Lieberman, o il capo dello Stato, Reuven Rivlin. Credo che sia difficile una grazia
immediata. Tuttavia la pressione nella società israeliana è molto forte, così come è forte la tensione
dovuta ai recenti atti terroristici di lupi solitari che hanno aggredito i cittadini israeliani.
D. - Le ripercussioni di questo processo potrebbero essere pesanti una volta annunciata la pena? Da
una parte abbiamo gli ultras della destra e gran parte del mondo politico, dall’altra la sinistra
israeliana; e poi i palestinesi che, addirittura parlano di processo farsa messo in piedi da Israele
soltanto per evitare di essere portato davanti alla Corte internazionale di giustizia. Cosa ci si può
aspettare?
R. - Si deve tenere presente però che c’è anche la reazione dell’esercito, perché si è pronunciato
Eizenkot, il che in Israele non è che non conti nulla. Questo dipende da quale sarà la pena
annunciata il prossimo 15 gennaio e, secondo, se il soldato sarà graziato o meno. In questo
momento è in atto uno scontro tra principi democratici elementari e l’esigenza di unità nazionale, di
difesa dei sentimenti di reazione contro il pericolo, che in Israele è molto estesa e su cui fa leva
Netanyahu, così come fanno Naftali Bennett (Ministro dell'Economia e Ministro dei Servizi
Religiosi dell’attuale governo Netanyahu, nonché leader del partito La Casa Ebraica, ndr) e gli altri
alleati di centrodestra del governo. Occorre quindi capire che cosa succederà prima di dare un
giudizio su quelle che potranno essere le conseguenze di questa sentenza.
LASCIATECIENTRARE: NO A STRUTTURE DETENTIVE PER I MIGRANTI
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Il tema dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) sarà affrontato "in Conferenza StatoRegioni il 19 gennaio”. Lo ha affermato il ministro dell’Interno Marco Minniti, che ha precisato
come si stia pensando a “piccoli numeri, per non sovraccaricare il territorio con strutture troppo
grandi. Parliamo di 1.500/1.600 posti in tutto”. Abbiamo sentito Gabriella Guido, portavoce della
campagna LasciateCIEntrare, gruppo di giornalisti che negli anni ha avuto accesso a queste
strutture:
R. – I Cie così come sono stati concepiti - e per fortuna molti sono stati chiusi - sono luoghi dove
non solo la dignità, ma soprattutto la violazione dei diritti umani, era continua. Erano centri peggio
delle carceri e questo è stato detto anche dalle varie commissioni sui diritti umani, dalla
Commissione De Mistura e quant’altro. Il rimpatrio è possibile quando è stata accertata
l’identificazione di un migrante e quando il consolato convalida il fatto che quel cittadino sia di
nazionalità, ad esempio tunisino piuttosto che algerino o marocchino. Per cui ci sono dei tempi che
vanno rispettati. È evidente che questo meccanismo non ha funzionato nel passato, perché altrimenti
le espulsioni sarebbero state in numeri più elevati.
D. - Ma è davvero fattibile un’accoglienza più diffusa sul territorio invece?
R. - Si deve pensare in questa logica! Noi non capiamo perché negli altri Paesi europei, basi militari
o ex missilistiche che abbiano, 1500 migranti non esistono! L’accoglienza diffusa è semplicemente
e banalmente l’unico sistema che può funzionare. Chiediamoci perché gli Sprar vengono gestiti
benissimo e non ci sono rivolte, non c’è un business dell’accoglienza sugli Sprar che poi vengono
gestiti direttamente dai comuni e non da appalti dati dalle prefetture a cooperative che, come
vediamo, si ammantato di far parte del terzo settore ma sono semplicemente degli sciacalli.
D. - In base alla vostra esperienza, qual è l’esempio peggiore di Cie che avete visitato in passato?
R. - Il Cie di Gradisca era forse, davvero, uno dei peggiori. È stato chiuso nel 2014 a seguito della
morte di Majid, un ragazzo marocchino che durante una protesta è caduto dal tetto. Noi
presentammo oltre venti esposti e cinque procure della repubblica sul territorio italiano e nessuno ha
mai saputo di chi fosse la responsabilità di quella morte; il Cie di Bari, che è ora è chiuso, era un
altro lager a cielo aperto. Noi abbiamo potuto, anche con immagini che hanno fatto il giro del
mondo, far vedere che tipo di posto fosse; il Cie di Ponte Galeria … vi ricordate tutti tre anni fa la
protesta delle bocche cucite. Questi luoghi sono talmente disumanizzanti che non si possono
riformare!
NELLA FESTA DELL'EPIFANIA IL TRADIZIONALE CORTEO DI VIVA LA BEFANA
Domani sfilerà in Via della Conciliazione il tradizionale corteo storico folcloristico “Viva la
Befana” che arriverà in Piazza San Pietro dove parteciperà all’Angelus del Papa. Al microfono di
Giulia Angelucci, ascoltiamo il promotore dell’iniziativa Sergio Balestrini, presidente di Europae
Fami.li.a.:
R. – Il corteo quest’anno ha raggiunto la massima dimensione, anche come corposità folcloristica e
soprattutto simbolica; partirà alle 10.10 dall’inizio di Via della Conciliazione e sarà diretto verso
San Pietro. E quest’anno è molto importante perché vi partecipano addirittura cinque Comuni del
territorio umbro (tra cui Acquasparta); un territorio che è proprio ai confini dell’epicentro del
terremoto: delle città che vivono comunque nella paura… A queste cinque città sarà ispirato, come
tradizione, il corteo di “Viva la Befana”. Noi ogni anno cambiamo città, perché immaginiamo che
Gesù, nella universalità della Festa dell’Epifania e quindi della manifestazione di Gesù ai popoli
della terra, ogni anno nasca in un luogo diverso; e da quel luogo arrivano i Re Magi. Proprio per far
contenti i bambini, per la prima volta arriveranno su una carrozza del Cinquecento; saranno trainati
da un cavallo Shire, molto raro in Italia: è un cavallo che raggiunge e supera i mille kg. Proprio per i
bambini invece abbiamo invece un minicavallo che pesa neanche 55 kg. La caratteristica ancora di
quest’anno è che abbiamo la partecipazione della fanfara a cavallo dell’Arma dei Carabinieri; e ci
sarà la cerimonia dell’accoglienza. Noi vogliamo celebrare la Famiglia di Nazareth.
--- QUESTO BOLLETTINO È STATO CHIUSO ALLE ORE 13,00 DI ROMA ---
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