La dottrina sociale della Chiesa. Risorsa per una società plurale

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LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
RISORSA PER UNA SOCIETÀ PLURALE *
Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia
1. Il sì della fede
«Noi credenti sentiamo, nel fondo dell’anima, che chi definitivamente recherà a salvamento
la società presente, non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi una società di
santi» 1[1].
Questa espressione di Giuseppe Toniolo (1845–1918) rispecchia la lunga tradizione di
impegno e riflessione sociale che caratterizza il cattolicesimo italiano. Una tradizione che è stata
espressa e rafforzata in questi anni dal cammino delle Chiese in Italia. Ne sono conferma
significativa i Convegni Ecclesiali: Roma 1976, Loreto 1985, Palermo 1995 e Verona 2006. Non a
caso, infatti, la scelta dei Vescovi italiani ha voluto «dedicare tali eventi alla considerazione del
ruolo dei cristiani nel contesto della realtà storica in cui vivono e operano» 2[2]. In questo modo la
Chiesa in Italia ha favorito con notevole efficacia il necessario processo di recezione del dettato
conciliare di Gaudium et spes sia nel suo impianto antropologico espressamente riferito a Cristo
(cfr. GS 10, 12, 22, 32, 38-39, 40-41, 45) che nella trattazione dei temi scottanti che – come la
stessa Costituzione aveva previsto – saranno sempre bisognosi di sviluppo e di apertura al nuovo 3[3].
Le nostre considerazioni, pertanto, vogliono esplicitamente riprendere questo cammino,
soprattutto a partire dalle preziose indicazioni di Benedetto XVI nel suo intervento a Verona. Dice il
Papa: «In questo Convegno avete ritenuto, giustamente, che sia indispensabile dare alla
testimonianza cristiana contenuti concreti e praticabili, esaminando come essa possa attuarsi e
svilupparsi in ciascuno di quei grandi ambiti nei quali si articola l'esperienza umana. Saremo
aiutati, così, a non perdere di vista nella nostra azione pastorale il collegamento tra la fede e la
vita quotidiana, tra la proposta del Vangelo e quelle preoccupazioni e aspirazioni che stanno più a
cuore alla gente. In questi giorni avete riflettuto perciò sulla vita affettiva e sulla famiglia, sul
lavoro e sulla festa, sull'educazione e la cultura, sulle condizioni di povertà e di malattia, sui doveri
*
Il testo della presente conferenza – pronunciata nell’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
il giorno 16 marzo 2007 – è frutto di una rielaborazione di materiali precedenti, talora citati letteralmente. In proposito
si vedano i seguenti riferimenti: A. SCOLA, Una nuova laicità, Marsilio, Venezia 2007; ID., Antropologia cristiana, in
PONTIFICIO CONSIGLIO PER LE SCIENZE SOCIALI, Conceptualization of the Person in Social Sciences. Plenary
Session 18-22 november 2005, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 7-24; ID., Le atmosfere della
libertà. Per una ecologia del Buon Governo, in B. LATOUR – P. GAGLIARDI (ed.), Les atmosphères de la politique,
Les Empêcheurs de penser en rond, Le Seuil 2006, 15-25 ; ID., Intervento, in Tavola rotonda: Laicità dello Stato,
confessioni religiose e multiculturalismo, in «Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica» n. 2 (2006) 356-360.
1[1]
Indirizzi e concetti sociali all’esordire del secolo XX, citato in AA. VV., Economia capitalistica, economia umana?
Giuseppe Toniolo: uno studioso a servizio dell’uomo, AVE, Roma 2002, 68.
2[2]
Cfr. COMITATO PREPARATORIO DEL IV CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE, Testimoni di Gesù
Risorto, speranza del mondo. Traccia di Riflessione, 29 aprile 2005, Presentazione.
3[3]
«Il Concilio, quindi, con questo documento non ha inteso chiudere l’indagine, ma invece prevederla e stimolarla,
fissare un punto di partenza, porre le premesse di un dialogo fecondo. Ed è un fatto positivo che la Chiesa abbia ad
ogni modo avuto quello che un acuto osservatore definiva “Mut zur Unvollkommenheit”, il coraggio di contentarsi
delle cose imperfette, cioè di cominciare e di affidarsi al futuro con umile fiducia in Dio e nell’uomo sua immagine», R.
TUCCI, Introduzione storico-dottrinale alla Costituzione Pastorale “Gaudium et spes”, in AA. VV., La Costituzione
Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Elle Di Ci, Torino 19683, 15-134, qui 134. Dello stesso avviso sono
altri testimoni diretti del Concilio: J. RATZINGER, Problemi e risultati del concilio Vaticano II, Queriniana, Brescia
1967, 125; P. DELHAYE, Histoire des textes de la Constitution Pastorale, in Y. M.-J. CONGAR – M.
PEUCHMAURD (dirs.), L’Église dans le monde de ce temps. Constitution pastorale “Gaudium et spes” t. 1, Les
Editions du Cerf, Paris 1967, 215-277, in particolare 275-277.
e le responsabilità della vita sociale e politica» 4[4]. La novità radicale del Convegno di Verona, che
speriamo diventi metodo stabile dell’azione ecclesiale delle nostre comunità è consistita nel
sostituire alla pastorale per settori, sempre esposta alla pretesa di produrre la comunione come esito
di programmi e di analisi, una pastorale per ambiti che pone al centro il soggetto personale e
comunitario.
L’indicazione autorevole del Santo Padre ha di mira il cristiano e la comunità come soggetti
testimoniali. La testimonianza, infatti, si attua attraverso uomini e donne «amati da Dio, santi e
eletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza» (Col 3, 12)
che fanno esperienza del compimento di sé. Questa singolare esperienza di compimento
antropologico può realmente intercettare e convincere la libertà e il desiderio dell’uomo postmoderno: «Se vuoi essere compiuto» (Mt 19, 21), «sarete liberi davvero» (Gv 8, 36) sono infatti le
affermazioni centrali del Vangelo di Gesù. Esse sono poi fondate su due pilastri portanti che, come
le due colonne di Ercole, svelano la natura radicalmente paradossale dell’esperienza cristiana: «nel
dolore lieti» (cfr. 2Cor 6, 10) e «amate i vostri nemici» (Lc 6, 27). Sono criteri di vita impossibili
alle sole forze dell’uomo, ma resi a lui possibili dalla meraviglie della grazia divina. In queste due
affermazioni è racchiuso l’insuperabile dramma, personale e comunitario, dell’esistenza cristiana.
Persone e comunità siffatte sono il frutto della comunione, il cui dono i cristiani non cessano di
invocare dallo Spirito con la preghiera, con i sacramenti, con l’offerta di tutta la persona perché,
come linfa vitale, essa investa tutte le circostanze e tutti i rapporti rendendoli capaci di gratuita
condivisione, di giudizio comune e di universale apertura a tutte le dimensioni del mondo.
Il fulcro di questa testimonianza è duplice. Da una parte essa dice: il gran «"sì" che in Gesù
Cristo Dio ha detto all'uomo e alla sua vita, all'amore umano, alla nostra libertà e alla nostra
intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo» 5[5].
Dall’altra questa fioritura missionaria poggia sull’io definito dal Papa a Verona: «"Io, ma non più
io": è questa la formula dell'esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione
dentro al tempo, la formula della "novità" cristiana chiamata a trasformare il mondo» 6[6].
Il lavoro del Centro di ricerca per lo studio della dottrina sociale della Chiesa
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore non può che porsi, secondo la sua specificità accademica,
sulla scia di quanto abbiamo appena affermato. Per farlo è necessario che presti attenzione sia alla
specificità della dottrina sociale, sia alla singolarità del cosiddetto “caso Italia”.
2. La specificità della Dottrina Sociale della Chiesa
Per quanto riguarda la specificità della dottrina sociale mi permetto soltanto richiamare il
fatto che essa «propone principi di riflessione; formula criteri di giudizio, offre orientamenti per
l'azione» 7[7]. Siamo, quindi, in presenza di un insegnamento articolato che trae la sua originalità
«dall’incontro del messaggio evangelico e delle sue esigenze (…) con i problemi derivanti della
vita e della società» 8[8].
Da ciò conseguono almeno due caratteristiche essenziali ad un adeguato sviluppo della
dottrina sociale. In primo luogo l’imprescindibile aiuto che essa, disciplina in sé teologica, riceve
4[4]
BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Verona 19 ottobre
2006.
5[5]
Ivi.
6[6]
Ivi.
7[7]
Catechismo della Chiesa Cattolica 2423.
8[8]
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione circa la libertà cristiana e la liberazione.
Libertatis conscientia (22 marzo 1986) n. 72.
dalla filosofia e dalle scienze umane 9[9]. Poi il fatto che inevitabilmente la dottrina sociale,
sviluppandosi in funzione delle circostanze mutevoli «lungi dal costituire un sistema chiuso, [esso]
resta costantemente aperto alle nuove questioni che si presentano di continuo» 10[10]. Ecco perché «la
dottrina sociale si presenta come un “cantiere” sempre aperto, in cui la verità perenne penetra e
permea la novità contingente, tracciando vie di giustizia e di pace» 11[11]. In questo suo tratto
specifico si trova uno dei motivi principali per cui la dottrina sociale, come vedremo, costituisce
una risorsa per la società plurale.
Per cogliere la specificità della dottrina sociale è inoltre importante una notazione di
carattere epistemologico. Come la dottrina cristiana viene formulata a partire dall’esperienza
cristiana vissuta nella Chiesa e trova nel Magistero un alveo sicuro di sviluppo, così è,
analogicamente, anche per la dottrina sociale. Essa nasce dall’impegno missionario normale delle
comunità con la realtà umana e sociale, diviene riflessione critica e sistematica nella teologia
sociale, che implica la filosofia e le scienze umane, e trova nei pronunciamenti del Magistero la sua
garanzia.
Un Centro di dottrina sociale dovrà tener ben presenti questi articolati livelli: azione sociale,
teologia sociale e Magistero sociale. Trovandoci in ambito accademico mi permetto di proporre
cinque tracce di riflessione per una teologia sociale.
a) Rifiuto del deduttivismo
In primo luogo va evitato il rischio del deduttivismo: la riflessione sulla persona e quella
sulla società che scaturiscono dalla fede cristiana non può sostituirsi e rendere vana la ricerca
condotta a partire dall’azione e dai saperi sociali. In concreto l’istanza in sé legittima di affermare la
centralità della dottrina sociale della Chiesa, non può tradursi nell’applicazione estrinseca di
contenuti della fede cristiana astrattamente considerati allo studio delle società.
b) Rivelazione cristiana e “sviluppo” nella ricerca della dottrina sociale
D’altra parte la dottrina sociale non può farsi assorbire dalle scienze sociali, mutuando da
esse paradigmi di ricerca e prospettive di analisi che in certi casi possono risultare parziali se non
addirittura estranei o contraddittori con la fede. Il contributo peculiare della fede cristiana è quello
di favorire una riflessione teologica e filosofica originaria sull’esperienza umana elementare alla
luce della Rivelazione. Da questo punto di vista ci sembra si possa affermare che il concetto che
descrive meglio il compito che spetta alla dottrina cristiana di fronte alle sfide che la società
contemporanea (dottrina sociale) non è quello di applicazione, né quello di aggiornamento, ma
quello di sviluppo 12[12] (in senso newmaniano): si tratta cioè di tornare alla fonte del sapere cristiano
sull’uomo, la Rivelazione vissuta dal popolo di Dio, per trovare in essa verità sulla persona umana e
9[9]
PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa
77: « La dottrina sociale della Chiesa si giova di tutti i contributi conoscitivi, da qualunque sapere provengano, e
possiede un'importante dimensione interdisciplinare: “Per incarnare meglio in contesti sociali, economici e politici
diversi e continuamente cangianti l'unica verità sull'uomo, tale dottrina entra in dialogo con le varie discipline che si
occupano dell'uomo, ne integra in sé gli apporti”. La dottrina sociale si avvale dei contributi di significato della
filosofia e altrettanto dei contributi descrittivi delle scienze umane».
10[10]
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione circa la libertà cristiana e la liberazione.
Libertatis conscientia (22 marzo 1986) n. 72.
11[11]
PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della
Chiesa 86.
12[12]
Il concetto di sviluppo è stato indagato con particolare acume da J. H. Newman. Per una analisi e una ripresa
recente del tema si vedano le considerazioni contenute in J. RATZINGER, Natura e compito della teologia. Il teologo
nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1993.
sulla società che richiedono di essere sempre meglio comprese e sviluppate in modo adeguato a
“rendere” ragione della speranza cristiana.
c) A difesa dell’appartenenza
Bisogna evitare una tentazione che spesso tocca i cultori delle scienze sociali. Queste hanno
talora la tendenza a ridurre il sapere sulla persona e sulla società ad un sapere di tipo ideologico, a
partire dallo schema pars pro toto 13[13]. Appare in proposito importante invece rilevare che la fede
cristiana osserva che l’uomo anche se redento resta esposto alla fragilità della finitudine e alla ferita
del peccato. Tende perciò a confondere la sua capacità di indagare la totalità con la considerazione
di se stesso come la totalità 14[14].
In virtù della non distinzione tra questi due atteggiamenti, nei dibattiti in corso nelle società
occidentali contemporanee, si tende a sostenere che ogni forma di appartenenza costituisce di per sé
un pericolo, sia per la persona (in quanto essa perderebbe la sua individualità), sia per la società (in
quanto l’appartenenza sarebbe il brodo di coltura di rivendicazioni identitarie di tipo
fondamentalista).
d) L’importanza dei legami
La dottrina cristiana è chiamata a rendere ragione della pienezza di vita e di libertà che
scaturisce dalla fede. La persona per essere se stessa è chiamata a riconoscere la sua strutturale
apertura e quindi dipendenza rettamente intesa da un altro e questo emerge nelle tre polarità
costitutive dell’umana esperienza elementare: in quanto unità duale di anima e corpo la persona
deve la sua stessa vita ad altro da sé; in quanto unità duale radicata nella differenza sessuale la
persona dipende per il suo compimento dall’incontro con la persona dell’altro sesso; in quanto in se
stessa unità duale di individuo e di comunità, la persona dipende dalla relazione con altre persone
significative per il compimento della sua naturale socialità. Si tratta in altri termini di ridare dignità
alla dipendenza riconoscendo che «non tutto ciò che all’uomo è dato e non è costruito, scelto,
voluto da lui, è ipso facto oppressivo, o alienante» 15[15].
e) Persona e relazione: oltre al modello iposocializzato ed a quello ipersocializzato
Il dibattito in corso nella teologia sul concetto di persona e nelle scienze sociali
sull’alternativa tra individualismo ed olismo potrebbe trovare giovamento dall’analitica messa a
tema della nozione di relazione.
Già nel corso del Novecento, le riflessioni di pensatori come F. Ebner, G. Fessard, R.
Guardini, G. Marcel, J. Mouroux, H. U. von Balthasar, hanno proposto un ripensamento in chiave
dialogica della persona. Ancora oggi vale la pena ricercare la ricchezza contenuta nelle opere di
questi (ed altri più recenti) studiosi per metterne in luce tutte le possibili implicazioni per
l’antropologia filosofica e teologica (piano della relazione tra l’io e il tu, umano o divino) ma anche
per lo studio della società. Rifiutando l’individualismo e il totalismo, cioè un individualismo alla
rovescia 16[16], rifiutando il modello di «uomo antropocentrico “iposocializzato”» che costruisce la
13[13]
Su questa tendenza ha riflettuto R. BOUDON in L’ideologia. Origine dei pregiudizi, Einaudi, Torino 1991. Sulla
tentazione riduzionista presente nelle scienze sociali come espressione della tentazione ideologica si veda anche P.
TERENZI, Ideologia e complessità. Da Mannheim a Boudon, Studium, Roma 2002.
14[14]
Su questo tema si vedano le stimolanti riflessioni del teologo protestante R. NIEBUHR, The Nature and Destiny of
Man. A Christian Interpretation, vol. I. Human Nature, Charles Scribners’ Sons, New York 1941. Inoltre cfr. U.
BORGHELLO, Liberare l’amore. La comune idolatria, l’angoscia in agguato, la salvezza cristiana, Ares, Milano
1996, in particolare 62-161.
15[15]
A. FINKIELKRAUT, L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo, Liberal, Roma 1997, 151.
16[16]
Cfr. K. WOJTYLA, Persona e atto, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, 309-312.
società e Dio a sua immagine, e quello dell’«uomo sociocentrico “ipersocializzato”» in cui la
società plasma sia l’uomo sia Dio 17[17], la dottrina sociale può ragionare in analogia alla riflessione
della teologia trinitaria sulla relazione e sull’amore. Temi che hanno mostrato la loro fecondità
anche in molti filosofi contemporanei (da Lévinas a Michel Henry a Marion). Allo stesso tempo
anche le scienze sociali possono trarre beneficio dal guardare sia la relazione a partire dalla
persona 18[18], sia la persona a partire dalle relazioni (potrebbe essere feconda una indagine sulle
analogie tra la relazione che sussiste tra persone umane nella società e le relazioni delle Persone
divine nella Trinità).
3. La singolarità della Chiesa in Italia: né cripto-diaspora né religione civile
In secondo luogo mi preme sottolineare l’importanza del radicamento del lavoro di una
teologia sociale nel contesto ecclesiale e sociale italiano. Il Papa, a Verona, ha espresso con
chiarezza la singolarità del caso italiano e il suo specifico compito nel contesto europeo e mondiale:
«La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, - e lo vediamo! - che conserva una presenza
capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione» 19[19].
Per spiegare la specificità del caso Italia spesso faccio questo paragone. In un paese in cui
l’87% degli abitanti se interpellato risponde di voler essere cattolico, le nostre comunità appaiono
come un braccio. Come il braccio è uno, così la nostra Chiesa è una. Ma nel braccio si distinguono
il braccio vero e proprio, che può significare i non pochi battezzati un po’ smemorati, l’avambraccio
che fa pensare all’insieme dei praticanti della domenica, e la mano, costituita dagli “impegnati”.
Come non auspicare che, come avviene nel nostro corpo, la capacità prensile della mano rimetta in
moto l’azione dell’avambraccio e del braccio?
Se ora passiamo dal paragone, che per sua natura è sempre inadeguato, ad una valutazione di
questo stato di cose, si può dire che la vivacità delle Chiese in Italia esige che si concepisca la
missione evangelizzatrice come la rigenerazione del Popolo di Dio attraverso una proposta pastorale
che mantenga in adeguato equilibrio fede e religione. Fede e religione non sono mai separabili. La
fede, infatti, è una grazia donata all’uomo concreto, uno di anima e di corpo, di uomo e di donna, di
individuo e di comunità. Per questo normalmente la fede genera un fatto di popolo che si incarna in
una religione. D’altro canto la religione, che per sua natura riveste di tradizioni spesso caduche
l’imperitura Traditio della Chiesa, ha bisogno della fede nell’evento di Gesù Cristo che
continuamente la purifichi.
È necessario, pertanto, fondare con equilibrio l’inevitabile nesso tra fede e religione. E farlo
tenendo presente un doppio rischio: quello di cadere in cripto-diaspore più o meno mascherate da
17[17]
M. ARCHER, La fede e il concetto di genere umano nelle scienze sociali, in AA.VV., L’uomo alla ricerca della
verità. Filosofia, scienza, teologia: prospettive per il terzo millennio, Vita & Pensiero, Milano 2005, 223-242, in
particolare 224 e ss.
18[18]
Alcuni spunti di riflessioni sulle analogie tra relazionalità umana e relazionalità trinitaria si possono trovare anche
in P. DONATI, Dov’è Dio? La matrice teologica della società post-moderna, in «Rivista Teologica di Lugano» (1998)
n. 1, 9-25. Sulla relazione come aspetto costitutivo della persona si veda D. SCHINDLER, Heart of the World: Center of
the Church. Communio ecclesiology, Liberalism, and Liberation, Eerdmans, Grand Rapids 1996, 279-292.
19[19]
Il testo integrale dice: «L'Italia però, come accennavo, costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per
la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, - e lo vediamo! - che conserva una presenza
capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano
a produrre frutti, mentre è in atto un grande sforzo di evangelizzazione e catechesi, rivolto in particolare alle nuove
generazioni, ma ormai sempre più anche alle famiglie. È inoltre sentita con crescente chiarezza l'insufficienza di una
razionalità chiusa in se stessa e di un'etica troppo individualista: in concreto, si avverte la gravità del rischio di
staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà. Questa sensazione, che è diffusa nel popolo italiano, viene formulata
espressamente e con forza da parte di molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o
almeno non praticano la nostra fede. La Chiesa e i cattolici italiani sono dunque chiamati a cogliere questa grande
opportunità, e anzitutto ad esserne consapevoli», BENEDETTO XVI, Discorso… op. cit.
una parte (“basta la Croce”) e quello di ridurre il cristianesimo alla cosiddetta religione civile
dall’altra (il riferimento è a certi discorsi sul nesso tra Occidente e cristianesimo). Si tratta invece di
approfondire adeguatamente la rilevanza pubblica della genuina fede cristiana. Né riduzione della
nostra fede ad etica pubblica, che trasformi l’integrale annuncio cristiano - l’eterno che brilla nel
tempo - in religione civile semplice collante di una democrazia affaticata, né fede che rinneghi la
religione in nome di più o meno mascherate diaspore “profetiche e critiche”. Invece è necessario il
coraggio semplice di essere Chiesa, Popolo di Dio che attraversa la storia, tutta la storia,
testimoniando la bellezza dell’evento integrale di Gesù Cristo che, nella forma della comunione, ci
apre alla salvezza eterna donandoci come caparra il centuplo quaggiù.
Solo così la vita ecclesiale, e pertanto la conseguente dottrina sociale, potrà costituire una
autentica risorsa per la società plurale. Infatti ad una sana democrazia non basta una religione civile,
né le è di alcuna utilità una religione ridotta a puro privato individuale. Ciò di cui ha bisogno è di un
riconoscimento pieno delle fedi personali inseparabili da appartenenze comunitarie (religioni)
capaci anche di una pubblica soggettività tesa ad offrire a tutti, senza privilegi, nel libero campo del
confronto democratico, laico, pubblico e plurale, proposte di vita buona ad un tempo personale e
sociale.
4. Mostrare le implicazioni dei misteri cristiani
L’azione sociale dei cristiani in Italia, al servizio della quale si pone la ricerca sulla dottrina
sociale, costituirà una risorsa per tutta la società nella misura in cui saprà essere una forma di
testimonianza di come l’incontro con Cristo investa tutti gli ambiti dell’umana esistenza. A partire
dagli affetti, dal lavoro e dal riposo, genera una vita nuova che anticipa, eucaristicamente, su questa
terra in modo germinale il destino di pienezza che la risurrezione della carne, garantita dalla
risurrezione di Gesù Cristo e dall’Assunzione al cielo di Maria nel suo vero corpo, ci assicura.
Nei fatti questo significa che la dottrina sociale, che poggia sull’annuncio integrale del
Vangelo di Cristo, ha il compito di mostrare le implicazioni a livello antropologico, cosmologico e
sociale dei misteri della vita cristiana - dalla Trinità fino alla vita eterna - enucleati nel credo e resi
accessibili dal comandamento dell’amore invocato nella preghiera liturgica e personale. Questa è la
strada per coniugare correttamente a livello sociale il rapporto fede e religione. Questo sguardo
unitario, che in modo circolare abbraccia il percorso che va dal Credo al senso religioso e dal senso
religioso al Credo, è capace di parlare ad ogni uomo, anche al non credente.
Mi sembra, tuttavia, importante, dire una parola su cosa intendo con l’espressione
implicazioni dei misteri cristiani. L’idea nasce da una formidabile opera di Henri de Lubac,
Catholicisme, che aveva come felice sottotitolo: les aspects sociaux du dogme. Rispetto ai tempi di
De Lubac l’urgenza principale dell’azione e della riflessione sociale che oggi ci viene chiesta è
quella di mostrare non solo gli aspetti (ma la parola implicazioni è più stringente) antropologici, ma
anche quelli sociali e cosmologici della fede.
I misteri del cristianesimo, come ci ha insegnato lo Scheeben 20[20], non identificano il nonancora-noto, bensì il fondamento vivificante di tutto il reale – in ultima analisi la Santissima Trinità
– che si comunica alla nostra libertà finita. La Trinità si dona a noi, ma lo fa con tale riguardo che
noi non ne restiamo annientati. Il Roveto arde - e per questo attira - ma non si consuma.
Continuamente arde a nostro beneficio. Il mistero è inesauribile. Ci alimenta, ma per noi viandanti
resta mistero. Perché ci attira? Perché intercetta in noi il desiderio costitutivo di compimento. In
concreto ciò significa che il mistero ci offre la via per cercare, in comunione con i nostri fratelli
20[20]
Cfr. M.-J. SCHEEBEN, I misteri del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 19682.
uomini, le risposte alle domande decisive e al modo inedito con cui la storia nella sua
imprevedibilità le propone.
Nei misteri cristiani, celebrati e vissuti nella liturgia, è implicata la possibilità di affrontare
le questioni radicali che appaiono oggi come particolarmente scottanti per l’uomo (antropologia),
per il cosmo (ecologia), per i popoli (giustizia sociale). Facciamo qualche brevissimo esempio.
Decisive implicazioni antropologiche del dogma trinitario e cristologico sono per esempio la
differenza sessuale ed il suo strutturale orientamento all’amore oblativo e fecondo. Un mondo che
non pensa la Trinità non sa pensare la differenza sessuale. Rendere visibile nel mondo la possibilità
di amare per sempre ed in modo esclusivo nel matrimonio e quella di generare ed educare figli
costituisce una strada decisiva per ridare speranza ai nostri fratelli uomini. Quella speranza di cui
sono segno privilegiato ed escatologico coloro che sono stati chiamati a seguire Gesù Cristo nella
vita verginale. Gesù ha posto il Regno dei cieli come ragion d’essere e scopo sia della verginità, sia
dell’indissolubilità del matrimonio (cfr. Mt 19, 1-12) 21[21].
Sviluppare le implicazioni cosmologiche contenute nei sacramenti celebrati nella liturgia –
acqua, pane, olio, frutti della terra e del lavoro dell’uomo sono assunti ed acquistano nuovo
significato dalla libera accettazione dell’opera dello Spirito - conduce a considerare l’ambiente
vissuto dall’interno e non di fronte all’esperienza umana elementare. In quest’ottica Giovanni Paolo
II ha parlato dell’ambiente come casa e dell’ambiente come risorsa 22[22].
Infine amando e lavorando in Cristo e per Cristo senza temere sacrificio e dovere, il
desiderio e la libertà trovano la via sicura del compimento. Si diventa uomini condotti dalla logica
dell’Incarnazione a condividere le forme più elementari del desiderio, a partire dal bisogno (cfr. At
4, 32-35; Rm 15, 25-27; 1Cor 16; 2Cor 8). Ed è del tutto naturale che più il bisogno è imponente e
radicale più provochi la libertà di condivisione del cristiano. In questo modo si verrà configurando
una cultura sociale imperniata sui principi della solidarietà e della sussidiarietà, costantemente
approfonditi dal Magistero sociale della Chiesa. Si sarà capaci di incontrare e collaborare con
uomini e donne di tutte le latitudini e longitudini nell’edificazione di forme sostanziali di
democrazia e di buon governo. In proposito il mistero cristiano della communio, pensato nella sua
radice ed in tutte le sue conseguenze, contiene implicazioni sociali decisive. Per limitarsi ad un
esempio, la dimensione ad un tempo universale e particolare che la Chiesa sperimenta da duemila
anni può suggerire forme per un nuovo ordine mondiale di cui tutti sentiamo l’improcrastinabile
necessità.
Il soggetto ecclesiale, personale e comunitario, è chiamato a misurarsi con tutti questi
interrogativi. Il Popolo di Dio in cammino li condivide con tutti i fratelli uomini e non gli è
permesso disertare dall’agone contemporaneo.
5. Una proposta di vita buona e di buon governo nella società plurale
Il contenuto specifico della proposta cristiana a livello socio-politico consiste nel comunicare
con forza l’ideale concreto della vita buona. Anche - e, forse soprattutto, in Occidente - si tratta di
21[21]
In proposito cfr. A. SCOLA, Il mistero nuziale 1. Uomo-donna, Pul-Mursia, Roma 1998; ID., Il mistero nuziale 2.
Matrimonio-famiglia, Pul-Mursia, Roma 2000.
22[22]
Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti ad un Convegno su ambiente e salute, 24 marzo 1997, n. 2:
«L’epoca moderna ha registrato una crescente capacità d’intervento trasformativo da parte dell’uomo. L’aspetto di
conquista e di sfruttamento delle risorse è diventato predominante e invasivo, ed è giunto oggi a minacciare la stessa
capacità ospitale dell’ambiente: l’ambiente come “risorsa” rischia di minacciare l’ambiente come “casa”».
documentare la fecondità dell’esperienza della fede del Popolo di Dio per l’edificazione di una
società civile in cui le differenze non siano solo tollerate, ma sinfonicamente valorizzate.
Infatti costruire la polis significa perseguire quella vita buona simultaneamente esigita dal
singolo e dalla comunità senza artificiose separazioni tra pubblico e privato. Questa visione
riconosce l’insuperabile polarità tra persona e comunità, tra individuo e società. Non si può dunque
partire dall’individuo e dalla società come da due elementi separati, da ricomporre poi in unità. Così
facendo non sarebbe possibile né riconoscere la persona né edificare la società. La dimensione
comunitaria (sociale) è, infatti, interna all’io. Perché ci sia buon governo non si può separare l’agire
virtuoso degli agonisti, cioè di chi governa e di chi è governato, dall’elaborazione delle pratiche e
delle teorie circa i beni ed i fini della convivenza civile, nonché dei mezzi per attuarli. In altri
termini, la condizione primaria per l’esplicarsi di una vita politica sta in una concezione della
società che consente ed esprime una antropologia adeguata.
Occorre far riferimento ad una convinzione inaugurata da Aristotele, ripresa da Tommaso e
pacificamente vissuta fino all’inizio dell’età moderna: la convivenza sociale si regge su una pratica
ed una visione dell’agire degli uomini inteso come un tutto, quindi volto a dare un ordine ai fini e ai
beni della vita. Bisogna qui notare che né Aristotele nell’Etica a Nicomaco, né Tommaso, che
riformula la tesi del bene vivendum nella Secunda Pars della Summa e nelle Sententia libri
ethicorum, ignorano la necessità di distinguere accuratamente tra l’etica personale e l’etica pubblica
o politica. Essi, come mostrano gli studi più rigorosi, sono ben consapevoli che l’etica politica,
come vita buona, richiede non pochi adattamenti realistici rispetto alla vita virtuosa in quanto
riferita al singolo. Non ritengono ingenuamente che le società politiche possano essere tout-court
società di virtù; tuttavia, mostrando uno stringente senso pratico, essi propugnano questa visione
unitaria della vita buona perché consente il nascere e l’esprimersi, all’interno della polis, di uomini
e di comunità di virtù. Risulta così già configurata, per dirla in linguaggio moderno, la necessità di
una società civile che dia vita ad una democrazia sostanziale attraverso il libero ed articolato dialogo tra persone e comunità intermedie vitali.
Pertanto ogni buon governo - anche nella nostra complessa società della globalizzazione e
delle reti -, se vuole raggiungere le atmosfere pure della libertà, non può prescindere dall’impegno
rigoroso di tutti, teso a perseguire la vita buona mantenendo in unità le due distinte dimensioni,
personale e comunitaria, dell’umano agire. È questa la mia profonda convinzione che, per altro, non
fa che riproporre il filo rosso di tutto l’insegnamento sociale della Chiesa, soprattutto di quell’arco
di magistero pontificio che va dalla Rerum novarum alla Deus caritas est.
Mi preme qui aggiungere un’ulteriore precisazione. Non vorrei infatti che il suggerimento di
pensare, e soprattutto di praticare, una visione della guida della polis in cui l’uomo e la società siano
visti in profonda unità venga frainteso a partire dal riferimento iniziale ad Aristotele e a Tommaso.
Non intendo proporre un impossibile ritorno al passato fornendo ricette precostituite. Il compito di
pensare la vita buona nel contesto dell’odierna società plurale e postsecolare sta tutto davanti a noi
ed è, per giunta, particolarmente arduo.
Le difficoltà sorgono proprio quando, nel pensare la vita buona, si deve operare la dovuta
distinzione tra la dimensione etica e quella politica. Quali vie per far convivere il primato oggettivo
del bene e le esigenze insopprimibili della libertà? Ancora: come salvare tutto lo spazio
dell’irrinunciabile dialettica democratica stante la complessità delle nostre società? Come conciliare
l’istanza della vita buona con le esigenze di una legislazione che miri ad un ordine mondiale, con il
peso del “mercato globale”, con la difesa di una sana laicità?
Mi limito a rilevare che, quand’anche volessimo rinunciare a far ricorso al binomio naturacultura, bisognerà riconoscere che la questione uno-molteplice è imprescindibile per esprimere
l’autocoscienza del singolo che sempre vive in società. Basti pensare all’urgenza con cui i difficili
rapporti con taluni settori del mondo islamico ce lo stanno imponendo. È questo binomio (unomolteplice) a conferire nuova attualità all’orizzonte antropologico per pensare il tema di un nuovo
ordine mondiale.
Sempre in questo quadro di riferimento voglio anche sottolineare il fatto che per favorire un
buon governo è necessario uno stato capace di dar spazio in forma adeguata ad una società civile di
natura plurale e che per questo non sarà mai priva di aspetti conflittuali. Penso ad uno stato non
“distaccato” che, pur non facendo propria una specifica visione, sia dichiaratamente al servizio della
persona e delle esigenze ultime che la costituiscono (desiderio di libertà e felicità, di compimento),
che faccia nel contempo propri i grandi valori che stanno a fondamento della stessa convivenza
democratica (libertà civili e politiche) generata da corpi intermedi. Quindi non uno stato inteso
come un anonimo vuoto contenitore da riempire a piacimento (opzione debole e, di fatto,
irrealizzabile), ma uno spazio, certamente non confessionale, in cui, senza trascurare le tradizioni,
ciascuno possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune, nell’inevitabile e
rispettosa logica del confronto e del riconoscimento che sola salva la vera natura del potere. Ecco
perché è necessario, mi riferisco qui soprattutto all’Italia e all’Europa, parlare di “nuova laicità” 23[23].
Questa nuova laicità può costituire un progresso rispetto alla tradizionale categoria di
tolleranza, che accetta tra l’altro – ed è questo un tema decisivo per la dottrina sociale - la presenza
nella società e nell’ordinamento delle religioni e delle diverse culture senza riconoscerne e favorirne
il potenziale di positività. Infatti attraverso una visione dell’universale concreto delle comunità
religiose può essere riconosciuta l’originalità di ciascuna tradizione religiosa nella sua portata
universale e, in questo senso, si impone il superamento della logica che ammette pari tutela delle
varie tradizioni culturali nella misura in cui abbiano denominatori comuni. Dal punto di vista
giuridico una tale proposta rende possibile che la tutela delle religioni acquisti un “fondamento
differenziato”. Per i non credenti, consiste nel riconoscimento del beneficio che una religione arreca
alla comunità; per i credenti, nel valore intrinseco del loro credo.
In sintesi questa serie di notazioni sulla vita buona e sul buon governo fa emergere una
precisa visione del civis e del suo impegno politico. Non a caso Péguy afferma che i cristiani come
dei «più civici fra gli uomini» 24[24].
Il primo fattore distintivo della moralità dell’azione politica e del potere esercitato dalle
istituzioni statali possiede un carattere paradossale: la verità di tale azione è direttamente
proporzionale alla coscienza dei propri limiti. Nessun potere politico può sostenere tutta la portata
della speranza umana. Da questa lucida consapevolezza scaturisce, sia pur indirettamente, la più
solida garanzia per la dignità della persona fondata sul suo essere capax Dei. Tale ‘capacità’, infatti,
non deriva da alcun potere politico e da alcuna istituzione.
Questo positivo ridimensionamento è reso possibile dal cristianesimo in quanto, fondandosi
sulla promessa del compimento escatologico del regno di Dio, protegge l’impegno politico dal mito
di una società perfetta. Dove la fede rinuncia (o è impedita) ad esercitare questa coscienza critica
della politica è facile notare l’insinuarsi di una mentalità che può essere definita utopica, che del
resto ha ampiamente e tragicamente dominato anche nel nostro secolo.
23[23]
24[24]
Cfr. A. SCOLA-G. E. RUSCONI, Prove di dialogo, tra fede e ragione, in «Il Mulino» (2006) n. 2, 369-379.
C. PÉGUY, Lui è qui. Pagine scelte, Rizzoli, Milano 1997, 80.
In politica – nazionale e internazionale -, in campo educativo, nelle questioni legate al
matrimonio, alla famiglia e alla vita, nella società civile come nel mercato, nel mondo
dell’emarginazione e della povertà… in sintesi, dentro tutta la realtà i cristiani, illuminati dal
giudizio di fede, possono concorre all’edificazione di una societas a misura d’uomo.
6. Criteri imprescindibili per l’azione sociale
Concludo queste mie riflessioni riproponendo tre osservazioni di metodo che a me paiono
decisive.
a) Ideale (cultura), non utopia
Qual è il nemico più subdolo della nuova civiltà, cioè di un soggetto in azione che persegue
la vita buona? È l’utopismo. Utopia è – come dice il suo significato etimologico - il “non luogo”
quindi l’inesistente assoluto. Qualcosa che non esisterà mai. L’uso che spesso si fa della parola
utopia è strutturalmente improprio. Come afferma lo storico francese Guy Bédouelle le utopie sono
“rêveries” architetturali o sociali scritte nella pietra (come la città di Pienza) o sulla carta come
l’Utopia di Tommaso Moro o La città del sole di Campanella: possono al massimo indicare delle
aspirazioni di riconciliazione, tolleranza ed unità, ma non consentono una reale costruzione.
L’utopia, che nasce dalla inevitabile ideologia, è pura teoria anche se si basa su articolate analisi
della realtà. Genera avanguardie che devono applicarla, costi quel che costi, alla realtà. Per questo
finiscono quasi sempre col far ricorso alla violenza.
Altra cosa è l’ideale. L’ideale è la verità del reale, quindi esiste. È concreto. E rintracciabile
nell’esperienza dell’uomo che affronta ogni giorno circostanze e rapporti. In forma incompiuta,
frammentaria, ma esiste. Se correttamente perseguito potrà realizzarsi sempre di più. L’ideale è
qualcosa di presente, che mi sta sempre davanti come un compito con cui mi devo impegnare a
partire da una precisa realtà. Questo esige un soggetto integrale – personale e sociale - in azione. Su
queste basi con umiltà, senza presunzione, comunitariamente, sensibile a testimonianze profetiche,
il soggetto cercherà - per quanto possibile e se ne sarà capace – interpretando la realtà, di agire
perché la verità nella libertà abbia sempre la meglio. L’ideale è un fatto di popolo, l’utopia è una
questione di avanguardie. Evidentemente è ben diverso affrontare questioni come stili di vita, pace,
l’equilibrio del mercato, l’integrazione degli immigrati nella prospettiva dell’ideale o in quella
dell’utopia.
b) Non egemoni
La seconda osservazione di metodo che voglio proporre consegue alla scelta per l’ideale
contro l’utopia. Mi riferisco ad un atteggiamento decisivo dell’agire cristiano in campo sociale. Tale
agire, che tende a realizzare l’ideale vita buona, è libero da ogni tentazione di egemonia sociale.
L’egemonia è l’utilizzo sistematico della verità sociale (cultura, ideale) a proprio favore.
Egemonico utilizzo dell’ideale (cultura) a scopo del potere. Il potere anziché essere riconoscimento
della verità tenderà ad utilizzare la forza della verità a proprio vantaggio.
Nascendo dal coinvolgimento della nostra libertà con l’evento di Gesù Cristo, l’azione del
cristiano anche in questo campo, distinto ma non separato da quello ecclesiale, ha sempre la forma
di una proposta rivolta alla libertà di ogni membro dell’umana comunità. Ovviamente occorre
distinguere tra la cosiddetta funzione di insegnamento nella Chiesa, attraverso il Magistero dei
Vescovi cum Petro et sub Petro, funzione che non può venir mai meno, ed il sempre contingente
impegno in ambito socio-politico proprio della missione dei fedeli laici. Nell’intervento conclusivo
del Convegno di Verona il Cardinale Ruini ha ricordato espressamente questo dato quando ha
affermato che occorre muoversi «nella chiara consapevolezza della distinzione e della differenza
tra la missione della Chiesa come tale e le autonome responsabilità propriamente politiche dei
fedeli laici» 25[25].
Dalla visione cristiana dell’uno, del vero, del buono e del bello scaturisce una concezione
integrale della vita buona a livello personale e sociale che il cristiano persegue con tenacia nella
libera arena democratica. Il dovere di contribuire alla costruzione di una vita buona attraverso
l’azione socio-politica resta per lui inderogabile. Pur mirando, soprattutto in politica, a fornire
risposte a concrete questioni non ripone ultimamente la sua fiducia nei risultati. Per questo non
elabora utopie da perseguire con militanze avanguardistiche per esercitare egemonia nella società.
Da qui l’insegnamento del Magistero circa il rapporto Chiesa-politica da cui emerge la
responsabilità diretta dei fedeli laici in questo ambito.
«La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono sono
nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che
affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si
intrecciano fra loro…» 26[26]… «Non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente
questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire
affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire
in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale. Questo
significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno
venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente
affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della
Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di
offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo
specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente
realizzabili» 27[27].
Così in una data società il peso dei cristiani può essere assai rilevante, come è stato in
passato ed in parte è ancor oggi in Italia - ed è un bene -, ma anche in contesti sociali in cui l’azione
pubblica dei cristiani potrebbe apparire oggi quasi insignificante, come in Cina o in India, la Chiesa
sta nella sua pienezza.
La vita buona, sempre doverosa, non è però per il cristiano e per la comunità ecclesiale una
utopia, non configura una terza o quarta via, ma la partecipazione realistica all’interno di una
società plurale ad una costruzione comune. Questo esige sempre passione integrale per la verità
situata nella storia (incarnazione). Fermi sui principi e liberi e realisti nell’invenzione delle forme.
Capaci di chiara identità e di collaborazione piena di abnegazione con tutti. Il pensiero sociale
cristiano in proposito è una miniera ancora inesplorata e, soprattutto, poco conosciuta dai fedeli.
La storia bimillenaria della Chiesa, al di là dei mille errori dei cristiani, resta un documento
imponente in questo senso. Nel mondo, ma non di questo mondo.
c) Testimonianza, non militanza
Quale figura di cristiano emerge da queste brevi cenni? Quello del testimone. Ecco la terza
ed ultima osservazione di metodo. L’uomo che vive per l’ideale, libero dall’esito del suo impegno, è
innanzitutto un testimone.
25[25]
C. RUINI, Intervento conclusivo al IV Convegno Ecclesiale di Verona 20 ottobre 2006, n. 8.
GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, 43.
27[27]
BENEDETTO XVI, Deus caritas est 28.
26[26]
Il testimone è qualitativamente altro un’altra cosa rispetto al cristiano militante (senza
enfatizzare la critica ormai nota alla categoria di militanza). Il soggetto militante parte poco o tanto
dall’utopia (progetto, piano, programma) e punta all’egemonia mediante l’elaborazione di strategie
e la ricerca di tecniche per la sua attuazione. E la logica non cambia se la strategia militante sceglie
la strada trionfalistica piuttosto che quella della diaspora.
Qual è, invece, il contenuto della testimonianza? Il gratuito e spontaneo comunicarsi di una
vita cambiata per grazia, che giunge, nella accurata distinzione di ambiti, fino al sociale, al civile, al
politico. È la missione che implica parresia di dottrina e di azione. In quest’ottica il popolo
cristiano, personalmente e comunitariamente, vive la missione in tutti gli ambienti di vita
dell’umana esistenza perché fa esperienza che desiderio e compito, volere e dovere, non si elidono,
ma si integrano nell’umanissima avventura cristiana. E così l’azione del cristiano acquista un
significato eterno e si avverano ancora una volta le parole del poeta Karol Wojtyla nella poesia La
cava di pietra, che fa riferimento alla sua esperienza giovanile di lavoratore alle Solvay: «Non
temere. Le azioni umane hanno rive spaziose, / non puoi costringerle a lungo dentro un alveo
ristretto. / Non temere. Nei secoli durano le umane azioni / in Colui al quale guardi nel ritmo di
questi martelli» 28[28].
16 marzo 2007 Università Cattolica di Milano
28[28]
La cava di pietra (1956), in K. WOJTYLA, Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, 193.
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