Il consumo di carne era più trasparente quando c`erano meno

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[LA STORIA DEL CIBO]
I
DI EMANUELE PICCARI
n macelleria c’è molta confusione. Il ministero delle Politiche agricole è dovuto
intervenire con una circolare per chiarire che solo i bovini fino a 8 mesi possono essere chiamati “vitelli”, almeno in Italia. Per i
bovini oltre gli 8 mesi l’unica denominazione di vendita obbligatoria è “bovino adulto”. Quella di “vitellone” è consentita per i
bovini tra gli 8 e i 12 mesi, ma accompagnata dalla denominazione “bovino adulto”.
La vicenda delle denominazioni delle car-
Il controllo degli
allevamenti viene
effettuato dai
veterinari delle Asl
a base provinciale.
Quando però vi è
il sospetto di una
sofisticazione,
intervengono i Nas
Il consumo di carne era più trasparente quando c’erano
LA FABBRICA
DELLA
BISTECCA
ni bovine è diventata una farsa. Ormai il consumatore non ci capisce più niente. Una volta (Regio decreto legge n. 1458/1930) i venditori dovevano esporre il cartello con la
specie esatta, cioè vitello, vitellone, manzo,
bue, vacca o toro. Poi, con la Ue, è cambiato
tutto. Dal 1˚ gennaio 1992 non figura più il
sesso dell’animale, ma solo i termini vitello
oppure bovino adulto. Il consumatore non
ha quindi la possibilità di riconoscere la carne di vacca o, meglio, di giovenca (la vacca
71 milioni
di tonnellate:
era il fabbisogno
mondiale
complessivo
nel 1961
meno norme. Oggi è una sorta di giungla
giovane che non ha partorito) ed è un peccato, perché generalmente si tratta di carni dibuona qualità. Una volta la carne di vacca
era considerata, a ragione, di qualità del
tutto scadente, costava poco, era acquistata dai consumatori poveri e ci furono
persino degli scandali, anche con inchieste giudiziarie, perché in qualche
ospedale veniva servita ai malati.
Allora questi animali erano sfruttati al massimo per la produzione
di latte e di vitelli (e anche per lavoro), poi venivano macellati in
vecchiaia, a 14-15 anni d’età,
in stato di denutrizione e malattie varie, per cui le carni
erano dure e tigliose, per
niente saporite e poco nutrienti. A quei tempi, ovvero nell’anteguerra e nell’immediato dopoguerra,
la vacca era anche riconoscibile, perché la carcassa
macellata, oltre al bollo sanitario, doveva riportare un
bollo speciale con l’indicazione
“vacca”. Oggi, invece, vitellone, manzo
(che non esiste più), vacca e toro sono tutti
classificati “bovini adulti” e, anche se nel registro di macellazione deve essere indicata
la categoria, quando sono in macelleria hanno tutti lo stesso nome.
Inoltre, da tempo chi entra in una macelleria non trova più le denominazioni dei vari tagli di carne bovina esposti sul banco, ovvero fesa, rosa, girello, eccetera. Veramente
non è mai stato obbligatorio indicarli, ma
2007:
il mondo
ne ha consumata
284 milioni
di tonnellate,
il quadruplo
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1 kg
di manzo
in tavola ha
consumato
l’energia di una
lampadina da 100
watt lasciata
accesa per
20 giorni
La zootecnia nel nostro Paese rappresenta una
importante voce economica: 25 miliardi di euro
una volta era usanza,
sia per correttezza
commerciale (ci sono tagli meno pregiati che devono costare di meno) sia per
dare al consumatore
la comodità della scelta del taglio più giusto per l’utilizzazione
che ne doveva fare; non ha senso comprare la
noce per fare il lesso. Fra l’altro, non esistono
e non sono mai esistite definizioni normative
sui vari tagli di carne bovina, per cui nelle città italiane c’è una confusione terribile, tranne per il filetto, che è
dappertutto chiamato così. Ma la fesa è
chiamata rosa a Milano, natica a Napoli,
scannello a Bologna e
sfasciatura a Palermo. Ecco qualche altro esempio.
Lombata biffo (Napoli), roast beef (Milano), sotto filetto (Torino), trinca (Palermo),
noce pescetto (Genova), bordone (Bologna), bausa (Palermo), soccoscio (Firen-
ze), boccia grande
(Torino), scamone
fetta (Bologna), colarda (Napoli), pezza (Roma), sotto cudata (Palermo), sottofesaculatta (Bologna), lacerto (Genova), dietro coscia
(Napoli), girello rotondino (Genova), lacerto (Napoli), magatello (Milano), coscia rotonda (Torino),
campanello pesce (Torino), piccione (Roma), gamba (Bologna).
Altra confusione o, meglio, raggiro, c’è al
ristorante, ove spesso si servono false “fiorentine”, da poco riammesse dalla Ue. Anche questo termine non è disciplinato da alcuna norma, per cui ognuno fa come gli pare, tuttavia secondo gli usi e consuetudini
per fiorentina si intende la lombata ottenuta dai bovini di razza Chianina, che stanno
in Toscana. Molti ristoranti dichiarano nel
menù di servire la fiorentina ma, tranne pochi locali, la supposta fiorentina che si mangia nei ristoranti (o che si compra in macelleria) è sempre una lombata o un controfiletto di bovino anonimo, presumibilmente
estero, dato che quasi la metà della carne
bovina viene importata. La vera fiorentina,
invece, è un’altra cosa: innanzi tutto, deve
pesare fra i 0,7 e 0,8 chili, perché è una lombata spessa due dita senza separazione del
filetto, tanto che è necessario dividerla almeno tra due persone; poi, come si è detto,
deve provenire da un bovino della razza
Chianina, che ha carni ottime e una corporatura più grande delle altre razze, dal che
derivano anche le dimensioni eccezionali
della lombata. Ma di bovi della razza Chianina esistono solo poco più di 250.000
esemplari, di cui una piccola parte viene
macellata annualmente e di cui solo
una piccola parte
delle carcasse è costituita dalle lombate. Volendo essere
pignoli, sempre secondo gli usi e consuetudini la fiorentina deve essere cotta alla brace di carbone, non alla piastra elettrica o sul
fuoco da gas, ma
questo è un dettaglio rispetto all’abuso di far pagare
una falsa fiorentina
come una vera. 왎
MA L’ORMONE SI NASCONDE
C
on l’uso di sostanze
ormonali gli alimenti
ingeriti dall’animale si
trasformano in più carne
magra e in meno grasso
perché si altera il normale
processo metabolico.
Il valore economico della
carcassa dipende dalla
quantità di carne magra,
quindi l’allevatore guadagna
di più, ma paradossalmente
è stato il consumatore a
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stimolare l’uso
di ormoni
chiedendo solo
carne magra,
preferibilmente
senza un filo di grasso.
Se il consumatore non
inverte le sue scelte
chiedendo carne grassa
(che dà più garanzie
sull’assenza di trattamenti),
la battaglia contro gli
ormoni diventa inutile,
anche perché è troppo
difficile scoprire e punire
gli allevatori che li usano.
Infatti, il decreto legislativo
n. 336/1999 prevede una
doppia analisi, per cui,
una volta effettuato il
campionamento, se risulta
la presenza di ormoni
occorre fare una seconda
analisi in un altro laboratorio
prima di procedere alla
denuncia. Dal primo
prelievo fino al momento
in cui è possibile fare
la denuncia intercorre
almeno un mese di tempo.
I veterinari che controllano
un allevamento di 200-300
animali, però, non possono
fare un prelievo su tutti:
ne fanno uno su 3, 4 o 5
animali. Chi invece
somministra sostanze
vietate è abbastanza
accorto e fa i trattamenti a
cicli e a gruppi, per cui se si
rileva qualche irregolarità,
cosa che accade sempre
più di rado, su 3-5 prelievi
si trova al massimo un
animale trattato. Questo
viene quindi
sottoposto alla
doppia analisi
e dopo un mese,
in base
al suddetto
decreto
legislativo n. 336/1999,
si torna a prelevare su un
numero consistente di
animali, che va dal 10 per
cento a calare se gli animali
sono tanti, fino ad arrivare
a 50 campioni. A questo
punto chi era in fallo
4,2
milioni di bovini
vengono macellati
ogni anno in Italia,
terza in Europa
per produzione
670
milioni i capi
allevati nel nostro
Paese, in 676 mila
allevamenti con
60 mila occupati
1.220
euro l’anno:
è la spesa media
degli italiani per
la carne, di cui
il 29% bovina
sicuramente ha cessato
la somministrazione del
prodotto proibito. Si va
davanti al giudice e non
sono più i veterinari che
accusano l’allevatore, ma è
quest’ultimo che chiede alla
Asl se egli deve giustificare
che un bovino su tanti è fuori
norma. Viene chiamata in
causa la famosa “variabilità
biologica”, per cui la
percentuale di un bovino su
tanti diventa a favore di chi
aveva utilizzato gli ormoni.
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