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SEZIONE I
LA
NEUROBIOLOGIA
DEL PENSIERO
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INTRODUZIONE
ALLA SEZIONE I
LA NEUROBIOLOGIA
DEL PENSIERO
C
hiunque sia in grado di leggere queste parole,
tu compreso, fa un’esperienza di consapevolezza
cosciente. Come si spiega tutto questo? L’esperienza cosciente
delle altre persone coincide con la mia? La nostra esperienza
cosciente è qualitativamente differente da quella vissuta dalle
altre specie animali?
Domande come queste hanno affascinato alcuni tra
i pensatori più celebrati dell’umanità, fin da quando gli
esseri umani hanno iniziato a lasciare tracce tangibili
del loro pensiero. Sono tra le domande più profonde
che un essere umano possa concepire. Non sorprende,
dunque, che domande che si riferiscono direttamente o
indirettamente al fenomeno della coscienza e al costrutto
a esso correlato della cognizione (ovvero del pensiero) siano
state affrontate da molte e differenti discipline erudite,
come la filosofia, la biologia evolutiva, l’antropologia, gli
studi economici e linguistici, l’informatica e la psicologia.
Ciò che contraddistingue le neuroscienze cognitive,
il focus di questo libro, da queste e altre discipline è
il fatto che affondano le proprie radici nei metodi e
nelle tradizioni delle neuroscienze e la supremazia che
assegnano alla comprensione delle basi biologiche dei
fenomeni mentali. È opportuno notare che le neuroscienze cognitive non si concentrano solo sulla coscienza
e la consapevolezza cosciente. Di fatto, si può affermare
che la grande maggioranza degli articoli pubblicati,
per esempio, sul Journal of Cognitive Neuroscience (una
delle tante riviste scientifiche che pubblicano articoli
peer-reviewed in questo ambito scientifico) non si rivolge
esplicitamente al concetto di coscienza e, ancor meno,
menzionano questo termine.
Tuttavia, è anche vero che può risultare difficile sostenere argomentazioni dettagliate sul comportamento
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umano e sui principi che lo governano senza confrontarsi con idee come quelle esposte al principio di questo paragrafo. Questa chiara relazione con questioni
profonde di natura filosofica è una delle qualità che
contraddistinguono le neuroscienze cognitive rispetto
ad altre scienze fisiche e biologiche e rispetto ad altre
branche delle neuroscienze.
Al pari di altri scienziati della fisica e della biologia, chi
si occupa di neuroscienze cognitive disegna e conduce
esperimenti rigorosamente controllati che producono
dati oggettivi e misurabili e cerca di porre in relazione
questi dati con modelli meccanicistici sul funzionamento
di un sistema naturale. E, come sopra suggerito, il sistema
studiato dai neuroscienziati cognitivisti è di diretto interesse per gli studiosi che lo indagano da una prospettiva
assai differente (per esempio filosofica, antropologica e
psicologico-cognitiva). Questa sovrapposizione è per
un verso una benedizione e una maledizione. È una
benedizione nel senso che il neuroscienziato cognitivista
può basarsi su idee e osservazioni che provengono da
una vasta gamma di tradizioni intellettualmente ricche.
E, considerando che ci occupiamo di questioni fondamentali per la condizione umana, qualunque individuo
pensante che un neuroscienziato cognitivista incontri sarà
probabilmente interessato al suo lavoro. (Più semplicemente, secondo la modesta opinione dell’autore, essere
un neuroscienziato cognitivista assolve a una funzione
sociale al pari di un economista, di un biologo cellulare
o di un fisico della particelle…).
La maledizione sta nell’altra faccia della stessa medaglia.
Poiché studiosi di differenti ambiti sono spesso interessati
al medesimo oggetto di studio (che sia la percezione
visiva, l’estetica o il comportamento antisociale) la ricerca
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INTRODUZIONE ALLA SEZIONE I
nell’ambito delle neuroscienze cognitive è spesso caratterizzata da persone che operano in altri settori che pongono
domande erronee o che le pongono in modo sbagliato, o
che generano scoperte sostanzialmente irrilevanti per la
comprensione del fenomeno in esame. Essere coscienti di
questo contesto sociologico che circonda le neuroscienze
cognitive è un elemento di conoscenza che può aiutare a
valutare le implicazioni e l’importanza di ciascun insieme
di fatti e idee che verranno esposti in questo libro.
NEUROSCIENZE COGNITIVE?
O “NEUROSCIENZE UMANE”?
O “NEUROSCIENZE CON DIRETTE
IMPLICAZIONI PER LA COMPRENSIONE
DEL COMPORTAMENTO UMANO”?
Come sono stati selezionati gli argomenti trattati in
questo libro? O più significativamente, nell’insegnare
le neuroscienze cognitive, dove va tracciata la linea che
delimita i confini di questa disciplina? È una domanda
difficile che non ha una risposta definitiva. È proprio un
incidente della storia che la confluenza dei metodi delle
neuroscienze e gli studi sul comportamento umano siano
confluiti prima, o per lo meno con maggiore impatto,
negli ambiti del comportamento e della funzione che
sono studiati dalla psicologia cognitiva (per esempio la
percezione visiva, il linguaggio, la memoria), rispetto
per esempio al comportamento sociale, alla personalità,
all’emozione o alla psicopatologia. Il risultato è che l’etichetta di “neuroscienze cognitive” appare prima nella
letteratura rispetto, per esempio, alle neuroscienze affettive (affective neuroscience) o alle neuroscienze cognitive
sociali (social cognitive neuroscience). In conseguenza di
ciò, il termine “neuroscienze cognitive” viene utilizzato
nei contesti più svariati e non sempre con il medesimo
significato. In alcuni casi, “neuroscienze cognitive” può
riferirsi agli strumenti e ai metodi utilizzati per studiare
le basi neurali del comportamento umano (per esempio,
le scannerizzazioni cerebrali, le registrazioni elettriche,
la stimolazione cerebrale).Tuttavia, questa può apparire
come una denominazione impropria se il comportamento
in esame non è in stretta relazione con la cognizione
(per esempio, il sonno o la depressione). L’etichetta di
“neuroscienze cognitive” può sembrare inadeguata anche
per la ricerca che riguarda altri ambiti di studio tradizionali del cervello e del comportamento. Per fare un
esempio pratico, consideriamo uno studio che indaga
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il ruolo di alcuni sistemi neurali (visualizzati mediante
scansioni cerebrali) sulla performance in un compito di
decision-making di natura economica da parte di carcerati
con livelli elevati o ridotti di ansia di tratto (tutti classificati come “psicopatici”) e il confronto di questi dati
con quelli ottenuti da pazienti neurologici con danno
alla corteccia prefrontale ventromediale. Questo tipo di
ricerca appartiene all’ambito delle neuroscienze cognitive?
Per un certo verso, vorrei che la risposta fosse “sì”, già
che prenderemo in esame proprio questo tipo di ricerca
nel Capitolo 16! Tuttavia, ciò facendo si rischia di non
dare il giusto credito a contributi altrettanto importanti
a questo tipo di ricerca che vengono dalla psicologia
clinica, dall’affective neuroscience, dalla neuroeconomia e dalla
neuropsicologia.
In virtù di queste considerazioni e per rappresentare il
respiro multidisciplinare della gran parte dei temi trattati
in questo libro non sarebbe stato forse più opportuno
intitolarlo “Principi di neuroscienze dell’uomo”? In questo caso la risposta è inequivocabilmente “no”, perché
significherebbe escludere l’evidenza che la comprensione
delle basi neurali di quasi tutti gli aspetti del comportamento umano richiede una conoscenza approfondita
delle funzioni neurali analoghe di altre specie animali.
Infatti, come vedremo in quasi tutti i capitoli di questo
libro, le limitazioni tecniche ed etiche di ciò che possiamo
misurare nell’uomo impongono di basarsi largamente sui
risultati di studi condotti sui modelli animali. Da qui la
convinzione, implicita nel titolo di questa sezione, che
il titolo più adeguato per questo libro sarebbe “Principi
di neuroscienze con implicazioni dirette per la comprensione del comportamento umano”. Ora, io non
sono un esperto di editoria accademica, ma non faccio
fatica a immaginare che se avessi proposto questo titolo
il mio editore l’avrebbe rifiutato. O per lo meno non
ci sono probabilmente molte università dove ci sia un
corso d’esame denominato “Introduzione alle neuroscienze con implicazioni dirette per la comprensione del
comportamento umano”. Ciononostante, rappresenta
probabilmente un buon sunto – concentrato in poche
parole – di ciò che questo testo si propone di trattare.
E così, tenendo in conto queste considerazioni, ci
atterremo all’etichetta “neuroscienze cognitive”. Non
è perfetta, ma se consideriamo abbastanza comoda una
definizione ragionevolmente ampia di cognizione intesa
come pensiero, comportamento e tutti quei fattori dai
quali essi dipendono, allora questo termine ci sarà di
ragionevole aiuto.
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CAPITOLO 1
INTRODUZIONE
E STORIA
TEMI CHIAVE
●●
●●
●●
●●
Malgrado il fenomeno coscienza e il costrutto cognizione (ovvero, il pensiero) siano il focus di molte discipline erudite, ciò che caratterizza le neuroscienze
cognitive è il suo radicamento nei metodi e nelle
tradizioni delle neuroscienze e il primato che assegna alla comprensione delle basi neurobiologiche dei
fenomeni mentali.
Il termine “neuroscienze cognitive” viene utilizzato a
due diversi livelli: in senso più ampio, si riferisce allo
studio neuroscientifico delle maggior parte degli ambiti
del comportamento umano; in senso più restrittivo,
si riferisce allo studio delle basi neurali del pensiero
– che cosa lo influenza, in che cosa consiste e come
viene controllato.
Le origini delle neuroscienze cognitive possono essere
fatte risalire al dibattito che ha caratterizzato il secolo
XIX tra due modi di pensare alla funzione cerebrale,
entrambi influenti ancor oggi: localizzazione della funzione vs azione di massa.
La ricerca condotta nella seconda metà del secolo
XIX ha stabilito la validità del concetto di localizzazione
per tre funzioni specifiche: il controllo motorio (localizzato nei lobi frontali); la visione (localizzata nei lobi
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occipitali), la produzione del linguaggio (localizzata nel
giro frontale postero-inferiore sinistro).
●●
La ricerca sul controllo motorio ha introdotto il principio della rappresentazione topografica, per il quale
parti adiacenti del corpo sono rappresentate da parti
adiacenti della corteccia cerebrale.
●●
Studiare un aspetto della cognizione implica una riflessione attenta sulla validità della funzione studiata; e
non tutti gli aspetti del comportamento umano sono
altrettanto accessibili alla ricerca nel campo delle neuroscienze cognitive.
●●
La disciplina delle neuroscienze cognitive non potrebbe
esistere senza le scoperte provenienti dalla ricerca su
animali non umani.
●●
Al tramonto del XX secolo, gli scienziati studiavano il
cervello e il comportamento da tre prospettive differenti
(seppure correlate), le quali hanno in seguito dato
origine alle neuroscienze cognitive per come oggi lo
conosciamo: le neuroscienze dei sistemi (systems
neuroscience), la neurologia/neuropsicologia; la psicologia sperimentale.
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Introduzione e storia5
CONTENUTI
TEMI CHIAVE
STORIA BREVE (E SELETTIVA)
Localizzazione della funzione vs azione di massa
La prima dimostrazione scientificamente rigorosa
della localizzazione della funzione
La localizzazione delle funzioni motorie
La localizzazione della percezione visiva
La localizzazione del linguaggio
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CHE COS’È E CHE COSA FA IL CERVELLO?
GUARDANDO IN PROSPETTIVA ALLO
SVILUPPO DELLE NEUROSCIENZE
COGNITIVE
DOMANDE DI FINE CAPITOLO
BIBLIOGRAFIA
ALTRE FONTI
LETTURE CONSIGLIATE
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CRONOLOGIA:
ORIGINI DELLE
NEUROSCIENZE COGNITIVE
NEI SECOLI XIX E XX
Evento
Date
Capitolo 1
Gall propone il suo trattato
di frenologia
1790–1820
decenni
Capitolo 1
Flourens conduce esperimenti
confutando la localizzazione basata
sulla frenologia
1820–1850
decenni
Jackson propone l’organizzazione
somatotopica della corteccia
motoria
1860-1870
Broca, rifacendosi ai lavori su Tan e
altri pazienti, localizza il linguaggio
nel giro frontale postero-inferiore
sinistro
1863
Capitolo 1
Fritsch e Hitzig determinano,
mediante stimolazione elettrica, la
localizzazione delle funzioni motorie
nella corteccia frontale posteriore
1870
Capitolo 1
Capitolo 18
Wernicke descrive l’afasia recettiva,
localizzando la comprensione del
linguaggio
1874
Capitolo 1
Gli studi di Munk e Schaefer
definiscono in via definitiva la
localizzazione della percezione
visiva nel lobo occipitale
Brodmann pubblica la
mappa citoarchitettonica
dell’organizzazione anatomica del
cervello umano
1909
Capitolo 3
Capitolo 3
Berger registra il ritmo alfa nell’uomo
mediante elettroencefalografia (EEG)
extracranica
1929
Capitolo 4
Gli studi di stimolazione elettrica
di Perfield definiscono la mappa
somatosensoriale nel giro
postcentrale (homunculus)
1880
decennio
Sviluppi contemporanei
nello studio psicologico della cognizione*
La filosofia domina la cultura
in psicologia
La sperimentazione pionieristica
sulla percezione da parte
di Weber e Helmholtz dà origine
alla psicofisica
Wundt fonda l’Istituto
di Psicologia Sperimentale
L’alba del comportamentalismo
(behaviorism)
La psicologia è dominata
dal behaviorism
1930
decennio
*Nota: questi eventi sono qui riportati, nonostante non siano trattati nel testo, a puro scopo di ricostruzione storica.
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Capitolo 13
Studi pionieristici sulle funzioni
cognitive della corteccia prefrontale
di Jacobsen
1935
Capitolo 10
Hebb postula il principio delle basi
cellulari dell’apprendimento e della
memoria
1949
Scoville e Milner descrivono i deficit
mnesici profondi del paziente H.M.
a seguito di lobectomia bilaterale
temporale mediale
1957
Capitolo 10
Hubel e Wiesel scoprono
le proprietà di rilevatori delle
caratteristiche (feature detectors)
dei neuroni della corteccia visiva
primaria
1963
Capitolo 3
1960
decennio
Capitolo 18
Lo studio di Geschwind su pazienti
neurologici con afasie rafforza
le teorie sulla lateralizzazione della
funzione e sull’importanza delle
connessioni anatomiche tra regioni
per le funzioni linguistiche
1971
Capitolo 13
Fuster e Alexander e Kubota e
Niki scoprono l’attività sostenuta
a periodo ritardato (sustained
delay-period activity) nella corteccia
prefrontale delle scimmie che
eseguono compiti di working
memory (memoria di lavoro)
Bliss e Lomo scoprono la long-term
potentiation (potenziamento a lungo
termine), una prova fisiologica del
postulato di Hebb del 1949
1971
Capitolo 12
1986
Capitolo 9
Rumelhart, McClelland e il Gruppo
di Ricerca PDP pubblicano i volumi
Parallel Distributed Processing,
descrivendo questo approccio ai
modelli computazionali ispirati al
funzionamento del sistema nervoso
1988
Capitolo 6
Prime immagini di tomografia a
emissione di positroni (PET) di
soggetti umani che eseguono un
compito
1992
Capitolo 6
Prime immagini di attività cerebrale
evocata da uno stimolo mediante
risonanza magnetica funzionale
(fMRI)
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La psicologia è dominata
dal behaviorism
Primi fermenti della rivoluzione
cognitivista
La psicologia cognitiva diventa
dominante nello studio psicologico
della cognizione
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SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO
STORIA BREVE (E SELETTIVA)
Malgrado il termine “neuroscienze cognitive” come
definizione di una disciplina scientifica esista solo da
pochi decenni, questo ambito di ricerca affonda le sue
radici indietro nel tempo di millenni.
Gli antichi Egizi, Greci e Romani avevano le loro
opinioni circa le basi organiche dei pensieri e delle
emozioni dell’uomo, malgrado molte di queste non
chiamassero specificamente in causa il cervello.
Gli antichi Egizi, per esempio, nel preparare alla vita
dell’aldilà i corpi dei nobili deceduti, rimuovevano ed
eliminavano il cervello come primo passo nel processo
di mummificazione.
Gli organi interni ritenuti degni di conservazione
venivano preservati in urne che venivano inumate assieme
al corpo del defunto. In molte tra le antiche civiltà delle
quali si ha traccia, Romani inclusi, si riteneva che il
cuore fosse la sede del pensiero. Nell’era illuministica,
tuttavia, il ruolo centrale del “neuro” nella cognizione era
ampiamente accettato. Un esempio altamente influente
(seppur recentemente ridicolizzato) fu quello degli anatomisti tedeschi Franz Josef Gall (1758-1828) e Johann
Caspar Spurzheim (1776-1832), che realizzarono uno
schema molto dettagliato, noto come frenologia, su
come la forma di differenti parti del cranio sarebbe in
relazione con la personalità e le facoltà mentali di un
individuo. La premessa era che le dimensioni relative
delle varie parti del cervello producessero convessità e
concavità a livello del cranio sovrastante. Un abile frenologo, dunque, avrebbe potuto capire qualcosa di un
individuo attraverso la palpazione del suo cranio. Una
protuberanza in corrispondenza dell’osso zigomatico al
di sotto dell’occhio indicherebbe una predisposizione
per il linguaggio, mentre una rientranza in corrispondenza dell’orecchio sinistro corrisponderebbe a una
relativa mancanza del tratto “distruttività” (Figura 1.1).
È possibile immaginare quale evidente utilità potesse
avere un simile schema, supposto che avesse una qualche
validità scientifica, nella diagnosi di patologie cerebrali,
così come nella valutazione della personalità e delle
attitudini. (Di fatto, per un certo periodo del secolo
XIX, è stato (mal)utilizzato in questo senso in maniera
estensiva, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti.)
Negli ultimi 100 anni, le comunità degli psicologi e dei
neuroscienziati hanno giudicato come scientificamente
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Curiosità 1.1
Le neuroscienze cognitive si fondano sull’assunzione
fondamentale che tutte le funzioni cognitive originano
dalle proprietà fisiche, chimiche e fisiologiche del cervello e del sistema nervoso centrale. Dunque, le
differenze tra individui dipendono da fattori fisici. In
soggetti umani a sviluppo normale, tuttavia, queste
differenze saranno microscopiche (per esempio, connessioni tra neuroni [Capitoli 2 e 10]; livelli differenti
di di concentrazione dei messaggeri chimici; Capitolo
2) e dovute a differenze genetiche e/o esperienziali.
inconsistenti tutti i postulati della frenologia. Oggi appare
chiaro che piccole peculiari variazioni di forma tra un
cervello e un altro hanno ben poco, se non nulla, a che
vedere con la personalità (tuttavia, consulta in merito
Curiosità 1.1).
Constatiamo anche che le assegnazioni delle funzioni
che Gall diede alle varie parti del cervello non erano
scientificamente rigorose e si sono rivelate complessivamente errate. Un terzo punto che merita ulteriori
commenti (Scheda di approfondimento 1.1) riguarda il fatto
che la selezione e definizione delle funzioni mappate
dai frenologi mancavano di sistematicità e rigore. Vi era,
tuttavia, al fondo del concetto dei frenologi, un’idea che
ha continuato ad animare i dibattiti sulle funzioni del
cervello fino ai giorni nostri – l’idea della localizzazione
della funzione.
Localizzazione della funzione vs azione
di massa
Il principio della localizzazione della funzione si riferisce
all’idea che differenti aspetti della funzione cerebrale,
come la percezione visiva o il controllo delle emozioni
o il talento musicale, sono governati da, e quindi localizzabili in, differenti “centri” nel cervello. Un’analogia
potrebbe essere rappresentata dal principio che differenti
funzioni corporee – estrazione di ossigeno dal sangue
o pompaggio del sangue o filtraggio del sangue – sono
realizzate da organi differenti (polmoni, cuore, reni) che
sono localizzati in distretti differenti del corpo. Questo
concetto può essere messo a confronto con un’idea
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FIGURA 1.1 Mappa frenologica dell’organizzazione anatomica delle facoltà mentali. Esse sono organizzate in due categorie principali (grassetto), ciascuna con sottocategorie (sottolineato). La prima categoria è quella delle facoltà emozionali: Propensioni:*
– Propensione ad alimentarsi; 1 – Distruttività; 2 – Propensione ad amare; 3 – Tendenza a riprodursi; 4 – Tendenza all’attaccamento; 5 - Appartenenza; 6 - Combattività; 7 – Segretezza; 8 – Avidità; 9 – Costruttività; Sentimenti: 10 – Cautela; 11 – Tendenza
ad approvare; 12 – Autostima; 13 – Benevolenza; 14 – Reverenza; 15 – Fermezza; 16 – Coscienziosità; 17 – Ottimismo; 18
– Meraviglia; 19 – Idealità; 20 – Gaiezza; 21 – Imitazione. La seconda categoria è quella delle facoltà intellettuali: Percettive:
22 – Individualità; 23 - Configurazione; 24 – Dimensione; 25 – Peso e resistenza; 26 – Colorazione; 27 – Localizzazione; 28 –
Ordine; 29 – Calcolo; 30 – Eventualità; 31 – Tempo; 32 – Sintonia; 33 – Linguaggio; Riflessive: 34 – Confronto; 35 – Causalità.
Fonte: Spurzheim, 1834.
alternativa, l’azione di massa, secondo la quale una
determinata funzione non è necessariamente localizzata
in un’area specifica del cervello e, viceversa, ciascuna
area del cervello non può essere ritenuta il “centro”
specializzato per una determinata funzione. Per restare
all’analogia di regioni familiari del nostro corpo al di
sotto del collo, è possibile illustrare il principio dell’azione
di massa focalizzandoci sul rene. La funzione renale – il
filtraggio del sangue – è realizzata allo stesso modo nelle
porzioni superiore, media e inferiore. Per comprendere
come il rene svolge questo lavoro, ci si potrebbe limitare
a studiare in dettaglio il funzionamento interno della
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sola parte superiore, media o inferiore di questo organo,
ottenendo da ciascuna i medesimi risultati. Di fatto, le
differenti zone del rene sono “intercambiabili” in termini
di comprensione del loro funzionamento.
Ora, proviamo a fare un salto indietro nel tempo
di alcuni secoli, ovvero a un’epoca nella quale ciò che
ho appena riferito non era ancora stato dimostrato. È
un’era nella quale le tecniche della ricerca biomedica
sono limitate e il migliore strumento a disposizione per
studiare la funzione di un organo è di danneggiarne una
parte e osservare l’impatto del danno sulla funzione.
Danneggiando regioni di dimensioni simili nella parte
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SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO
SCHEDA DI APPROFONDIMENTO
1.1 Che cos’è una funzione? (E quali caratteristiche rendono le basi neurali di una
funzione accessibili allo studio sperimentale?)
Una rapida ispezione di un fiasco rappresentativo della frenologia, come quello illustrato in Figura 1.1, fa davvero
sorridere: Avidità? Coscienziosità? Propensione ad amare? Su quali basi si può asserire che queste etichette
corrispondano davvero a “funzioni” unitarie e discrete?
Verso la fine di questo capitolo noteremo che le funzioni del controllo motorio e della visione sono relativamente
semplici da osservare e da misurare. Il fatto che si sia constatato che sono localizzabili con una certa specificità
anatomica rinforza l’idea che ciascuna possa essere considerata una funzione discreta del cervello. Si può dire
lo stesso, per esempio, della coscienziosità? È vero, naturalmente, che un organismo senza cervello non può
esibire coscienziosità e che dunque il fenomeno non può esistere in assenza di cervello. Tuttavia, non potrebbe
piuttosto essere che la “coscienziosità” sia solo un’etichetta che noi, membri di società altamente organizzate,
abbiamo assegnato a una collezione di attributi che non corrispondono di fatto a nessuna specifica facoltà mentale? Per esempio, se una studentessa mi invia un bigliettino di ringraziamento per averle scritto una lettera di
raccomandazione, penserò che ha dimostrato coscienziosità. Non potrebbe però anche darsi il caso che sia stata
condizionata durante il periodo della sua educazione giovanile dalla ricerca di rinforzo da parte dei genitori (Ma che
brava questa ragazza che scrive i bigliettini di ringraziamento!) e che il suo bigliettino per me sia semplicemente il
prodotto di un’associazione che lei ha realizzato tra lo scrivere un bigliettino di ringraziamento e questo rinforzo?
Se fosse questo il caso, non sarebbe possibile localizzare la coscienziosità e qualunque tentativo di farlo sarebbe
destinato a conclusioni erronee.
Questo esercizio illustra un difetto fondamentale della frenologia: molte, se non tutte, le “funzioni” che aveva
inteso mappare nel cervello erano sostanzialmente non valide, in quanto derivate semplicemente dall’intuizione di
Gall stesso. Più in generale, illustra due principi fondamentali delle neuroscienze cognitive attuali. Il primo è che la
validità di un modello di rappresentazione neurale di una funzione cognitiva dipende strettamente dalla validità della
funzione che si cerca di spiegare. La questione della construct validity sarà ripresa in ogni dominio comportamentale che affronteremo in questo libro. Per molti, i modelli formali del costrutto in esame verranno da una delle
“differenti discipline di studio” citate nell’Introduzione alla Sezione I. Il secondo principio è che non tutti gli aspetti
della cognizione e del comportamento sono ugualmente accessibili, con le attuali teorie e gli attuali modelli disponibili, a una spiegazione fondata sulle basi neurali. Per capirci meglio ritorniamo alla coscienziosità. Si dà il caso che
nel campo della psicologia della personalità la coscienziosità sia un costrutto valido, una delle dimensioni dei “big
five” lungo la quale può variare la personalità individuale (insieme con la piacevolezza, l’estroversione, l’apertura e il
nevroticismo). Ciascuna di queste è formalizzata come un fattore statistico al quale molti tratti contribuiscono. (Per
la coscienziosità, questi includono la misura in cui un individuo “segue un programma”, “dimentica di rimettere le
cose in ordine” ecc.) Tuttavia, nulla di tutto questo scalfisce il ragionamento fatto nel precedente paragrafo, ovvero
che non tutti i tratti descrivibili sono facilmente riducibili a un livello di analisi di tipo neurale.
superiore, media o inferiore del rene si ottiene il medesimo effetto: una riduzione complessiva nell’efficacia
della filtrazione renale. In questo modo, si sarebbe scoperto che un principio di azione di massa si applica al
rene: una lesione di maggiori dimensioni provoca una
diminuzione più consistente del grado di filtrazione
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renale; lesioni di minori dimensioni inducono un calo
meno sensibile della filtrazione renale e, cosa ancor più
importante, la localizzazione del danno non conta.
Ritorniamo ora alle funzioni cerebrali. Nei decenni
successivi all’introduzione della frenologia – e per certi
versi in reazione a essa – gli scienziati e i medici hanno
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Introduzione e storia11
Curiosità 1.2
Curiosità 1.3
Alcuni scienziati limitano l’uso del termine neuropsicologia a studi su soggetti umani con danno cerebrale
permanente e si riferiscono ad analoghi esperimenti
sull’animale con il termine studi di lesione.
Gli studi di Gall sulla localizzazione della funzione non
solo furono controversi all’interno dei circoli scientifici,
ma ebbero anche implicazioni politiche. Lo storico
della scienza Stanley Finger scrive: “Le autorità della
chiesa cattolica austriaca interpretarono il suo lavoro
come vessillo del materialismo, dell’ateismo e del
fatalismo che rasenta l’eresia”. L’imperatore d’Austria
(che governava Vienna, dove Gall aveva iniziato la sua
carriera) inviò a quest’ultimo una lettera di minacce
che recitava: “Questa dottrina sulla testa…potrà forse
costare a qualcuno la propria” (Finger 2000, pp. 124125). Dopo pochi anni, Gall (e la sua testa) lasciarono
definitivamente Vienna per stabilirsi a Parigi.
iniziato a perseguire l’idea della localizzazione della funzione nel cervello utilizzando procedure che riflettevano
la maturazione del metodo scientifico che si stava realizzando in molte branche della scienza, dalla biologia alla
chimica alla fisica. A livello generale, questo comportava
l’articolazione a priori di ipotesi verificabili (ovvero,
stabilire l’ipotesi prima di eseguire l’esperimento) e il
disegno di esperimenti controllati che potessero essere
replicati in altri laboratori. Un avanzamento importante per gli studi sul cervello, in particolare, fu l’analisi
accurata delle conseguenze comportamentali del danno
a una specifica regione cerebrale. Questo metodo ha
preso il nome di neuropsicologia (Curiosità 1.2). Con
questo approccio, alcune affermazioni di natura localizzazionista tipiche dei frenologi sono state smentite.
Forse più influenti sono risultati gli studi dello scienziato
francese Pierre Flourens (1794-1867). Instancabile critico dei frenologi, Flourens condusse gran parte del suo
lavoro sperimentale su piccioni e cani. La sua ricerca fu
influente sotto due punti di vista. Primo, alcuni esperimenti di Flourens hanno smentito affermazioni tipiche
della frenologia, come la sua dimostrazione del fatto che
danni al cervelletto alteravano la coordinazione della
locomozione, ma non avevano effetti sulla propensione all’amore (ovvero l’arousal sessuale), al contrario
di quanto avrebbe previsto il modello di Gall (Figura 1.2
e Curiosità 1.3). Secondo – e più in generale – gli studi
di Flourens sulla corteccia cerebrale non hanno fornito alcuna evidenza sulla localizzazione della funzione.
Dunque, sebbene il danno alla corteccia producesse
invariabilmente alterazioni marcate di comportamenti
associati alla valutazione, alla memoria, alla percezione,
questi deficit si verificavano a prescindere da quale area
cerebrale fosse coinvolta. Per inferenza, questi risultati
indicavano che tutte le regioni della corteccia contribuiscono equamente a questi comportamenti. (Da notare
che lo stesso non si verificava negli studi di Flourens sul
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tronco dell’encefalo, al quale appartiene – per esempio
– il cervelletto [vedi Figura 1.2 e Web Link 1.1].) Un
altro concetto importante emerso dal lavoro di Flourens
derivava dal fatto che, con il passare del tempo, animali
con danno sperimentalmente indotto a una zona della
corteccia spesso recuperavano la funzionalità a livelli
prechirurgici. Poiché questo si verificava senza evidente
riparazione del tessuto danneggiato, si è concluso che
aree intatte del cervello vicariassero la funzione. Questo
ha dato origine al concetto di equipotenzialità, ovvero
l’idea che qualunque parte del tessuto corticale abbia la
capacità di adempiere a qualunque funzione cerebrale.
Circa 50 anni prima di questo libro e 130 anni dopo
l’apice dell’avventura frenologica, i neuroscienziati
Charles Gross e Lawrence Weiskrantz scrissero: “L’epoca
eroica del nostro settore di ricerca prese avvio con Gall
(1835)…[che] stimolò l’individuazione dei centri cerebrali e diede la prima spinta al pendolo della disputa tra
i concetti di azione di massa e di localizzazione” (Gross
e Weiskrantz, 1964). Implicita in questa citazione era
la convinzione che la dicotomia localizzazione-azione
di massa avrebbe fornito informazioni utili alla comprensione di questioni fondamentali delle neuroscienze
contemporanee. La Scheda di approfondimento 1.2 contiene ulteriori riflessioni su questo tema, che conserva
tutt’oggi la sua rilevanza e che si rivelerà utile per la
comprensione di molti concetti e controversie che sono
oggi dominanti nelle neuroscienze cognitive.
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SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO
A
Solco
centrale
Lobo
parietale
Lobo
frontale
Lobo
occipitale
Solco
laterale
Lobo
temporale
B
Corpo
calloso
Lobo
frontale
Cervelletto
Solco
centrale
Lobo
parietale
Lobo limbico
Talamo
Lobo
limbico
Lobo
occipitale
Nucleo
caudato
Fornice Lobo
temporale Tronco
encefalico
Cervelletto
FIGURA 1.2 Il cervello umano (vedi Capitolo 2 e Web Link 1.1, Cervello umano in 3-D rotabile e “sezionabile”, per le definizioni e
la terminologia). A. Aspetto laterale. B. Aspetto mediale. Fonte: Colin Cumbley/Science Photo Library. Riprodotta con permesso.
La prima dimostrazione scientificamente
rigorosa della localizzazione della funzione
Malgrado i concetti sostenuti da Gall da un lato e da
Flourens dall’altro siano ancor oggi nell’aria, di certo
lo stesso non si può dire circa la maggior parte delle
evidenze che i loro studi hanno prodotto. Piuttosto, nella
metà/fine Ottocento, ovvero durante quello che può
essere considerato il primo ritorno del pendolo, nella sua
oscillazione, verso il punto di vista della localizzazione,
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si assiste all’emergere di principi sulla funzione cerebrale
che, almeno approssimativamente, si sono mantenuti fino
a oggi. Questi principi riguardano le funzione relative
al controllo motorio, alla visione e al linguaggio.
La localizzazione delle funzioni motorie
A partire dal 1860, il neurologo britannico John
Hughlings Jackson (1835-1911) descrisse la traiettoria
sistematica di certe convulsioni focali che prendono avvio
dalle dita e si diffondono lungo il braccio fino al tronco,
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Introduzione e storia13
SCHEDA DI APPROFONDIMENTO
1.2 Localizzazione vs azione di massa nel corso degli anni
La domanda chiave nell’ambito delle neuroscienze cognitive è In che modo il funzionamento del cervello produce la
cognizione e il comportamento? Un modo per affrontare la questione su come funziona un determinato sistema è
quello di dividere il suo comportamento complessivo in funzioni ragionevolmente discrete e di determinare se parti
fisicamente distinte del sistema possano supportare in modo diverso le differenti funzioni. Per determinare come
funziona un’automobile, per esempio, si dovrebbe iniziare “scomponendo” in maniera logica il suo comportamento
complessivo in funzioni plausibilmente separabili, ovvero quelle che accelerano e alimentano il movimento da quelle
che lo rallentano e lo interrompono. Questo approccio conduce inevitabilmente a un modo di vedere il sistema
come se fosse fatto di componenti discrete, ciascuna delle quali sottende a una funzione specifica. Tuttavia, non
tutti i sistemi sono fatti di componenti discrete ciascuna con la propria funzione alla maniera di un’automobile.
Prendiamo per esempio un banco di pesci. Esso ha delle proprietà (forma complessiva, regolarità dei margini
esterni, variazioni di velocità e direzione) che non possono essere attribuite ai singoli componenti. Ciascuna di
queste proprietà può essere definita una proprietà emergente, nel senso che non si ritrova in alcuno degli elementi
costitutivi (nell’esempio, in alcuno dei singoli pesci), ma “emerge” a livello di banco. (Vedremo che molte funzioni
cognitive, compresa la coscienza, sono da molti considerate come emergenti.) Se prendiamo in esame il banco
di pesci, tutte le sue parti eseguono la medesima funzione e sono intercambiabili (ovvero posseggono equipotenzialità) e la rimozione del 20% dei pesci da una parte del banco piuttosto che da un’altra avrà i medesimi effetti sul
banco stesso (ovvero si applica il principio dell’azione di massa). Il principio della localizzazione della funzione non
è applicabile a un banco di pesci. (Si noti, tuttavia, che la localizzazione della funzione è applicabile all’interno del
singolo pesce ‒ per esempio, per il movimento della coda o l’estrazione dell’ossigeno dall’acqua ‒ così che risulta
molto importante specificare il livello di dettaglio al quale si decide di studiare un sistema.)
Poiché le automobili sono opera dell’uomo, non vi è necessità di effettuare esperimenti per determinarne il funzionamento. Ed è proprio perché sappiamo come sono disegnate e realizzate che comprendiamo che una prospettiva
basata sulla localizzazione della funzione è il modo corretto di ragionare su come le differenti funzioni dell’automobile
sono realizzate. Poiché un banco di pesci è completamente osservabile (ovvero, sappiamo tutto ciò che c’è da
sapere circa la sua composizione) sappiamo che vi si applicano le proprietà dell’emergenza, dell’equipotenzialità e
dell’azione di massa. Tuttavia, il cervello è differente da questi due esempi, poiché non sappiamo tutto quello che
c’è da sapere sulla sua composizione. Per studiarlo, di conseguenza, i neuroscienziati della cognizione elaborano
dei modelli e testano questi modelli con esperimenti. Malgrado non venga sempre apertamente specificato, questi
modelli e/o le tecniche utilizzate per testarli partono spesso dal presupposto che la porzione cerebrale in esame
funzioni con principi di localizzazione o di distribuzione. Nell’avviarci allo studio di questioni aperte delle neuroscienze cognitive, è opportuno tenere in conto che la scelta di un modello e/o di un metodo può condizionare le
interpretazioni dei dati in direzione localizzazionista o più in linea con i concetti di azione di massa ed emergenza.
talvolta concludendosi con una perdita di coscienza. A
partire da questo pattern caratteristico, che da allora è
noto come la marcia di Jackson (è come se la convulsione
marciasse lungo il corpo), Jackson propose che l’attività
cerebrale anomala che si presumeva fosse alla base delle
convulsioni avesse origine in una zona della corteccia
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che controlla le dita e che si muovesse lungo la superficie della corteccia, interessando progressivamente le
aree cerebrali che controllano il palmo della mano, il
polso, il braccio ecc.
Ci furono due importanti implicazioni della teoria di Jackson. La prima fu l’ipotesi che la capacità di
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SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO
movimento del corpo (ovvero, il controllo motorio)
fosse una funzione localizzata nel cervello. La seconda
fu un principio che divenne un assunto fondamentale
dell’organizzazione funzionale in diverse aree cerebrali,
ovvero che l’organizzazione del cervello rispecchia l’organizzazione del corpo (o, come vedremo, una specifica
regione del corpo). In questo caso specifico, si propose
che l’area del cervello che controlla i muscoli delle dita
fosse adiacente all’area che controlla i muscoli del palmo
della mano, che a sua volta è adiacente all’area cerebrale
che controlla i muscoli del polso e così via. Dunque, le
funzioni di ciò che verrà identificato come la corteccia
motoria sono rappresentate sulla superficie del cervello in
una sorta di mappa del corpo (ovvero, in somatotopia).
In questo modo, l’idea di un’organizzazione topografica
della funzione fu introdotta nello spazio lasciato vuoto
dallo schema arbitrario (e ormai discreditato) dei frenologi (i principi e le caratteristiche della somatotopia
verranno presentati in dettaglio nei Capitoli 4 e 7).
Malgrado le idee proposte da Jackson fossero basate
su accurate osservazioni dei pazienti, una teoria come
quella dell’organizzazione somatotopica della corteccia
motoria non poteva essere definitivamente valutata senza
l’osservazione diretta o la manipolazione del cervello
stesso. La capacità di realizzare studi empirici definitivi
in questo senso divenne possibile grazie ai progressi
dell’Illuminismo nel modo di pensare la scienza e il
metodo scientifico, oltre ai concomitanti progressi tecnologici che consentivano di sviluppare metodi scientifici
innovativi. Di particolare rilevanza fu la messa a punto
di metodi che consentissero interventi chirurgici in
condizioni di asepsi (sterilità). Questi consentirono agli
sperimentatori di mantenere in vita gli animali per settimane o più a lungo ancora a seguito della craniotomia,
necessaria per produrre lesioni o manipolare le funzioni
cerebrali. In precedenza, le infezioni spesso limitavano la
sopravvivenza postchirurgica a poche ore o pochi giorni.
Questo progresso tecnologico aveva molte implicazioni
importanti, tra le quali quella di aprire la strada per la
stimolazione diretta del – e in seguito la registrazione
dal – cervello di un animale intatto (tecniche che rientrano nella categoria della neurofisiologia, vedi Scheda
metodologica 1.1).
Fu così che il medico tedesco Gustav Fritsch (18381927) e Eduard Hitzig (1838-1907) dimostrarono che la
stimolazione elettrica di porzioni anteriori della corteccia
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FIGURA 1.3 Illustrazione dell’aspetto superiore del cervello di
un cane. I simboli indicano, in senso rostro-caudale, le aree la
cui stimolazione produce contrazioni muscolari sul lato destro
del corpo, rispettivamente a livello del collo, dell’arto anteriore
e dell’arto posteriore. Fonte: Fritsch e Hitzig, 1870.
cerebrale del cane, situate nel lobo frontale, producevano
movimenti sul lato opposto del corpo (Fritsch e Hitzig,
1870). Due questioni erano degne di nota. Primo, una
simile stimolazione di una regione più posteriore del
cervello, il lobo parietale, non produceva movimenti del
corpo (Figura 1.3). Sulla base di questa dimostrazione
della specificità anatomica degli effetti (Scheda metodologica 1.1), Fritsch e Hitzig sfidarono apertamente l’idea
di equipotenzialità sostenuta da Flourens. Secondo, la
regione del corpo coinvolta dalla stimolazione elettrica
(es. collo, arto anteriore, arto posteriore) variava sistematicamente al variare della posizione dell’elettrodo stimolante. Tutto questo supportava oggettivamente l’idea di
Jackson sull’organizzazione somatotopica delle funzioni
motorie del cervello.
La localizzazione della percezione visiva
Una seconda funzione che fu al centro di intensa ricerca
scientifica in quel periodo fu la percezione visiva. Anche
qui gli studi di Flourens risultarono influenti. Malgrado
avesse dimostrato il principio della lateralizzazione incrociata della funzione – ovvero che le lesioni dell’emisfero
sinistro producevano disfunzioni visive nel campo visivo
di destra e viceversa – egli non aveva trovato alcuna evidenza del fatto che questo meccanismo generale variasse
in funzione di dove nell’emisfero si effettuava la lesione.
Ovvero, Flourens non era riuscito a trovare l’evidenza
della localizzazione della funzione visiva all’interno
dell’emisfero cerebrale.
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Introduzione e storia15
SCHEDA METODOLOGICA
1.1 Neuropsicologia e l’importanza della specificità anatomica
La neuropsicologia si fonda sull’idea che un modo di comprendere il funzionamento di un sistema è quello di
rimuovere (o inattivare) sistematicamente parti di esso e osservare come la rimozione di ciascuna parte condizioni
il funzionamento del sistema. Uno studio neuropsicologico può rispondere alla domanda La regione A contribuisce in maniera significativa al comportamento X?, ma non è in grado di spiegare direttamente come la regione
A riesca a farlo. In altre parole, non può rispondere a domande relative ai meccanismi. Gli studi neuropsicologici,
piuttosto, possono studiare il modo con cui la funzione della regione A dà origine al comportamento X. Un esempio
concreto: questo capitolo descrive come la sperimentazione neuropsicologica venne utilizzata per determinare
in via definitiva che la percezione visiva è localizzata nella corteccia occipitale. Tuttavia, non prima del Capitolo 3
(e, cronologicamente, solo circa 80 anni dopo) vedremo che gli esperimenti elettrofisiologici dimostreranno come
i neuroni nel lobo occipitale processano l’informazione visiva. Ciononostante, un esperimento neuropsicologico
condotto accuratamente può consentire di inferire con maggiore sicurezza circa il contributo di una regione al
comportamento di quanto spesso non permettano esperimenti che misurano variabili neurofisiologiche, poiché il
primo ci può dire in maniera definitiva se il contributo di una regione a un certo tipo di comportamento è necessario. Gli studi che utilizzano misure neurofisiologiche, al contrario, si limitano a rivelare correlazioni tra un’attività
cerebrale e il comportamento oggetto di indagine. Gli studi che utilizzano stimolazioni neurofisiologiche ‒ del tipo
di quelli condotti da Fritsch e Hitzig e trattati nella sezione La localizzazione delle funzioni motorie di questo capitolo
‒ rappresentano una sorta di via di mezzo.
In entrambi i tipi di esperimenti, l’affidabilità delle conclusioni dipende dalla specificità anatomica. Per esempio,
ciò che rese l’esperimento di Fritsch e Hitzig (1870) tanto efficace fu la specificità con la quale dimostrò che la
stimolazione di una certa porzione del lobo frontale nell’emisfero sinistro produceva movimenti dell’arto anteriore
destro e non dell’arto posteriore destro o dell’arto anteriore sinistro. Inoltre, la stimolazione di un’area limitrofa
produceva selettivamente movimenti di un’altra regione del corpo, l’arto posteriore destro. Se gli autori avessero
limitato il loro resoconto alla prima dimostrazione, sarebbero rimaste senza risposta due importanti questioni. La
prima: è possibile che la stimolazione di altre regioni produca il movimento dell’arto anteriore destro? Trovare una
risposta a questo significava comprendere quanto sia localizzato il controllo dell’arto anteriore destro. La seconda:
la stimolazione di questa regione del cervello produce movimenti anche di altre parti del corpo? La risposta a questo
avrebbe dato un’indicazione su quanto specifica sia la funzione dell’area cerebrale sotto indagine. Queste considerazioni possono essere particolarmente importanti negli studi neuropsicologici sull’uomo, come quelli descritti nel
paragrafo La localizzazione del linguaggio di questo capitolo, già che questi studi spesso si fondano su “incidenti
della natura”, come l’ictus, la malattia neurodegenerativa, il trauma cranico. In quel contesto, gli scienziati non
hanno controllo (se non quello di come selezionano i pazienti) sull’estensione del danno, né in termini di quante
strutture sono coinvolte né di volume complessivo del tessuto danneggiato. Quando le lesioni sono estese, c’è
un’intrinseca difficoltà nel determinare quale delle strutture danneggiate sia responsabile del deficit comportamentale riscontrato. Un modo sensato per affrontare questo problema, la “doppia dissociazione della funzione”, verrà
introdotto nel Capitolo 5 (Riflettori sulla ricerca 5.1 e Scheda metodologica 5.1).
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SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO
Come per altri suoi risultati sperimentali negativi,
tuttavia, anche questo fu superato dall’avvento di nuovi
e migliori metodi empirici. Nel caso della ricerca sulla
visione, l’affinamento dei metodi di lesione sperimentalmente indotta rappresentò lo sviluppo decisivo per
una scoperta importante. In particolare, lo sviluppo di
tecniche chirurgiche asettiche risultò in una sopravvivenza postchirurgica più lunga e di migliore qualità degli
animali sperimentali, rispetto a quanto fosse possibile
ottenere in precedenza. Tutto questo, per parte sua, consentì valutazioni del comportamento assai più sofisticate
e conclusive. Addirittura, per un certo tempo, non fu
raro vedere a un convegno scientifico un ricercatore che
portava con sé un animale con una lesione per mostrarne
le alterazioni comportamentali. Per ragioni forse simili,
questo stesso periodo vide il fiorire della ricerca sulle
scimmie, che hanno cervello e comportamenti più simili
a quelli dell’uomo rispetto agli uccelli o ai carnivori;
ma, naturalmente, è assai più costoso procurarsi e allevare scimmie piuttosto che uccelli, roditori e carnivori.
Così, la ricerca sulle scimmie non fu considerata percorribile fino al XIX secolo, quando si realizzarono
progressi notevoli nelle tecniche chirurgiche. (Vedi la
Scheda di approfondimento 1.3 per alcune considerazioni
sul ruolo dei modelli animali non umani nella ricerca
neuroscientifica.)
A
Alla scoperta di una regione specializzata nel controllo
motorio seguì immediatamente un’intensa ricerca sulle
basi neurali della percezione visiva. Utilizzando tecniche
di stimolazione elettrica e di lesione chirurgica, la ricerca
iniziale su cani e scimmie suggerì il ruolo privilegiato
nella percezione visiva delle regioni posteriori del cervello. Ovvero, così come era stato provato in maniera
conclusiva che il controllo motorio non dipende dalle
regioni posteriori, il contrario risultò essere per la visone.
Gli ultimi decenni del XIX secolo furono caratterizzate da un dibattito vivace sul fatto che i “centri della
visione”, una definizione dovuta al fisiologo britannico
David Ferrier (1843-1928), fossero localizzati in una
regione della corteccia parietale o in una regione della
corteccia occipitale (Figura 1.4). Questa ricerca, condotta soprattutto sulle scimmie e da parte di Ferrier, del
fisiologo Hermann Munk a Berlino (1839-1912) e del
fisiologo Edward Schaefer a Londra (1850-1935), ha
gradualmente portato alla conclusione che la regione
la cui distruzione produceva una cecità evidente e persistente – e non a deficit visivi solo sfumati e transitori
– era la corteccia occipitale. Questa conclusione, rinforzata da osservazioni raccolte da pazienti umani con
lesioni cerebrali, portò alla localizzazione universalmente
accettata della corteccia visiva primaria a livello del
lobo occipitale.
B
X
FIGURA 1.4 Due lesioni sperimentali realizzate da Ferrier in esperimenti disegnati per localizzare il locus corticale dell’elaborazione
dell’informazione visiva. A. Lesione del lobo parietale che Ferrier nel 1876 interpretò come responsabile di cecità permanente e,
dieci anni dopo, di cecità temporanea. B. Lesione del lobo occipitale che egli interpretò come non responsabile di alcun deficit
visivo. Il neuroscienziato Charles Gross (1998) ha marcato con una X la regione che oggi sappiamo rappresentare la visione
centrale (foveale), un argomento che esploreremo in dettaglio nel Capitolo 3. Queste lesioni e la loro interpretazione illustrano le
difficoltà che incontravano nel XIX secolo i neuroscienziati nel localizzare le funzioni cognitive nel cervello.
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Introduzione e storia17
SCHEDA DI APPROFONDIMENTO
1.3 Il ruolo dei modelli animali nella ricerca neuroscientifica
Da questo escursus storico appare evidente che le neuroscienze cognitive moderne non si sarebbero potute sviluppare senza la ricerca sui modelli animali. È altrettanto vero che la ricerca sui modelli animali svolge ancora oggi un
ruolo cruciale e necessario in tutte le branche delle moderne neuroscienze cognitive. La ragione di questo, come si
constaterà in ciascuno dei prossimi capitoli, è che molte domande sull’anatomia e la fisiologia non possono trovare
risposta scientifica se non attraverso la realizzazione di esperimenti invasivi. La lettura di questo libro chiarirà anche
che, nonostante si sia acquisita una grande mole di informazioni su come il funzionamento del cervello determini
la cognizione, un’enorme quantità di questioni rimane ancora senza risposta. Anche a fronte di recenti e continui
progressi nei metodi non invasivi per lo studio del cervello (per esempio, il neuroimaging e il computer modeling) ci
saranno ancora domande alle quali si potrà dare risposta solo attraverso protocolli sperimentali invasivi.
Per queste ragioni, un altro fattore sociologico con il quale i neuroscienziati cognitivisti dovranno fare i conti (in
aggiunta a quelli già anticipati nel secondo paragrafo) è l’etica della sperimentazione animale. Questo vale anche
per quei ricercatori (come l’autore di questo libro) che conducono ricerca esclusivamente su soggetti umani.
Questo perché molte delle idee che motivano i nostri esperimenti provengono dalla ricerca condotta sugli
animali e la nostra abilità nell’interpretare i nostri dati dipende spesso da quanto si è appreso attraverso la ricerca
sull’animale. A riprova informale di questo, basti considerare i contenuti degli incontri periodici di aggiornamento
bibliografico dei membri del mio laboratorio. Durante il semestre accademico che ha preceduto la stesura di questa
scheda di approfondimento, il mio gruppo di ricerca si è incontrato 14 volte, in ciascuna delle quali si è discusso
un articolo ricavato da una rivista scientifica e rilevante per la nostra ricerca. Ebbene, in quattro di questi incontri
si è trattato di ricerche condotte su modelli animali. Da qui, una nota semantica: in tutto il presente libro, quando
parlerò genericamente di “primati”, mi riferirò a tutte le specie appartenenti a quest’ordine tassonomico (uomo
incluso). Tipicamente, questo avverrà nel contesto di strutture/funzioni/comportamenti che accomunano i primati,
ma che non sono generalizzabili agli altri mammiferi.
L’etica sulla ricerca animale è complessa e il tema può sollevare forti emozioni. I dibattiti sono spesso caratterizzati
da questioni teoriche per le quali non ci sono riposte oggettivamente “corrette” o “sbagliate”. Per esempio, una
domanda che si è sentita circolare è se – in presenza di un edificio in fiamme e di tempo disponibile per salvare un
solo essere vivente – si salverebbe l’uomo oppure il topo (o il cane, o la scimmia ecc.). Ebbene, è assodato che
vi sono occasioni nelle quali due persone potrebbero dedicare un intero pomeriggio a dibattere anche solo sul
fatto che questa analogia sia corretta o meno per affrontare la questione della sperimentazione animale. Anche se
considerazioni più dettagliate su questo tema esulano dallo scopo di questo libro, si consiglia la lettura del neuroscienziato Dario Ringach (2011) (vedi Letture consigliate) che riassume egregiamente molti degli spunti in favore e
contro la ricerca sull’animale e fornisce riferimenti bibliografici a supporto di entrambi i punti di vista.
La localizzazione del linguaggio
L’ultima funzione cerebrale che prenderemo in considerazione in questo capitolo introduttivo è il linguaggio: più specificamente, l’abilità di parlare. La facoltà
del linguaggio era stata localizzata dai frenologi in una
regione del lobo frontale immediatamente posteriore
agli occhi. (Si racconta che quest’idea fosse derivata
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dall’osservazione da parte di Gall di un compagno di
classe che possedeva una prodigiosa memoria verbale e
occhi sporgenti, il che spinse Gall a dedurre che fosse
il lobo frontale ipersviluppato a spingere gli occhi in
avanti.) Come accadde per il controllo motorio, lo studio
post-frenologico del linguaggio ebbe inizio con osservazioni cliniche. Nei decenni che precedettero il 1860, studi
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SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO
della terza convoluzione” (una porzione del giro frontale
inferiore di sinistra nota oggi come area di Broca). Vale
ora la pena di soffermarsi un istante sul perché Broca,
e non i suoi predecessori e contemporanei che pure
avevano fatto osservazioni simili sui pazienti, ebbe il
riconoscimento ufficiale della sua scoperta. Un fattore
importante è che i resoconti di Broca confermavano
un’idea già precedentemente avanzata – una sequenza
di eventi in pieno accordo con un’epoca nella quale si
enfatizzava l’importanza della verifica delle ipotesi come
elemento fondante del metodo scientifico.
FIGURA 1.5 Superficie esterna di sinistra del cervello di Tan,
il paziente di Broca. Si noti il danno esteso nel giro frontale
postero-inferiore, una regione che divenne famosa con il nome
di area di Broca. Fonte: Riprodotta con il permesso del Museo
Dupuytren, Università Pierre et Marie Curie, Parigi. Riprodotta
in N.F. Dronkers, O. Plaisant, M.T. Iba-Zizen e E.A. Cabanis.
Paul Broca’s historic cases: high resolution MR imaging of the
brains of Lebrogne and Lelong, Brain (2007) 130(5): 1432-1441.
Figura 3A. Fotografia di Bruno Delamain.
isolati riportavano – in alcuni casi – che era la lesione
del lato sinistro del cervello a essere associata a disfunzioni del linguaggio – in altri – che questi effetti erano
dovuti a lesioni delle porzioni anteriori. All’accumularsi
di queste osservazioni, si fece largo l’idea che le porzioni
anteriori dell’emisfero sinistro fossero importanti per il
linguaggio. Durante il decennio del 1860, il chirurgo
francese Paul Broca (1824-1880) pubblicò una serie di
case studies che confermavano questa convinzione. Fu
famoso il caso del paziente colpito da ictus, “Tan”, così
soprannominato perché questo era l’unico suono che
riusciva a produrre con la bocca. È importante ricordare
che il difetto di Tan era specifico della produzione del
linguaggio (ovvero, della verbalizzazione), poiché egli era
in grado di comprendere e seguire le istruzioni verbali
che riceveva. Inoltre, non vi era alcuna paralisi evidente
nell’apparato di fonazione, nel senso che – malgrado
una certa alterazione motoria della parte destra del
corpo – egli era in grado di mangiare, bere ed emettere la sua celebre espressione verbale. Alla morte di Tan,
Broca esaminò il cervello del paziente e concluse, sulla
base dell’evidente lesione riscontrata (Figura 1.5), che
la capacità di parlare è localizzata nel “terzo posteriore
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CHE COS’È E CHE COSA FA
IL CERVELLO?
Nel concludere questo escursus sulla nascita delle
moderne neuroscienze è interessante chiedersi perché
il controllo motorio, la visione e il linguaggio siano state
le prime tre funzioni del cervello a far sorgere un nuovo
modo di pensare e di fare scienza. Con particolare riferimento alle prime due funzioni, poniamoci le domande
generali Che cos’è il cervello? Che cosa fa? Per esempio,
che proprietà accomunano gli animali dotati di cervello
e che gli organismi sprovvisti di cervello (per esempio,
gli alberi) non hanno? Una risposta è che i cervelli
conferiscono l’abilità di percepire variazioni dell’ambiente – per esempio, una pietra che cade – e adottare
una risposta appropriata: scansarsi. L’albero, invece, non
ha strumenti per acquisire l’informazione che qualcosa
di potenzialmente pericoloso sta per verificarsi, né l’abilità di fare qualcosa per evitarlo. E così viene travolto.
Dunque, l’abilità di vedere (ovvero, la visione) e l’abilità
di muoversi (ovvero, il controllo motorio) sono funzioni relativamente semplici da osservare e misurare. Lo
stesso non si può dire per esempi più sfumati di eventi
cervello-mediati che si verificano in natura. Facciamo
l’esempio di scrivere il libro che ora stai leggendo. Di
certo, la visione e il controllo motorio sono stati coinvolti. (Per esempio, quando ho ricevuto la richiesta via
posta elettronica da parte dell’editore di scrivere questo
testo, ho usato la visione per leggere i caratteri neri su
sfondo bianco nello schermo del computer.) C’erano,
tuttavia, molti ulteriori passi da compiere. Tra questi,
la valutazione e la decisione da prendere (Vale la pena
assumersi tutto questo lavoro aggiuntivo? I termini del contratto
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Introduzione e storia19
con l’editore sono accettabili?), il recupero di memorie a
lungo termine (C’è quella bella citazione del capitolo di
Gross nel libro di Warren e Akert che dovrei utilizzare qui),
formare (e utilizzare) nuove memorie a lungo termine
(Dove ho lasciato la mia copia dell’Enciclopedia del MIT
sulle Scienze Cognitive l’ultima volta che ho lavorato a questo
capitolo?) e molto, molto ancora. Queste ultime operazioni sono “interne” o “mentali”, nel senso che si sono
verificate nella mia mente, senza possibilità di vederle o
misurarle direttamente. Dunque, malgrado molti aspetti
della cognizione cosiddetta di alto livello – compresa
l’assunzione di decisioni (decision making) e vari aspetti
della memoria – siano il focus di intensa ricerca delle
neuroscienze cognitive contemporanee, vedremo che la
capacità di definire che cosa costituisce una determinata
funzione (analogamente alla visione o al controllo motorio), così come la capacità di localizzare la(e) regione(i) del
cervello dalle quali questa funzione dipende, diventano
propositi assai più complicati. I principi che spiegano
come si attuano tali funzioni saranno meno accessibili
all’osservazione diretta e alla misurazione di altri relativi alle funzioni che sono più strettamente connesse o
all’ “input” dell’informazione al cervello (per esempio,
la visione) o all’“output” del cervello che si esprime
attraverso movimenti del corpo (per esempio, le azioni
compiute dagli organismi). (Tuttavia, come vedremo,
ci sono punti di vista influenti sul funzionamento del
cervello in toto che lo rappresentano come una serie
di circuiti sensorimotori organizzati gerarchicamente,
con quelli più astratti – per esempio i processi coinvolti
nello scrivere un libro – che si sono sovrapposti nel
corso dell’evoluzione a quelli più basilari – per esempio,
l’evitamento riflesso di una minaccia.) Ok, dunque le
basi neurali della visione e del controllo motorio sono
stati i primi a essere studiati “scientificamente” in quanto
semplici da osservare. Tuttavia, lo stesso non si può dire
per il linguaggio. Malgrado la sua produzione abbia
chiare componenti motorie, abbiamo già ricordato che la
disorganizzazione del linguaggio di Tan e di altri pazienti
era sostanzialmente differente dalla paralisi.
Di fatto, in un certo senso, il linguaggio può essere
collocato all’estremo del continuum concreto-astratto
delle facoltà umane, il quale si estende dalle funzioni
“concrete” per eccellenza (ovvero, relativamente facili
da osservare e misurare), come la visione e il controllo
motorio, agli aspetti più astratti del pensiero cosciente.
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Malgrado il linguaggio sia immediatamente osservabile,
esso possiede anche un aspetto per il quale simboleggia
la cognizione astratta di alto livello. Una ragione risiede
nel fatto che il linguaggio presuppone l’utilizzo di codici
astratti e arbitrari (per esempio, una lingua naturale) per
rappresentare un significato. Intuitivamente, poiché molti
di noi hanno la sensazione che “pensiamo a parole”, il
linguaggio può essere visto come “roba del pensiero” e
dunque simboleggia una funzione “interna”, cognitiva. E
così sono reticente a concludere che il linguaggio è stato
una delle prime facoltà umane a essere studiata con le
moderne tecniche delle neuroscienze in quanto facile da
osservare. Piuttosto, quello che suggerisco è che sono la
sua intuitiva particolarità e il fatto che apparentemente sia
prerogativa esclusiva dell’uomo ad averlo reso un focus di
interesse per millenni. L’Illuminismo, dunque, potrebbe
essere semplicemente l’epoca della storia umana dove i
progressi del metodo scientifico si sono combinati con
un focus della curiosità umana di vecchia data.
GUARDANDO IN PROSPETTIVA ALLO
SVILUPPO DELLE NEUROSCIENZE
COGNITIVE
A conclusione di questo capitolo introduttivo, osserviamo
che, all’alba del XX secolo, i neuroscienziati iniziavano a
studiare il cervello da entrambi gli estremi del continuum
che ne comprende le funzioni in relazione al mondo
esterno. In questo senso, possiamo pensare alle neuroscienze moderne come se si sviluppassero lungo due
strade. La prima, seguita dai fisiologi e dagli anatomisti
che studiano la funzione e la struttura del cervello nei
modelli animali, focalizzata sui sistemi neurali che sottendono alle varie funzioni (per esempio, percezione
visiva e controllo motorio) e nota come neuroscienze
dei sistemi (systems neuroscience). La seconda ha tratto
origine da un comportamento umano, il linguaggio, ed
era preceduta dall’idea che lo studio meticoloso delle
alterazioni di questo comportamento dovute a traumi
cerebrali potesse informare sia su come il comportamento è organizzato sia su come il funzionamento del
cervello produce tale organizzazione. Quest’ultimo
approccio ha dato origine alle discipline affini della
neurologia del comportamento (quando esercitata dai
medici) e della neuropsicologia (quando esercitata da
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SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO
scienziati non medici). Ora, naturalmente, la nozione
di due categorie che si sviluppano in parallelo all’alba
delle moderne neuroscienze è una dicotomizzazione
semplicistica avanzata dall’autore di questo libro e vi
sono molti aspetti che non rientrano compiutamente
all’interno di questa tassonomia (Curiosità 1.4). Tuttavia,
procedendo in questo testo, troveremo utile questa distinzione. Sono queste le due tradizioni scientifiche (brevemente descritte in questo capitolo) che, insieme con
una terza – la psicologia sperimentale (che pure ebbe
inizio nella seconda metà del secolo XIX, ma che non
tratteremo qui nel dettaglio – vedi Letture consigliate)
che hanno fornito le basi dalle quali si sono sviluppate
le moderne neuroscienze cognitive. Prima di tuffarci
nelle neuroscienze cognitive vere e proprie, tuttavia, è
necessario che riassumiamo alcune questioni relative al
cervello, ovvero com’è fatto (anatomia) e come funziona
Curiosità 1.4
Un esempio di come le due maggiori categorie di
neuroscienze influenzino il lavoro di un ricercatore
è rappresentato dal neurologo e neuropsichiatra
Eduard Hitzig (1838-1907). I suoi esperimenti di stimolazione elettrica condotti insieme a Gustav Fritsch
sono riconosciuti come fondamentali per la nascita
delle neuroscienze. Un’esperienza formativa che può
aver ispirato questi esperimenti risale ai tempi in cui
Hitzig prestava servizio come medico nell’esercito
prussiano, dove incontrò molti soldati che presentavano deficit comportamentali di vario genere come
risultato delle ferite alla testa riportate in battaglia.
(fisiologia cellulare e dinamiche delle reti). Questi temi
saranno il focus del Capitolo 2.
DOMANDE DI FINE CAPITOLO
1.
In che cosa differiscono le neuroscienze cognitive
dalle discipline affini della psicologia cognitiva e della
systems neuroscience?
6.
Che relazione c’è tra il concetto di specificità anatomica e le ipotesi per testare l’azione di massa e la
localizzazione della funzione?
2.
Malgrado la maggior parte delle affermazioni della
frenologia siano risultate sostanzialmente scorrette,
in che senso rappresentano uno sviluppo importante
nel nostro modo di guardare al cervello?
7.
Le basi neurali di quali ambiti del comportamento
furono le prime a essere esplorate in maniera sistematica nella seconda metà del XIX secolo? Per ciascuna
di esse, qual è la spiegazione più credibile?
3.
Una delle falle più significative della frenologia
è rappresentata dalle funzioni che essa cercava di
mettere in relazione al cervello: in molti casi, erano
costrutti non validi; in altri, non erano accessibili
alla spiegazione neuroscientifica al livello che Gall
si proponeva. Dallo schema frenologico riportato
in Figura 1.1, seleziona almeno una funzione per
la quale valgono le considerazioni appena fatte ed
elabora le tue considerazioni.
8.
Qual è il principio che soggiace alla rappresentazione
topografica del cervello? Seppure questo capitolo
abbia enfatizzato l’organizzazione topografica del
sistema motorio, in base a quali principi/dimensioni potrebbe essere organizzata la topografia delle
diverse modalità sensoriali (per esempio, la visione,
la sensibilità somatica, l’udito)?
9.
A parte uno studio che ha utilizzato la stimolazione
elettrica, questo capitolo ha descritto esperimenti nei
quali si inferiva sulle basi neurali di una funzione a
partire da l’osservazione/la misurazione delle conseguenze di lesioni in differenti aree del cervello.
Tuttavia, vi sono due modi sostanzialmente differenti di perseguire questo tipo di ricerca. Descrivili
e definisci le discipline scientifiche/mediche a essi
associate. Quale dei due richiede l’utilizzo di animali
sperimentali?
4.
Nel XIX secolo, che tipo di evidenza scientifica fu
utilizzata a supporto dei modelli di azione di massa
a livello cerebrale? E quale a supporto dei modelli
localizzazionisti?
5.
È possibile che alcune affermazioni relative tanto ai
modelli di azione di massa quanto a quelli di localizzazione della funzione siano ugualmente vere? Se
sì, come pensi sia possibile?
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Introduzione e storia21
BIBLIOGRAFIA
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University Press.
Fritsch, Gustav, and Eduard Hitzig. 1870. “Über die elektrische Erregbarkeit des Grosshirns.” Archiv für Anatomie,
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[Available in English translation as: Fritsch, Gustav, and
Eduard Hitzig. 2009. “Electric excitability of the cerebrum (Über die elektrische Erregbarkeit des Grosshirns).”
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Gross, Charles G. 1998. Brain, Vision, Memory, Cambridge,
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Gross, Charles G., and Lawrence Weiskrantz, L. 1964. “Some
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Spurzheim, Johann C. 1834. Phrenology or the Doctrine of the
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ALTRE FONTI
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Neurosciences: Basic and Clinical Perspectives 16 (3): 320–
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Holyoak, Keith J. 1999. “Psychology.” In The MIT
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Kolb, Bryan, and Ian Q. Whishaw. 2003. Fundamentals of
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Whitaker, Harry, A. 1999. “Broca, Paul.” In The MIT
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LETTURE CONSIGLIATE
Boring, Edwin G. 1929. “The Psychology of Controversy.” Psychological Review 36 (2): 97–121.
Una panoramica classica sugli sviluppi fondamentali della psicologia e della psicofisica del XIX secolo, adattata dalla conferenza di Boring,
tenuta in veste di Presidente dall’American Psychological Association il 28 Dicembre 1928. Boring fu professore alla Harvard University.
Finger, Stanley. 2000. Minds Behind the Brain. Oxford: Oxford University Press.
Storia, dall’Egitto antico al Nord America e all’Europa del XX secolo, degli scienziati che hanno fornito un contributo fondamentale alla
comprensione della struttura e delle funzioni del cervello. È un testo più esteso e copre uno spettro più ampio di argomenti rispetto a quello
di Gross (1998). Finger ha scritto molti libri autorevoli sulla storia delle neuroscienze ed è Direttore della rivista Journal of the History
of the Neurosciences.
Gross, Charles G. 1998. Brain, Vision, Memory. Cambridge, MA: MIT Press.
Una raccolta molto coinvolgente di “Racconti dalla storia delle neuroscienze”. Si estende in un ambito temporale della storia umana simile
a quello di Finger (2000), ma con meno capitoli e un focus ristretto alle funzioni indicate nel titolo. L’autore è egli stesso un neuroscienziato della visione molto considerato, oggi Professore Emerito all’Università di Princeton.
Ringach, Dario L. 2011. “The Use of Nonhuman Animals in Biomedical Research.” American Journal of Medical Science 342 (4):
305–313.
Ringach è un neuroscienziato con base a UCLA. La sua persona, la sua famiglia e la sua casa sono state oggetto di minacce e intimidazioni da parte di attivisti per i diritti degli animali. Questo fatto, tuttavia, non interferisce con la trattazione equilibrata qui sviluppata
sul tema. Tra le altre cose, egli incoraggia “un discorso civile […] senza minacce e intimidazioni” e conclude che “il pubblico merita un
dibattito aperto e franco su questo tema delicato”. L’articolo contiene abbondanti citazioni di scritti originali da parte di vari soggetti, che
offrono prospettive differenti e utili al dibattito.
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