1920-1922 - Biblioteca civica di Rovereto

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IV. anni 1920-1922
(123-188)
(pp.280-419)
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Venezia 1920 (123-127)
123
La prima esecuzione della Francesca da Rimini, «Il Giornale di Venezia»,
*.2.1920
Ai tanti successi che coronarono tutte le esecuzioni della «Francesca da
Rimini» di Zandonai, si aggiunge quello ottenuto iersera a Venezia.
Successo reale, sentito, unanime da parte di un pubblico che gremiva il
teatro. Applausi scroscianti e chiamate insistenti suggellarono la fine
di ogni atto. Il pubblico veneziano ha mostrato di apprezzare nel suo
giusto valore l’opera tutt’altro che facile da valutare ad una prima
audizione, ha mostrato di essere maturo e colto per comprendere una
manifestazione artistica di alta portata, che non sfoggia lenocinii per
ingraziarsi gli ascoltatori, che domanda anzi un giudizio pacato e
meditato.
Il maestro Fabbroni nel concertarla e dirigerla ha vinto una battaglia.
È questa una di quelle opere che non può dirigere chi non possieda un
sottilissimo e suscettibile senso artistico, un orecchio vigile ed
esperto, una conoscenza precisa dell’orchestra e delle sue possibilità.
Il Fabbroni ha mostrato di possederle queste doti, e per ciò gli è stato
possibile trarre dalla «Francesca», che è opera di particolari, tutti
gli effetti che concorrono ed occorrono a darle la sua vera fisionomia.
Il direttore d’orchestra non ha un momento in cui possa allentare la
tensione della sua attenzione, tale essendo l’elaborazione strumentale e
vocale di quest’opera che un attimo di abbandono può comprometterne il
delicato equilibrio.
Distribuzione di coloriti, sfumature di rilievi, accorgimenti ritmici,
bacchetta precisa, occhio attento a tutto, sono coefficienti che hanno
portato la suggestiva e completa esecuzione di iersera al successo che
merita l’opera. La quale – come abbiamo detto nell’articolo di ieri –
non ha risorse melodiche ma solo risorse di fattura, di grande, di
geniale, di poderosa fattura. Essa è fatta per mettere a prova una
capacità. Quella del maestro Fabbroni è riuscita vittoriosa.
Insieme
con
una
buona
orchestra
egli
ha
avuto
un
buonissimo
palcoscenico.
La Crestani ha impersonato con un’arte squisita Francesca da Polenta,
facendola vivere nella tragica angoscia della sua vita segnata dal mal
destino e tutta invasa dalla prepotenza di un amore colpevole. Ella ha
cantato con una grande sicurezza di intonazione e con intensa passione
la sua parte nella quale si alternano dolcezza e veemenza. Così pure il
Folco-Bottaro, che dall’aver cantato la parte di Paolo nei principali
teatri d’Italia ha acquistato una sicurezza d’azione che s’accoppia
magnificamente colla eccellente qualità del suo canto. Ebbe un
caldissimo applauso a scena aperta nel terzo atto,
E la rude e violenta figura di Gianciotto, alla quale l’orchestra batté
una cornice di ferro all’entrata nel secondo atto, ebbe una plasticità
di rilievo da parte del baritono Roggio quale soltanto un serio artista
poteva darle.
Ottimo Malatestino il Cilla. Egli ha mezzi vocali notevoli e sente bene
il personaggio. Seppe mantenersi degnamente fra i principali interpreti,
ottenendo anche un applauso a scena aperta nella prima parte del quarto
atto che è tutta occupata dalla sua figura perversa.
La Magnoni, la Ticozzi, la Zeni, lo Jacoppini, il Giunta disimpegnarono
con la loro consueta bravura le parti minori. Peccato che il Giunti,
1 nella parte di Ser Toldo, sia stato sacrificato dalla poco lieta trovata
di farlo cantare nel naso. È un’infelice ricerca, di brutto effetto, di
dare un carattere (che riesce caricaturale) ad un tipo che non è un tipo
e che non ne ha punto bisogno, per nessuna ragione.
Buone nelle parti delle donne di Francesca la Santoro, la Carrara, la
Ravelli e la Balsamo. Il loro affiatamento riuscì delizioso nei canti
madrigaleschi del primo e del terzo atto,
Insieme col coro maschile, che compare in poche battute nel secondo
atto, esse furono istruite ed affiatate dal maestro Cusinati col senso
d’arte e colla conoscenza del canto d’assieme che egli possiede.
Coadiuvarono infaticabilmente il Fabbroni e il Cusinati i maestri Zardo
e Russo e il direttore di scena Capuzzo. Poco i macchinisti!...
La messa in scena è buona e abbastanza fedele alle didascalie de
libretto. È però da sperare che nelle sere seguenti la caldaia in cui
bolle la pece greca nel secondo atto stia pure senza mandar fumo. Sarà
un’illusione scenica di meno, ma una felicità di più per i polmoni degli
spettatori.
Stasera la «Francesca» si ripete e siamo certi che il successo
confermerà l’esito della prima esecuzione.
La direzione del teatro inviò un telegramma di felicitazione al maestro
Zandonai e uno alla Casa Ricordi, segnalando il successo dell’opera e
del maestro Fabbroni.
124
s.m., ‘Francesca da
Venezia», *.2.1920
Rimini’
di
Zandonai
al
Malibran,
«Gazzetta
di
L’aspettativa per l’opera di Riccardo Zandonai, che giungeva sulle scene
veneziane con un ritardo tale da suscitare le più malinconiche
considerazioni sulla decadenza del nostro ambiente musicale e teatrale,
era immensa e lo dimostrò la folle enorme, malgrado gli aumentati prezzi
dei posti, che gremiva iersera il «Malibran» dandovi un aspetto
imponente.
Il pubblico veneziano ha mostrato di comprendere l’opera nuova che
giungeva a lui dopo una lunga serie di successi e di apprezzare tutta la
nobiltà e tutta l’importanza del lavoro che rappresenta non soltanto
una... variazione sullo sfinito, purtroppo, tema del melodramma moderno
più o meno abilmente costrutto, ma la concezione di uni spirito nobile,
forte, sereno, contrastante fermamente con gli ideali di molta parte dei
pubblici d’oggi; ha mostrato di comprendere ancora che il giovane
maestro trentino ha dato con la sua «Francesca» prova di tale serietà
d’intendimenti e di così robusta preparazione da doversi considerare
oggi come uno dei nostri più valorosi musicisti. Ed il successo fu degno
dell’opera: caloroso, serio, convinto. Non eccessi d’entusiasmo ma
sincerità di applauso. Discussioni, opposizioni o meglio obbiezioni
convinte e certo non del tutto infondate ed apologie ugualmente
disinteressate: insomma il successo che dovrebbesi desiderare per ogni
opera d’arte. Le cifre del successo: venti chiamate, precisamente
quattro dopo ogni calar di sipario, agli esecutori ed al maestro
Fabbroni, un entusiastico applauso a scena aperta a Costantino Folco
Bottaro nel terz’atto ed uno cordiale a Luigi Cilla nella prima parte
del quarto.
Della magnifica affermazione dell’ingegno dello Zandonai, che io avevo
ascoltato in una bellissima edizione diretta dallo stesso autore
recentemente, ho cercato di dare una sommaria relazione ieri, ed oggi,
dopo averla riudita nella edizione, lo dico subito, veramente degna di
ogni elogio curata da Piero Fabbroni, non posso che confermare il mio
modesto giudizio sul valore della sua concezione musicale. Io ammiro
2 grandemente l’opera dello Zandonai, ma non posso nascondermi che nella
mia ammirazione entra in massima parte il godimento intellettuale e la
gioia di ritrovarmi dinanzi ad una bella creazione di un ingegno nostro
che ha in sé la forza e la volontà di rinnovare il nostro infelicissimo
teatro musicale degli ultimi tempi.
Certo «Francesca» non è il melodramma tradizionalistico, è il dramma
musicale dove è abolito il pezzo di forma chiusa e dove la melodia non
si svolge secondo leggi o norme di pura architettura musicale, ma è
melodia nata attimo per attimo dal sentimento governatore della parola e
che nella parola non ha quella vera «espressione» che soltanto alla
musica è possibile, il melodramma insomma quale fu sentito e concepito
già da Claudio Monteverdi. In esso l’orchestra costituisce l’atmosfera
che ravvolge l’espressione del dramma, dataci dalla declamazione e dal
verso: l’elemento sinfonico viene quindi anch’esso ad essere subordinato
all’elemento poetico. I personaggi si distinguono con ritmi speciali ed
il substrato armonico ne esprime il carattere; non ricorre quindi la
vecchia formula del leit-motif. I temi appaiono, scompaiono, variati,
trasformati, quasi irriconoscibili, e non servono affatto da aiuto
mnemonico
*
È merito di Piero Fabbroni, artista di rara coscienza, di aver saputo
dare alla partitura una giusta ed equilibrata esecuzione superando le
non lievi difficoltà di concertazione e riuscendo ad ottenere, si può
dire perfetta, quella fusione fra la parte vocale e orchestrale che è
elemento indispensabile per una lucida e bella interpretazione, per la
comprensione e per il successo dell’opera.
L’orchestra sotto l’impulso della sua energia determinatrice, con una
omogeneità, una fusione ed una precisione di tecnica veramente mirabili,
ha vivificato i bagliori della tavolozza dello Zandonai tutta accesa di
un vibrante senso del pittoresco, ed ha contribuito a mettere in piena
luce ogni bellezza dello spartito.
Lucia Crestani è stata protagonista magnifica. Essa ha cantato con
dolcezza squisita e con calore ed ha vivificato il personaggio con
un’interpretazione piena di passione, di vita, di umanità. Ben si
comprende come l’autore la consideri una delle migliori interpreti della
sua opera prediletta e l’abbia voluta con sé nelle edizioni da lui
stesso curate.
Folco Bottaro ebbe un successo personalissimo, Egli ha profuso nella
parte di Paolo la pienezza della sua voce drammatica ed ha cantato con
grande sentimento: ebbe calore d’accenti, dolcezza di sfumature. Quale
interprete si dimostrò intelligentissimo, misurato, ebbe atteggiamenti
varii, plastici, quali esige la parte, non solo musicalmente ma anche
scenicamente difficilissima
Enrico Roggio ha incarnato la parte di Giovanni lo Sciancato da grande
artista. Nel costume, nella truccatura, nel modo di rendere con misura e
verità anche il personaggio fisico e morale, si appalesò attore
intelligente e geniale. Vocalmente sfoggiò voce possente, intonatissima,
morbida.
Luigi Cilla fu un ottimo Malatestino di cui seppe comporre con grande
efficacia la bieca figura. Fu molto ammirato anche per gli splendidi
mezzi vocali di cui dispone e per il buon metodo di canto.
Al successo dello spettacolo contribuirono la signor9na Celestina
Magnoni, una ottima Samaritana, la signora Ebe Ticozzi (Smaragdi), il
Jacoppini (Giullare), il Giunta (Ser Toldo) e lo Zoni (Ostasio).
il complesso delle ancelle, signorine Santoro, Carrara, Ravelli e
Balsamo, con la freschezza delle voci, la correttezza nell’intonazione,
la lodevole distribuzione dei coloriti seppe dare rilievo degno al
3 cicaleccio del primo atto ed alla canzone della primavera, una pagina
che un lirismo sottile e seducente vivifica e sorregge.
Il coro ha fatto onore al suo maestro, il Cusinati, ed è riescito anche
a movimentare il difficilissimo episodio della battaglia in modo
superiore a ogni elogio.
Una parola di particolare plauso va tributata al giovane violoncellista
Enzo Mertinenghi pel modo squisito con cui ha eseguito (malgrado un
incidente dell’ultima ora lo avesse privato del suo ottimo violoncello
necessariamente sostituito con altro di poca sonorità e morbidezza) la
melodia passionale dal disegno caratteristico che appare nel finale del
primo atto, intonata dai musici che dall’alto della terrazza della casa
di Francesca salutano l’arrivo di Paolo.
Magnifici scenari, decorosi costumi resero con buona fedeltà il quadro
d’ambiente.
«Francesca da Rimini» ha vinto anche a Venezia una bella battaglia e
l’ha vinta felicemente e per virtù propria.
Nelle recite future, superato il nervosismo del pubblico ed eliminata
qualche incertezza dell’esecuzione, inevitabili in una «première», il
successo sarà certo anche più entusiastico.
Dopo il successo di «Francesca» la Direzione del Teatro inviava i due
seguenti telegrammi:
«Casa Ricordi - Milano
Comunichiamo con lieto animo caloroso successo dell’opera «Francesca».
Venezia nella geniale concezione di Riccardo Zandonai, magistralmente
interpretata da Piero Fabbroni salutava una nuova vibrante affermazione
del genio italiano».
«Maestro Zandonai - Teatro Costanzi Roma
Mentre la sala del nostro Malibran risuona dalle acclamazioni all’opera
vostra geniale nobilmente interpretata da Piero Fabbroni direzione
Società Teatro invia deferente cordiale saluto a Voi insigne Maestro che
Venezia confida poter preso ospitare.»
125
s.m., “Francesca da Rimini” di Zandonai, «Gazzetta di Venezia», s.d.
[31.1.1920](*)
La fama di Riccardo Zandonai è da molto tempo giunta a Venezia, dove non
si può ignorare il succedersi ed il rinnovarsi di successi che il
giovane maestro trentino da oltre dodici anni ormai raccoglie sui
palcoscenici dei maggiori teatri d’Italia e d’America e nelle maggiori e
più austere sale di musica pura.
Ma il pubblico veneziano, dolorosa constatazione, ignora completamente
tutta la produzione musicale, che a tali successi ha dato e continua a
dare origine e che ormai dà diritto al suo autore di annoverarsi fra i
più seri, fra i più promettenti musicisti in quest’epoca triste di
decadenza musicale.
Riccardo Zandonai è nato a Sacco di Rovereto. Ha studiato a Pesaro sotto
la guida di Pietro Mascagni, e della scuola la produzione sua spesso
risente. Prima ancora di essere licenziato dal Conservatorio, egli
compose un poemetto sinfonico che fatto conoscere ad Arrigo Boito
suscitò in questi ammirazione così piena da indurlo da presentarne e
raccomandarne l’autore a Tito Ricordi che fu largo di aiuto, ne acquistò
tutte le opere, tutte portandole sulle principali scene dedicandovi cure
amorose e spianando al maestro la via dell’avvenire più brillante.
La prima opera scritta dal Zandonai per incarico del Ricordi è «Il
grillo del focolare», rappresentata per la prima volta a Torino nel
4 1908, nella quale egli rivelava le sue doti eminenti di artista creatore
in un’epoca di balbettamenti sinfonici, così da imporsi al pubblico ed
alla critica più severa.
A Milano nel 1911 egli dava la sua seconda opera teatrale «Conchita»,
che racchiude pagine assai pregevoli e suggestive: la Spagna è resa
musicalmente con acuto senso del pittoresco raggiungendo, con grande
abilità, notevolissimi effetti di colore mentre robusta è la concezione
di tutto il lavoro dove il maestro si addimostra efficacissimo
interprete delle anime tormentate ed irrequiete dei due protagonisti.
Solo un anno dopo Milano era chiamata a giudicare la terza opera
«Melenis» che appalesa la febbre ardente dell’autore.
Nel 1914 [1913] e precisamente ai 3 dicembre egli pose la parola fine alla
«Francesca da Rimini» che fu rappresentata per la prima volta a Torino
sulle scene del Regio il 14 febbraio del 1914 avendo a principali
interpreti Linda Canneti, Francesco Cigada, Giulio Crimi e Giordano
Paltrinieri, concertata e diretta dal maestro Panizza e subito dopo
eseguita al Teatro Rossini di Pesaro diretta dall’autore. Di tutte le
opere dello Zandonai la «Francesca» è quella che ebbe il più largo
consenso ed il maggior numero di riproduzioni: fu data infatti ormai a
Milano, a Genova, a Roma (due volte), a Verona, a Brescia, a Pisa, a
Rovereto, a Trieste, ecc. sempre con grande successo.
L’ultima fatica d’operista dello Zandonai a tutt’oggi è «La via della
finestra», una commedia musicale in costume del 1830 su libretto di
Giuseppe Adami, rappresentata la prima volta nell’estate del 1919 a
Pesaro, che ha segnato un nuovo orientamento nell’arte o meglio nella
forma e nella tecnica del maestro, i cui germi però già si rivelavano in
«Francesca».
Non al solo teatro però Zandonai ha indirizzata la sua produttività. Di
lui infatti sono noti, per ricordare le composizioni maggiori e più
apprezzate, il «Pezzo medioevale» [Serenata medioevale] per violoncello ed
orchestra; una suite per grande orchestra diretta dallo stesso autore
nel marzo del 1915 all’Augusteum intitolata «Primavera in Valle di Sole»
composta di sei scene o meglio di sei impressioni sinfoniche distinte
con questi titoli: Alba triste, primavera nel bosco, ruscello, sciame di
farfalle, l’eco, raffiche di marzo [?!]; un «Concerto per violino», varie
liriche interessantissime per canto e pianoforte, ecc.
Egli
ha
scritto
inoltre
una
«Messa
da
requiem»
per
incarico
dell’Accademia filarmonica romana delegata dal Ministero della P.I. di
provvedere all’esecuzione di un’annuale messa di commemorazione di Re
Umberto I, e che fu appunto eseguita al Pantheon il 14 marzo 1916. Con
questa composizione, che è a sole voci, egli ha saputo felicemente
cogliere la profonda e sublime essenza delle parole di alcune parti
della Messa e pur non distaccandosi per la forma dalla consueta architettura della polifonia vocale senza scostarsi da quelli che sono i
canoni fondamentali della musica chiesastica, è riescito ad esprimere,
con rinnovato e moderno sentimento, l’eterna poesia, l’epica grandezza
del dolore, della morte, della vita promessa che dalle sacre parole si
elevano.
Egli attende ora a musicare altre due opere pel teatro il cui soggetto
ha già ispirato altri autori: «Zoccoletti» e «Giulietta e Romeo».
*
La leggenda di Paolo e Francesca ha acceso l’estro di molti musicisti.
Basti dire che la «Francesca» dello Zandonai è la trentaduesima opera
che tratta l’immortale soggetto senza contare i tre poemi sinfonici di
Antonio Bazzini, di Pietro Maurice e di Pietro Tschajckowsky [sic], le due
cantate di Nicola Zingarelli (Roma 1825) e di Angelo Flégier (Parigi
1869), e gli intermezzi di Antonio Scontrino per la tragedia di
d’Annunzio e di Gabriele Pierné pel dramma di Mario Crawford.
5 La prima di tali opere che si conosca è dovuta a Luigi Carlini su parole
di F. Romani rappresentata al teatro S. Carlo di Napoli il 19 agosto
1804. Una scritta da Pietro Generali su parole di Paolo Pola fu
rappresentata la prima volta la sera di Santo Stefano del 1829 sulle
scene della nostra «Fenice» dove cinque anni dopo ne veniva eseguita
un’altra di Antonio Brancaccio. Altre due furono rappresentate per la
prima volta al teatro «Eretenio» di Vicenza, una nel 1923 dovuta a
Feliciano Strepponi ed una nel 1848 dovuta a Francesco Cannetti.
*
Il libretto della «Francesca» di Riccardo Zandonai è formato dal testo
della tragedia di Gabriele d’Annunzio, opportunamente sfrondato di
alcuni episodi scenici e di molti brani narrativi. La riduzione fu
curata da Tito Ricordi e bisogna convenire che egli è riescito
mirabilmente nel suo intento di alleggerire la compagine folta del testo
dannunziano riducendola a libretto d’opera senza che i tagli operati
guastino la linea artistica, la continuità logica della tragedia.
La vicenda drammatica è rimasta quindi in fondo immutata. Il libretto
oltre che eccellente pel taglio delle scene rimane smagliante per la
forma letteraria.
*
«Francesca da Rimini» è opera d’arte nel più lato senso della parola.
Racchiude infatti pregi intrinseci d’arte, primi fra tutti la fusione
dell’ambiente drammatico coll’ambiente musicale e la ricchezza, la
varietà, la potenza dell’orchestrazione e dell’armonizzazione. La
declamazione musicale, per quanto non costantemente originale, è varia.
In «Francesca» la parte drammatica e coloristica è in prevalenza su
quella lirica. Il musicista riesce a scrivere pagine di efficacia non
dubbia quando l’azione assume un carattere fosco ed angoscioso:
viceversa, là dove il canto d’amore dovrebbe esplicarsi maggiormente
libero, flessuoso e spontaneo, sembra he la sua ispirazione si trovi un
po’ inceppata ed in contrasto colla ricerca tormentosa dei colori e
degli effetti orchestrali. Questo si nota sia nell’episodio del secondo
atto fra Paolo e Francesca, sia specialmente nell’ultimo duetto d’amore
assai meno significativo di altre scene come quella, ad esempio, torva e
vibrante tra Gianciotto e Malatestino che la precede. Questo carattere
essenziale
di
drammaticità,
se
per
le
figure
di
Gianciotto
e
Malatestino, «lo sciancato» e «quel dall’occhio», trova riscontro nella
ferocia espressa così piena e terribile nella poesia del d’Annunzio, non
la trova invece per le figure di Paolo e Francesca poiché la tragedia
dannunziana non tocca mai nei protagonisti un fondo d’intensa, piena e
travolgente drammaticità: in essa i due cognati, pur di continuo presi
nel vortice del loro peccato, sono così ciechi di passione che vi cedono
come inconsapevoli: anime essenzialmente sognanti, subiscono il fosco
dramma di morte che inesorabilmente li irretisce quando più sono
dimentichi e sazi di baci e di carne, piuttosto che dominare, anche se
poi ne saranno travolti, con volontà energica e cosciente il destino che
li colpirà con lo stocco di Gianciotto.
Ha inteso lo Zandonai intonare e maggiormente avvicinare fra loro le
quattro figure della tragedia? Non sarebbe forse riescito più efficace
mantenere come nell’opera dannunziana il contrasto fra la fiera
brutalità degli uni e la spiritualità e la passionalità degli altri?
L’altra caratteristica della musica di «Francesca» è il colore
d’ambiente. Lo Zandonai è uno straordinario colorista: egli maneggia
l’orchestra con abilità superlativa e sa, con pochissimi elementi
tematici, imbastire un quadro lussureggiante e darci una sensazione
perfetta dell’ambiente duecentesco. Per questo forse la sua musica
interessa più di quel che non commuova.
6 Certo che talvolta l’effetto è un po’ troppo voluto e ricercato e la
condotta polifonica e l’impasto e la distribuzione coloristica ricordano
i modi mascagnani e pucciniani, i progressi nell’orchestrazione venuti a
noi d’oltr’Alpe e la tavolozza wagneriana, straussiana e debussiana,
quantunque nessuno spunto melodico di Zandonai trovi la sua radice in
questi autori.
Certo, ancora, che l’idea musicale non appare mai, o di rado, dominata
dal soffio potente e largo della vera ispirazione, e la melodia manca di
ampiezza.
Zandonai stesso ha compreso tutto questo perché proprio egli ha tentato
di giustificarlo. Egli ebbe in fatto a dire testualmente: «affascinato
dalla bellezza dei versi ho sentita la necessità di lasciarne vivi ed
intatti, quanto più era possibile, la struttura, la parola ed il ritmo e
per seguire i versi e renderne l’espressione, qualche volta anche ho
dovuto rinunziare alla larghezza della linea melodica, all’ampiezza di
uno sviluppo musicale», ed aggiunse: «Noi abbiamo attraversato un
periodo di transizione: eravamo per così dire trascinati dalle correnti
che venivano dall’estero. A noi giovani specialmente si faceva una colpa
di non “sapere”, di non essere tecnicamente evoluti; la critica ci
chiamava addirittura ignoranti, se non tentavamo le vie più ardue ed
involute. Da tutto ciò siamo stati costretti a subire e a uniformarci un
po’ all’influsso delle scuole straniere e specialmente alle due
tendenze, ai due caratteri più personali sbocciati nell’arte della
musica teatrale dopo Wagner, Strauss e Debussy».
Le pagine migliori o quanto meno di effetto più immediato sono: la scena
delle ancelle ed il poeticissimo incontro di Paolo e Francesca nel primo
atto; l’incontro di Paolo e Francesca sulla torre, l’episodio del lancio
dalla finestra imbertescata, l’entrata di Gianciotto, la libazione dei
due fratelli cui Francesca porge la coppa ricolma dopo la battaglia ed
il trasporto di Malatestino ferito nel secondo; il duetto d’amore, le
canzoni delle ancelle che lo precedono e la perorazione orchestrale del
terzo; nel quarto il primo quadro truce e violento in cui si imprimono
tragicamente le due sinistre figure di Malatestino e Gianciottoe la
superba, avvincente scena d’amore fra Paolo e Francesca.
Dei quattro atti, il terzo è il migliore, il più ispirato e meglio
condotto; il meno felice è il secondo; il più efficacemente drammatico è
il quarto, prima parte.
*
Il pubblico veneziano, dati i successi incontrastati ottenuti ovunque da
«Francesca da Rimini», non è chiamato stasera a dare il battesimo
all’opera e nemmeno un giudizio, diremo così, d’appello. Egli è chiamato
soltanto a convalidare l’altrui giudizio. Non dubito che anche a Venezia
la nobile opera dello Zandonai incontrerà il pieno favore.
Essa fu concertata con amorosa cura da Piero Fabbroni la cui coscienza
artistica ed il cui valore ben ci affidano della perfezione dell’
esecuzione, che ebbe a coadiutori validissimi ed intelligenti il maestro
Ettore Zardo e Ferruccio Cusinato che istruì i cori.
Interpreti principali ne saranno artisti di bella fama quali Lucia
Crestani, Costantino Folco Bottaro ed Enrico Roggio che già eseguirono
l’opera varie volte con grande successo anche sotto la direzione dello
stesso autore.
-------(*)
[NOTA: nella parte sottostante, non riprodotta, si annuncia che Francesca da Rimini andrà in scena in serata al Teatro
Malibran: si deve considerare questa come la prima rappresentazione, dato che l’articolo di s.m. sembra riferirsi alla
prova generale. Per questa ragione l'articolo è databile al 31 gennaio 1920].
126
7 Cesare Corinaldi, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Giornale di
Venezia», *.2.1920
Nobile ed audace, caratteristica ed originale, l’arte di Riccardo
Zandonai, di cui la Francesca da Rimini – autentico capolavoro della
lirica contemporanea – è l’espressione più pregevole: per la stretta
comunione che avvince la tragedia Dannunziana allo spartito musicale
così da fonderli in un’unica opera d’arte veramente magnifica, per la
non comune signorilità della forma, per la scultoria e vibrante
drammaticità resa con intuito profondo, per la espressività degli
accenti, per la sentita finezza dei canti, in cui è profusa ogni grazia
ed ogni dolcezza, per la esuberanza delle coloriture ricche di delicata
poesia, di squisita freschezza e di smaglianti, vividi bagliori.
Compito arduo assai dovette essere pel maestro l’accingersi a vestire di
note musicali la Francesca Dannunziana, sia perché trattasi di un’opera
poderosa di organicità molto complessa, sia perché nella riduzione per
la scena lirica la tragedia perde gran parte della sua impetuosa
drammaticità e del suo fiero ardore, sia perché manca di talune
situazioni fortemente suggestive – secondo me – assolutamente necessarie
per la logica comprensione dell’azione, mentre invece il libretto di
Tito Ricordi contiene episodi di scarso interesse musicale, che lo
Zandonai ha potuto trattare musicalmente mercé il suo fine buon gusto e
la sua aristocratica abilità tecnica. Con le mie modeste osservazioni
non voglio però comunque denigrare l’opera compiuta dal Ricordi, che si
è dimostrato un abile riduttore – a cui non manca certo un felice senso
del teatro lirico – compiendo con rara maestria un lavoro particolarmente delicato.
Per quanto non tutta l’azione che si svolge sul palco abbia la virtù di
interessarci, ma anzi talora ci lasci piuttosto indifferenti, pure
nell’insieme ci appare assai notevole – anche nella riduzione per la
scena lirica – la teatralità del poema Dannunziano: tale è poi la
comunione che fonde insieme la tragedia colla musica di Riccardo
Zandonai, che – allorquando quella lo consente – si sprigiona da
quest’ultima tutto il vibrante istinto della teatralità del musicista,
così da apparirci poderosamente forte.
Dominatore della massa orchestrale sopratutto con i mezzi e con le più
iperboliche combinazioni strumentali – talora però troppo preponderanti
sulle espressività vocali –, lo Zandonai ci dà l’impressione del suo
grande senso teatrale: con i ritmi più audaci, con l’insistente uso ed
abuso di taluni impasti volutamente monotoni, che ci infondono un senso
di oppressione e di incubo, con le dissonanze e le cacofonie più strane,
con la ridda tumultuante ed irrefrenabile di suoni, superbamente
scatenata dalla massa orchestrale – talora però eccedente così da
turbare la compostezza della linea musicale – egli rende scultorialmente
tutta la vibrante tragicità del poema Dannunziano
***
Ricco di movimento, di armonie imitative e di elementi descrittivi, lo
spartito della Francesca da Rimini, in cui tutte le facoltà tecniche del
musicista sono audacemente portate a quel confine che sarebbe assai
pericoloso oltrepassare, è ricco di pregevole preziosità stilistica
ottenuta con una armonizzazione assai ricercata e con impasti magnifici
da cui si sprigionano canti meravigliosi per colore e finezza, che ci
appaiono profondamente ispirati, sebbene forse non l’anima dell’artista
ma la sua tecnica sapiente li abbia creati. Tuttociò è assai ammirevole
ed ha un grande valore musicale ed artistico, tuttociò mi piace e mi
dona uno squisito godimento cerebrale, ma non ha la virtù di commuovermi
e di infondere nell’anima mia – e ritengo anche a quella altrui – quelle
dolcezze indefinibili che inumidiscono il ciglio.
8 Con ciò non intendo certo di rilevare nella musica dello Zandonai
un’assenza di spontaneità e di ispirazione melodica: tutt’altro, lo
credo sincero perché in lui la concezione ideologica e la forma devono
essere intimamente connesse, perché troppa freschezza sgorga dalla sua
musica e perché talora – se non spesso – giungono a noi canti di
ispirazione melodica dolcemente poetica ed espressiva.
È doveroso invece di segnalare che la melodia squisitamente dolce ed i
canti che fioriscono nella sua musica ricca di delicati e sottili
disegni, da cui emana spesso un leggiadro ed inebbriante profumo di
freschezza, sono generalmente originali sia nella concezione che nella
forma. Sinceramente personale, adunque, che l’arte di Riccardo Zandonai
non imita né quella del Verdi né quella del Boito, che non segue né la
scuola
Wagneriana
né
la
Straussiana,
sebbene
in
certi
astrusi
acrobatismi ed in certe arditezze di costruzione e di strumentazione
troviamo qualche caratteristica dell’arte di Riccardo Strauss, sebbene
in questa sua Francesca si nota anche qualche raro passaggio Wagneriano,
– qualche rara reminiscenza Verdiana, che ci ricorda sopratutto
l’Otello, – qualche canto armonicamente svolto ed istrumentato alla
maniera Mascagnana, in attimo di terrore e di angoscioso sbigottimento
reso con mezzi già usati da Giacomo Puccini nella sua Fanciulla del
West. A parte tali rilievi che nulla tolgono ai meriti eccezionali di
Riccardo Zandonai, a parte che in Francesca da Rimini si denota
l’assenza di una vera e propria linea melodica mentre abbondano i canti
frammentari, i temi non svolti ed è troppo insistente la identità di
talune forme risolutive, a parte che la preponderanza orchestrale è
assai prepotente, così da dominare talora esageratamente i personaggi
sul palco e da renderci indifferenti alla loro azione ed alle loro
espressioni canore, a parte che nell’insieme l’opera non presenta una
perfetta unità organica, specialmente per colpa del librettista – a
parte tuttociò – con Francesca Zandonai ci ha dato la sua opera più
completa: un capolavoro squisitamente nobile e degno. Con acuto senso
d’arte e con intuito profondo non comune, questo giovine musicista
nostro – vanto ed onore dell’arte lirica italiana – ha reso musicalmente
tuttociò che di poetico, di passionale, di supremamente tragico contiene
la riduzione di Tito Ricordi ed ha vibrantemente umanizzato la sua
musica caratterizzando le dramatis personae con superba arte scultoria,
così che anche musicalmente ci appaiono colle loro bieche e forti
passioni, coi loro istinti impetuosi e gagliardi e con la loro indomita
fierezza. Specialmente la rude e vigorosa figura di Giovanni lo
Sciancato e quella torva e triste di Malatestino dall’Occhio sono rese
con acuto e geniale senso drammatico, giacché tutta la loro umanità e le
loro principali caratteristiche sono impresse nella musica e sono
riprodotte poi strumentalmente in modo da farceli distinguere l’uno
dall’altro, anche nelle scene ove cozzano impetuose le loro passioni, e
da darci la viva impressione di talune loro particolarità.
Potrebbe, ad esempio, esser meglio riprodotta l’andatura zoppicante
dello Sciancato?
Assai efficace, infatti, il vigoroso ritmo ineguale e saltellante,
rudemente squillato dagli ottoni: ritmo dinamico per eccellenza, che ce
lo annunzia e che insistentemente accompagna ogni suo movimento e spesso
taluni suoi atteggiamenti.
La felina malvagità del suo triste fratello minore e la sensazione di
incubo e di angoscia che ci è data dai suoi impeti biechi e feroci è
caratterizzata musicalmente da una sequenza di accordi di terza a cui
succede un salto discendente, e da un susseguirsi di note in gran parte
sincopate, spesso raggruppate a terzina, di efficacissimo colore.
In tutta la prima parte del quarto atto – di magnifico effetto teatrale
– e specialmente nella scena tra Francesca e Malatestino tale forma è
9 usata con persistente insistenza, in modo da infondere al commento
musicale che accompagna l’azione scenica una caratteristica drammaticità
poderosamente forte.
L’angoscia della dolce sorella di Francesca è resa pure da un ritmo
composto con un movimento sincopato, riprodotto fugacemente – oltre che
nel primo atto – anche nella seconda parte del quarto, allorquando
Francesca ricorda nostalgicamente la sua piccola Samaritana. Oh, come lo
Zandonai ha sentito musicalmente tutta la triste poesia di questa breve
scena tra Francesca e Biancofiore!
E potrebbe esser più espressivamente passionale la frase dolcissima che
soavemente ci canta il violoncello allorché Paolo il Bello compare per
la prima volta innanzi alla bellissima figlia di Guido Minore da
Polenta?
Questa meravigliosa ed indovinatissima frase di sentita ispirazione
melodica e di gusto squisito la risentiremo spesso, talora un po’
trasformata nel ritmo, ogni qual volta Paolo Malatesta apparirà sul
palco; nei duetti tra i due cognati; nella prima parte del quarto atto
allorché Malatestino con sottile perfidia insinuerà in Gianciotto il
sospetto della colpa; verso la fine dell’opera, cantata da Paolo con la
frase Ti trarrò, ti trarrò dov’è l’oblio... e poco dopo agitatamente
dall’intera orchestra, fino a che il truce Giustiziere con un impeto
violento
scuoterà
l’uscio
della
stanza,
ove
si
svolge
poi
la
terrificante tragedia di sangue.
***
Mentre nel primo atto – malgrado l’assenza di situazioni teatrali vere e
proprie – Riccardo Zandonai ha creato pagine veramente squisite per
freschezza e per delicatezza, mentre nel terzo ce ne dette di dolcemente
poetiche e di nobilmente passionali, in cui si rileva spesso un’elevata
e pura ispirazione; nel breve duetto tra Paolo e Francesca del secondo
fu piuttosto arido, forse perché troppo intento a rendere la dinamica
del movimento scenico e poi tutta la furiosa potenza della mischia:
valendosi dei più iperbolici mezzi tecnici, riuscì infatti a darci una
musica essenzialmente superdinamica di poderoso effetto teatrale, in cui
si denota qualche caratteristica dell’arte Straussiana.
Non troppo interessanti invece riescono le scene burlesche con cui si
inizia il primo atto e quella tra Messer Ostasio e Ser Toldo, sebbene
trattate con mano felice; ma quando dall’interno si ode venire leggero
il canto delle Donne di Francesca di indovinato sapore arcaico accompagnato dal liuto e dall’arpa e commentato dall’orchestra con quella
semplice melodia delicatamente espressiva che poi si risente nel
brevissimo Preludietto della seconda parte del quarto atto, allora
l’animo nostro è toccato da tanta bellezza e finezza di colore.
E che dire del duetto tra Francesca e Samaritana che subito segue? Che
dire dei canti squisitamente dolci che lo compongono, in parte
riprodotti poi nella breve scena nostalgica del quarto atto, a cui già
accennai? Che dire della frase «Verrà in breve anche il tuo giorno...»
soavemente cantata da Francesca e del canto a due che segue poco dopo:
E si vivrà, ohimè,
si vivrà tuttavia...
canto di un’espressione profonda, pervaso da un’infinita tristezza
veramente commuove?
Quanta freschezza poi nei canti di Biancofiore, di Garsenda,
Altichiara e di Donella, quanto squisito sentimento nella frase
annuncia e saluta l’apparizione del Malatesta, cantata prima
violoncello e sviluppata poi dall’orchestra, quanta fragrante poesia
Coro delle Donne di ottimo gusto arcaico:
che
di
che
dal
nel
10 Per la terra di maggio
l’arcadore in gualdana...
dolcemente accompagnato dal liuto e dal piffero. Il finale dell’atto non
poteva esser reso con maggiore soavità e con più fine senso poetico.
Non mi intratterrò ora sul secondo atto e sul quarto, su cui ho già
avuto occasione di esprimere il mio modesto giudizio, ma bensì sul terzo
che è l’atto indubbiamente migliore per la sentita nobiltà dell’
ispirazione ha sgorgato dall’anima del musicista.
Oh, com’è resa la concitazione drammatica del breve dialogo tra
Francesca e Smaragdi con quale grazia e con quanta finezza è composta la
Canzone della Primavera, tutta soffusa di leggiadra poesia, con quanta
nobile purezza e sentita passione lo Zandonai ha saputo elevare le
figure di Paolo e di Francesca come ha dolcemente colorito il finale
dell’atto colla rievocazione dello squisito Canto Primaverile, così da
ritrasportarci nel campo purissimo di una celeste poesia!
Nel magnifico duetto tra Paolo e Francesca, trapunto di squisite
bellezze, specialmente si nota la frase
Inghirlandata
di violette m’appariste ieri...
che Paolo mormora dolcemente e che nel corso dell’atto ci è
strumentalmente con estrema delicatezza, così quella pure di Paolo:
resa
Nemica ebbi la luce,
amica ebbi la notte...
ricca di dolorante passionalità, così quella di Francesca:
Ahi, che già sento all’arido
fiato sfiorir la primavera nostra!...
di grande valore espressivo.
Riassumendo: mi è grato di riaffermare che la Francesca da Rimini di
Riccardo Zandonai è la più nobile e fulgida espressione dell’arte lirica
odierna, colla certezza che il pubblico veneziano tributerà un nuovo
trionfo al musicista sommo che colla magnifica arte sua onora questa
divina terra nostra, che dell’arte fu e sarà sempre la culla gentile127
Francesca da Rimini, «Il Gazzettino», s.d.
Il temperamento caratteristico del maestro Zandonai, che si è messo in
prima linea fra gli odierni scrittori d’opera italiani, ha trovato nella
«Francesca da Rimini» l’espressione del suo più perfetto equilibrio.
Temperamento eminentemente orchestrale, già colla «Conchita» aveva
creato una musica che è tutta un’orgia di gesti orchestrali, di ritmi
nervosi e irrequieti, di combinazioni di timbri eteroclite, di armonie
sregolate che miravano appunto più all’effetto d’assieme che non a un
risultato schiettamente musicale.
Colla «Conchita» lo Zandonai imponeva il suo valore: se molte riserve si
fecero allora sulla natura della sua ispirazione, molti elogi e grande
ammirazione si ebbero per la potenza con la quale egli dominava
l’istrumentale e lo drammatizzava.
11 Si parlò di Strauss e di Wagner e di Berlioz. Certo lo Zandonai deve
aver conosciuto molto davvicino le loro partiture; molto più quelle,
anzi, che le partiture italiane.
Tuttavia se un’influenza si deve segnalare nell’orchestra dello
Zandonai, credo che ci si può fermare al nome dello Strauss: è un’
orchestra straussiana, come straussiane sono nello Zandonai la scarsezza
d’invenzione e una certa aridità tematica, alle quali supplisce, oltre
all’arte di colorire, l’arte di sviluppare orchestralmente.
Nella «Francesca», abbiamo detto, l’orchestra è più equilibrata. L’orgia
si è stancata, e come un’eco ne risuona nella battaglia del secondo
atto, in cui le note fragorose fanno fra di loro una battaglia vera in
orchestra.
Ed è l’atto meno musicale, anche nell’appassionarsi dell’amore fra Paolo
e Francesca, anche alla fine dell’atto che sembra risentire della
stanchezza per lo sforzo anteriore.
In tutto il resto i timbri e i coloriti si distribuiscono in ingegnose e
piane combinazioni, e in ricerche di effetti oltre che puramente
orchestrali anche psicologici o descrittivi a seconda dell’azione che
illustrano.
In ciò noi seguiamo col più vivo interesse l’opera dello Zandonai, che
con uno scarso e non sempre eccellente e originale materiale tematico fa
della musica ottima, costruisce un’armatura armonica e contrappuntistica
robusta e ben proporzionata, compone in una parola un’opera d’arte di
cospicuo valore, che si eleva notevolmente sulla media delle moderne
opere italiane.
Ed è opera d’arte italiana. La sua sostanza è italiana, la sua melodia,
il suo spirito sono italiani, e anche il suo vestito, comperato fuori, è
stato cucito da mano nostrana.
La tragedia dannunziana si svolge – a parte le poche scene violente – in
un’atmosfera di musica vaga e sensuali. iridata di mille colori, festosa
e gentile oppure attraversata da ondate or cupe or calde di passione.
Alle voci consuete dell’orchestra, che si passano come in un giuoco
frasi e temi, si uniscono voci inconsuete di viole arcaiche e liuti,
strumenti d’antiche
musiche ora caduti in disuso e richiamati dallo
Zandonai ad aggiungere un color d’epoca alla sua «Francesca». Vi suona
anche un flautone poco usato, di moderna invenzione italiana, dalla voce
bassa e accaldata. Vu dovrebbe suonare una viola pomposa, che però
l’autore non sempre adopera neppure quando egli stesso dirige.
Gli artisti cantano in un linguaggio melodico che cerca di sviscerare il
dramma e le persone. Cerca e vi riesce.
Abbiamo voluto prospettare con rapidi tocchi sintetici gli aspetti più
salienti della musica dello Zandonai e della «Francesca».
Il pubblico che accorrerà stasera al teatro Malibran ad ascoltarla ne
rileverà quei particolari che non ci è stato consentito di seguire passo
passo; e l’intima unione che lega musica e libretto, e il nobilissimo
sforzo del maestro Zandonai di fare un’opera che serva a richiamare i
musicisti d’Italia sulla strada il cui passo è stato aperto da Giuseppe
Verdi quando scrisse l’«Otello»
Gli esecutori
Per la prima rappresentazione di questa sera le parti sono così
distribuite; Francesca, Laura Crestani – Paolo, Folco Bottaro Costantino
– Gianciotto, Enrico Roggio – Malatestino, Luigi [Cilla] – La schiava,
Ebe Ticozzi – Ser Toldo, Enrico Giunta – Ostasio, Angelo Zo[...] – Il
giullare, Varo Jacoppini – Samaritana, Celestina Magnoni – Biancofiore,
A[nn]ina Santoro – Garsenda, Ada Carrara – Altichiara, Elvira Ravelli –
Adonella, Teresina Balsamo.
12 Direttore e concertatore il maestro F[abbr]oni, istruttore dei cori il
maestro Cusinati.
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Ancona 1920 (128-130)
128
La «Francesca da Rimini»
18.11.1920
al
Teatro
delle
Muse,
[testata
non
ind.],
Iersera – per la quinta di «Francesca da Rimini» – il teatro delle Muse
era più della quarta affollato ed elegante. Buon segno. Vuol dire che
dopo il confronto con «Aida» l’avvenirismo musicale di Zandonai comincia
a diffondere il suo fascino sottile ed a fare proseliti. Buon segno. Non
restare insensibili dinanzi alla modernità che palpita nella musica di
«Francesca da Rimini» vuol dire aver compiuto dinanzi alla propria
cultura, dinanzi alla forza percettiva dell’intelletto e del sentimento,
una evoluzione di importanza non trascurabile, tale da far pensare e
sperare che – in un giorno non lontano – Wagner possa far di nuovo il
suo ingresso al Teatro delle Muse con accoglienze assai più festose che
non abbiano – illo tempore – salutato la vicenda di Tristano.
È – del resto – la forza delle cose e degli eventi che così vuole.
«Aida», non per la sua ispirazione immortale, ma per la sua forma,
appartiene a un’età trapassata nella quale era bello e necessario che
quella forma esistesse per divertire, per convincere, per esaltare. Oggi
la tecnica ha aperto orizzonti vastissimi a scoperte di ingegnosità che
stupiscono per la loro singolare virtù; oggi il canto ha espressioni
diverse da quelle che s’usavano un tempo e trova una diversa via per
giungere al cuore che – purtroppo – è anch’esso mutato e pulsa con ritmo
consono al ritmo della vita attuale, dissimile – a linea quasi capovolta
– da quell’altra.
Certo Zandonai – a traverso la musica della sua «Francesca» dà la esatta
impressione di quello che debba essere una mente di lirico in un momento
di ebbrezza e questa ebbrezza comunica all’anima di chi ascolta –
suggestivamente – quasi con una velenosa malìa.
Ne è la riprova la crescente affluenza del pubblico – specialmente di
quello popolare – dopo i teatri sbalorditivi di «Aida» i quali al
superficiale osservatore avrebbero fatto credere in una inevitabile
debacle di «Francesca da Rimini». Al contrario, questo guizzo di vita
ancor più vibrante ed entusiasta di prima ch’essa dà – nel confronto
delle impressioni – induce a fiducia confortante e lieta
Dopo questa simpatica constatazione, notiamo con piacere il molto
lusinghiero successo conseguito dal signor Piccaluga, tenore, qui giunto
appena un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, ed andato in iscena
senz’alcuna prova. Successo pienamente meritato per le sue doti
artistiche che sono distintissime e tali da porre il tenore in un grado
assai elevato di fronte ai suoi colleghi nella interpretazione del
difficile personaggio. Il signor Piccaluga, che ha a sua disposizione
una voce non molto ampia ma molto gradevole, è cantore di stile, e di
stile grazioso, che sa manifestarsi in una ricchezza di colorazioni
vocali degne di un maestro. Ciò che valse a conquistargli subito il
favore del pubblico, anche perché, a corredo dei suoi mezzi canori e del
suo elegantissimo [e] veramente squisito modo di fraseggiare, il signor
Piccaluga porta l’ausilio di una interpretazione scenica accurata,
indovinata e geniale. Fu festeggiatissimo.
Gli altri artisti ed il direttore d’orchestra ebbero i consueti
applausi.
Stasera si ritorna all’«Aida».
13 Domani sesta recita di «Francesca» con lo stesso tenore Piccaluga, a
prezzi popolari.
Sabato «Aida». Domenica alle 14,30 matinée con «Francesca» e alla sera
«Aida».
129
Momo Longarelli, Il successo ad Ancona della «Francesca da Rimini», «Il
Giornale d’Italia» 24.11.1920
Ancona, 23 novembre
Pubblico numerosissimo dona, ad ogni ripetuta rappresentazione della
Francesca da Rimini del maestro Zandonai largo e maggior consenso di
ammirazione e di plauso. La bella tragedia adriatica, ché tutta si
svolge in faccia all’Adriatico, per la prima volta è stata data ad
Ancona in questa stagione lirica; nella prima serata attrasse gli
applausi di ammirato stupore, poi è penetrata nel pubblico con una
cosciente ammirazione.
È merito dell’impresario Ragazzini avercela signorilmente apprestata
alle Muse, con ricchezza di scenario, con eletti elementi d’arte.
La tragedia di Francesca da Rimini con parole di tenerezza e di
gentilezza, con parole di definitiva umanità, ci fu donata in poche
terzine da Dante, il quale volle che la folle passione di Paolo e
Francesca salisse all’immortalità dell’arte in un velo di pudore che più
l’umanizza.
Silvio Pellico la sdilinquì, per il teatro, in morbosa romanticheria.
Gabriele d’Annunzio ne fece una tragedia «di sangue e di lussuria»: egli
stesso lo confessa nel proemio.
E la tragedia di sangue e di lussuria, ridotta ma non mutata nella forma
e nella costruzione, è stata dal magistero di Zandonai risospinta tra
ineffabili velami di gentilezza e di tenerezza.
Svincolarsi dall’opera dannunziana sia pur vivificata dal canto è
impossibile; ma nel legame dell’opera dannunziana è superbo merito del
maestro Zandonai di aver donato alla tragedia quel senso di trepida
umanità che d’Annunzio aveva mortificato proprio nel sangue e nella
lussuria.
Egli la commenta: non sterile cantata, ma vivificazione dell’opera. E
l’orchestra e il canto si muovono in un’atmosfera di melanconia
primaverile, in una strumentazione dove tutte le audacie della tecnica
sono magistralmente adoprate non per parossismi di novità, non per
sbalordorî effetti, ma per vincolare le sensibilità a più intime
comprensioni.
La «viola», il «liuto», il «flauto basso» gareggiano a significar la
parola della passione a dar la linea di un commento orchestrale
deliziosamente decorativo.
E tutta la drammaticissima scena ultima del primo atto, quando Francesca
coglie una grande rosa vermiglia e la offre ammaliata al bel signore che
non l’accetta perché non lui è il marito ma il procuratore – ed è Paolo
– e la rosa cade; in quella scena l’orchestra dice quanto è umanamente
possibile per esprimere quel nodo interiore che si stringe e che è tutto
il dramma.
E la canzone del calendimarzo:
Marzo è giunto e febbraio
gito se n’è col ghiado.
Or lasceremo il vaio
per veste di zendado
14 ha la malìa di quelle antiche canzoni fatte di anime più che di suoni in
cui il Trecento fioriva tutta sua gentilezza. Malìa dell’antico, ma
perenne, che ci riprende, che ci carezza.
Qualche segno è questo di ciò che più è penetrato in noi: ma tutta è
bella, la bell’opera. Dai canti abbacinati di passione di Paolo e di
Francesca: da qualche motivo di marcia funebre dell’entrata in scena di
Malatestino, al grandioso commento orchestrale del dramma e del fato.
E tutto fuso, voci e strumenti, tutto unificato nell’anima della
tragedia è per merito del direttore e concertatore dello spettacolo,
maestro Giuseppe Sturani, il quale discende da illustre famiglia
anconitana. Francesca è impersonata dalla signora Linda Barla-Ricci, che
nella
sua
bella
linea
statuaria
ammorbidisce
il
gesto
della
drammatizzazione. Ha voce stupenda e canto sicuro e commosso. Si mostra
donna di passione più che di lussuria. Ha parte difficilissima: dal
recitativo musicale alla cantata più viva, ella è signora della scena
per tutti i quattro atti. E pur nell’ultimo atto ha voce fresca, chiara
e potente. Rara potenzialità di mezzi vocali e di espressioni. È sicura
vittoria la sua.
Adolfo Pacini si presenta come Gianciotto. Ha voce bella e potente: ha
una viva intuizione del personaggio storico, sicché ce l’ha dato nella
linea di una figurazione tipica. È caldo di drammatizzazione e potente
di espressione e nel canto e nel gesto.
Paolo è Nino Piccoluga [Piccaluga], tenore dalla voce adusata a timbri ed a
sfumature di vivace commozione. Si muove come affascinato dalla sua
passione, che canta in lui con arte sottile e con intuito di artista già
esercitato alle vittorie.
Malatestino – Carlo Bonfanti – ha una espressione tragica ammirevole:
esprime il suo contenuto drammatico con una potentissima padronanza
della scena. È un espressivo «fanciullo perverso» dalla bella voce.
E poi tutte le donne di dolcezza che fanno corona di canto alla tragedia
– Samaritana (Ada Ospitali), Biancofiore (Emma Lattuada), Garsenda (Gina
Pedroni), la Schiava (Giuseppina Ciampaglia) – hanno voci ricche di toni
e di espressione.
Su la gran tragedia della donna di passione, Biancofiore, la fanciulla
di tenerezza, getta un’onda primaverile con la sua voce che squilla ed
offre la sua ghirlandetta ripetendo: Possa malinconia con ciò passare.
130
Alessandro Benedetti, La grandiosa accoglienza al Maestro Zandonai alle
Muse, [non id.], 24.11.1920
La serata
La grandiosa serata di gala in onore dell’illustre compositore trentino,
M.o Riccardo Zandonai, ha assunto iersera un carattere spiccatamente
solenne per le entusiastiche manifestazioni di simpatia di cui fu fatto
oggetto il graditissimo ospite nostro.
Il teatro delle Muse era affollatissimo ed elegantissimo e gli applausi
che salutarono come di consueto gli artisti ad ogni fine d’atto
diventarono acclamazioni imponenti e commoventi ogni qual volta – e
furono parecchie – insistentemente evocato, comparve al proscenio
Riccardo Zandonai. Il pubblico ha colto la propizia occasione per
dimostrare al famoso compositore italiano la propria incondizionata
ammirazione per la meravigliosa opera che oggi domina sovrana sul campo
teatrale del mondo. La folla ognora crescente che si reca alle recite di
«Francesca» è la prova più sicura della potenza che il fascino della
musica zandonaiana esercita su chiunque facendogli provare il desiderio
di risentire quella musica nella quale si scoprono sempre bellezze
nuove. Ier sera tutti gli esecutori gareggiarono in bravura per far
15 onore all’autore il quale ebbe per tutti indistintamente effuse e
cordialissime parole di elogio – artisti, direttore d’orchestra,
direttore dei cori, masse corali e orchestrali, comparse fatto segno da
parte di tutti al più deferente ed ossequioso omaggio. Parecchie e
parecchie
volte
l’illustre
maestro
–
che
assistette
alla
rappresentazione dal palco di casa Micheli – dovette presentarsi alla
ribalta ad ogni chiudersi del velario sia in compagnia che da solo. Al
suo apparire il pubblico scattò in piedi applaudendo, mentre dietro
Zandonai, a distanza, si affollavano artisti, comprimari, masse, tutti
battendo entusiasticamente le mani. La dimostrazione ha assunto un
carattere di affetto che fa onore ad Ancona sempre pronta ad esercitare
signorilmente i suoi doveri di ospitalità. Il M.o Zandonai si tratterrà
in Ancona tutt’oggi: questa sera ha luogo un grande ricevimento in suo
onore in casa Borghetti.
Al celebre compositore, al cittadino di Rovereto, al grande Italiano il
nostro rispettoso e beneaugurante saluto.
Un profilo di Riccardo Zandonai
Cammina per la propria strada aperta ed assolata , con passo sicuro e
cuor tranquilli, senza sostare e compiacersi del cammino già fatto,
senza avviature sollecite, cortesie beneauguranti: la buona ventura è
lui stesso.
Sa di giungere e come, più lontano, con fiera e libera semplicità.
Non ha bisogno, egli artista di autentica vocazione, spirito focoso ma
fortificato in disciplina severissima e che poggia sopra una pura e
quadrata certezza morale, di permute o concessioni, né lo seducono le
mistificazioni che facilmente impaniano il pubblico.
Resiste, per altro, in questo trentacinquenne montagnolo trentino, una
energia ritorta, una nodosità verzicante di capitozza che s’abbarbica
profonda e le sue foglie hanno un tessuto più fibroso ed un più denso
colore di quelle delle piante tirate su con potature avvedute e molte
stabbiature. Si nutre della sua terra questo giovane che è, fra i nostri
musicisti, italianissimo.
Quattro opere principali: Il Grillo del Focolare, Conchita, Melenis,
Francesca da Rimini, che suscitarono in Italia ed all’estero fervore di
lodi ed appassionate discussioni, costituiscono la prima fase dell’
attività creatrice di Zandonai. Le recentissime riprese della Francesca
a Verona ed a Bologna furono definitiva conferma della vitalità piena di
quest’opera e del primo caloroso successo quale attende Conchita e
Francesca – non c’è da temere – quando prossimamente affronteranno il
gran pubblico dell’Opéra a Parigi. Scaltrito nelle tecniche moderne e
d’avanguardia, le equilibra nel suo spirito con un largo senso di
classica purificazione. Ma l’esperienza tecnica è in lui semplicemente
accidentale, accessoria; mezzo non fine, forma spontanea per esprimersi.
Poiché egli – è qui la sua originalità – ha delle idee.
Possiede il fiuto sicuro del teatro, il segreto delle affascinanti
ambientazioni. La sua progressione cromatica – sua perché questo metodo
se lo è rilavorato e sviluppato intimamente, non adoperandolo come una
estrinseca applicazione materiale d’accatto – non è che il diretto
risultato della progressione della parte cantata. Zandonai, senza
atassici vagabondaggi e senza violentare il suo istinto, trova i suoi
accordi costantemente sulla guida del canto. Perspicua caratteristica,
inoltre, di Riccardo Zandonai è l’aderente valorizzazione della parola,
la duttilità stupenda che si piega alle espressioni più varie, liquide e
dense: ondulazione vibrante, arabesco funzionale e costruttivo, drammatico. Lirica pura, se Dio vuole.
Tentando l’assaggio e la scomposizione dell’estetica di Zandonai, ciò
che s’avverte lucido e fermo è che il sistema, dal quale mai deroga,
16 della progressione cromatica è attuato per sola, un’unica attiva e
positiva forza appassionata fantastica. Egli reagisce direttamente ai
suoi materiali. Importa accennare che questo procedimento cromatico
Zandonai usa con la stessa coerenza e fedeltà nel dramma come pure balza
fervido nelle sue opere il lirismo delle parti vocali che vivono di una
lor vita essenziale, marcate dal carattere nettamente italiano del suo
temperamento.
I brani costruiti quasi come arie, che si possono incontrare, risultano
come vivide unità musicali, perché esprimono una concreta e profonda
emotività. Siamo fuori, decisamente, da incalorite premiture tecniche o,
peggio, da trufferie di mestiere. I professori, noteremo per incidenza e
per lor consolazione, potranno rintracciare nella recente ristampa del
trattato orchestrale del Berlioz curato dal maestro Panizza per la Casa
Ricordi, alcune innovazioni tecniche di Zandonai. Benissimo, ma quel che
vale è la sua ricchezza ed originalità di idee, il vigor coloristico, il
commosso
sentimento
della
natura,
l’incisività
psicologica
delle
creature evocate, la versicolore allontanante atmosfera di sogno che
ammorbidisce le crudezze dei contrasti, le tenere, nostalgiche velature.
Ardito, gli ostacoli lo affascinano; a lui piace collaudarsi e piegare
le sue energie alle attitudini più diverse. La prima opera – non tenendo
conto delle moltissime composizioni giovanili – Il grillo del focolare è
una commedia musicale. E vinse la prova durissima.
Dalla Femmina ed il bamboccio di Pierre Louys, racconto scarsissimo di
risorse teatrali, crea Conchita arsa d’erotismo crudele sullo sfondo
delle più abbaglianti e torride luminosità mediterranee. Fu un successo,
che non ha bisogno di calzanti aggettivazioni.
Dal romanticismo tenue, domestico, tutto trine e trasparenze vaporanti
del Grillo del focolare alla lussuriosa e scattante passionalità di
Conchita, giustifica ancora la varietà e la fecondità eccezionali di
questo maestro l’orizzontalismo di Melenis, dramma a rilievi netti, ad
arcature larghe, solenni, in cui il coro signoreggia. Così giungiamo a
Francesca, alla tragica umanità dei due cognati, al più felice sforzo di
creazione artistica: un vertice nella odierna produzione musicale
europea.
Fin dal 1916 – e fu rappresentata nella passate estate – ha compiuta
un’altra commedia musicale: La via della finestra.
Ritorna così, Zandonai al punto di partenza, iniziando il secondo
periodo della sua impetuosa attività creatrice che non ha abbandoni e
riposi.
E si è taciuto, riferendoci solo alle opere della produzione marginale
del maestro, alle esperienze culturali che si estendono dalla pittura
alla letteratura.
Alunno, a Pesaro, del Liceo Rossini sotto Pietro Mascagni, compiva il
corso
novennale
in
soli
tre
anni.
La
miseria,
ferocissima
ma
fortificante, non gli consentiva studi più riposati. Trentacinque anni:
breve vita, già bene spesa, totalmente dominata dall’arte; mirabile
esempio non solo intellettuale ma etico.
Gentile anima rude. Un uomo dalle scarpe grosse, con un cervello
stracarico di idee, che anche per un musicista non sono mai troppo
abbondanti.
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Bari 1920 (131-135)
131
Francesco Turchi, La prima rappresentazione di “Francesca da Rimini”,
«L’Avvenire delle Puglie», *.12.1920
17 Riccardo Zandonai nell’aderire alla preghiera di Tito Ricordi cioè di
scrivere la Francesca da Rimini non ebbe, secondo me, altra cura, altro
pensiero che quello di penetrare nell’anima della vittima, gustarne le
brevi gioie sempre coperte da una nube di tristezza e si suoi dolori nel
sapersi amata senza poter rispondere alla voce prepotente di questo
amore.
Egli, come il poeta D’Annunzio, vollero [sic] analizzare la superba e
divina sintesi di Dante, che immortalò nelle poche terzine della cantica
la breve e avventurosa vita della sposa di Gianciotto.
L’analisi non potrebbe essere più perfetta, più reale, ed è un’analisi
che desta in noi, nel più intimo, quegli stessi sentimenti che un giorno
condussero ad una morte i due innamorati, vaganti tuttora per la
grandiosa concezione dantesca, nel cielo tragico dell’inferno.
Zandonai ebbe quindi un grande campo da mietere con la storia dolorosa
dell’eroina riminese. Il suo genio, che raggiunge le vie più pure
dell’infinito nella sinfonia, comprese subito quale parte sopra tutto
doveva prediligere nella nuova opera d’arte così come egli l’aveva
concepita. E mentre il poeta doveva coltivare in particolar modo la
musica delle parole, egli doveva, a suo tempo, coltivare quella del
sentimento.
Ma entrando subito nel merito, constato innanzi tutto che il comento
orchestrale che dovrebbe sottolineare il canto prende invece sovente il
predominio su di questo. Vi sono anzi dei momenti che accennano ad
ondate melodiche che danno una sensazione di benessere, ma l’orchestra
impaziente quasi di dire la sua parola, ne rompe forse poco
opportunamente l’incanto.
Il fatto di Francesca trova però nella musica di Zandonai una tale
potenza descrittiva che impressiona e commuove. Si può dire che fin dal
brevissimo preludio sul quadro della casa dei Polentani lo spettatore è
già compreso della tragedia che svolgerà fulminea dinanzi ai suoi occhi.
Il leit motiv che si accenna per la prima volta sulla veranda fiorita a
comento del coro di squisita fattura idilliaca lo inspira un sentimento
pacato di dolore; in esso già si pregusta tutta la violenza di una
passione, che proromperà funesta nell’anima romantica di Francesca.
Quelle brevi note affidate ai violoncelli sono in una parola la voce che
dall’al di là ci giunge delle povere vittime quasi per domandare anche a
noi dopo oltre otto secoli una lacrima, una parola commossa.
È un leit motiv superbamente vagneriano, che indica tutta la bontà e la
virtù d’una scuola, ma che nulla distrugge dell’originalità del maestro
che lo concepì.
In tal modo la potenza sinfonica si afferma nell’opera, quasi col
desiderio di esserne l’esclusiva padrona. Nel finale del primo atto
sembra veramente che voglia cedere un poco il campo, quando le ancelle
salutano il bel cavaliere che giunge e che dovrà impalmare la gentile
castellana.
È una ondata di puro canto italiano che si eleva nell’aria, in un
misticismo di sentimenti, in un idillio di passione che non intende
varcare i limiti dell’ideale per restare bello, sereno, degno dell’anima
di Francesca.
E mentre le ultime note accompagnano la dolce fanciulla verso colui che
crede suo sposo, gli archi commentano con una delicatezza squisita il
primo incontro fra i due amanti.
Il leit motiv ritorna spesso nell’opera come il ricordo di quel primo
incontro, con la stessa poesia, e su di lui si svolge tutta la forza
dell’amore che erompe dai due giovani. Anche quando Francesca, credendo
alla colpa di Paolo, lo investe, il cavaliere chiede pace alla morte ma
il suo canto invece la cita sorrisa sempre dalla bella visione provata
nel giardino di Francesca quando vi andò per la prima volta.
18 Tra il fragore delle armi, il gridio dei combattenti, vi è un’oasi di
pace dove si rifugia Francesca e dove corrono entrambi stanchi i due
fratelli, l’uno da signore, l’altro da vittima.
Il maestro non dimentica ma l’idillio, che sempre più ingigantisce e sul
tema del leit motiv sa bene svilupparlo mentre ferve la mischia e più
feroce diviene l’ira dei combattenti. Sugli spalti muoiono i difensori e
già nella corte sorride la giovinezza del cuore da cui è ammansito anche
Gianciotto. Né il velo che la morte sta per stendere su Malatestino
attenua il colore del quadro. Tutto vive nella concezione magnifica
dell’autore, che tutto sa penetrare e riprodurre in una gamma musicale
grandiosa ed infinita. Alla battaglia del di fuori violenta e crudele ne
risponde un’altra, quella di due anime che resistono ancora pur
comprendendo l’inutilità di una lotta che non può avere che un solo
epilogo.
E noi sentiamo che la melodia c’investe e ci commuove, quella stessa
melodia che poi ci esalta nel grandiosi finale sulla vittoria delle armi
e sulla vittoria dell’amore,
La suggestione d’una passione irriducibile fa deviare il maestro dalla
sua strada, che trionfalmente percorre. Egli intende riprodurre i
sentimenti, più che dar campo alle parole. La sua melodia vuole essere
descrittiva non solo per lo stato di due cuori, ma per il mondo e per le
cose che li circondano.
Ed è perciò che noi sentiamo in essa e il canto della natura e quello
degli uomini, noi pregustiamo e la se[re]nità del cielo e il tumulto di
due anime, noi vi salutiamo la primavera che sorge, tra il tripudio
dell’universo e c’idealizziamo sul pieno meriggio d’un amore che
sorridente si avvia alla morte [?!].
Il maestro tutto vuol dire con la magia del suo genio, l’occhio suo
tutto osserva, tutto ammira con la stessa poesia che eternò nel mondo il
fato di Francesca.
Poco importa a lui se dice troppo, se qualvolta è soverchio, egli vuol
descrivere minutamente, analiticamente, appassionatamente, innamorato
come è della sua eroina, quasi volesse far tornare in mezzo ad un mondo
così gretto ed egoista il bagliore d’una vita che pure tragica ebbe un
sole che ancora la illumina e la immortala.
Si dirà forse che lo Zandonai non raggiunga il facile effetto con la sua
musica. Se volesse ottenerlo, a lui non mancherebbe modo da suscitare
vive sensazioni anche tra il pubblico più difficile. Invece sembra che
egli lo rifugga e sotto questo punto di vista sarebbe possibile
spiegarsi quella certa uniformità e quella mancanza di contrasti troppo
vivi sia nella concezione idealistica e sia nella tavolozza orchestrale.
Egli ha scritto quanto a lui sembrava buono e bello e vi ha dato una sua
spiccata personalità, pure ammettendo che abbia subìto il fascino di
qualche lontana reminiscenza. La musica di Francesca è senza dubbio il
frutto dello studio interno e profondo d’un’anima superiore.
Ed anche quando il ferro fratricida spezza il cuore dei due innamorati,
Zandonai non dà campo al suo genio di svolgere quanto gli avrebbe
suggerito la forza della tragedia.
Francesca è morta e con essa tutto va a finire.
Qualche altro accenno, qualche altra rievocazione, e poi più nulla.
Con una tale vastità di campo sinfonico il canto non poteva avere il suo
sviluppo.
In qualche momento tenta di rompere i cancelli fortemente serrati per
sprigionarsi ma viene presto raggiunto.
Ma tutto il dialogo ha una tale armonia che supera la suggestione delle
antiche arie e delle cabalette. Paolo, Francesca cantano il loro amore
nei suoi più minuti palpiti e lo riversano sugli altri, quasi per
chiamarli a compagni delle loro sofferenze. Ascoltai iersera delle frasi
19 larghe, insinuanti, degli spunti melodici d’una dolcezza infinita e
degli scatti passionali che tutta rivelano la forza della lotta tra il
dovere e l’amore, contenuti se il primo avesse avuto ragione, superbamente potente nel caso che il secondo fosse restato vincitore.
Se una piccola riserva vi è da fare su questa Francesca, è appunto nella
ferma palese volontà del Maestro di dilungarsi eccessivamente in alcuni
brani trascurandone invece altri, a grave scapito della varietà e
dell’efficacia drammatica.
A me sembra che qualche sapiente taglio darebbe maggiore snellezza all’
azione e suggestione alla musica.
Nel quarto atto, uno dei più belli dell’opera, il Maestro segue ed
incalza l’azione e riesce assai efficace.
Il duetto tra i due fratelli ha un sapore tragico impressionante; e
assai incisivo riesce il ritorno del leit motiv [nel]l’ultimo incontro
fra i due innamorati, quasi a rievocare i versi danteschi
Non v’è maggior dolore che ricordarsi
del tempo felice della miseria
[Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice ne la miseria]
Credo di aver manifestato intera la mia impressione, quella s’intende
d’un entusiasta e non di un critico nel senso scientifico della parola.
Riccardo Zandonai e la sua anima nostalgica, tuttora compresa dei dolori
e dei lutti che martoriarono per tanti anni la sua cara patria, ha
portato lo stesso sentimento nostalgico in questa rievocazione dell’
eroina di Rimini, che commosse fino al pianto il poeta divino.
Lo Zandonai volle così dimostrare l’eterna giovinezza della nostra
storia, della nostra poesia, là dove ancora regnava lo straniero.
Oggi che la bandiera garrisce anche tra le balze trentine, la nostalgia
rimane nell’opera musicale ma è una nostalgia che invoca il passato di
due anime che per l’amore si resero colpevoli e sfidarono la morte, e
quindi la rievocazione d’un sentimento che vivrà perenne
finché il sole...
risplenderà sulle sciagure umane.
L’esecuzione
Constatiamo subito che il complesso artistico di questa Francesca è
sotto ogni punto di vista buono.
La Barla Ricci Linda ha una scuola di canto perfettissima. La sua voce
assai pastosa possiede ottimi gli acuti e le note di mezzo.
L’interpretazione che dà della eroina non ha nulla di studiato, perché
essa ha approfondito bene la figura morale della castellana e con un
intuito degno di ogni elogio ne rivela le bellezze. Corretta fino al
momento che cede alla forza dell’amore, l’artista è potentemente
drammatica quando sta per dimenticare la sua fede.
Il tenore Santonocito lo abbiamo molto ammirato nella parte di Paolo.
Anch’egli possiede dei mezzi vocali assai potenti, che hanno saputo
superare le difficoltà della partitura. Specie nell’aria del terzo atto
il Santonocito è d’una forte drammaticità.
Il baritono Maugeri riproduce assai bene il carattere e la figura di
Giovanni lo sciancato. Della sua voce egli ne fa quel che vuole e non la
risparmia davvero. Artista nel vero significato della parola, non
tralascia nulla che dia maggiore risalto al personaggio di Giovanni che
domina così funesto nel dramma.
Il tenore Lanzini Luigi dà un’impronta tutta sua personale al
personaggio di Malatestino. Possiede anch’egli una buona voce ed è assai
padrone della scena.
20 Il basso Mongelli Andrea, figlio di Bari, sebbene alle prime armi,
promette molto. Nella piccola parte di Ostasio dimostra già una
sicurezza
di
scuola
ed
una
padronanza
di
scena
assolutamente
invidiabili.
La Romanelli Maria, la piccola Samaritana, ha una buona voce ma nell’
interpretazione della gentile fanciulla <non> è sembrata leggermente
esagerata. Carezzevole e affettuosa nel canto che modula con grazia e
maestria, non deve sentire necessità di cercare effetti con forze che
disdicono alla semplicità del personaggio che essa rappresenta.
Degne poi di speciale elogio per l’insieme delle voci e per l’
interpretazione sono le quattro ancelle di Francesca, la Pollay, la
Nobili, la Dell’Acqua, la Fabbri.
Buoni anche l’Agozzino, la schiava ed i signori Mattioli, Schottler.
Che
dire
poi
dell’orchestra?
Essa
trionfa,
è
la
vera
parola.
L’interpretazione che dà della musica non trova parole per essere
espressa. Comprendo che una pagina musicale come quella scritta dallo
Zandonai possa trasportare all’entusiasmo, ma questo entusiasmo può
restare anche nascosto, se l’interprete non sa palesarne le più
recondite bellezze.
L’orchestra del «Petruzzelli» ha tutta penetrato nell’intima essenza
della musica e così l’ha rivelata. Ha ben ragione dunque il caro autore
di dimostrarsi grato verso i suoi primi collaboratori.
La messa in scena è poi curata nei suoi minuti particolari ed è
pastosissima.
Il successo
Il successo dell’opera fu completo. Il pubblico accompagnò col maggiore
interesse l’esecuzione e la sua attenzione rimase vivissima per l’intero
spettacolo. Per la cronaca aggiungerò che l’autore e gli artisti ebbero
tre chiamate alla fine del primo atto, tre al secondo, tre al terzo, una
alla prima parte del quarto e tre alla seconda parte.
Bari non poteva manifestare in modo più degno la sua simpatia al caro
Maestro ed ha dato prova di saper decretare il successo, quando l’opera
parla al cuore e suscita nell’anima i più forti sentimenti.
La sala sfolgorante di luce presentava un aspetto magnifico. Nei palchi
e nelle poltrone si ammiravano le più belle signore della nostra
società. Notata la presenza di quasi tutte le autorità, fra cui il
Prefetto e la sua gentile Signora, il Sindaco avv. Bovio, il generale
Cangemi con la sua gentile signora.
Una serata meravigliosa che fa onore alla nostra città e che inaugura
sotto auspici così buoni un a stagione che riuscirà fra le migliori
delle altre città.
132
g.d., L’inaugurazione della grande stagione lirica al “Petruzzelli” col
trionfo della “Francesca da Rimini”, «Corriere delle Puglie», 21.12.1920
La sala del nostro Massimo presentava ieri sera un colpo d’occhio
meraviglioso. Un pubblico eletto, fine, entusiasta dell’opera magnifica
del giovane maestro trentino, decretò all’autore uno dei più calorosi
successi che egli possa vantare nella sua carriera di musicista.
La Francesca è opera di un talento musicale che si eleva su ogni
paragone, per solidità di conoscenza tecnica e per facilità e ricchezza
di ispirazione e di effetti teatrali. Riccardo Zandonai ha la forza del
commento orchestrale che segue l’azione che si svolge sulla scena; la
sua musica esprime con le diverse voci orchestrali i diversi sentimenti
delle persone del dramma; egli fa fremere e vibrare lo strumentale per
ricavare l’effetto drammatico e dare vita e colorito all’idea musicale
21 che primeggia nell’opera, su di un tema deliziosissimo che canta il
dolce peana dell’amore. Vivacità di strumentazione e dolcezza di ritmi,
originalità armoniche ed eleganza di forma danno a quest’opera di
Riccardo Zandonai un’impronta particolare di grazia e di robustezza che
trascina all’entusiasmo.
La musica
La musica della Francesca non è scritta sul sistema di molti autori
moderni che fanno predominare l’orchestra sull’azione e pensano di
ricavare l’effetto dal semplice lavorio dello strumentale; qui tutte le
voci
armonizzanti
dell’orchestra
commentano
meravigliosamente
le
passioni che turbinano nella tragedia d’annunziana, ciò che dimostra
come l’autore ha sentita tutta la grandezza della concezione del poeta
ed ha descritto con un lavorio pieno di armonie vibranti i diversi stati
d’animo dei personaggi. Il canto è sempre chiarito, né viene soffocato
dall’orchestra, per quanto ad essa si amalgama in una euritmia
bellamente colorita. L’idea musicale si adatta al testo poetico in modo
che nulla è stato trascurato dal compositore, che in ogni strofa, in
ogni verso, in ogni parola ha sempre trovato lo slancio vigoroso
dell’ispirazione.
L’opera si apre con un breve preludio che annunzia l’arrivo del
giullare; qui un tema dolcissimo, svolto da un a solo di viola, è
ispirato a soave mestizia, che si tramuta poscia in un ritmo vivace di
tutta l’orchestra, la quale accompagna il cicaleccio delle donne di
Francesca. Segue il duetto fra Ostasio e il Notaio. La figura di Sor
Toldo [Ser Toldo] è caratterizzata da un disegno orchestrale largo che
accompagna il recitativo.
L’uscita di Francesca e Samaritana si annunzia dall’orchestra con una
specie di nenia dolce e melanconica; è una bella pagina che dà la
sensazione dell’ansia di un cuore in attesa, dell’evanescenza di un
sogno a lungo sospirato. Samaritana prega la sorella di non lasciarla
sola, e la musica ha tutta la dolcezza e la sensibilità di un’anima
buona, ingenua, melanconica. Il canto delle due sorelle, di una grazia
melodica squisita, si sposa al canto delle donne che viene sottolineato
dagli strumenti ad arco. Incalzando, l’orchestra si rende sempre più
flebile, più carezzevole, più lenta e preannunzia il leit-motif. È
l’amore che s’infiltra nei cuori e che canta su un tema musicale di
peregrina bellezza. Comincia con un a solo di violoncello che poi
s’innesta a tutta la massa orchestrale che commenta l’anima di Francesca
e l’inconsapevolezza dell’anima sua. È una larga melodia piena di un
delizioso fascino che domina l’azione, il canto augurale delle donne
sovrasta l’orchestra che minia con una larga espressione di archi la
passione di Francesca mentre ella dona la rosa vermiglia al suo creduto
fidanzato.
Il secondo atto s’inizia con una frase musicale che è il tema su cui è
tessuto, diremo così, il personaggio di Gianciotto, giacché viene
ricordato tutte le volte che lo sciancato appare sulla scena. La frase
vien ripetuta in una assonanza di ritmi durante la battaglia;
l’orchestra descrive tutta la violenza dei belligeranti, la foga degli
uomini d’armi, l’ardore e il desiderio della vittoria. Si frammischiano
suoni di campane a stormo, note squillanti di buccine, grida di
balestrieri e lamenti di donne che di tanto in tanto sovrastano
l’orchestra.
Nel momento in cui giunge Paolo, ritorna la frase musicale della fine
del 1. atto, in un tono minore, e quasi a denotare l’ambascia del
disgraziato amante non si sviluppa intera, ma riprende di tanto in tanto
e passa come in un lamento dall’uno all’altro strumento, orchestralmente
magnifica.
22 La musica richiama il motivo con cui l’atto si è iniziato e viene svolto
con una larga espressione mentre Gianciotto, uomo rude e feroce,
rimprovera i suoi uomini. Il tema varia coll’arrivo di Malatestino;
l’animo brutale e feroce di costui viene indicato dai suoni aspri degli
archi, che ricavano un meraviglioso effetto battendo sulle corde con
movimenti sincopati. La battaglia si accentua ancora e finisce con un
assordante orchestrale, il cui effetto viene raggiunto tanto dal punto
di vista teatrale che da quello dell’estetica musicale.
Il terzo atto è il migliore dell’opera: un vero capolavoro. Si apre con
un preludio nel quale riappaiono i ritmi della danza della prima scena.
Una
nota
melanconica
e
dolce
descritta
dagli
archi
contrasta
coll’allegria delle donne di Francesca che commentano gli amori di
Lancillotto. Una breve romanza di Smaragdi ha un senso di squisita
dolcezza. Il quartetto delle ancelle, la ballata della Primavera,
accompagnata da piffero, mandola, flauto e clarino, ha un sapore arcaico
di meravigliosa fattura.
La scena che segue fra i due cognati che leggono insieme il libro
galeotto è preceduta da un lavoro orchestrale mirabile che descrive
l’angoscia e l’aspettativa di Francesca, in un’atmosfera musicale dove
variano e s’innestano tutti i motivi dell’opera: è come una pioggerella
minuta di note che esprimono la melanconia che invade l’anima
dell’eroina della tragedia: in lontananza si sente ancora come un’eco il
motivo della ballata della Primavera, mentre le note varianti dei corni
descrivono il passo dei cavalli che trasportano altrove Malatestino e
Gianciotto.
Entra Paolo: l’orchestra ripete la frase in tono maggiore dominante in
tutta l’opera e che prorompe nell’esplosione delle due anime amanti. Il
motivo carezzato dal violoncello nel primo atto ritorna anche qui, e si
snoda sulle corde del primo violino, accompagnato da tutta l’orchestra.
È l’amore che non ha più freno e ritegno e freme in una risonanza
armonica che rasenta il sublime.
Il 4, atto si apre col duetto di Francesca e Malatestino; l’orchestra ha
suoni cupi; si ode il grido lacerante di Montagna, chiuso prigioniero
nelle secrete, grido che dà un senso di orrore. Entra Gianciotto: il
tema caratteristico che lo distingue ha una efficacia straordinaria per
il ritmo rude e spezzato., Francesca trenta di sorridere, ma il grido
strozzato di Montagna che si rinnova porta in lei un soffio di gelo e un
brivido di spavento.
Nel duetto fra Malatestino e Gianciotto si ripetono i ritmi accennati e
quando il primo ghigna il nome di Paolo l’eco della frase d’amore
risalta ancora quasi con un senso di derisione interpretata dagli
strumentini che sovrastano su tutto il contesto orchestrale superbamente
descrittivo.
La seconda parte del quarto atto comincia con un allegretto triste.
Francesca manda via le ancelle per rimanere con la sola Biancofiore,
alla quale rievoca la signora di Samaritana [?]. Una suadente melodia
accompagna le parole
Ti ricordi
tu di Samaritana?
Biancofiore:
Sì, Madonna.
La sua dolcezza non s’oblia. Nel cuore
serbata io l’ho con gli angeli.
L’arrivo di Paolo è annunziato dal motivo predominante del 1. e 3. atto,
che in tutta l’orchestra ha una espressione di spasimo e d’angoscia. I
due amanti sono giunti al parossismo della passione e il brano che
23 commenta questo stato d’animo è magnifico. Il sopraggiungere di
Gianciotto, la sua vendetta, la catastrofe della tragedia, sono resi da
un grandioso insieme orchestrale che con un crescendo meraviglioso
chiude l’opera.
L’esecuzione
Vorremmo dire largamente dell’esecuzione, ma lo spazio tiranno e l’ora
tarda (lo spettacolo è finito all’una dopo mezzanotte) non ci permettono
di dilungarci troppo. La nostra impressione, divisa dall’intero
pubblico, è che nulla è stato trascurato perché ogni minimo particolare
avesse il suo risalto. Gli artisti si misero con grande impegno perché
il trionfo fosse degno dell’autore. E trionfo vero fu per Riccardo
Zandonai e per la sua Francesca, che è una delle più potenti opere del
teatro lirico moderno.
Linda Barla-Ricci emerse nelle sue belle qualità di cantante superando
facilmente le gravi difficoltà della parte. Dotata di una voce ben
timbrata, fresca ed estesa, ella passa dalle note gravi alle acute con
arte squisita; il suo canto vibrante nei punti drammatici, diventa
dolce, pieno di carezzevole espressione, bellamente modulato nel brani
passionali. Francesca insomma trovò nella Barla-Ricci una interprete
veramente superba: ed il pubblico le tributò calorosi applausi
riconoscendo pienamente la valentia della cantante e dell’attrice.
Paolo ebbe nel bravo tenore Santonocito un interprete degnissimo per
canto e per azione. Il Santonocito ha qualità canore veramente notevoli:
robuste nelle accentuazioni drammatiche, mostra un’ottima scuola che gli
permette di salire senza sforzo agli acuti squillanti e di valersi di
una mezza voce deliziosa. E fu perciò meritatamente applaudito.
Luigi Lanzini (Malatestino) ha voce fresca, intuonata, simpatica; l’arte
sua è di un realismo intenso, sì che il personaggio fu rispecchiato in
tutta la sua bruttura morale per virtù dell’artista.
Carmelo Maugeri (Gianciotto) si affermò subito un baritono al completo
dei più poderosi mezzi vocali: ed ebbe momenti felicissimi di una grande
efficacia. Il duetto con Malatestino fi cantato dal Maugeri con tanta
espressione che il pubblico proruppe in un lungo applauso alla nota
finale che il magnifico cantante sostenne con grande vigore e con
mirabile resistenza.
Maria Romanelli, un’artista che ha bella e deliziosa voce, che ci
auguriamo di udire ben presto in altri più importanti opere, rese la
figura di Samaritana con tutta la dolcezza, l’ingenuità e la grazia del
personaggio gentile. Un’ottima schiava Ninì Algozino, che ha voce
intinata ed estesa di contralto così da essere sicura della più
brillante carriera. Graziose le quattro ancelle di Francesca: Laura
Polly (Biancofiore), Lina Nobili (Gassenda [Garsenda]), Eva dell’Acqua
(Altichiara) e Adelina Fabbri (Donella). Molto bene il basso Andrea
Mongelli, dalla voce grave e robusta; Alfredo Mattioli; Giorgio
Schottler, che interpretò con grande efficacia la duplice parte del
Giullare e del Torrigiano. I cori, specialmente quello delle donne, si
mostrarono molto ben affiatati così da meritare vive parole di lode al
maestro De Pascale. Movimentata l’azione della battaglia, cosa che non
credevamo potesse riuscire di così grande effetto scenico.
L’orchestra, poi, diretta dall’autore fu superiore ad ogni elogio.
Riccardo Zandonai, che ha saputo infondere tanta potenza drammatica
nell’opera che meritatamente corre per le scene di tutti i teatri del
mondo, ha infuso tutto l’ardore della sua anima nel dare all’esecuzione
orchestrale quel colorito e qual fascino armonico che ieri sera rapì il
pubblico, trascinandolo all’applauso entusiastico. E dell’orchestra van
notati i due giovani professori De Grandi (1. violino) e Gardelli (1.
violoncello) che eseguirono magistralmente gli a solo.
24 Le scene sfarzosissime e i costumi molto belli rispecchiano il tempo
dell’azione scenica con molta esattezza storica.
La cronaca
Per la cronaca accenniamo: applausi a scena aperta alla Barla-Ricci, al
Santonocito, al Maugeri ed al Lanzini, e chiamate agli artisti ad ogni
fine d’atto. Il maestro Riccardo Zandonai, accolto appena salito al
seggio direttoriale da un lungo interminabile applauso, fu chiamato due
volte alla fine del primo atto fra ovazioni calorose, alte due volte
dopo il secondo atto. L’entusiasmo raggiunse il colmo alla fine del
terzo atto e divenne frenesia alla fine dell’opera. Il maestro Zandonai
vanta così un nuovo grande trionfo.
Moltissimi artisti, cultori, amici, ammiratori e giornalisti si recarono
a salutare negli intermezzi l’insigne maestro, al quale portarono anche
il saluto del Sindaco e della civica amministrazione, l’assessore cav.
uff. Nicola Relta Lupis ed il segretario generale del Comune cav.
Serena.
Ma non saremmo completi nei nostri rapidi accenni se non rivolgessimo la
nostra parola di vivissima lode all’impresa del Petruzzelli, al cav.
uff. Antonio Quaranta, che ancora una volta ha saputo rendersi
benemerito del nostro paese portando il Petruzzelli alla giusta
considerazione dei più grandi teatri d’Italia.
133
L’inaugurazione del «Petruzzelli» con la «Francesca» di Zandonai, «Il
Giornale d’Italia», 22.12.1920
Ieri sera si è inaugurata la grande stagione lirica al Teatro
Petruzzelli con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai concertata e
diretta dallo stesso autore.
Il teatro magnifico presentava un colpo d’occhio meraviglioso. Un
pubblico fine, elegantissimo si affollava in ogni ordine di posti dal
parterre alla galleria, nervoso, ansioso di giudicare l’opera insigne
del maestro trentino.
Quando Riccardo Zandonai salì sul podio direttoriale un grandissimo
applauso lo salutò, sintomo del grande trionfo che si andò delineando di
atto in atto fino a raggiungere l’entusiasmo più schietto alla fine
dell’opera. Non è facile dopo una sola rappresentazione della Francesca
poter ritrarre l’impressione del pubblico e di un pubblico come il
nostro abituato a giudicare senza pregiudiziale e senza preconcetti, ma
soltanto con il convincimento sereno e assoluto che solo si può rendere
dopo parecchie recite. Comunque il gran pubblico ieri sera rimase
ammirato dinanzi alla squisita fattura del primo atto, mostrò di non
gustare molto il secondo, il più difficile, proruppe in entusiastiche
ovazioni al terzo tutto ricco di sentimento e di brani musicali
veramente ammirevoli, si appassionò poi profondamente al quarto atto,
decretando il trionfo dell’opera e del maestro, che fu fatto segno ad
una manifestazione imponente.
Riccardo Zandonai fu infatti chiamato alla ribalta due volte dopo il
primo atto, tre volte dopo il secondo, e fu lungamente acclamato al
finale del terzo ed alla fine dell’opera. Autorità, notabilità, amici,
ammiratori, giornalisti, si recarono a felicitarsi con l’ospite illustre
a cui l’assessore Relba Lupis e il segretario generale del Comune cav.
Serena portarono il saluto della civica amministrazione.
L’esecuzione fu ammiratissima per merito principalissimo dello stesso
Zandonai che seppe portare l’orchestra ad una perfezione mai raggiunta.
Tutti a posto i singoli esecutori. La Barla Ricci fu una protagonista
magnifica; splendido il tenore Santonocito, inarrivabile «Cianciotto» il
25 baritono Maugeri. Ottimi tutti gli altri e specialmente il Lanzini, la
Romanelli, l’Alconzino, la Nobili. Affiatatissimi i cori diretti dal
maestro cav. De Pasquale.
Gli scenari semplici, di buon gusto e perfetti. Insomma una solenne
inaugurazione e un meraviglioso successo di cui va data lode altissima
all’impresa del cav. uff. prof. Antonio Quaranta, col quale vivamente ci
rallegriamo.
134
La grande stagione lirica al Petruzzelli. «Francesca da
Riccardo Zandonai, «Giornale delle Puglie», 21-22.12.1920
Rimini»
di
L’avvenimento d’Arte eccezionale – cui la presenza di Riccardo Zandonai
conferiva speciale attrattiva e solenne significato – richiamò ieri sera
a convegno nella sfolgorante sala del nostro Massimo le più fini
eleganze della nostra Bari: spettacolo atteso con ansia vissuto nel
tragico poema, che sulla scena si coloriva di quella fosca luce
medioevale così divinamente fissata dal divino Alighieri.
Francesca da Rimini – nella sua nuova veste musicale – giungeva a noi
dopo circa sei anni di vita, da quella prima rappresentazione al Regio
di Torino, che consacrava definitivamente Riccardo Zandonai all’Arte
lirica italiana e suscitava intorno al suo nome quell’unanime consenso
che i pubblici più severi dell’Italia e del Mondo gli hanno a piene mani
tributato. Con un gesto audace – che in uno spirito mediocre sarebbe
apparso insana follia – egli affrontava in un duello eroico la gloria di
Dante e la fama di Gabriele d’Annunzio: e d’improvviso domandava ai
Grandi una parola per il suo canto, ed il suo canto era una battaglia. È
in questa audacia la prima sua forza; non attardiamoci a svelare come
egli abbia vinto, né indugiamoci nelle suggestioni della poesia –
linguaggio parlato che obbedisce a leggi fisse, definite in un modo
soggettivo indefinito – né ripetiamo noi pure, ciò che altri ha
ripetuto, essere esteticamente o superfluo o assurdo trarre da una
lirica poetica sublime una lirica musicale sublime. Le tede ardenti
dell’Arte, che tracciarono l’aspra via al sentimento, percosse dalla
bufera della passione non hanno una patria privilegiata nel tempo e
nello spazio: esse infiammano il cuore del Poeta, che non ha una patria
nel tempo e nello spazio.
Dopo Dante, Pellico; dopo Pellico Gabriele D’Annunzio; dopo Gabriele
D’Annunzio Riccardo Zandonai si abbeveravano a questa torbida fonte di
passione assaporando in un filtro maliardo la limpida vena di questa
tragica figlia del Signore da Polenta, della quale il fato triste ed
infelice ha ripieno di sé la leggenda antica e moderna. Dante legò la
morte di quel dolore nelle gemme delle sue terzine; ed è questa la
semplicità eroica. Pellico la diluì in evanescenze romantiche e la morte
apparve una malinconia di cuore malato, incapace a sostenere, con
l’ardore, la vita. Gabriele D’Annunzio la rivisse nel tempo con lo
sguardo dell’esteta: freddo ricostruttore, paziente orafo, sagace
animatore di vita, infallibile artefice.
Riccardo Zandonai aveva così la via segnata per la sua ispirazione.
Il poema tragico di Gabriele D’Annunzio, adattato per le esigenze del
teatro melodrammatico da Tito Ricordi offriva in una completa sintesi il
violento contrasto delle passioni che s’agitavano nelle truci vicende
delle famiglie medioevali, che hanno resa la Storia italiana così ricca
di rozza umanità, così fosca di luce sanguigna.
Il libretto
Il I. Atto prepara la tragedia. Atto giudicato superfluo ai fini della
vera economia dell’opera ed io condivido pienamente questa opinione.
26 Nella casa di Guido da Polenta – mentre le ancelle di Francesca
cianciano con un Giullare e Francesca s’intrattiene con sua sorella
Samaritana, piccola colomba – messer Ostasio da Polenta in complicità
del notaio ser Toldo Berardengo compiono il tradimento. Francesca deve
sposare Giovanni, detto lo Sciancato dei Malatesta da Verrucchio, che ha
inviato suo fratello Paolo, detto il Bello, per compiere la cerimonia
per procura. Tutti conoscono il tradimento, meno Francesca, tutti
conoscono quanto orrido sia il vero sposo Gianciotto: ma tacciono,
perché, se questo fosse svelato a Francesca, questa non lo sposerebbe
mai. Così quando Paolo le appare nel giardino della casa paterna,
sospinta da un subitaneo ed improvviso amore ella dapprima non regge
alla bella vista, poi in silenzio spezza una rosa vermiglia dal
cespuglio fiorito e gliela offre, in silenzio, mentre le sue donne
cantano una canzone di maggio.
Al II. Atto Francesca vive nel suo dolore, segnato dal tragico destino
che la vuole moglie di Giovanni lo Zoppo. La scena è sulla torre della
casa dei Malatesta, mentre ferve una lotta di fazione comunale contro i
Parcitadi, altra famiglia riminese, avversa ai Malatesta, cui aspira
togliere il primato. Francesca è tra gli armati che preparano la difesa
e l’offesa. Appare Paolo. Da quel giorno che la rosa vermiglia si posò
nelle mani del bel Malatesta la pace gli è fuggita dal cuore, come è
fuggita dal cuore di Francesca.
In silenzio i due cognati soggiacciono al loro triste e dolce amore: in
silenzio, mentre gli sguardi si sfuggono, i cuori si cercano.
Ferve la zuffa. Francesca vuol assistere, domanda un elmetto per
coprirsi. Paolo offre il suo. Eretto sull’orlo della saettiera Paolo
scocca le sue frecce infallibili, ma un dardo par quasi trapassargli le
chiome, e l’amore di Francesca balza ferito da quel dardo che ha appena
sfiorato Paolo.
Ella a lui corre: alla carezza improvvisa della cognata Paolo si
sbianca: non è ferito, ma quella carezza gli ha fermato il cuore, ebbro
di gioia.
Improvviso – seminando il terrore tra i suoi uomini – sopravviene lo
Sciancato: tutti si ritraggono, si ritrae Francesca, si ritrae Paolo.
Egli chiama suo fratello, che si distacca dalla folla degli armati. Lo
Sciancato si congratula col fratello per una infallibile saetta che ha
ammazzato messer Ugolino Cignatta, di parte avversa. Francesca ritorna e
reca vino da bere al marito sopravvenuto. Una nuova ha portato
Gianciotto: Paolo è stato nominato Capitano del Comune di Firenze.
Ma ecco un grido di Francesca, che guarda dal fondo della torre la
battaglia [e] preannunzia il ferimento di Malatestino, l’ultimo dei tre
fratelli. Malatestino appare portato su d’una barella e vaneggia. Tutti
temono per la sua ferita; ma lo Sciancato osserva il suo cuore: è a
posto: è, in tutto, un colpo nell’occhio. Dal suo vaneggiamento Malatestino si sveglia, si guarda intorno, è stupito del luogo dove si trova,
ne domanda il perché e scopre che un occhio gli è stato pestato dal
furore nemico.
Dallo stesso furore egli pure ripreso, incurante del dolore e
dell’angoscia, urla ai suoi uomini, commossi per il suo male:
A cavallo! A cavallo!
e si lancia perdutamente nella mischia furibonda.
(Omissis)(*)
Questa è la tragedia dannunziana. Di cui io non rileverò le rare
bellezze e specialmente i difetti, che si racchiudono brevemente in due
constatazioni, indispensabili in una tragedia che ha essenza tipicamente
classica e che potrebbe per il suo pathos rivaleggiare con le più pure
27 bellezze greche. La prima è nella lentezza dell’azione, che stanca e
aduggia troppo il pubblico, desideroso sin dall’inizio – per quella
infarinatura di cultura che gli permette una certa erudizione, una certa
conoscenza del soggetto ed una certa libertà di giudizio – di evitare
particolari che, per quanto ornamentali e necessari alla coloritura
dell’ambiente, sono giudicati superflui, per raggiungere la catastrofe
finale. La seconda è nella sovrabbondanza di quei particolari che
plasmano l’azione in una luce barocca classicheggiante che distrugge la
vena purissima del sentimento e la snellezza dell’architettura scenica,
elemento capitale in tutti i poemi tragici.
I pregi oltre che nella armonia del verso, elemento questo assai
sfruttabile dal musicista, sono nella forte tinta che ogni personaggio
riveste, inquadrato in un tempo che ha fascini magnetici di poesia e di
ispirazione. E sono sopratutto nella materia tragica del poema che si
respira in un’atmosfera di dolori, di ferocia e di amore. I pregi sono
nella stupenda visione di questo nostro medio-evo che ha bellezze di
pura e forte ispirazione alla quale non è insensibile la fascinatrice
voce dell’Arte.
La musica
A questo fascino ha obbedito lo Zandonai, orgoglioso di sapere e poter
trarre dai più profondi recessi delle finzioni poetiche le più semplici
e composte finzioni melodiche. Ottimo sussidio in lui è stata
l’orchestra, della quale egli si rivela signore sovrano, troppo signore
forse, per non saper dominare il suo temperamento che. come quello del
D’Annunzio, è di sagace costruttore e di paziente cesellatore. Già in
Conchita egli aveva rilevate queste sue virtù, che io vorrei non si
confondessero col virtuosismo, virtù di conoscitore mirabile di toni e
di distributore policromatico che qualche volta, qui come in Conchita,
riesce di soffondere di vivo colorito un ambiente, ad isolarlo nella
fantasia, a circoscriverlo nel mondo della poesia della quale egli si
rivela un devoto alunno. Educato ad una scuola di neo-classicismo –
quella scuola che in Italia con Pietro Mascagni avrebbe fatto superbi
allievi
se
l’illustre
Maestro
non
fosse
stato
distratto
dall’
insegnamento – egli ha appreso a contemperare con saggia euritmia le
tradizioni della musica italiana – diventata improvvisamente romantica
con Giuseppe Verdi – con le nuove correnti che in Germania dapprima ed
in Francia dopo hanno schiusi gli orizzonti modernissimi della musica.
Era questa la scuola di Pietro Mascagni, e mascagnano egli resterebbe in
questo senso se, superando la scuola ed il suo stesso istinto di
ricercatore acuto e profondo, non avesse in tempo opportuno fissata la
sua anima in quella nostra musica orchestrale e corale – classica quanta
oltre mai – e che con lieve sforzo si può riscontrare in parecchi brani
del III. Atto. In questi brani la ricerca dello studioso, che vuole
trarre dagli strumenti preziose rarità sonore, tace. E nella semplicità
nuda e casta e nella semplicità serena e inconsapevole sorge l’imagine
musicale che canta, come nella canzone alla Primavera, come nella scena
finale del III. Atto, come nel dialogo di Paolo e Francesca nel IV, come
infine nella Scena della rosa al I. Atto.
Canta anche nel silenzio sapiente di tutte le voci: più viva espressione
d’un sentimento lirico questa che non tutte le corde vibranti in un inno
polifonico.
Egli ha saputo – ed è questo uno dei suoi migliori pregi –
caratterizzare la linea poetica dei suoi personaggi. Lo Sciancato appare
sulla scena tra le asprezze di tutte voci, come aspra è l’anima sua; ma
Francesca ripete eternamente il suo amore con Paolo sin dal primo
incontro in un motivo dominante di passione e di dolore che è come lo
schema essenziale su cui è intessuta tutta la trama musicale del poema.
28 Non mi attarderò a rilevare – brano per brano – il colore ch’egli ha
profuso in alcune scene, qualcuna di sapore perfettamente arcaico che
era nelle intenzioni di Gabriele D’Annunzio, tutto ciò giova forse a
dimostrare come egli abbia vissuto liricamente il soggetto. Giova anche
a conoscere uno Zandonai erudito liricamente come il librettista lo era
poeticamente. Ma non aggiunge un merito maggiore all’Artista, che è
creatore di anime e vivificatore di passioni. Pur attraverso le
incertezze
di
scuola,
attraverso
le
preoccupazioni
di
tecnica,
attraverso il volontario freno che ha voluto imporre alla sua lira,
Riccardo Zandonai resta una delle belle affermazioni dell’Arte lirica
italiana che con questa Francesca si accresce d’una gemma inestimabile
alla quale il pubblico barese – severo per tradizioni, severo per
educazione, severo per cultura – ha tributato ieri sera così calorose ed
affettuose accoglienze.
L’esecuzione
L’esecuzione orchestrale fu impeccabile. Dirigeva personalmente l’Autore
e più scrupoloso impegno non poteva imporre alla massa, che obbediva ai
suoi richiami come attratta da una volontà dominatrice. Così ancora una
volta l’orchestra del nostro Massimo confermava quella meritata fama che
negli ultimi anni non ha disdegnato paragoni dei migliori teatri
d’Italia [sic]. Così ancora una volta le affettuose cure riposte da ogni
singolo artista nel secondare gl’impulsi del Maestro furono coronati
ieri sera da applausi dei quali Riccardo Zandonai porterà seco gradito
ricordo.
Linda Barba-Ricci [Barla-Ricci] era Francesca, truccata con una chioma di
oro-rame che aggiungeva al personaggio leggendario che incarnava una
fatale luce sanguigna. La sua interpretazione fu sobria e perfetta.
Difficile compito il suo, quando doveva sostenere l’odioso paragone di
attrici sovrane nell’Arte drammatica. Vibrante di vita, di sentimento,
di passione, seppe con una voce limpida chiara, fluidissima negli
accenti più concitati, mirabilmente armonizzare la melodia e la poesia
in una compiutezza lodevolissima
Buon Paolo fu il tenore Santonocito, egli pure chiamato ad una difficile
parte, che nel III Atto specialmente seppe egregiamente far risaltare.
Ed è con doverosa lode che rammento con quanto impegno e con quanta
virtù seppe rendere la parte di Gianciotto il baritono Carmelo Maugeri,
al quale si deve forse una più perfetta interpretazione del personaggio,
sussidiata a rigorosa azione drammatica.
Perfettamente a posto fu anche il Lanzini (Malatestino). Egli e Maugeri
resero la 1. parte del IV Atto con una efficacia non comune e riuscirono
più che in altri punti della tragedia a far vibrare la platea di tragico
furore.
Degne di lode sono Maria Romanelli (Samaritana), che nella sua breve
parte rivelò pregevoli doti che certamente ammireremo compiutamente in
prossimi
debutti;
l’Algozzini
(la
schiava)
voce
calda,
aperta,
freschissima, le quattro ancelle e il giovane baritono Andrea Mengelli
(Ostasio) che ha saputo non demeritare le speranze che il pubblico
nostro aveva in lui riposte.
Dovrei in fine parlare dei cori e dello scenario. Scrivo dei primi con
animo lieto: essi sono da anni affidati al De Pascale e non possono
ingenerare dubbio alcuno sulla sicura maestria della sua bacchetta.
Scrivo del secondo con animo perplesso – o io m’inganno!
***
La cronaca segna: applausi e chiamate ad ogni finale di Atto: 3 al I., 2
al II., 3 al III., 2 al IV. Riccardo Zandonai fu fatto segno alle più
calorose simpatie. Palchi e platea vollero dimostrare all’illustre
29 maestro con quanto affetto Bari ha ricevuto il dono della sua opera
migliore.
Il baritono Maugeri fu applaudito a scena aperta al IV. Atto.
Stasera: riposo.
---------(*)
Continua ancora a lungo nella descrizione.
135
Raffaele Gorjux, Dopo la prima della «Francesca», «Corriere delle
Puglie», *.12.1920
Ricordo. Antonio Quaranta un giorno dello scorso novembre con un senso
di vivo sconforto mi mostrò una lettera anonima che gli era pervenuta a
proposito delle indiscrezioni del Corriere sulla grande stagione lirica
inauguratasi felicemente l’altra sera al Petruzzelli. Era dattilografata
su carta molto sottile; ma la carta stessa e l’inchiostro della macchina
rivelavano la fattura di qualche impiegato poco scrupoloso dei suoi
doveri se in ufficio trovava il tempo di occuparsi di argomenti
teatrali. E la lettera – per essere anonima non poteva che dir male –
sofisticava sul cartellone, se la prendeva naturalmente con gli annunci
del Corriere, contestava i giudizi aprioristici del giornalista sulla
Francesca ed invocava le opere wagneriane più che i capolavori del
nostro teatro lirico.
Sorrisi – a noi giornalisti gli anonimi capitano ogni giorno – ma pensai
melanconicamente al fenomeno purtroppo inveterato nei così detti
saccenti delle cose musicali, quelli cioè che vogliono mostrare una
coltura che non hanno, quelli che giudicano con la preoccupazione di
sembrare intenditori quando non lo sono, quelli che, come per certi
filosofi, dicono bello a tutto quanto rimane astruso e non facilmente
comprensibile.
L’altra sera assistendo alla prima rappresentazione della Francesca da
Rimini ripensandoci avrei desiderato conoscere l’anonimo per sentite le
sue impressioni sulla magnifica opera di Riccardo Zandonai. Avrei
desiderato chiedergli che cosa avesse sentito traverso la musica dell’
insigne maestro trentino. Avrei voluto constatare fino a qual punto
potesse giungere il sentimento e la impressione del mio interlocutore
per apprendere quello che forse io non ero capace di afferrare nel suo
orgoglioso orrore della nostra musica.
E dico nostra musica perché la musica di Francesca è musica prettamente
italiana, italianamente sentita, italianamente profusa in tutta l’opera
che appunto perciò rimane un capolavoro genuino del teatro lirico
italiano moderno.
***
Io non mi fermerò all’esame critico che il mio collega pei teatri ha
seguito con tanta operosità e con tanto intuito nel suo articolo di
ieri. No. Io son qui a fermare su queste stesse colonne che ebbero il
merito del primo annunzio augurale la impressione che provai l’altra
sera rimanendo in un angolo del teatro fra quella massa imponente che
seguiva con animo vibrante ogni nota, ogni brano, ogni atto, mostrando
sempre più di intendere quella musica che giungeva al cuore ed al
cervello dando sensazioni che sarebbe follia voler descrivere così senza
essersi raffermati nel significato altissimo della concezione che ha
animato il maestro. Ma è pur facile riconoscere di primo acchito come la
concezione musicale sia in piena rispondenza della tragedia dannunziana
che al terzo atto rispecchia meravigliosamente la visione dantesca.
E di impressione in impressione non è possibile non rilevare il merito
primo e maggiore dello Zandonai nella parte egualmente notevole da lui
affidata alla musica ed al canto raggiungendo così quell’insieme che
30 rapporta mirabilmente le antiche armonie in stretto contatto con la
orchestrazione tal che palcoscenico ed orchestra si fondono in un
insieme meraviglioso capace di dare sensazioni straordinariamente
efficaci durante tutto lo svolgersi del dramma dall’inizio alla
catastrofe. Voi non potete distrarvi dinanzi alla squisita fattura del
primo atto eminentemente descrittivo dell’ambiente e musicalmente
perfetto. E se al secondo atto rimanete alquanto sorpresi dinanzi ad un
fragore che vi fa ricordare la concezione dello Strauss e vi lascia
titubanti non vi affrettate a dire di non comprenderlo: risentitelo e vi
troverete tutto il fragore della battaglia con l’ansia della vittoria, e
la ferocia di Gianciotto e di Malatestino in meraviglioso contrasto con
le ansie e la pietà di Francesca. Un poeta illustre mi diceva un giorno
che la efficacia del verso nella visione evocatrice occorre sentirla a
occhi chiusi. Chiudete gli occhi ed ascoltate la musica del secondo atto
della Francesca; vi sentirete la battaglia delle anime e dei corpi sol
che vi fermiate con il cuore e con la mente al suono che vi giungerà
sempre più fremebondo e descrittivo.
Ma il pubblico riesce ad afferrare con naturale e logica facilità il
terzo atto ove la musica ha tesori inesauribili di ispirazione, di
fremiti, di passione, così che il poeta ed il musicista si fondono
meravigliosamente trascinandovi all’entusiasmo più sentito. È qui che il
musicista profonde a piene mani le dovizie del genio che l’avviva,
poiché nel canto e nel commento musicale quanto mai efficace voi
ritraete tutta intera la parte centrale dell’opera magnifica che il
talento di Riccardo Zandonai seppe intessere col ritmo e con l’armonia
delle note più interpretative.
Dalle dolcezze infinite che sono come fiori di aulente bellezza sulla
distesa incantevole della terra verde e che si risentono nella
melanconia che prevede e precede la catastrofe, si ritorna col quarto
atto all’insieme orchestrale meraviglioso che solo è capace di
interpretare il tragico epilogo di vendetta e di morte.
Certo chi più ha l’anima educata al buono ed al bello, chi meglio ha
saputo intendere e comprendere la tragedia che dall’episodio dantesco e
dai versi del Pellico ebbe nel d’Annunzio più superba interpretazione,
quegli potrà più coscientemente, specie dopo una prima audizione,
sentire tutte le bellezze onde è soffusa la Francesca da Rimini di
Riccardo Zandonai. Ma l’efficacia e la teatralità dell’opera risaltano
subito ed impressionano ed entusiasmano anche se alcuni punti possono
rimanere non completamente raggiungibili in quella che è stata la
concezione artistica e musicale del maestro.
Non tutti i musicisti del teatro lirico moderno sarebbero stati capaci
di rivestire di musica la tragedia dannunziana. La sua mole letteraria,
le difficoltà varie e complesse del poema che ne resero sempre difficile
la recitazione come resero difficoltoso il successo fra le masse per la
poderosità e l’altezza del verso nella espressione genuina del tempo,
non avrebbe consigliato facilmente la prova.
Ma la prova fu tentata, raggiunta e vinta dallo Zandonai rendendolo
doppiamente meritevole de largo consenso che con la Francesca egli poté
ottenere affermandosi il grande musicista che ormai tutto il mondo
onora.
Bisogna conoscere personalmente Riccardo Zandonai per rendersi esatto
conto di tutte queste possibilità che solo si possono trovare nel suo
talento, nella sua coltura, nella sua ispirazione sempre viva e sempre
capaci nuove e forti creazione
Nicola d’Atri, che rimane ancor oggi il più illustre critico d’arte
anche se ha abbandonato la penna per i giornali quotidiani, mi scriveva
di lui alcuni giorni addietro: «A quest’ora avrai conosciuto Zandonai.
Quando entrerai nella sua intimità riscontrerai una bontà, una
31 gentilezza di sentimenti, una dignità di uomo e un sano orgoglio di
artista che alla prima non si immaginano. E per lui, poi, parlerà la sua
musica!»
Così il maestro quando gli si domandò se fosse lieto delle accoglienze
che gli si facevano rispondeva con una impressionante sincerità: «Io
voglio che il pubblico senta e giudichi la mia musica, non che si
preoccupi di me».
E la musica ha trionfato, e meglio, ha cominciato a trionfare perché
trionferà ogni sera come ha trionfato e trionfa in tutti i teatri del
mondo riaffermando tutta intera la sovranità della genialità italiana
sempre viva, sempre fresca pur nel rinnovamento che se dona nuovi
capolavori non esclude e non distrugge il rispetto delle nostre
tradizioni.
***
Mai come questa volta Antonio Quaranta merita il plauso incondizionato
del pubblico come ha avuto quello della critica. Inaugurare la stagione
lirica con la Francesca da Rimini concertata e diretta dall’autore,
curata nell’allestimento con sorprendente precisione, eseguita con un
complesso artistico di prim’ordine e pienamente rispondente ad ogni
necessità scenica e musicale è cosa che riafferma solennemente la
importanza del nostro Petruzzelli nel mondo teatrale. E dice e dimostra
che non tutti gli impresarii hanno anima di mercante; che ve ne sono di
quelli che sanno avere sentimenti di artista.
Perseveri il Quaranta in questa opera altamente lodevole [e] apprezzata:
ne sarà contento anche l’anonimo in un momento dio sana resipiscenza che
non manca mai a noi meridionali anche quando non si è fra i migliori.
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Napoli 1920 (136-143)
136
Filippo Carlo Piovan, “Francesca” al San Carlo, n.id., s.d.
Riccardo Zandonai è un grande musicista, e la maggioranza dei
napoletani, ieri sera al S. Carlo, non l’ha compreso; e non l’ha
compreso – io primo – perché la subitanea apparizione artistica di
Francesca sulle scene di Napoli è stata così rapida, così immediata che
– salvo alcuni: i più esperti e i più profondi, o quelli che già
l’avevano intesa – non hanno avuto tempo di valutare il pregio di questa
musica nuova. In altri termini, è stata così rapida e varia
l’impressione negli spiriti ch’essa ha lasciato, vorrei quasi dire, un
senso di incompiutezza nella riflessione. Domani, quando Francesca si
ripeterà, io non dubito che a Napoli la si intenderà meglio e di più.
Con tutto questo, per la cronaca della serata, è bene dire subito che il
maestro e gli artisti furono festeggiatissimi e chiamati alla ribalta
più volte alla fine di ciascun atto.
***
Gabriele d’Annunzio ha scritto Francesca da Rimini come si scrive un
poema. Ponendo ciò accanto a molti pregi poetici, qualche difetto, ma –
quello che più importa – creando opera di quadro e di movimento
difficilissimi. E difficili per due ragioni: la prima, per la consueta
difficoltà di moto e di atteggiamento nelle masse corali; la seconda
perché, dato lo spirito dannunziano del dramma, tale moto e tale
atteggiamento dovevano avere un carattere tutto particolare. Qui doveva
anche sopperire e l’acuto ingegno di Tito Ricordi che ha ridotto l’opera
per la musica, e, ma in maniera superlativa, il genio musicale di chi
traduceva nell’impressione e negli effetti musicali l’espressione
poetica.
32 A questo è riuscito meravigliosamente Riccardo Zandonai. In quanto che
la sua musica riflette, amplifica, sublima e interpreta non solo lo
spirito del verso e della parola, ma lo spirito totale della tragedia.
Non può sfuggire questo a chicchessia. L’arrivo di Paolo, così
sapientemente preparato al primo atto, come la prima apparizione di
Francesca, come l’entrata violenta di Malatestino, sono armonie, anzi,
temi strumentali esemplari nel senso della comprensione drammatica della
persona e del verso: caratteristici infine pel riguardo alla persona,
pur senza la minima slegatura – appunto perché sapientemente preparati –
dalla precedente e dalla seguente costruzione melodica.
A Napoli è stato più inteso lo spirito lirico della musica di Riccardo
Zandonai che lo spirito epico: lo spirito tragico è stato apprezzato a
parte. Nella realtà, gli accenti epici del secondo atto non sono, in
certo senso, del tutto originali. Attentamente seguendo, si ha la strana
impressione di una misura coercitiva, presa dallo stesso Zandonai sulle
sue stesse reminiscenze musicali. Onde un bene e un male. Più bene che
male, del resto: una diminuzione nell’effetto totale per l’insinuazione
prudente qua e là di caratteri propri ed esclusivi nella continuità
musicale, e, al tempo istesso, un senso di compiutezza e di pienezza
sinfonica che fa, non senza individuale compiacimento, pensare all’
ariston metron d’ellenica memoria.
Anche se la massa corale del secondo atto non ha saputo perfettamente
rendersi disinvolta, il motivo strumentale l’ha aiutata quindi a
compiere il suo ufficio.
Meno densa e più debole assai invece la scena delle danzatrici e delle
cantatrici del terz’atto. Non nel Maestro questa volta il difetto, ma
nelle gravi difficoltà, che solo artisti molto evoluti avrebbero potuto
sorpassare, per render viva, anzi per far rivivere questa scena, nei
suoi pieni caratteri storici e nella sua essenza di fantasia e di
lirismo. Questa, per l’esecuzione, si può dire l’unica scena che
lasciasse un poco a desiderare. Anche le danzatrici non furono perfette
nell’interpretazione moderna – cioè come vogliamo e desideriamo che sia
noi moderni e certo, Gabriele d’Annunzio, e, credo, Riccardo Zandonai –
della danza medievale.
Singolari invece per accenti musicali e per scerna la delazione e la
vendetta di Malatestino: inaspettata. Infatti, com’è nuova la trovata di
d’Annunzio di far Malatestino delatore offeso nel desiderio, così è
nuova la musica di Zandonai.
Ci saremmo aspettati un cauto motivo cui potesse rispondere, nel verso,
la frase timorosa e bassa, come quella di Andret nel poema d”Isotta e
Tristano: «Io di ciò vi farò chiaramente vedere». E invece no, qualcosa
di satanico, qualcosa che esprime l’animo sciancato dell’uno e orbato
dell’altro, è nella scena, oltre all’atmosfera della giustizia, del
fato, del presagio, del rammarico, della vendetta. Tutto questo Riccardo
Zandonai, davvero signore dell’orchestra, ha tradotto in maniera
profonda e delicata.
Profonda. Giacché profondità esiste in Zandonai, pur nella varietà
stessa dell’espressione, pur nella disinvoltura – disinvoltura seria,
non superficiale – con la quale egli tratta i suoi temi; certezza di
tocco, sicurezza che la tinta – se mi è lecito, a meglio esprimermi,
spiegarmi con la similitudine della pittura – data così, di necessità
nella gran maggioranza, e, sopratutto, nello spirito del creatore che
osserverà al fine la creatura compiuta, produrrà un effetto determinato
e certo. Questa non è audacia, né in poesia, né in pittura, né in
musica: è il sesto senso perfettissimo, oltre il dubbio, dentro la
bellezza, grazia di comprensione della collettività, in momenti
artistici senza dubbio straordinari. Senso che pervade e rende sublime
il lirismo musicale di Riccardo Zandonai. E lo si spiega riportando la
33 varietà dell’impressione, la stragrande ricchezza d’immagini sinfoniche,
accennate, compiute, interrotte, alla natura medesima dell’autore che è
un Trentino redento. Egli che ama la caccia e il monte, l’Adige e lo
scialle veneziano, il piccolo Cimitero solatio del suo paese e l’azzurra
nostalgia del suo cielo, o che – se pur avesse dimenticate queste cose –
non può dopo tutto abdicare al suo sangue, egli deve sentire in tal
modo; e questa varietà d’impressioni, questa successione di momenti
armonici, nonché un fondo di santità mistica, che spesso la musica
riporta, ci fanno intendere la Francesca da Rimini da quel capolavoro
che essa è, e costituiscono i pregi più cospicui dell’opera.
137
Giovanni Bellezza, La prima rappresentazione di ierisera al “San Carlo”
della “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Giorno»,
16.1.1921.(*)
La musica
Gabriele D’Annunzio – (ahi, come lo risentiamo oggi ancora una volta
vicino al nostro spirito, lontano dalla sua politica!) – fa soprattutto
sentire nella sua produzione poetica teatrale quel fluttuare d’onde
musicali che Schiller avvertiva preventivamente nel suo intimo nel
compore i suoi poemi. Tutto è sostanzialmente ritmico – parole, vicende,
immagini – nei poemi dannunziani. La tragedia di Francesca non è che una
lirica in cui l’urlo si ovatta d’una strofa, e il sangue si cela in una
rosa rossa.
Francesca, la Nave, la Pisanella, il Martirio di San Sebastiano hanno
canti e suoni. Francesca da Rimini, attraverso il poema di D’Annunzio e
l’opera di Zandonai, è musica due volte.
Zandonai intese come una direttiva estetica questo super-lirismo. La
figlia di Guido da Polenta ha nell’opera una imponenza protagonistica
che adombra tutte le figure che le sono intorno, e quasi rende fanciulla
la personalità di Paolo. Non è ella la luce e Paolo il suo riflesso? Ora
tutta la linea artistica di Francesca è in questa enunciazione: ch’ella
abbandona il capo indietro per cedere al vento della melodia. «Amor le
fa cantare», sono le sue parole nell’evocare e nel sentire le musiche,
le danze, le canzoni dei cicli cavallereschi. Tutta l’opera è dunque
avvolta in questa atmosfera di lirismo. Il canto senza amplificare le
sue spirali, è fluidizzato di soffii lirici. Tutto lirico è il suo
sinfonismo coloristico, nei tratti impressionistici e imitativi, nelle
voci strumentali che riflettono, con tanta vitalità dell’opera, gli
stati d’animo dei personaggi. I loro disegni ritmici ne seguono le
graduazioni e le mutabilità.
L’opera non ha dei «leit-motiv» propriamente detti. I suoi temi sono
appunto semplicemente dei disegni ritmici che delineano con un tratto
musicale particolare ogni persona drammatica. Paolo, il «Signore dell’
Amore», ha quel passo melodico del violoncello – che doveva essere la
«viola pomposa» dell’epoca – e che lo accompagna anche quando la sua
persona ha soltanto un influsso spirituale nelle scene. Disegno ritmico
iniziato sin dal primo atto dietro le quinte, e che, pure alterato da
sensazioni armoniche – dato «in minore» al second’atto – appare e
riappare in tutta l’opera sino alla cantica finale. Il disegno ritmico
di Gianciotto ha qualcosa di claudicante nei sui suoni. Lo Sciancato è
fissato così figurativamente nel quadro musicale. La raffigurazione
bieca di Malatestino, con le sue bizzarre battute del legno degli archi
sui contrabbassi e l’effetto fosco ottenuto dall’applicazione delle
sordine alla quarta corda.
Francesca si presenta negli effluvii di quel coretto di donne di sapore
arcaico che ne riflette la poesia al suo primo apparire, dopo la scena
34 del giullare e l’inganno delle sue nozze ordito da suo fratello Ostasio
col notaio Ser Toldo.
Questa cantilena interna delle donne – ritmata dal liuto, con le viole e
l’oboe – è il primo brano notevole dell’opera. Francesca pare esali da
questo evanescente favonio canoro che si propaga poi in un sommesso
murmure orchestrale.
Francesca comincia a vivere il suo dramma, che è dapprima presentimento,
per essere poi incantamento, e per finire in travolgimento.
Il presentimento sboccia da due fiori: dall’animo suo estasiato e
dall’animo accorato e dolorante della piccola e bionda sorellina sua,
Samaritana. Com’è dolce l’andante «O sorella! Sorella» nello sviluppo
dell’estasi dell’una, dello sbigottimento dell’altra! E quanto soave
contrasto è nel largo cantabile a due voci delle sorelle!
Sulla loggia, la viola pomposa – ch’è poi l’incantevole violoncello di
Viterbini – su un lentissimo tremolo d’archi dell’orchestra, e
accompagnamento del liuto – mirabilmente suonato da Raffaele Calace –
enuncia l’evento. Paolo appare. Un allegro brillante del cicaleccio
delle donne. Il violoncello melodizza insistente il tema di Paolo. La
celeste appoggia l’ansia sussultante di Francesca. Il coro delle donne
in un arcadico osannare – «Per la terra di maggio/l’arcadore in
gualdana» – par che compia un rito nuziale. Francesca porge la rosa
vermiglia a Paolo. Il violoncello modula più dolcemente la sua cadenza
carezzosa. L’orchestra ha una ripresa piena che va rallentando e
perdendosi come in una sospirazione. Pare quasi che tutte le rose della
spalliera del castello si siano sfogliate spandendo intorno un profumo
inebriante.
Viene a formarsi così l’effetto di questo finale ammaliante, che sparge
intorno un senso d’indicibile poesia.
Il maestro Zandonai mi ha fatto notare un particolare tecnico
importantissimo. L’esclamazione fatidica «Egli è venuto», all’arrivo di
Paolo, in quest’atto, è caratterizzata da due accordi di tritono, cioè
intervalli assolutamente proibiti nella contrappuntistica, e che formano
la base armonica dell’intero spartito della Francesca, ripetendosi
nell’opera, ed in ispecie nella catastrofe finale.
*
Un quadro interamente diverso il secondo. Lo spartito specifica
l’introduzione dell’atto con la designazione grave e pesante –
accelerato, precipitando – sino al tempo calmo dell’entrata di Francesca
sullo spiazzale di battaglia della torre guelfa dei Malatesta.
L’atto
è
eminentemente
descrittivo,
d’una
potenza
coloristica
impressionante. Il maestro ha potuto cospargere attraverso la scena –
nell’imprimere il quadro di questa battaglia, di balestre, di fuoco
greco, di mangani, di falariche, di bertesche – una ricca e magnifica
tavolozza sinfonica. Ha potuto farne risultare un effetto imponente di
fusione, che nella ridda strumentale e dei clamori, nell’avvicendarsi
delle campane a stormo e degli aspri squilli di trombe, poteva essere
una confusione, la quale è stata meravigliosamente evitata.
Il dramma di Paolo e Francesca riluce pure – come un contrasto calmo,
che fa sentire pertanto la sua battaglia intima – in quella spettacolosa
contesa d’armi.
Paolo, offerto alla donna che gli s’affianca come uno scudo nel suo
pericolo, quasi cerca una fine alla sua pugna interiore, nel saettare
vittoriosamente l’Ugolino. Ma non dev’essere quella la sua morte. Un
dardo gli passa i capelli senza colpirlo.
Tutta questa scena ha una particolare bellezza drammatica, che la
tumultuosa scenografia del quadro non lascia rilevare abbastanza. Il
largo sostenuto onde Francesca esprime quella specie di «giudizio di
Dio» in raffronto alla frode perdonata dell’anima di Paolo, come il
35 «Padre nostro» seguente, e il grido devoto di Francesca: «Inginocchiati!
Inginocchiati!», dopo la constatazione della salvezza dell’amante – sono
pagine d’un grande artista.
Ecco Gianciotto e il suo ritmo claudicante, e la scena del vino greco.
Colori di scorcio tra gl’interstizi del quadro di sfondo, nel quale
s’insinua alla sua volta il dramma già in atto di Francesca. Nell’invito
«largo e solenne» ch’ella fa a Paolo di bere, l’augurio triste della
buona ventura ai due fratelli – et anche a lei – sobbalza come il primo
singhiozzo della mortale corona di angosce. La frase è ancor più
rilevata da una breve perorazione innestata al tema di Paolo.
I legami del dramma si tendono e s’annodano. È là il nemico truce:
Malatestino, giunto malconcio dalla battaglia con l’occhio crepato da un
colpo di pietra. Gli archi dei contrabassi battono il dorso sulle corde.
Il concerto musicale sente di metallo rugginoso. La scena pietosa
intorno al ferito è breve, come la pietà è vana. Il piccolo sciacallo è
già in piedi più feroce, nel grido: «A cavallo! A cavallo!», con cui
s’inizia la ripresa della battaglia. La tremenda botte di fuoco è
manganata dall’alto della torre. Squillano le bùccine sulla scena
(quelle bùccine fatte apposta per quest’opera e che servirono pure alla
Nave
del
Montemezzi)
–
e
il
frastuono
formidabile
è
colorato
sinistramente dalle vampe della città che arde nel sangue. Le campane a
stormo si confondono con gli urli umani e i fragori delle armi. È una
impressione soggiogante. Ogni finale d’atto di quest’opera ne ha una,
tra la poesia e l’orrore.
*
La camera di Francesca. La musica la dipinge come i suoi quadrelli
istoriati, i fregi floreali, e i suoi festoni di canzonette amorose.
Niuna bellezza maggiore è in quest’opera come quella della sua
ambientazione, che rivela un’altra forma di lirismo: quello, dirò così,
architettonico e ornamentale.
Nell’aria è l’effluvio di Calendimarzo e delle canzoni a ballo. Lo fan
sentire le donne di Francesca, e Francesca già ne ha inebriato il cuore
e la fantasia, che quasi chiedono un refrigerio all’ossessione del
desiderio di Paolo e alla perplessità paurosa dell’avventura. La scena
ansante di Francesca e della schiava Smaragdi – per il beveraggio che
dovrebbe paralizzare la vigilanza avversa – traduce questo stato
d’animo.
Come in quest’opera la musica rileva colora, delinea, denuda – come una
possente radiografia di note! – questa materia fondamentale delle opere
d’arte che è costituita dai prospetti degli stati d’animo!
Francesca – che confessa alla schiava di non saper più pregare – non sa
ella stessa se far chiamare o non far chiamare Paolo.
Ma irrompono in buon tempo le donne e i musici. Si danza e si canta la
Primavera. Ecco del Botticelli musicato. Im maestro ha qui ancora
serbato la forma arcaica del brano, senza ricorrere a involuzioni
melodiche e armoniche. Il canto a due voci ha due riprese, nella lenta
figurazione della ballatella che lega di ghirlande le danzatrici, e
mette in pugno alle cantatrici un simbolo di rondini. L’ultima parola
della «stanza»: Primavera!, è come un unissono d’usignuoli che ha il
profumo d’un’aiuola di quei narcisi onde Francesca e le sue donne si
sono adorni i capelli. L’eco che si spegne lascia questa sensazione
fragrante, che ha avuto a sé riportati, con largo sviluppo, i soffi
odorosi dei temi del primo atto.
Un tumulto orchestrale muta la sensazione. Smaragdi ha introdotto Paolo.
Le prime parole dei due amanti hanno il suono sommesso di chi sente
l’anima che si accinge più ad orare che ad espandersi nella passione.
Fra quelle due anime e il bacio c’è come un senso di brivido del
sacrilegio. L’incontro ha qualche cosa di ieratico che tende quasi più
36 all’inginocchiatoio che al talamo. Acutamente il maestro ha intuìto
questa situazione psicopatica. Così il duetto si distacca, nella sua
espansività, dai grandi modelli come quelli degli Ugonotti e del Faust,
che portano gli ascoltatori negli spazi smisurati della grande melodia.
Qui ogni frase d’amore è a fior di labbra, e par che non voglia
trascinare il cuore sulla bocca.
Pure, gli elementi isolatori si dileguano. La colpa finisce per essere
dimenticata. Comincia ad alitare la loro Primavera.
L’artista frattanto non dimentica i suoi coloriti. Sulla frase di
Francesca: «Guardate il mare come si fa bianco» è una squisita
pennellata imitativa di un’ondata.
La donna è già spossata di contenutezza.
Dopo quei tratti di mormorazioni e di silenzi, il libro galeotto – senza
espandere il canto, anzi quasi soffocandolo – non dà che un ritmo
plastico: il bacio. Un grido: Francesca. Un bisbiglio: Paolo. E alla
Primavera della passione fiorita di quella stanza s’intreccia l’eco
lontana del Calendimarzo delle fanciulle.
Ancora un finale di grande poesia e di commozione intensa.
In quest’atto, nell’attesa di Paolo, è introdotto ad appoggiare il suo
tema il flauto basso (un’ottava sotto), già adoprato da Mascagni nella
Parisina.
*
Tutto è torvo nella prima parte dell’atto quarto. Il battito legnoso dei
contrabassi infosca il duetto insidioso di Malatestino con Francesca.
Incombe sulla scena l’influsso di questo «castigo d’inferno», come lo
chiama Gianciotto. I suoni hanno qualcosa di tenebroso. Tutto l’atto
mantiene una sensazione di brividi, non certo fugati dal suono
zoppicante che accompagna Gianciotto.
Il maestro ha qui trovato dei contrasti d’una rilevante importanza
artistica. Egli ha commisto di leggiadri ritmi di grazia, nei declamati
e cantabili di Francesca, il cupo sfondo della situazione. Anche
Gianciotto ha nel suo frasario della gaiezza galante. È una schermaglia
sottile – e quasi involontaria in entrambi – che la musica traduce, per
chi la segue attentamente, con una rara ricercatezza. Ma questo sprazzo
di sole – che ha tutto l’aspetto d’un paesaggio – in quella tenebra, è
subito ricoperto dall’urlo del prigioniero sotterraneo al quale
Malatestino ha reciso il capo. L’urlo orrendo fa fuggire Francesca. E i
due
fratelli,
Malatestino
e
Gianciotto,
si
trovano
di
fronte.
L’orchestra ha dei tocchi lenti e insistenti di marcia funebre. L’atto
segue una salda e impressionante linea sinfonica. Il duetto fra i due
giustizieri è tutto avvolto da un ansante sincopato, in un alternarsi di
terzine e duine, con qualche rapido tocco di cornette in sordina. Vi
s’innesta, a tratti, come in dileggio, il tema di Paolo, riportato in
grottesco.
Tutto ciò esplode nella furia non più repressa di Gianciotto e nel suo
impeto di volontà di scoprire quella notte istessa il tradimento.
E
nel
suo
insieme,
tutta
questa
musica
sinistra
è
veramente
terrorizzante.
*
C’è una sosta di triste dolcezza nell’altra parte dell’atto. Lo spartito
segna – nella verità e nel contrasto – allegretto triste.
Siamo al principio della catastrofe. Quel violoncello d’amoree come
rinnova i suoi singulti!
Francesca è in sonno. Un soffio strumentale la culla. Zandonai gridava
alle prove ai suoi esecutori: «Fatemi sentire il niente!» È in non pochi
punti dell’opera che egli sente la necessità di raggiungere precisamente
una percettibilità musicale che sia appena un fluido. E buoni risultati
di fluidità questa Francesca ne ha ottenuti.
37 Il suono della celeste si fa sentire nella mestizia notturna. La scena –
è stato detto – conduce il pensiero e il sentimento a quella di
Desdemona, ma Zandonai s’è tenuto ben lontano dal rievocare qualsiasi
rimembranza – anche d’identità puramente occasionale – della Canzone del
Salice e dell’Ave Maria.
In quest’ultimo atto di Francesca, per quanto l’ambiente possa parere
simigliante, la struttura musicale è essenzialmente diversa.
Di una soavità toccante è la scena di Francesca e Biancofiore, che
riporta in quest’atto il tenero canto di Francesca e di Samaritana, come
al ricordo dell’angoscioso presentimento della piccola sorellina bionda,
poiché anche Biancofiore è piccola e bionda, e non giunge ad accendere
la sua lampada al torciere.
Si riode la dolcissima frase: «O Sorella, sorella», e il violoncello
singulta l’immagine di Paolo.
Biancofiore se ne va; e Paolo è anelante, avido di voluttà, nelle
braccia di Francesca.
Questo secondo duetto dei due amanti è pieno di slancio. Sentiamo
evolversi e svilupparsi il noto tema di Paolo; e una cantica unisona
quasi
suggella,
in
un
ampio
esaltamento,
la
consacrazione
dell’olocausto.
La catastrofe è fulminea. Quasi più plastica che musicale. La musica non
ha più niente da dire. Tornano, nel tragico momento, i ritmi di
Malatestino e Gianciotto; e, come ho accennato più su, l’opera finisce
coi due famosi accordi di tritono. Un pieno orchestrale quasi strozzato;
tutto è finito.
«Amor condusse entrambi ad una morte!...»
Il successo
L’esecuzione
Quella di Francesca è una musica eminentemente aristocratica, tutta
ricercatezze sottili. Il pubblico ne intese e comprese in ispecie tutta
la parte di sentimento e di poesia; e con ciò vi fu il trionfo completo
del lirismo dell’opera.
E a niuno sfuggì il vasto disegno strumentale, che salda tutta l’opera
in una superba unità di concezione e di struttura, in cui la forza di
espressione e di colorazione del sinfonista delinea tutta la personalità
dell’operista moderno.
La sensibilità del nostro pubblico non si lasciò cogliere dalle
impressioni intense della parte truce – che ha così sorprendentemente
possanza nell’opera – e fu in questa parte meno espansiva. Ma quanto
slancio di spiriti eccitati al trascinante finale del primo atto e dopo
il terzo e alle toccanti soavità del quarto, ed anche all’impressionante
quadro della battaglia!...
Le chiamate agli artisti e all’autore furono quattro al primo atto,
cinque al secondo, sei al terzo, in una progressione crescente, che
prese le proporzioni – nel ripetersi delle acclamazioni del terzo –
d’una calda e lunga ovazione. Applaudiva unanime tutto il teatro, e al
pubblico si unirono in un particolare omaggio i professori d’orchestra.
Questi applausi furono men vivi alla drammaticità bieca degli altri due
atti, forse per l’impressione stessa ch’essi produssero; ma il successo
di Francesca a Napoli, nella sua pienezza, nella sua importanza, nella
sua elevatezza, era misurato com’è lo stesso dramma musicale: nella
grandezza della sua saldatura. Questo successo non farà che crescere a
dismisura nelle successive rappresentazioni. L’opera è di quelle che si
riassaporano e si compenetrano a fondo.
L’esecuzione – nella profonda e minuta comprensione che dell’opera diede
l’autore, e sotto la sua direzione animatrice, viva, palpitante,
suggestionante, che trascinava tutti, in sicurezza e in forza di
38 rendimento e in bellezza di fusione – fu per consenso unanime un vero
modello.
Gilda Dalla Rizza è veramente la grande poesia di quest’opera, nella
plasticità, nella mirabile raffigurazione del personaggio, nella sorprendente linea d’arte di questa sua magnifica creazione. L’interprete e
la cantante, in un vero prodigio armonioso, formano una bellezza sola.
Quella meravigliosa voce che ha così singolari inflessioni, che fa del
sentimento un incantesimo e della drammaticità una commozione veemente,
assume nei canti di Francesca tutta la grandezza d’un poema. Ogni frase
risponde a un ritmo di questa stupenda armoniosità artistica; e i gesti,
l’atteggiamento, l’espressione del viso, sono elementi che compongono in
grado supremo la meraviglia. Francesca è splendidamente integrata nel
temperamento, nelle qualità, nell’aspetto, nell’intelligenza, nell’anima
di questa creatrice di grandi figure. Nulla di più nobilmente elevato, e
nulla di più irresistibilmente adorabile.
Le lunghe, entusiastiche, clamorose ovazioni del pubblico consacrarono
indimenticabilmente
la
grande
trionfatrice
dell’interpretazione
dell’opera.
La parte di Paolo è assai difficoltosa e d’una responsabilità artistica
e personale straordinaria in un personaggio destinato a funzionare da
campione di bellezza. Il tenore Di Bernardo ha una voce calda e canta
con espressione; e la raffigurazione del personaggio si antenne nelle
sue linee.
Vigoroso, rude, caratteristico, superbo Gianciotto fu il baritono
Franci,
che
sfoggiò
con
la
consueta
prodigalità
la
smagliante
sovrabbondanza della sua voce.
Una affermazione di artista completo, in una parte d’importanza
considerevole, il tenore Papaccio. La sua interpretazione di Malatestino
eleva di colpo ai gradi superiori il cantante e l’interprete. Un
successone.
Graziosa, avvincente, nella bella voce che esprimeva con tanto
accoramento il dolor di sorella, nella parte di Samaritana la
valentissima Nadina Gontarouk. E una bella e notevole linea di
personaggio, per la schiava Smaragdi, la simpaticissima Mita Vasari.
Ottimo il baritono Zuccarelli, un Ostasio dalla voce robusta e incisiva;
e veramente eccellente il gruppo delle ancelle ed in ispecie, per le
graziose voci, Margherita Corelli (Biancofiore) e Bice Citarella.
Una magnificenza le scene, splendide di visuale, di costruzione, di
evidenza storica; ed ammirevoli di ricchezza e di proprietà i costumi.
L’orchestra è stata in tutto degna dell’illustre maestro e dell’insigne
direttore.
Così il grande spettacolo di questa splendida opera è veramente
completo.
---------(*)
NOTA:
Nella parte seguente del giornale si annuncia che Zandonai sta componendo l'opera Giulietta e Romeo.
138
Saverio Procida, “Francesca
Mezzogiorno», 16-17.1.1921
da
Rimini»
del
maestro
Zandonai,
«Il
Il successo
Si può essere brevi nella cronaca per dilungarsi sull’opera d’arte, che
merita, per la sua nobile bellezza, un esame approssimativamente largo.
La cronaca è riassunta in tre parole: Un gran successo. Il maestro
Zandonai ha trovato nel nostro più eletto pubblico – e la magnifica sala
d’iersera ricordava i tempi delle solenni premières sancarliane –
l’opportuna sensibilità per gustare di prim’acchito la linea elevata,
nell’ornamento e nella sostanza musicale, dell’opera, di questa poetica
39 trasfigurazione d’un fiero peccato d’amore. Il palpito ardente e soave,
fra tanto ferro di Medio-evo, che D’Annunzio ha sentito nella Francesca,
s’è trasferito nella musica del maestro di Rovereto. Questo ha subito
compreso il pubblico napoletano fin dalle prime scene di Francesca ed ha
seguito con interesse il quadretto iniziale che ambienta la corte
polentana. Il primo coretto di languori amorosi intorno a Francesca ha
cominciato l’opera di suggestione. Ma la Francesca non chiude mai i suoi
pezzi e l’impressione non può tradursi in applausi. Si coglie la
delicata impressione di tenera tristezza dell’uditorio al dialogo fra
Samaritana e Francesca, di cui più giù diremo l’importanza tematica.
L’esagitazione corale – qui e altrove il coro fu eccellente, a
tutt’onore del maestro Papa – all’arrivo di Paolo già avvince il
pubblico. Tutta la scena finale dell’atto l’immerge in un’atmosfera di
poesia. Gli ultimi palpiti dell’orchestra sono interrotti da applausi e
a velario chiuso c’è un’esplosione magnifica, che rende trionfale
l’accoglienza al prim’atto. Dai palchi e dalle poltrone – indice di
successo autentico – tutti si levano in piedi. Cinque chiamate piene
coronano l’impressione di soavità. Gli artisti – la Della Rizza [Dalla Rizza]
aveva già preso per sé un bell’applauso – si trascinano dietro il suo
maestro, che in fine è lasciato solo a godersi le acclamazioni, cui
s’unisce l’orchestra.
Il second’atto – definibile un vero tempo sinfonico – ha, data la sua
struttura e la sua esuberanza descrittiva, un successo cordialissimo. Il
pubblico s’è interessato al turbine strumentale della battaglia e non
gli è sfuggito la tragedia passionale che nasce fra le saette per
giudizio di Dio. Anche quest’atto è acclamato, in fine, con tre chiamate
agli esecutori e una allo Zandonai, che ha saldamente condotto
l’orchestra con un vigoroso senso del ritmo.
Al terz’atto il successo cresce ancora. La canzone a ballo diffonde una
frescura di cui è sensibile l’effetto sulla massa. La grande scena
d’amore – pagina di poesia musicale non facile ad afferrarsi nella sua
progressione di canto – è intesa invece con immediatezza. Neanche il
miagolio d’un poppante in platea – o Erode, come ti compresi in quel
punto! – disperse l’emozione del pubblico. Cinque chiamate unanimi alla
Della Rizza, aggiogante per espressione e accento, al Di Bernardo e al
maestro. Ma ci sono per Zandonai altre due chiamate, che suggellano il
gran successo di Francesca nel punto culminante della sua espressione
musicale e poetica.
Il quart’atto resiste a questo climax, che avrebbe potuto nuocergli. Il
duetto della delazione agguanta per la sua dialogazione secca e cupa.
Ormai il pubblico segue con interesse il compositore anche dove egli
incide in declamati il dramma. La seconda parte di quest’atto commuove
un uditorio che avrebbe diritto a sentirsi affaticato,
E il breve e ardente duetto finale scuote ancora allo scoppio delle due
voci sul tema d’amore. La catastrofe fulminea non disperde il fascino. E
altre quattro chiamate consacrano il successo di Francesca.
Gl’interpreti
A Gilda Della Rizza i primi onori. Ella ha dato a Francesca la soave
bellezza della sua voce squillante e pastosa, un accento nobile e
incisivo, una foga interiore di spasimo che non ismania in gesti ma si
plasticizza nella sua arte di declamazione. Il suo trionfo di cantante
non offusca quello dell’interprete sicura e sollecita di ogni particolare psicologico o scenico del personaggio. Il pubblico la salutò come
collaboratrice del maestro.
Il tenore di Bernardo ha larghezza di fraseggio, impeto drammatico,
azione efficace. Il Franci dette a Gianciotto la robustezza dei suoi
mezzi, una sagace coloritura nel declamato, qualche impeto vocale che
40 riaffermò la fresca rotondità delle note di questo baritono prezioso per
la sua duttilità di cantante e di attore.
Non credo che Malatestino potrà mai trovare un tenore come Papaccio, che
gli dia la baldanza, lo squillo, il sicuro movimento scenico offertogli
dal giovanissimo artista. Fu una rivelazione, iersera.
Ottima Smaragdi Mita Vasari. Con molta espressione e giustezza cantò in
una parte breve ma d’importanza musicale. Nadina Gontarouk (Samaritana)
e le quattro donzelle di Francesca – signorine Citarella, Corelli Corsi
e Cammarota – si fecero onore nei difficili dialogati e nella canzone a
ballo, di così ardua intonazione.
Un Ostasio di bella presenza e di chiara declamazione il baritono
Zuccarelli; il Giullare ebbe nel Niola un attore di scena disinvolta e
un buon Toldo il Burri.
A questo insieme vocale molto accurato nelle troppe parti secondarie
dell’opera corrispose una messa in iscena splendida. La corte col
loggiato del palazzo Polentano, la Torre mastra del 2. atto, con tutto
il suo complicato macchinario bellico, che funzionò in bagliori di fuoco
greco e in lancio di saette; la stanza di Francesca istoriata in
perfetto stile di affreschi e suppellettili e il salone d’armi dei
Malatesta sono veri quadri inappuntabili come fasto. L’impresa Laganà ha
riscattato varie colpe del passatoi con l’allestimento perfetto di
questo spettacolo, che il vestiario ricco completa nel suo aspetto
pittoresco.
L’opera d’arte
Fin dalla comparsa della Francesca – sette anni or sono, a Torino – io
ebbi occasione di manifestare pubblicamente il mio giudizio. E oggi,
anche dopo più maturo studio, nulla ho da mutare alle prime impressioni.
L’opera dello Zandonai non ha come introduzione che poche battute, per
attaccar subito dopo un chiaro e snello dialogato fra le donne di
Francesca e il Giullare. Questa scena svelta e scorrevole ha un sobrio
accompagnamento orchestrale, che non forma ancora un vero disegno, come
più tardi ne vedremo, ma delle pennellate, in modo da lasciare
all’intreccio delle 4 voci e alle repliche del giullare aspetto di
libero recitativo moderno.
E così continua fino al duettino fra il notaio Ser Toldo e Ostasio
(secondo tenore e baritono) nel quale pezzettino il maestro ha inteso
assimilare al testo tutto moderno dell’opera un brano caratteristico di
antico recitativo – di tradizione italianissima – basandolo sopra un
tessuto strumentale che lo coordina al carattere generale della musica,
pur lasciandolo vocalmente isolato.
Ma come tentativo di innesto, tra fisionomia antica ed intimo allacciamento moderno, io preferisco assai di più la scena seguente, un vero
episodio squisito, che inquadra l’entrata di Francesca. D’una gentilezza
malinconica sono le note di lei inserite sul coretto plorativo delle
donne:
Ohimè che io adesso provo
Che cosa è troppo amore.
La melodia, lo strumentale, hanno un sapore arcaico nella cantilena a
coro che l’orchestra finemente sottolinea nel fonderla con tutti gli
incisi quasi sognanti di Francesca e col soavissimo rimpianto di
Samaritana, la piccola sorella cui lo Zandonai dà subito un personale
carattere di grazia dolente e d’amara pena, che tornerà nella seconda
parte dell’atto quarto, a evocazione elegiaca d’un funesto presagio.
41 Per intanto, già in questa scena la coloratura orchestrale sul canto
delle due sorelle è tetra, a singhiozzi repressi. Come sono funebri i
due incisi di Francesca:
Egli è venuto.
È venuto, sorella!
Man mano il canto di Francesca si modifica in un lieto presagio (Verrà
in breve anche il tuo giorno!) ma le due voci si fondono di lì a poco,
per ritornare alla tristezza fondamentale di questa squisita scena. Un
animatissimo attacco del coretto preannunzia a Francesca l’arrivo dello
sposo. Sorge qui il tema di Paolo, che uno strumento ricostruito a posta
dagli antichi modelli – la viola pomposa, di timbro più chiaro del
violoncello – inizia melodiosissimamente, svolgendo la spirale con
nobiltà grave, che subito ci conquista per il suo inclito portamento e
che dominerà in orchestra sino alla fine dell’atto.
È questa la scena più suggestiva dell’opera. Francesca ha note di
trepida emozione. Samaritana irrompe con lo scatto drammatico: O
Francesca, Francesca, che hai tu veduto? – mentre l’orchestra amalgama
queste espressioni diverse di emotività diverse con un insistente
mormorio, in gran parte di archi, a guizzi ritmici ed un semplice
cantabile di Francesca «Portami nella stanza e chiudi la finestra» dà un
senso di raccoglimento estatico che le sordine degli strumenti
mantengono. Ma di nuovo il coro, che in questo brano è di un colore
ineffabile, interviene con l’arcadica maggiolata di chiusa e l’orchestra
vi ricama un dolce susurro, intanto che Francesca porge a Paolo la rosa
spiccata dal rosaio vermiglio. Cresce man mano questo voluttuoso flusso
sinfonico e quasi perora. Ma poi ridiscende e vi domina un tenero
effluvio del piffero, che già si era unito al coro per dargli carattere
pittoresco e molle. E l’atto si chiude su di uno smorzo delizioso che
pare un sospiro di amore.
***
Tutto muta nel secondo atto, fin dalle brevi battute minacciose che
l’aprono. È questo un atto di colore, di impressione, che va considerato
nel suo insieme di descrittività continua, concepito come un blocco
sinfonico che quassi soffoca la drammaticità della rivelazione d’amore
nel folto del cimento, tra le grida di furore p di trionfo e lo
stramazzo dei morenti.
Tutto vi è imitato: i ghirigori del fuoco greco, le parabole delle
frecce, i massicci movimenti del mangano e l’orchestra tesse tutta
questa onomatopea belligera in un disegno generale che sinfonizza
l’azione, vi incorpora le frasi, i declamati, persino i drammatici
accenti e una libera melodia di Paolo, che si fa largo attraverso gli
incisi caldi di Francesca. Sembra che l’orchestra voglia cessare, dopo
un bel richiamo del tema di Paolo, che ha percorso in largo il finale
primo; ma è una sosta. Presto sorge un movimento cupo in cui dominano
contrabassi e trombe, e un rintocco di campana impasta le grida dei
balestrieri. Si ha appena il tempo di notare un recitativo melodico di
Francesca sul giudizio di Dio, che dovrà uccidere Paolo alla finestra
imbertescata oppure condonare il peccato. Spunta anche un brano di
melodia drammatica nella scena del dardo che rasenta il capo di Paolo e
un mirabile breve declamato «Inginocchiati, inginocchiati», ma il grido
dei balestrieri rattizza la foga orchestrale fino all’arrivo di
Gianciotto, che si presenta con un minaccioso brontolio di contrabassi,
con incisi vocali a scatti, reiterati ed uguali. Ancora una sosta nel
duetto fra Gianciotto e Francesca, che ha una forma quasi galante di
dialogo melodioso mentre gli sposi si dissetano col vino greco. Ma beve
anche Paolo ed allora l’orchestra si intorbida. Come brontolano i
42 tromboni a cupe sincopazioni, quando Gianciotto dice a Francesca:
«Donna, versategli una piena coppa e bevetene un sorso».
È tristemente elegante la frase di Francesca: «Bevete, mio cognato,
nella coppa dove ha bevuto il fratel vostro». C’è lo stento, e
l’orchestra l’annota con una pretta figurazione wagneriana, dapprima
torva, poi triste. Preme l’orchestra e si abbuia, mentre è portato in
iscena Malatestino, il cui tema ha una strana rassomiglianza ritmica con
gli accordi misteriosi della cappa magica nell’Oro del Reno. Questo
Malatestino stridulo e feroce ja una bella delineazione musicale, nella
sua breve ma accentuatissima fisionomia. Un inatteso e caratteristico
grido ne scolpisce il superbo disprezzo di piccola tigre.
È bello il suo impeto – a cavallo, a cavallo – e prelude di poco alla
furia orchestrale nel lancio del mangano, che manda faville di fuoco
greco. Una frase la domina per accentrare su di sé tutto lo strepore
selvaggio della furia bellica, che chiude come ha aperto l’atto.
La descrizione comprime o al più circoscrive la grande corrente
drammatica di questo atto dal poeta commista alla strage, in uno dei
suoi più favoriti atteggiamenti di sensualità acre attizzata dal sangue.
***
Ma il terzo atto ci riconcilia alla dolcezza del primo. E con la poesia
di amore che nobilita il peccato nella suprema indulgenza dell’arte. Il
tema di Paolo si presenta subito come a cifrarsi di passione. Francesca
legge l’istoria di Lancillotto e le damigelle stillano un riso che
l’orchestra mesce nella tavolozza leggiadra ond’è affrescato il
dialogare delle quattro donne di Francesca. Si fa sempre più fine e
gentile il coretto fra l’uno e l’altro tocco drammatico. – Tocchi
soltanto – negli accenni al beveraggio della Torre Mastra e all’occhio
terribile di Malatestino. Ecco ora la canzone a ballo, allegoria di
primavera. Un olezzo. È canto fresco di una grazia più da Rinascimento
che da Medio Evo – direbbe un pedante dell’estetica – ma così soave e
gentile, così fiorito e vezzoso, che l’orchestra se lo pispiglia con
tutte le sue più apriche ingemmature, con tutte le sue più rosate
aurore, durante l’armoniosa cantilena delle donzelle, che la chiudono in
una grande carezza vocale. È un brano di suggestione magnifica che
profuma d’amore la soglia del gran duetto.
Paolo entra fra queste fragranze dell’aprile [marzo] e subito la scena
procede in una specie di melopea legata. È legata da una orchestrazione
che anima ed agita soavemente i cuori. Non vi è più stacco di voci fino
al termine dell’atto. Dove la melodia vocale ha un rilievo d’amoroso
languore, l’orchestra diviene capillare e teme quasi di gravare sulla
cantilena, e le parole di Francesca:
Non richiamate, prego,
L’ombra del tempo in questa fresca luce
Che al fine mi disseta.
fluiscono in suoni vaporosi.
Alla risposta di Paolo:
Inghirlandata di violette
m’appariste ieri
la celeste entra con un effetto quasi floreale, come il solo strumento
di flebilità che possa reggere con lieve accompagnamento una anima
rapita in una visione.
E continua in aurea semplicità questa orchestrazione portentosa di
circospezione e di rispetto, la sua larga ascesi contemplativa, di un
43 misticismo erotico, che va di levità in levità sino alla commozione più
dolce all’infiltrarsi del tema dominante di Paolo sull’inciso:
Ora perché vi togliete dal capo
la ghirlanda?
La lettura del libro è ripresa con qualche tono grave. L’orchestra è più
che mai leggiera, trasparente, ha quasi un arresto, poi ricanta il tema
protagonistico, lo modula diversamente, lo lascia crescere fino al
bacio, dove finalmente essa perora, ma dolce sempre – e un flusso
interno, come un’eco tardiva delle voci primaverili, susurra in cadenza
fra i due sospiri melodici degli amanti:
Paolo! Francesca!
***
Siamo alla catastrofe. La prima parte del quarto atto ansima nel dialogo
che io chiamerei di ribrezzo fra Malatestino e Francesca. La musica ha
nella brevità il suo tono tragico.
Vi sono suggestivi brividi orchestrali per il prigioniero che urla ed
alfine tace di un silenzio di morte. L’avvertimento: «Cognata, buon
vespro», ha un guizzo truce. Il dialogo fra Gianciotto e Francesca va
lesto e ha sobrio trattamento orchestrale. C’è quello ben più
drammaticamente importante della delazione. E difatti il commento si fa
più aspro, più incisivo. Sono più tocchi, gravi e rapidi, che colorazioni descrittive. La declamazione vocale è ora secca ora tortuosa.
L’orchestra si concentra in un ritmo di brivido reiterato, a scatto, con
una trattazione sobria che divien tragica quando Malatestino asserisce
di aver veduto e promette di far vedere.
Il «voglio» sonoro e irruento di Gianciotto aggela. Giacché si procede
per alternative di cupo e di soave, in questa tragedia tutta
teatralmente ben calcolata, l’ultimo quadro ha ambientazione di elegia.
Perché tacerlo? Lo Zandonai ha risentito in questa parte l’influenza
dell’Otello di Verdi. Non c’è una sola nota che simile al divino quarto
atto del bussetano. E tuttavia la tristezza elegiaca, il colore, il
sentimento del presagio mortale derivano da quell’eccelsa fonte del
patetico sublime. Sono identità ideali, non materiali.
Certo, questa scena è di una bellezza compiuta. Le ancelle vegliano il
sonno e l’incubo di Francesca. Poi ella si riacqueta, ma domina la
malinconia, che esala dalle voci sommesse e dai toni lamentosi
dell’orchestra. Si giunge così al soavissimo duetto di Biancofiore e
Francesca.
Come
ogni
nota
di
questo
squarcio
stilla
dolore,
presentimento, angoscia quasi inconsapevole. Torna il dolcissimo tema di
Samaritana, che Francesca evoca e si imperla di tenerezza plorante, e
geme dentro. Ogni inciso sinfonico è un singhiozzo su cui gravi, quasi
spettrali, piombano le note basse di Biancofiore:
Dio vi guardi, Madonna!
Il duetto ultimo degli amanti è concitato, di una impetuosità malsicura,
ha soste di dolcezza, ma quasi l’urge la necessità. Gianciotto è all’
uscio. Batte, entra, uccide, e l’orchestra ha il tempo appena di dare
gli accordi ferali, il sincopar torbido, come a liberarsi.
Pochi accordi e il velario si chiude.
***
Francesca è lirismo. Ed il dramma deve passare come una bufera.
Sintetizziamo con metodo telegrafico. La Francesca è un’evoluzione dello
stile di un musicista già illustre come Zandonai, doviziosa sensibilità
di artista in un temperamento sinfonico, che possiede ricchezza di
colore, nobiltà di disegno, gusto aristocraticissimo, elasticità e
morbidezza di strumentatore.
44 Egli ha voluto entrare nel dramma, e attraverso il lirismo ha cantato,
ha depurato con grazia vocale ciò che prima esplodeva con effervescenza
sinfonica. Qua e là l’impressionista risolleva il capo, e in tutto il
secondo atto, e in qualche squarcio del primo quadro dell’ultimo atto,
la tramatura orchestrale soverchia perfino l’espressione.
Ma sono irruzioni del sinfonista nato, che forza con l’istinto
l’equilibrio dell’artista. Dove il dramma allaga la scena, egli lo segue
dappresso, lo rende in trasparenza, in soavità, in ispirazione melodica,
precisa e franca, alleggerendo, semplificando, raffinando il suo
strumentale al quale ha dato un carattere così personale, così omogeneo,
così
squisito
da
renderlo
più
che
sapiente,
significativo.
La
trattazione orchestrale, nella Francesca, è robusta, ma è anche
elegante, duttile, cristallina. E tutta la vocalità dei personaggi cifra
d’italianità questo canto d’amore e di passione non eruttiva, ma finita
e spontanea.
Molto guadagnerà quest’opera a essere riascoltata, giacché è il frutto
di una evoluzione mentale che rimonta al carattere indelebile della
musica nazionale e vi apporta la grazia della esperienza moderna, col
contributo di un sinfonismo che non torce né l’idea, né la sua veste
melodica o declamativa.
La Francesca è, ripeto, il nuovo orientamento di un ingegno robusto e
sicuro. L’artista canta vaneggia e geme su note umane, non per congegni
metallici. Non è ancora uguale l’ispirazione ma è netta e chiara dov’è
viva.
Questo maestro giovane e vigoroso, insomma, è un astro che sfavilla in
un cielo nostro.
139
Diego Petriccione, “Francesca
Carlo”, «Roma», 17.1.1921
da
Rimini”
di
Riccardo
Zandonai
a
“S.
I quattro atti nei quali è divisa la tragedia di Gabriele D’Annunzio –
ridotti da Tito Ricordi con opportuno senso di misura, sfrondandoli di
quanto non era necessario alla vicenda scenica, e così di un numero
rilevante di versi – hanno dato agio a Riccardo Zandonai di scrivere
un’opera – sinfonica, rispondente pienamente al suo eletto temperamento
di musicista. Poiché – è oramai cosa acquisita – bisogna riconoscere nel
compositore della «Francesca da Rimini” un «sinfonista» di singolare
valore. Riccardo Zandonai sente «sinfonicamente», rende con ricca
tavolozza quanto vuol significare nella espressione musicale e dà così
rilievo a figure ed a cose con risultato notevole. E poiché è un
musicista italiano, questa sua «italianità» lo induce a non trattare da
umile ancella mai la melodia. Egli sa, nell’opera che abbiamo ascoltato
con un compiacimento, dare così al canto degno posto con frasi –
talvolta di ampio respiro – sempre elette, sempre svolte con arte
squisita. Ma nella «Francesca» domina sopratutto il sinfonista.
I quattro atti sono vari, sono musicalmente di un interesse sempre
grande. L’artista ha inteso profondamente la tragedia di «Francesca e
Paolo», l’amore che li «condusse ad una morte» ed ha saputo rendere il
loro dramma e tutta la possanza della loro passione con accenti sinceri,
fin dall’inizio del lavoro. Ecco così la bella frase d’amore (che si
allarga e domina poi nel grande «duo» del terzo atto, nella magnifica
scena d’amore soffusa di tanta bellezza) annunziarsi fin dal primo
incontro di Paolo e Francesca, quando ella, la dolce figliuola di Guido
da Polenta, sente nel tumulto che ha nell’anima essere Paolo lo sposo
dell’anima sua.
45 Il primo atto della «Francesca da Rimini» così racchiude in sé tutta la
soavità, tutta la dolcezza amorosa, che poi divampa in fiera passione. È
tutto un fiorire primaverile in quel primo atto.
Calen di maggio esulta. Dal giullare, che fa una ricercata sulla viola e
canta, al cicaleggio delle donne di Francesca, al Coro interno delle
stesse che fa esclamare a Francesca: «Amor le fa cantare!», alla dolce
scena fra Samaritana e Francesca, soffusa di tanta melanconia e che
determina, nel discorso musicale, già la figura della protagonista della
tragedia, al mirabile quadro dell’incontro primo di Paolo e Francesca,
che non si scambiano parole ma sentono la dolce estasi d’amore, passa
nel primo atto la grazia squisita di un artista che sa e rende il
nascere di un amore che poi conduce ad «una morte». Non so chi abbia
detto che quel primo atto, nell’economia scenica del lavoro, non sia
necessario. Certo, musicalmente, il giudizio sarebbe errato. Per
intendere tutta la possanza del terzo atto della «Francesca da Rimini»
di Zandonai non è possibile allontanare la mente dal quadro così fresco,
così squisitamente disegnato, così finemente colorito del primo.
Quando, nell’infuriare della battaglia al secondo atto, Francesca
s’incontra con paolo sulla piazza della torre rotonda della casa dei
Malatesti, ella ha già subito l’inganno di essere stata data in isposa a
Gianciotto lo sciancato, e noi siamo già nel pieno della tragedia. I due
già sono per diventare amanti. Ed è musicalmente reso ciò con risultato
veramente notevole. Qui il sinfonista ha modo di far valere tutti i suoi
mezzi. Può raggiungere gli effetti che crede meglio e necessari al
lavoro.
E nel divampare della battaglia ecco la voce di Francesca pregare, e
nell’orchestra passa lo sgomento, l’ansia di lei, commisto al cozzo
della passione di parte dei balestrieri, mentre le campane suonano a
stormo. La musica sale per gradi fino a raggiungere il finale poderoso,
quando la gente dei Malatesti grida vittoria.
Ma noi già conosciamo in questo secondo atto chi siano Gianciotto e
Malatestino. Nel tema musicale del primo è tutta la rudezza dell’uomo,
ma non perfido; violento, crudele ma sincero; mentre nel fosco tema che
caratterizza Malatestino appare tutta la figura obliqua di quel perverso
che poi, nel primo quadro dell’atto quarto, manifesta meglio ancora
tutta la sua indole, la sua sozza passione per Francesca, nella scena
che prepara la catastrofe finale.
Ed ecco qui necessaria una osservazione. L’impiego dei «temi-guida» è
fatto in tutta l’opera con mirabile accorgimento. Naturalmente è una
derivazione questa schiettamente wagneriana, come sinfonicamente lo
Zandonai sa nell’orchestrale avvalersi dello studio fatto sulle opere
del grande autore della «Tetralogia»; studio che onora il musicista
nostro perché ha saputo far proprio quanto era stata conquista musicale
dell’altro. I «temi-guida» seguono, annunziano, commentano la figura di
ciascun personaggio ricordano il singolo episodio e si intrecciano nel
discorso musicale c on vera perizia da parte di un Maestro che sa
cavarne partito ed avere una fisionomia propria.
Questa nota personale, che è poi necessaria per ogni vero artista,
risulta nel lavoro perché il musicista vuole essere sincero, perché è
sincero. L’opera è «sua» perché così l’ha intesa, perché non si è
accinto a scriverla per semplice spirito di imitazione o per mostrare la
propria valentia di sinfonista, ma perché egli si è commosso al dramma
ed ha trovato i corrispondenti accenti di commozione.
Ecco così spiegata tutta la efficacia del terzo atto, nel quale il
ricordo dantesco della passione di Paolo e Francesca:
Noi leggevamo un giorno per diletto
Di Lancillotto come amor lo strinse;
46 Soli eravamo e senza alcun sospetto...
assurge nella musica a pura espressione passionale drammatica. Passa
davvero nella grande scena di dedizione, della passione avvolgente del
«due cognati», nella frase, nella musica, nell’orchestrale il fremito
d’amore di Paolo che bacia Francesca sulla bocca... Esser baciato da
cotanto amante!
Non ha forse, nella parte seconda del quarto atto, turbato un po’ il
musicista il ricordo della scena di Desdemona nell’«Otello» verdiano,
prima di dire le sue orazioni, mentre la morte è pronta per ghermirla a
mezzo della vendetta di Otello? Certo la posizione scenica è quella. Ma
ben diversamente il dramma qui precipita alla catastrofe. Qui tutti i
«temi» principali dell’opera si fondono.
La frase d’amore è interrotta dall’urlo di Gianciotto, dal suo irrompere
nella camera con la punizione dei due cognati in peccato d’amore...
Dunque, Riccardo Zandonai ha vinto anche fra noi la sua bella battaglia
d’arte. Ha vinto perché è sopratutto un Maestro sul serio, perché sa
quello che può concedere al pubblico con la sua arte, nel disporre dei
propri mezzi con sicurezza.
Non mi dilungherò a rilevare questo o quel pregio della tragedia
musicale. Mi piace rilevare soltanto che il pubblico è stato di parere
concorde, applaudendo il valoroso compositore, evocandolo singolarmente
alla ribalta dopo ogni atto.
Della esecuzione orchestrale è giusto rilevare i pregi. L’opera è stata
concertata e diretta dallo stesso Zandonai. Tutte le finezze dello
spartito, tutti i coloriti, tutte le sfumature, sono stati da lui
curasti, messi nel dovuto rilievo, in valore. Onde da questo lato si può
dire che il risultato è stato eccellente.
In quanto alla esecuzione scenica e vocale, il primo posto spetta alla
signora Gilda Dalla Rizza, che ha dato tutto il rilievo scenico
necessario alla figura di Francesca. Ha reso nel canto e nell’azione la
passione di lei per Paolo, il tormento, l’angoscia e poi il fatale
abbandonarsi alla passione amorosa.
Meno felice ci è sembrata la scelta degli altri esecutori. La parte di
Paolo era affidata al tenore Di Bernardo, che ha simpatici mezzi vocali
ma non sempre ci è parso sicuro nella intonazione e sopratutto nell’arte
di saper legare i suoni. Gianciotto lo sciancato era il baritono Franci,
non
precisamente
all’altezza
del
proprio
compito.
Mediocre
il
Malatestino di Papaccio, che non ha potuto rendere il carattere del
bieco fratello di Paolo Malatesta nella determinazione scenica e vocale
del personaggio.
Mediocre la Gontaronck [Gontarouck] nella parte di Samaritana, la soave
sorella di Francesca. La parte di Ostasio è stata resa dal baritono
Zuccarelli. Discreta Smaragdi Vasari. Le altre parti delle donne di
Francesca hanno avuto una volonterosa esecuzione dalle altre zelanti
cantatrici.
Per la «Francesca da Rimini» la messa in iscena non ha lasciato
desiderare.
140
r.f., “Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai al “San Carlo”, «Il
Mattino», 16-17.1.1921
Appena apparsa la tragedia d’annunziana, per il suo largo, armonico e
euritmico disegno, per l’émpito dei suoi suoni ora potenti e ora
delicati,
qualcuno
l’aveva
già
considerata
come
una
trama
da
meraviglioso e italianissimo libretto, cui mancasse solo la musica.
47 Tito Ricordi ha infatti dalla più obbiettiva e impersonale tragedia di
Gabriele d’Annunzio, sfrondandola di molte decorazioni ornamentali e
anche di molte imaginose vaghezze, tratto un libretto rimasto tale da
raffigurare e rappresentare una autentica medieval Italia guelfa e
ghibellina, rinascente nel suo linguaggio, nelle sue consuetudini
guerresche e civili, nelle sue donne inghirlandate di cortesia, nei suoi
cantori con l’anima piena dei nuovi modi poetici del «dolce stil novo» e
nei suoi uomini di ferro e sangue. Era naturale che in tanta
ricostruttiva complessità di sentimenti ed elementi il dramma interiore
di Paolo e Francesca non potesse sempre avere il gran palpito dantesco e
la breve incalzante, infernal veemenza del fatto tragico che danna i due
cognati in strettura e cintura da immortali terzine. Nella poesia di
Gabriele d’Annunzio, come nella musica di Riccardo Zandonai, Francesca
ama, per così dire, coi sogni, con le visioni, coi presagi, con le ansie
che risvegliano in lei la caccia selvaggia di Nastagio degli Onesti e il
libro che narra i baci di Tristano ed Isotta, assai più che con lo
spirito e la carne. Ciò vuol dire che d’Annunzio, nella estrinsecazione
dei casi di amore e morte di Francesca e Paolo si è prefisso di far
vivere i due innamorati eterni in un’atmosfera di lirismo entro la quale
la peccatrice dantesca par sempre dire a chi l’ascolta: –«ed io ti
conterò tutti i miei sogni» e dare, come Smaragdi, sempre l’«acqua al
rosaio», cioè gemme e fiori alla Poesia e fiati e voci alla Musica,
Invece il dramma di Gianciotto e quello di Matatestino sono concepiti da
un poeta direttamente e scultoriamente tragico.
Tale diversità fra il flusso del lirismo a similitudini e l’urto e la
stasi di una tragicità immediata e rapida, è musicalmente assai bene
còlta e a tratti anche troppo sensibile nell’opera di Riccardo Zandonai.
È alternativa che colora e varia la dilatazione dei versi danteschi fra
le feste e anche i festoni della poesia d’annunziana e da lì è passata
felicemente nella musica del Zandonai. «Senza stile non vi è poesia» –
diceva il Tommaseo. E neppure musica, anche se il compositore che non
sia, come Wagner, un poeta egli stesso è sempre forzato ad assimilarsi
lo «stile» di un altro, in ispecie quando questi non è Illica, Forzano o
Adami ma Gabriele d’Annunzio.
Riccardo Zandonai, da quel forte e accorto, non sadico e non isterico,
strumentatore e coloritore che è, ha trovato, più che in «Conchita» o in
«Melenis» nella «Francesca, pronti germi d’ispirazione e nitide forme di
sviluppo. È, in quest’opera, pur a momenti mossa così a sbalzo o incisa
a cesello e frammentaria, più che in ogni altra precedente, organico. E
anche più logicamente sinfonico.
Riccardo Zandonai è non solo padrone sicuro dell’orchestra in piena
compagine ma anche quale fine artefice di particolari a nitido rilievo e
di raffinata sensibilità, anche se questa ultima è alle volte un po’
fittizia o «preziosa». Non va mai a caccia grossa o spicciola di effetti
volgari e sa esser sempre docile al superiore freno dell’arte. In
«Francesca», ancor meglio di prima, benché già in «Conchita» un
«intermezzo» non gli servisse a far spolverare i mobili sulla scena da
qualche domestico ma a rendere il vociante brusìo di una strada e
l’ossessa crudeltà della protagonista non lo facesse entrare in un
manicomio musicale.
Riccardo Zandonai non è un tecnico freddo né un assorbitore servile di
musica estera anarchica o futurista, ma ben intende che il tecnicismo
deve esser non solo forma ma anche contenuto e meglio sa che l’aver
ribagnato in tradizionale e lustrale acqua fonica italiana quel tanto di
oro o di fango stranieri che sono entrati nelle sue vene musicali gli è
giovato non poco a metterlo in primissima linea fra i compositori
italiani. E lo sarà sempre più, se non darà retta a chi gli rimprovera
di non esser abbastanza melodico, cioè di non isolare, gonfiare,
48 sentimentalizzare e patetizzare la melodia secondo il più resistente
cattivo gusto teatrale.
La melodia ha una sua corporea e spirituale ragione di essere non
individualmente a sé, a stacco, a pezzo di bravura per i cantanti, ma
come interior soffio vitale vocalmente o strumentalmente generato dall’
integrità di un poema, dalla consanguinea efflorescenza di una passione
umana. Fece quindi benissimo Riccardo Zandonai, nella «Francesca», a
svolgere a «dialogo» e a «brani declamati» i duetti fra Francesca e
Paolo, poiché «dialoghi» e «brani declamati» dovevano essere. E se uno
di questi duetti è soffocato dal fragore e dai furori dell’atto della
battaglia, è giusto che così sia. Noi non siamo teneri del [col] cosidetto
realismo musicale ma ancor meno del [col] vecchio romanticismo a
cabaletta, a duettone e a concertato finale.
Certo, in «Francesca» Riccardo Zandonai, come abbiamo già detto, è più
organico che nelle sue altre opere, ma abbiamo parlato anche di
episodicità e frammentarietà. Una contraddizione, dunque, o una
avventatezza nostra? Solo apparente.
Riccardo Zandonai, che è in prevalenza un ricercatore e «trovatore» di
effetti ritmici e coloristici, fu istintivamente tratto da quanto vi è
di descrittivo e imaginoso nella tragedia di d’Annunzio spesso all’
«episodio» e al «frammento». Ora le freschezze e originalità vocali e
strumentali di parecchi «episodii» e «frammenti» impressionano e
piacciono subito e si staccano nel ricordo dal resto del tessuto
musicale.
Però, solo a una prima audizione.
Nelle audizioni successive noi le sentiremo fluire e confluire
nell’atmosfera totale, lirica e tragica, dell’opera e concorrere a
formarne l’unità di respiro, di ànsito, di leggiadria e di ferocia. Lo
stesso valga pei «temi-conduttori» delle principali «dramatis personae».
Queste sono infine, per la rispondenza fra poesia e musica, per la loro
corporatura fisica e la loro spiritualità sognante, tali da esser degne
di apparire nell’azione e sparirne con un loro individuale «leit-motiv»
nell’animo de sulla bocca.
Niente di più buffo dell’uso o abuso dei temi-conduttori fatto dagli
operisti moderni per personaggi che sono così scarsi di poetica e
musicale umanità interiore o superiore. Gradassate da omuncoli e boria
di donne da poco. È sproporzione ed equivoco nei quali Riccardo Zandonai
non poteva smarrirsi, data l’ottima scelta del soggetto e la statura e
struttura morale dei protagonisti che dentro vi si saturano – ove
occorra anche sino all’estenuazione – di poesia, Morale, s’intende, da
«Principe» del Machiavelli e da «Apologia» di Lorenzino de’ Medici.
Non ci par esatto il rimprovero d’assenza di concentrazione mosso da
qualche critico all’autore di «Francesca». Sì, egli varia e svaria
qualche volta troppo volubilmente e facilmente, ma quando il dramma dei
cognati danteschi e d’annunziani lo esige si fa denso, breve, rude,
incisivo. Così nella delazione di Malatestino e in genere in tutta la
caratterizzazione di questa bieca e perversa figura, come in quella
sciancata
di
Gianciotto
e
nella
catastrofe
finale.
E
così
–
strumentalmente – nel sinfonismo delle scene di battaglia e nel quadro
melodico entro il quale, dall’apparizione di Paolo al dono di Francesca
della rosa oltre la cancellata, celebra e sente la sua natività ampia e
decorativa, più d’annunziana che dantesca, il dolce peccato dei due
amanti.
È amore che ha il suo sviluppo a medieval «giudizio di Dio» e a pena
umana di ogni tempo nel duetto del secondo atto, fra le sfumature
psichiche di quello della lettura galeotta e del bacio nell’atto terzo e
i suoi più vividi accenti di passione nell’ultimo convegno fra Francesca
49 e Paolo, insidiati a morte dall’occhio sano e dall’altro crepato e dalla
libidine torva di Malatestino.
E nel loro dramma s’insinua, serpeggia, si strascica collateralmente
quello di Gianciotto con altri spiriti e altri suoni.
«Francesca» è forse più intima, meno presa dalla fatalità o più
consapevole di essa quando si raccoglie in sé stessa a parlare con la
sorella Samaritana e con le donne. In ispecie, nel colloquio a canto e a
sororal sentimento con Samaritana nel primo atto e quando nella seconda
parte del quarto atto rievoca con così verace tenerezza l’immagine
sparita della «piccola colomba»,
È riuscito quasi sempre in «Francesca» a Riccardo Zandonai di [a]
ottenere una mirabile – aliante o impetuosa – fusione fra i cori e i
protagonisti. E coi canti delle donne al primo atto, di schietto non
lezioso sapore arcaico, e con la primaverile, limpida, marzolina
«canzone a ballo» nell’atto terzo, e con rotto, roco urlio dei
balestrieri intorno a Paolo desioso di una vittoria senza sangue, e a
Francesca intenta a scongiurare il suo destino, a Malatestino ferito e
lanciante il suo grido: «A cavallo!» e a Gianciotto condottiero e
nemmeno senza pietà. È fusione, nel finale a baleni e tuoni, strida e
dissonanze del secondo atto, magnificamente e razionalmente polifonica,
con dentro a rivoli, come poi sonorissima nella chiusa dell’atto terzo e
in palpito nel duetto ultimo dell’opera, la melodia che nel primo atto
dalla «viola pomposa» si espande e si allarga fra le donne e le rose in
fiore per passar via da lì fra gli uomini in cotta e ferro, fra i
mangani terribili, le balestre precise e gli stocchi omicidi.
Il pubblico ha ieri sera accolto «Francesca da Rimini» di Riccardo
Zandonai con la più calda cordialità e con la più perspicace
comprensione dei suoi elementi essenziali. Ha compreso subito di
trovarsi di fronte a un’opera che fa «eccezione» per italianità musicale
e poetica di forma e di sostanza e per nobiltà e vastità di linea
sinfonica, nella nostra più recente produzione lirica. La più viva e
pronta ammirazione hanno destato il finale melodico del primo atto,
quello sinfonico dell’atto secondo, io duetto degli amanti nel terzo
atto, il conflitto serrato e a ritmo spezzato con la cupa risonanza
orchestrale, e il duetto di Paolo e Francesca alla fine dell’opera dopo
una breve scena d’angoscia prorompente in unisono gaudioso. Ma la
«Francesca» non è donna, e opera, che si dà e si svela e rivela tutta in
una notte. Nelle rappresentazioni che seguiranno di «Francesca» gli
spettatori si renderanno conto di molte squisitezze vocali ed energie
strumentali che ad una prima audizione sfuggono o si disperdono.
Vorremmo che la «canzone a ballo» del terzo atto avesse nelle voci delle
quattro donne una risultanza più tipicamente suggestiva.
Gilda Dalla Rizza è una Francesca di ideale compiutezza artistica ed
estetica. Vive e modula in canto malioso, chiaro ed espressivo e
atteggia in azione, stasi e dinamismo deliziosamente decorativi e
rappresentativi tutte le vicissitudini dell’amatrice nostalgica e
presaga si sventura. Ah, come intende che Francesca non è Basiliola né
altra creatura di sadismo o erotismo moderno! Il tenore Di Bernardo è
stato un Paolo eccellente e ha cercato di tristaneggiare il meno
possibile anche nei punti in cui è alquanto iniettato di wagnerismo.
Gianciotto, aspro, realistico e sciancato, ove è necessario e voluto
dall’autore, non solo di corpo ma anche nel canto e nel recitativo, il
Franci. Un Malatestino di franca, tagliente caratterizzazione nella
scena della ferita, nelle orribili offerte e torbide lusinghe a
Francesca e nell’episodio della delazione, il Papaccio. La Gontarouck,
soave Samaritana, la Vasari (Schiava), lo Zucarelli, Ostasio di risoluta
efficacia, e gli altri e le altre hanno concorso a rendere così pieno e
integrale il successo di «Francesca». Le feste fatte dal pubblico a
50 Riccardo Zandonai, evocato insieme agl’interpreti e solo più volte dopo
ogni atto e salutato alla fine da una schietta ovazione, son state,
durante tutta la serata, caldissime.
Questa volta l’impresa ha curato la messa in iscena, davvero bella e
decorativa ed illusiva, col massimo scrupolo. Ha sentito l’importanza e
la responsabilità dell’avvenimento artistico. «San Carlo» sembrava
ritornato ai tempi dei grandi spettacoli e delle opere nuove degnamente
offerti alla valutazione e al giudizio dei suoi frequentatori. In
proposito, non è difficile accontentarli poiché tante e tante opere
notissime da anni alle altre maggiori e minori città italiane sono
ancora a noi ignote.
141
Ares, La “Francesca da Rimini” del maestro Riccardo Zandonai al Teatro
S. Carlo, «Il Pungolo», 17.1.1921
Il brivido sublime che l’opera d’arte pura, la musica avvincente, il
poema sinfonico, il meraviglioso quadro scenico, la squisita perfetta
plastica duttilità del canto, l’impeto tragico della «catarsi» imminente
sulla divina passione dei due cognati, il «pathos» lirico e drammatico
del desiderio e della vendetta in Malatestino e Gianciotto, il profumo
aliante della primavera come fondo dell’immortale episodio dantesco,
trasfusero, con una travolgente ondata, negli spettatori frementi di
sabato sera, noi lo risentiamo qui nel palpito di queste rapide fugaci
note con cui tenteremo fissare per i nostri lettori i caratteri
smaglianti dell’arte musicale del genialissimo maestro trentino.
Si respirò, l’altra sera al S. Carlo, l’alito vasto di una apoteosi
artistica, d’una glorificazione: l’applauso scrosciante, continuo,
prolungato, il grido unanime dell’ammirazione incondizionata, la ridda
delle chiamate e delle rombanti acclamazioni non furono solamente
l’omaggio dovuto al maestro, inclito fiore di nostra gente italica;
erano peranco l’eco del risveglio della coscienza artistica, l’impeto
sonoro dell’anima estetica in rivolta contro tutti gli impressionismi
musicali degli ultimi epopti [sic] melici che hanno distrutto, senza un
rimorso, le tradizioni più luminose della nostra divina melodia; erano
insomma il suggello sicuro di un’aurora di rinnovellamento, di
palingenesi,
che
nel
flutto
armonioso
dello
Zandonai
trovarono
l’interprete magico, malioso, suggestivo, abbacinante.
Questo spieghi il consenso multanime dello sfolgorante pubblico che
gremiva la deliziosa sala del nostro massimo nonostante le appassionate
divergenze di gusti, i dibattiti del ridotto, il feticismo delle
dottrine e delle classificazioni erudite: le ovazioni che non finivano
più, le proteste contro il tossicolìo endemico dei barbogi contemporanei
dei palchi e dei seni nudi, lo zittìo contro i vagiti frignanti in
platea, contro il cicalìo garrulo delle signore, dimostrano con troppa
evidenza la potenza dinamica dell’opera d’arte vera sull’anima delle
folle, la magìa dello stile sinfonico, il fascino mai interrotto in
quattro ore di spettacolo d’una esuberante polifonia pittorica che non
permetteva l’onore dell’applauso in una continua vorticosa dorica
successione di toni, di temi, di spunti melodici integrati e convergenti
al giuoco sempre più serrato dell’azione drammatica.
Il velario si alza, nel primo atto, sulla corte dei signori di Polenta,
che ha sullo sfondo chiaro la verde cornice d’un verziere digradante
lontano. Pochissime rapide scultoree battute preludianti un indiavolato
dialogato che guizza, scintilla, spumeggia con una cascatella perlacea e
nitida di commenti orchestrali appena delineati, tra le ancelle di
Francesca: Garsenda, Biancofiore, Altichiara, Donella; un giullare è
arrivato nella corte, motteggia con arguzie lievi, s’offre ridente al
51 gaio sarcasmo femminile, accenna ad antiche canzoni, sulla trama d’uno
snello recitativo che sfuma poi nel delizioso declamato del giullare
Come Morgana manda a re Artù
lo scudo che predice il grande amore
del buon Tristano e d’Isotta fiorita
mentre
l’accompagnamento
orchestrale
sottolinea
in
sordina
sulla
variazione d’una sola nota come una languente monodia. Ed il giullare
accenna un dolcissimo motivo di viola
Or venuta che fue l’alba del giorno
Re Marco e il buon Tristano si levaro
ma ecco dirompe in orchestra uno scoppio fragoroso di note, un
rincorrersi incalzante, fremente, convulso di ritmi appena abbozzati,
come i lampi d’un fosco crepuscolo: è l’arrivo di Ostasio, la fuga delle
damigelle su per le scale della loggia, il dialogo furente, concitato
tra il giullare sbigottito e l’irato signore e spira intanto in tutta la
musica un’aria di tempesta che va lentamente dileguando nel dialogo di
Ostasio col notaio ser Toldo, complici insieme del fraudolento imeneo.
S’ode venire dalle stanze alte il canto delle donne, ed ecco l’orchestra
inizia un freschissimo tessuto strumentale di voci lontane, di nenie
profonde e sospirose; uno squisito preludio precede il coro plorante e
soave
Oimè che adesso io provo
che cosa è troppo amore. Oimè
Una cobbola suadente d’antichi minnesingheri, di randagi trovieri
s’innesta alla linea orchestrale con un respiro sinfonico sempre più
preciso, una deliziosa nostalgia di nordico «lied» s’effonde in una
musica che si regge su pochissime note quasi a rendere più bene [!] e
lieve l’etereo coretto.
Francesca, stretta alla Samaritana, appare sulla loggia, lo sguardo
fisso, assorto nella vaporosità estatica d’una visione arcana da cui la
ridesta il lamento caldo, appassionato, qualche volta frenetico della
dolente fida sorella che chiede:
Dove andrai? Chi mi ti toglie?
Risponde Francesca come presaga del suo destino ermetico:
Egli è venuto.
E l’orchestra s’interrompe in singulti, in ritmi di spasimo, in repressi
palpiti di tetra sinfonia: passa rapidamente nel quadro armonico il
vaticinio dell’imminente fasto, ma Francesca lo dirada indugiando in
tenie carezze sulla sorellina piangente e la placa con una lieta fusione
di toni, quando canta
Anima cara, piccola colomba,
perché sei tanto sbigottita? Pace,
datti pace! Verrà
in breve anche il tuo giorno.
ma subito l’orchestra ripiglia l’angoscioso, spasmodico agitato iniziale
nell’accordo:
52 E si vivrà, oimè,
si vivrà tuttavia!
e il tempo fuggirà,
fuggirà sempre!
Irrompe d’improvviso io coro delle donne preannunzianti l’arrivo dello
sposo.
L’ansia trepida di Francesca, il chiacchierìo civettuolo delle fanciulle
che
guizzano
commenti,
l’animazione
della
scena
nell’orgasmo
dell’arrivo, il dolore infinito della Samaritana sono espressi in
orchestra con un flutto, una marea polifonica ondeggiante tra lo
spasimo, il grido, il tripudio, attraverso una agitazione di motivi
sempre più violenta, mentre Francesca si slancia su per la scala che
mena al gran loggiato, poi s’arresta, ridiscende, si getta con repentino
moto tra le braccia della sorellina e mescolano le due donne insieme le
loro lagrime, ed ai funerei singulti della Samaritana, d’impeti canori
in cui s’esala tutto l’amore e il dolore umani.
Giunge Garsenda e annuncia che lo sposo arriva dalla parte del giardino;
pallida ed ebbra, Francesca grida:
No, no! Correte donne
correte, ch’ei non venga!
Uno strumentale agitatissimo accompagna e intensifica la suggestione
nell’incomposta lotta che si urge in Francesca, squilli di trombe
irrompono, l’impeto della sinfonia dolorosa sale ancora e si allarga
nell’ampio respiro superbo maestoso quasi ieratico d’un rito ed ecco
compare d’un tratto il tema dolcissimo di Paolo sul flebile tremulo
cullìo della «viola pomposa», e s’inizia, col coro che avverte l’arrivo,
una meravigliosa melodia d’un molle sapore orientale, sottolineata da un
brivido di violini, da un fruscio di archi, dal pavido pettegolìo
pastorale del piffero ed appare oltre il cancello, iridata la chioma da
un pulviscolo di luce, il bellissimo Paolo: canta la canzone ancora
delle donne:
Per la terra di maggio
l’arcadore in gualdana
va caendo vivanda
su un motivo originalissimo che è pianto, è nostalgia, è sogno, è
chimera, simile al sirventese dei menestrelli, aliante un profumo fusco
di miti verzieri.
Francesca coglie una fiammante rosa da un cespo vicino, va a Paolo fissa
negli occhi suoi, tesa nel serpentino fascino lento della tacita
offerta, gliela porge, mentre il canto sfuma in un sospiro ultimo e la
musica s’attenua sempre più in una nebbia ritmica in cui ancora scatta e
si spegne il pianto della sorella desolata.
È un finale d’una fattura nello stesso tempo arcaica e moderna, che in
una fusione di dissonanze e assonanze, in una mirabile plasticità e
rilievo di toni maggiori e minori rende appieno l’ammaliante suggestione
del divino quadro tutto soffuso d’un idillio elegiaco e di fiammanti
venature di passione e di dolore.
Una serie di quadri sinfonici, come fantastici rosoni d’un tempio
olimpico, vibrano in un’atmosfera tematica in cui la variazione
cromatica, la [.]poif[.]rfa strumentazione, il dislivello armonico del
commento orchestrale concorrono all’unisono della polifonia totale per
comporre il fulcro lirico e tragico della favola scenica. Solo ad un
53 eclettico o ad un facile e distratto auditore essi possono apparire come
prodigi di tecnicismo, come un sapiente lavorìo di tarsio o di encausto
intorno alla figura musicale di Francesca e di Paolo; per noi viceversa
essi dimostrano la profonda concezione che l’autore insigne ha in sé
elaborato della persona drammatica e lo sforzo diuturno e non di rado
raggiunto
di
scolpire
o
dipingere
in
musica
i
tipi
immortali
dell’episodio dantesco.
Questo atto che è il più lungo, il più perfetto, il più bello di tutta
l’opera, produsse sugli spettatori rapiti 9n un’estasi melodica, in una
voluttà acustica deliziosa, la più profonda impressione: gl’interpreti
principali furono evocati col maestro ben nove volte alla ribalta e
tutto il teatro respirò per qualche attimo la grandiosa aura d’un
trionfo antico.
L’atto secondo denota fin dalle poche, soffocate, violente note del
preludio lo spirito bellico, l’ànsito ferino della strage con cui si
preparano alla pugna selvaggia contro i nemici la gente d’arme dei
Malatesta sulla piazza d’una torre rotonda. Tra i fumidi vapori del
fuoco greco che si prepara vigila in cima alla rocca minacciosa il
mangano micidiale cui fa buona vedetta un vigile balestriere: la musica
assume subito l’impeto convulso, spasmodico d’una fedele dipintura
orchestrale; tutto questo atto infatti risente troppo dei procedimenti e
delle reminiscenze orchestrali di Riccardo Vagner [sic], della tecnica
furibonda di Strauss con le sue onomatopee sinfoniche, le cacofonie, le
omofonie con qualche sforzo un po’ ricercato di effetti nuovi che forse
guastano la riproduzione esatta dell’episodio guerresco.
Le convulsioni così frequenti nell’orditura turbinosa della partitura si
convellono come in uno spasimo di liberazione, un uragano di note
tempesta, imperversa, scroscia, stride, romba con l’urlìo della masnada
pugnace, il fulminare dei sifoni, il lancio delle pietre, il guizzo
delle falariche mentre la ferocia, la sete del sangue, i grumi sanguigni
impregnano di acre sentore i truci sincopati dell’orchestra e la
gualdana infuria in orridi avvolgimenti e strie e lampi di ritmi dando
la sensazione d’un immane colubro che avvolga in vaste spire tutta
l’azione.
La concitazione che accompagna il dialogo tra Paolo e Francesca, il suo
urlo di orrore e di dolore:
Videro gli occhi miei l’alba
la videro i miei occhi
sopra di me con l’onta
e con l’orrore
che erompe in un agitatissimo trambasciato flutto vorticoso di melodia;
il coro fitto di clamori e di clangori dei balestrieri che risuona in
orchestra come un peana di grandioso effetto; il pittoresco contrasto
tra il delirante febbrile orgasmo d’amore e di rimorso tra i due
cognati, innanzi alla bertesca fiammeggiante e il divampar dei fuochi;
il gemito dei morenti; il cozzo ripullulante delle armi e delle petriere
formano con il rimbombar cupo dei contrabassi, il rullar dei tamburi, il
lugubre rintocco della campana di richiamo, un possente quadro
coreografico inciso in una orchestrazione che palpita d’orrori e di
morte che stordisce e stanca un poco per la ricerca dell’effetto, appena
interrotto dalla scena d’inconsapevole abbandono con cui Francesca
stringe il capo di Paolo, pallido e smarrito di desiderio e di ebbrezza,
credendolo ferito. È un accenno di melodia che esprime la foga repressa
dell’amore vittorioso più che mai di tra la furia della strage e della
ruina.
54 Su la marea urlante delle masnade eccitate impera sovrana la voce di
Gianciotto che sale trionfante e luccicante d’armi e d’ira, l’orchestra
commenta con una successione di scatti, di grida, come un punteggiato
rude di strepori metallici: sono come scoppi ritmici, esplosioni e
raffiche dello strumentale lentamente assopentisi nella melopea serena
d’un madrigale solatìo quando Gianciotto vede la sua donna che gli offre
una coppa di vino greco ed egli ne beve, ed invita a berne il fratello
compiacendosi della vittoria conseguita.
La musica si raddolcisce in idillio, fiorito come una villanella od una
romanella giuliva, ma quando Francesca dice a Paolo offrendogli la
coppa:
Bevete, mio cognato, nella coppa
dove ha bevuto il fratel vostro
serpeggia in orchestra l’impeto stenico d’una catastrofe vicina: è il
rumoreggiare lontano d’un tamburo che lancia come un monito del fato
prossimo su di una tenue palinodia di violini, intrisa di lagrime, di
murmuri, di sospiri.
L’arrivo di Matalestino ferito e sanguinolento, la sua belluina
impetuosità di strage il suo furore epico:
A cavallo, a cavallo!
ed il rincalzar assiduo della pugna, la caligine dei fuochi lavorati, il
dimenare vario degli armati nel cimento atroce riconducono l’orchestra
al sinfonismo pittorico e descrittivo che avvolge completamente il
dramma delle persone e può considerarsi come un intermezzo quasi
decorativo, volto a rappresentare l’anima dei tempi fondi e barbari in
cui vivono e si agitano le persone del dramma. L’atto si chiude con un
coro di trombe di vario gigantesco mimetico flusso tonale imprecante
come una maledizione.
L’atto terzo riproduce la camera di Francesca aperta sull’ampio cerulo
palpito del mare su cui pendule ridono trepidando le stelle: Francesca
seduta al leggio legge la galeotta istoria di Lancillotto mentre le
damigelle ciarlano con garrulo brio. C’è nella modulazione patetica
dell’orchestra il contrasto palese tra il chiuso dolore di Francesca e
la gioconda levità primaverile delle donzelle, ma la dolcezza della
melodia si perde nel dialogato convulso tra Francesca e Smaragdi in cui
l’urlo della donna innamorata trabocca e sovrasta su l’orchestra che ha
repentini arresti, mormorii di dolore, esigui palpiti di note come un
pianto sommesso.
Giungono i musici richiesti da Francesca e intonano i primi tocchi
pre[l]ud[i]anti sul gorgheggio ebbro delle donne che si preparano alla
canzone a ballo: e questa finalmente sospira tremula con le prime note
con la fresca carezza d’uno zefiro aliante su margini fioriti.
Marzo è giunto e febbraio
gito se n’è col ghiado.
È questo un quadro che traspira una fragranza soave di note e di ritmi
che non è possibile rendere intuitiva ai nostri lettori se non evocando
loro l’allegoria primaverile di Sandro Botticelli. L’ondulamento sinuoso
delle figure delle movenze, l’intreccio del ritmo agile, fluido,
delicato, vanente, l’effluvio misterioso d’un risveglio che corre
sfiorando di piccoli soffi in tutta la strumentazione del quadro
trasfondono un senso profondo di sovrana bellezza.
55 La musica finisce col coro in un gemito per ripigliare con un fremito di
violini il tema di Paolo quando, partiti i musici e le fanciulle,
Smaragdi silenziosamente dispare. Echeggia il grido d’implorazione
suprema di Francesca sull’orlo del dolce abisso voluttuoso ed appare
sulla porta Paolo, inaspettato reduce, e la musica ritorna soavissima,
intima come una furtiva carezza su bisbiglianti variazioni di viola
cullanti un tema appena albeggiante e nel seguente dialogo tra i due
rapiti amanti si trasforma in melodia di grande e variopinto respiro,
tesa a riprodurre la memore passione dei cognati a manifestarne con
plastica armonia l’anima tutta. Si accostano gli amanti al fatale
leggio, la lotta tra il desiderio ed il rimorso, tra la paura del divino
fallo e l’ebbrezza già conquisa s’impernia nel declamato ritmico del
racconto letto: l’orchestra tace, riprende i susurri, modula in infinite
guise il bacio imminente e finalmente si esala, nella congiunzione delle
bocche adorate nel guizzo fremente d’una armonia voluttuosa e tutta la
divina bellezza dell’evocazione dantesca, la pietà che fa cadere, si
diffonde in note piene di pianto represso e di fantastico oblio.
Il quarto atto ci trascina vertiginosamente verso il tragico epilogo. La
prima parte si svolge nella sala d’armi ottagona del castello: il
tragico duetto con cui s’apre il quadro, tra Francesca spaventata
dall’orrore e dall’odio del bieco Malatestino, gonfio d’ambiguo astio
contro la divina cognata: l’urlo spasmodico del prigioniero che incombe
sui due ribelli entrambi al destino cruento che si prepara sono espressi
in musica da una concitazione torbida di note: l’orchestra si agita,
divella i ritmi con flessile, tortuosa, ircana delineazione intorno alla
figura
di
Malatestino
perverso
che
riempie
di
sé
il
quadro:
l’istrumentazione si spezza a salti in uno stridulo urlìo di trombe
quando Malatestino irrompe nell’umida segreta, pronto all’eccidio,
saturo di sangue: all’entrata di Gianciotto l’orchestra riproduce come
un convulso dibattersi d’agonia si smorza in roco dialogato secco e
feroce nel breve tragico duetto di Malatestino con Gianciotto in cui io
fiero tigre instilla nel fratello il tossico mortale del sospetto e
della vendetta. Il grido finale, tuonante furore e passione dalla gola
arsa di Gianciotto: «Voglio!» si conclude in un rapidissimo finale,
fosco e corrusco d’agitazione e di odio.
La seconda parte dell’atto che ripete la camera di Francesca s’inizia
con un melodiar lento e sonnolento come una nenia pastorale.
L’episodio gentile in cui Francesca rievoca nella mite carezza di
Biancofiore la blanda anima sororale della perduta Samaritana fiorisce
in orchestra con un’ultima esuberanza di freschi ritmi: il fato incalza,
la notte scende con le sue maliose visioni e Paolo è nelle braccia dell’
amante assetata le bocche amate si ricongiungono; la musica commenta
schematicamente con brevi tocchi sinfonici come perplessa ed esitante in
presenza della tragedia. Cadono avvinti d’amore i due cognati, ma subito
il grido e lo strepito di Gianciotto alla porta si ripercuote nell’urlo
altissimo, delirante, infinito della Francesca; la musica getta gli
ultimi spasmi, lugubri echi del fato compiuto e il marito vendicato
spezza sul ginocchio prono lo stocco sanguinoso.
Il dramma è finito.
Zandonai si asside con questa partitura tra i maestri più illustri della
musica contemporanea. È per naturale conseguenza, per leggi evolutive
dei gusti e dei tempi che egli rifugge costantemente dal comune, ma è
rimasto immune dal malvezzo dei moderni di strozzare un’idea melodica
appena nata e renderla irriconoscibile.
Si nota in lui una preoccupazione continua del tessuto armonico, ma la
novità delle armonie inquadra la melodia italiana con una sobrietà di
tinte che non degenera mai nella estensione sesquipedale della vecchia
aria. Il sistema musicale dello Zandonai, meglio e con più consono
56 spirito che in altri infiniti cultori dei neumi, tenta comprendere in sé
non solo le nostre tonalità, ma anche le scale liturgiche antiche, la
musica dei popoli orientali sulle flebili astrali ondulazioni icastiche
di Claudio Debussy, per cui quasi scompare il solito concetto della
consonanza.
L’Adler opina che anche questo non sia nuovo e la tecnica nuova somigli
molto alla eterofonia di cui parlano Aristosseno, Plutarco e Platone.
Viva è la tendenza di ritornare in quest’opera alle fonti ed alle forme
ingenue e primitive sia medioevali che barbare: come continuo e
l’impiego, nella polifonia, di parti medie che sono affatto indipendenti
dalla tonalità della composizione e che combinano soltanto con le altre
voci del ritmo.
Molti vedono nel naturalismo esotico di Conchita e nel lirismo
drammatico della Francesca un disquilibrio delle varie parti perché la
fervida pittura, il vivido bozzetto, l’intermezzo coreografico sembrano
rompere la compiutezza integrale dell’ordito scenico e sinfonico e
dimenticano che l’arte è rappresentazione della vita e la vita non è
solamente tragedia od elegia, canto od azione, ma varietà continua ed
euritmica di linee e di quadri. È la nota che noi vediamo rifulgere in
Riccardo Zandonai di più durevole luce: l’italianità della sua musica
poi sgorgante come polla inesauribile con nuove riscintillanti colorazioni, rende la «Francesca» uno dei lavori più riusciti e più vicini
all’anima popolare quando ne sarà compreso il possente significato.
La signorina Gilda Dalla Rizza fu una Francesca di dantesca efficacia:
tutta la femminilità ammaliante del tipo, la dolcezza di Clara, la
sognante malinconia di Tecla, il murmure nostalgico di Ofelia, la
delicata ingenuità di Cordelia, l’eterno femminino di tutti i tempi e di
tutti i paesi che nella passione e nel dolore di Francesca ridestano gli
echi di tutte le creature sovrane dell’amore, ebbero nell’affascinante,
tanagrica, abbagliante artista la figurazione altissima della scena,
l’animazione travolgente del canto vario, ricco di tonalità infinite e
pieghevoli, duttili, fluide alla diversità molteplice delle situazioni
sceniche. Ella in Francesca compone una stilizzata musicale evocazione
di tutti i ritmi della passione, la sua voce di estensione melica
portentosa, calda, vibrante, che si libra alle vette soprane nel grido
convulso e si attenua al molle susurro del sogno e del rimpianto, che
passa senza sforzo dallo squillo al gorgheggio, dalla foga alla quiete
patetica della canzone, la mirabile padronanza del difficile giuoco
scenico, l’intuizione pronta del dinamismo psicologico composto in un’
armonia statuaria d’atteggiamenti, di movenze, di gesti fanno di cotesta
artista, che così bene intarsia la bellezza ed il fascino della persona
squisita nel fresco sinfonico dello Zandonai, un astro del nostro teatro
lirico.
Il tenore Di Bernardo apparve un Paolo di gentile e nobile tempera
trecentesca: il suo canto fraseggiato, vasto d’impeti, esente dalle
facili intemperanze canore che seducono così facilmente gli interpreti
mediocri, rese viva ed evidente la passione contenuta del personaggio
nonostante qualche raro ricordo di misticismo e una parsimonia di moto
in alcuni momenti troppo cinetici della partitura.
Il Franci fu un Gianciotto d’un verismo impressionante; la plastica
figurazione scenica, il fervido canto inciso di gagliarde volate e di
stupende coloriture tragiche, la moderata forza repressa del gesto, la
giusta proporzione attuata tra le manifestazioni estrinseche ed
intrinseche della personalità storica da rappresentare lo rendono
giustamente degno della sua fama.
Magnifico Malatestino il Papaccio: sinuoso, tortuoso, flessile nell’
atteggiamento e nelle intonazioni, fu di una mirabile evidenza tragica
57 nel fosco duetto del 4. atto dando prova di un intelletto artistico di
sicuro avvenire.
Benissimo tutti gli altri nelle parti secondarie; fusi ed euritmici i
cori per cui un plauso di cuore vada al maestro Papa; delle masse in
movimento, dei costumi che non peccano del più lieve anacronismo in una
variopinta armonia del pittoresco stile del Dugento; suggestive le scene
e specialmente quella del II. atto, e la camera di Francesca sul glauco
mare sotto le stelle rutilanti, gioiello di scenografia dalle più
moderne risorse.
E non è giusto concludere queste note senza congratularci, col più puro
entusiasmo, col comm. Laganà, che allestendo uno spettacolo di cui solo
il passaggio regge il confronto, ha dimostrato «lippis et tonsoribus»
che i prodigi del piacere estetico possono attuarsi anche a Napoli,
quando un impresario intelligente ed esperto «vuole ciò che si puote».
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[NOTA: la sera precedente era stata rappresentata Iris di Mascagni, diretta dall’autore]
142
Silvino Mezza, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Don Marzio»,
17-18.1.1921
L’opera di Riccardo Zandonai – che abbiamo ascoltata l’altra sera con
dilettosa compiacenza – va saggiata con criteri tutt’affatto dissimili
da quelli grandemente e solitamente in onore presso i giudici cui è
addimandata la valutazione d’un lavoro scenico, quale che sia, che altra
gloria non brama oltre quella, incerta e fallace, che vien fatto di
raccogliere entro l’ambito chiuso del teatro.
Perché grave errore commetterebbe chi tentasse l’avventura d’un giudizio
sintetici, caratterizzandolo con una delle consuete espressioni definitive, che soltanto affiorano sulle facili bocche degli stolti, senza
aver prima e molto meditato su tutta l’ampia e varia opera d’un
musicista d’eccezione che, in questa «Francesca», aduna la somma delle
sue virtù estetiche, cribrandole attraverso una tecnica depuratrice
d’ogni compromesso, sia pure fugace, col deprecato convenzionalismo
lirico, infrenando e rattenendo il prorompere d’ogni impeto non ancora
pervenuto ad un grado d’essenziale nobiltà, convogliando e disciplinando
con singolare magistero le forze emotive del suo intelletto che
ribollono flagellate dall’afflato ciclonico della passione irresistibile
ed incestuosa dei due amanti leggendarii.
Ecco perché può dirsi sicuramente che lo Zandonai non crea, ma inventa.
Egli, alla ricerca senza tregua di nuovi modi e di forme nuove, elabora
tutte le osate audacie stilistiche dopo averle assimilate e fatte sue,
sì che dalla mistione dei sangui ne sgorghi una linfa personale che
defluisca tra i tessuti dando loro vita e vitalità, anima e calore. Come
un letterato che spasima per rinvenire nei musei dell’aggettivazione un
attributo che abbia profumo di freschezza, così lo Zandonai si tormenta
nell’ansia di nuovi suoni, imagini acustiche d’un convulso periodare
lirico che aborre da tutto ciò che alla melodia s’accosta, come per
schivare l’orribile contatto. Tutta l’arte di lui – che è. d’altronde,
quella dei modernisti, tendano essi verso Debussy o Ravel o d’Indy o
altri «impressionisti» della depauperata scuola contemporanea – si
racchiude e si integra in una invariabile legge pittorica che importa
pennellate larghe di colore, allorché il cuore batte il suo ritmo più
possente, o s’indugia in delicate minuzie d’alluminatore se la notte il
mare un fiore un gesto devono trovar comento in quell’orchestra che
lancia i suoi clangori d’imperio, prepotente e soverchiante, quasi a
mostrar le maglie spezzate dell’odiosa catena di lunga schiavitù.
58 In «Francesca» la norma concettuale del colore – traslata da gli
istituti di belle arti nei conservatorii di musica – trova la sua larga
adozione. È un fluttuare continuo di melismi, un vaneggiamento armonico
d’apparente inconsistenza, è l’irrealtà fatta suono che determina un’
atmosfera innegabilmente leggiadra di balenii musicali, di barbagli, di
fluori torpenti, che accarezzano, che cullano, che turbano. L’imitazione
e la ricerca di temi significativi – specialmente quello rude di
Malatestino (una «terzina» ed una «duina» battuta neutramente dai
contrabassi) e l’altro di Gianciotto, pesante come il tema di Hunding ne
«La Walkiria» – non modifica il concetto generale informatore dell’opera
che solo ambisce di disegnare più che altro lo stato d’animo dei
personaggi, la cui vicenda scenica trova maggiore estrinsecazione
rappresentativa in questo o quello strumento, in un «pieno» d’ottoni o
in un «passaggio» di strumentini, che non nella perfetta corresponsione
delle voci e dell’orchestra, le une all’altra congiunte in un più intimo
e sano accoppiamento ideologico.
Onde il secondo atto, quello della battaglia, a me sembra il più vicino
alla bellezza, a quella forma di bellezza che – seppure esoterica e
meramente meccanica – involge e presume poteri di consumato tecnicismo,
dei quali lo Zandonai possiede assoluta ed incontrastata signoria, tale
da piegare al dominio di prevalenza plurifonica ogni espressione
collettiva e dinamica di vita in cui occorra descrivere chiacchierio di
donne oppure folla in tumulto: la battaglia della Torre Mastra, col
fragore delle sue armi e con lo strepito delle soldatesche ubbriache di
violenza e di strage.
Queste son le pagine più potenti e più efficaci della partitura, dove –
per dirla alla buona – c’è più musica e dove i «tagli» apportati per l’
economia rappresentativa del teatro spiacciono a coloro che invano
questa potenza, questa efficacia, questa musica chiedono all’autore
negli episodii successivi.
Ché infatti al musicista audace che si apprestava a strappar dalle
labbra di Francesca i primi ed incomparabili endecasillabi danteschi per
sostituirvi, coi polimetri dannunziani, voce di canto, noi potevamo
pretendere che la creatura d’amore fosse rimasta quale appunto il Divino
poeta ce l’apprese, soavissima fra le peccatrici, vermiglio fiore di
passione sbocciato tra le mura ferrigne d’un maniero turrito, esalante
languori di poesia, protesa corpo ed anima in un anelito di tenerezza
traboccante, simbolo terreno dell’Amore in lotta contro la Morte, come
più tardi la leggenda isottea da cui Trageda e Maestro hanno attinto,
abbeverandosene a lunghe sorsate.
Ma è appunto l’Amore che codesta Francesca di Zandonai non conosce.
Invano l’autore ricorre ad artifici strumentali per esprimere dal suo
cuore una sola stilla di dolcezza; invano ricorda – ché pur presente ed
immanente è la progressione trascinante del duetto di Tristano – la
singolare analogia psicologica dei due amanti trasumanati nelle ombre
del boschetto di Cornovaglia; invano sollecita ad ingiuste sonorità
parossistiche quell’orgasmo estatico che dà solo l’amore e che solo al
cuore, al cuore e non al cervello, si può chiedere.
Purtroppo non è consentito né a me né ad altri d’intrattenere i lettori
d’un quotidiano con la disamina attenta ed analitica di quest’opera che
– frutto d’un intelletto nobilissimo pervenuto alla sua piena maturità –
va ascoltata con rispetto e con reverenza e che, comunque giudicata,
contiene molta musica di pregevole fattura, monito ed incitamento ai
moderni compositori scapigliati che sogliono chiamar «cabala» le leggi
armoniche e «ricetta» le norme contrappuntistiche di cui, senza averne
l’aria, lo stesso Zandonai ha fatto tesoro, osservandole più e meglio di
molti altri che hanno pessima rinomanza di «passatisti» tabaccosi.
***
59 Il pubblico fu subito preso dal malioso impasto di toni e di colori, di
tinte e di sfumature incorporee onde al primo atto, [è] acquarellato il
coro delle donne e la scena del giullare e, più tardi, quel vago
preludiare, meno di un alito immateriale di primavera e di rose che
annunzia l’apparizione di Paolo. E l’uditorio, che comprese quanta
possanza
d’invenzione
contengano
alcune
misure
di
suggestiva
drammaticità
nel
secondo
atto,
dette
corso
al
suo
pieno
ed
incondizionato consenso, che però parve più riservato dopo l’atto terzo,
in cui giust’appunto attendeva l’autore per giudicarlo nel duetto d’
amore, senza del quale una «Francesca da Rimini» in musica non ha ragion
d’essere. Così dopo il primo episodio del quarto atto, che non incontrò
larghezza di consentimento quale sopra tutto l’eccellente esecuzione
meritava, il pubblico rattenne il favore dei suoi applausi che, anche in
minore misura, furono tributati al chiudersi del velario sulla tragedia.
Ciò perché davvero l’opera abbisogna di molte audizioni per essere
penetrata nella sua profonda essenza musicale che non è dato a tutti di
conoscere d’un tratto, avendo per guida il solo intuito, senz’altra
preparazione che le sole rimembranze del quinto canto e quel tanto di
musica che le imprese liriche partenopee scodellano per coloro che son
paghi di passar comunque la serata a teatro.
La «Francesca» allestita con prestigioso decoro scenico, con scrupolosa
cura di attrezzi, di armi, di suppellettili, di luci, di vestiarii –
presiedette a questa intelligente fatica Tina d’Angelo – ebbe un’
esecuzione superba: quella che di diritto spetta al nostro maggior
teatro.
Gilda Dalla Rizza, la giovane cantatrice che da un pezzo ha varcata la
soglia augusta della celebrità, fu una Francesca quale la nostra
fantasia
colle
immaginarla,
d’angelicata
compostezza
trecentesca,
creatura di sogno, evocazione plastica di quella donzella che l’Urbinate
ritrasse per la sovrumana tela degli Sponsali custodita a Brera.
La sua voce, che a niun’altra si eguaglia, fatta di vibrazioni nervose e
d’improvvise ed inattese soavità – che degradando nel registro grave
appaiono come ardenti di esagitazione interiore – sorprese e soggiogò
quel pubblico – cui già erano note le risorse preziose di quella laringe
d’oro – sì da indurlo ad un applauso a scena aperta al quale
parteciparono anche molte piccole mani inguantate protese dall’alto: sì
che può essere una prova di progredire artistico, ma anche di sincero ed
irresistibile compiacimento per l’esecutrice insigne...
E, per ordine di merito, occorre tenere conto del primo e grazioso
successo del giovane tenore Papaccio che dette al feroce e bieco
Malatestino tutto il complesso carattere di prepotenza e di obliqua
perfidia, quale lo volle la finzione dannunziana. Fraseggiò con bell’
impeto drammatico la sua parte, massime nel quart’atto dove, attraverso
le angustie della vociferazione impostagli dalla partitura, seppe
trovare accenti di cupa ed impressionante efficacia.
Il baritono Franci fece del suo meglio, ad onta che un improvviso reuma
avesse alterate la limpidezza di molte delle note della sua chiave. Il
tenore Di Bernardo non dispiacque. Il coretto delle donne, tra cui
notevoli la Vasari e la Corelli, cantò spesso con grazia. Incisivo il
baritono Zuccarelli, un buon Ostasio. Volonterosi il Niola ed il Burri.
L’orchestra diretta dall’autore – che è un magnifico animatore delle sue
partizioni – suonò con precisione, con slancio e, molte volte, con
grande delicatezza di effetti.
143
G. Federici, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai al S. Carlo, «Le
Maschere», 30.1.1921
60 Siamo di fronte alla forte e incalzante tragedia del fato di Paolo e
Francesca che D’Annunzio dal gran pulpito delle immortali terzine
dantesche trasse in una tragedia tutta sua. Ma prima della tragedia
D’Annunzio intesse un poema; poema tutto compreso in sottili sfumature,
in tragiche bufere d’anime espresse in rassegnate rinunzie e più
toccanti, in un complesso di lirismo, di sogno che dà all’amore di
Francesca un’essenza di visione e di presagio. E il tutto intersecato e
frammezzato, ma non coperto, dalla accanita medioeval lotta dell’Italia
guelfa e ghibellina coi suoi rudi uomini d’arme e di sangue.
Tale la tragedia di D’Annunzio che Tito Ricordi per esigenze tecniche ha
sfoltito delle sue più belle vaghezze e imagini, del suo maggior lirismo
che è nelle sfumature, delle più raffinate decorazioni poetiche;
decorazioni, vaghezze, imagini che formano la tragedia.
Così visto obbiettivamente e così ridotto, lo scheletro del poema
dannunziano ci si presenta in cinque vari episodi che non convincono
abbastanza e che più ancora non hanno la linea scenica nell’urto fra il
lirismo e la durezza della lotta d’armi, e senza quell’avvincente
incalzarsi degli avvenimenti che tiene lo spettatore e che lega l’azione
di più atti in una unica complessa azione. E la ragione di tale
manchevolezza consiste nell’aver voluto ridurre un poema tragico in una
tragedia scenica.
L’opera
grandiosa
del
musicista,
la
grande
fatica
di
Zandonai
egregiamente si è esplicata nel commentare i cinque episodi. La musica
di Zandonai evidentemente sente la sproporzione del libretto, ma è
potente lo stesso nella perfetta fusione e nella interpretazione
sottilissima e sentita dei momenti psicologici (talvolta troppo
sottile). L’intero spartito non ha la frase armonica che individualizza
ogni opera e tanto meno, per conseguenza, i «leit-motif» [sic]. Lo spartito si basa su di accordi di tritono, completamente fuori dalle leggi del
contrappunto, e che si ripetono due sole volte nell’opera: al primo
atto, quando Francesca dice «Egli è venuto», e nell’ultimo atto, alla
catastrofe finale. Quattro temi musicali delineano le quattro figure dei
personaggi principali: il ritmo di Francesca lieve e soave di liuti,
viole e oboe si presenta al primo suo apparire nel coro arcaico delle
donne e predomina nella scena di presentimenti della sorellina
Samaritana che non vorrebbe lasciarla partire. E con l’ansia di
Francesca di conoscere il suo sposo incomincia il secondi ritmo di
Paolo.
Paolo comparisce accompagnato dal dolce suono della celeste e l’
incantevole suo tema, che forma la fine dell’atto, è modulato sulla
viola
pomposa,
antico
strumento
dalla
voce
più
squillante
del
violoncello, con accompagnamento di liuto. Ed è questo il primo bel
passo musicale, legato, armonico, vibrante, reso più suggestivo dal coro
a mezza voce del maggio e dalla stessa scena tutta dannunziana di
Francesca che, rapita, porge a Paolo, ch’ella crede il suo sposo,
anch’esso rapito dalla bellezza di lei, una rosa rossa colta da un
rosaio di rose rosse, mentre Samaritana piange e la viola modula e
strascica i suoi ultimi dolcissimi accordi.
Il secondo atto incomincia col tema di Gianciotto, rude, possente e
nello stesso tempo spezzato, quasi sciancato come il Malatesta. La
designazione sullo spartito è grave e pesante, ed infatti siamo sui
merli del castello dei Malatesta e fervono i preparativi per la pugna.
Paolo comanda la difesa e Francesca non teme il pericolo: lo aiuta e
teme per lui, e vuole che si nasconda. La musica nell’impeto della
battaglia invade l’intera orchestra; squilla sulle trombe e su quelle
tali buccine che serviranno pure alla Nave di Montemezzi, in una fusione
sinfonica
perfetta
coprendo
spesso
il
duetto
inefficace,
fino
all’apparizione di Gianciotto col suo ritmo sciancato e rude sugli
61 archi. Il nemico è respinto. Si beve il vino greco, ed in un largo
sostenuto Gianciotto invita a bere i due cognati nella stessa coppa. E
qui si riaffaccia il tema di Paolo. ma ecco che entra in iscena
Malatestino, dall’occhio crepato, terzo fratello, che vien trasportato
svenuto. L’orchestra attacca il quarto tema, direi quasi viscido,
inquietante sulla quarta corda degli archi in sordina, ritmicamente
accompagnato dal battito del dorso degli archi sulle corde dei
contrabassi, accompagnamento che fece rimanere perplesso in un primo
momento il pubblico. Ma il feroce piccolo essere è già in piedi fremente
e al grido «A cavallo, a cavallo» si lancia nuovamente nella mischia che
si riaccende. La fine dell’atto, fra i bagliori di fuoco e lo scoccare
dei massi dalle catapulte e dei dardi dagli archi, di un effetto scenico
reso con grandiosità, è maestoso, imponente sulle trombe che rispondono
in sincopato alle buccine ed ai corni di caccia, in una potente e
travolgente visione d’orrore.
Il terzo atto, nella camera di Francesca, è mote e suadente. In esso
arieggiano i ritmi di Francesca e di Paolo, e colpisce la meravigliosa
canzone marzaiola a ballo sull’oboe e il liuto inneggiante alla
primavera,
meravigliosa
per
limpidezza
e
freschezza
e
che
io
classificherei un quinto tema, il tema della primavera, perché si fa
sentire ancora vagamente qua e là fino alla fine. Siamo finalmente alla
vera tragedia. Paolo entra introdotto dalla schiava per volere di
Francesca. Son soli. Incomincia il duetto d’amore: un duetto recitativo,
timido, a voce bassa, dove l’amore è nello spirito e non nei sensi, dove
la frase è strozzata.
Un vecchio signore e me vicino si dimena sulla poltrona. È un
musicomane, evidentemente. Tutte le volte che il soprano o il tenore
cominciano
una
frase
musicale
e
la
spezzano
quando
appena
la
s’incomincia a percepire, egli si fa più rosso in viso. E infine, non
potendone più, rivolto a me:
–Wagner! – esclama con esasperazione.
–Wagner – rispondo stringendomi nelle spalle.
L’atto si chiude in un proporzionato crescendo fino al bacio fatale e in
un decrescendo di grande poesia e di commozione intensa nel grido:
«Francesca!» e nel bisbiglio, quasi rantolo: «Paolo», mentre trema l’eco
lontana delle fanciulle che cantano la canzone marzaiola.
Il quarto atto, diviso in due quadri, incomincia rude sui temi dello
sciancato
e
di
Malatestino.
È
la
scena
della
delazione,
meravigliosamente dipinta dalla musica torva e potente. Malatestino
accusa Paolo e Francesca presso Gianciotto. È un dibattito acuto e
furioso fra la tenacia maligna del piccolo sciacallo Malatestino e la
potente forza di Gianciotto, teatralmente e musicalmente belli.
E nel secondo quadro si passa al nostalgico ricordo di quella primavera
lontana, di quella viola pomposa e di quel soave amore sororale di
Samaritana. Siamo di nuovo nella camera di Francesca. È notte.
Gianciotto a quell’ora dev’essere già partito, e Francesca attende
Paolo. Ma è inquieta. Qualche cosa come un presagio le annunzia una
sventura. L’ancella Biancofiore si trattiene ancora un po’ con lei ed
ella si ricorda di Samaritana, la dolce sorellina che piangeva prima ch’
ella partisse pel suo destino. Il ritorno nostalgico della musica è di
grande effetto. Ma Paolo giunge. Son soli. Questo secondo duetto è
ardente, quasi disperato: pauroso. La catastrofe è fulminea sui temi
cupi e disperati di Gianciotto e Malatestino. Tutto precipita con
celerità ed il finale giunge con i due accordi di tritono, fondamentali,
impressionanti.
Il finissimo pubblico che letteralmente riempiva il teatro dette una
prova luminosa della sua intelligenza e squisitezza di gusto, gustando
in una sola audizione e applaudendo freneticamente la musica sottile,
62 eminentemente aristocratica di Zandonai. Se si tien conto delle quattro
chiamate al primo atto di artisti e autore, cinque al secondo e sei al
terzo, lunghe ovazioni unanimi a cui s’unì anche l’orchestra, il
successo si può dire clamoroso. E a ciò concorse la perfetta esecuzione
curata sui più piccoli dettagli.
Gilda dalla Rizza fu una Francesca ineguagliabile. In lei applaudiamo
ancora una volta non solo la portentosa limpida e modulata voce, ma
anche l’arte scenica e la perizia della recitazione.
Ottimo anche il tenore di Bernardo nella sua difficilissima parte. La
sua voce calda dall’impeto drammatico e la proporzione della sua
recitazione ne fecero un Paolo ammirabile. Il baritono Franci dette alla
parte di Gianciotto il vero colorito rude imperioso con l’aiuto della
sua liquida abbondante voce.
Una rivelazione fu il giovanissimo tenore Papaccio nella parte di
Malatestino. Il Papaccio fu d’una efficacia scenica sorprendente, che
piacque a tutti, oltre al timbro della sua voce ben modulata.
Gli altri a posto: la Gontarouk in Samaritana, il baritono Zuccarelli
nella parte di Ostasio, ecc. ecc.
La Francesca si ripeterà molte altre volte.
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Milano 1920 (144-150)
144
Orefice, «Francesca da Rimini» di Zandonai al Teatro Dal Verme, «Il
Secolo», 23.1.1921
L’opera di Riccardo Zandonai, che è certamente fra le più importanti
venute ad arricchire il nostro teatro lirico in questi ultimi anni, ha
servito oltre a tutto a sfatare un preconcetto che dopo i tentativi
della Giglia di Iorio di Franchetti e della Parisina di Mascagni
sembrava
ormai
accettato
universalmente:
quello
che
il
teatro
dannunziano non fosse musicale, o per lo meno non dovesse portar fortuna
ai musicisti. L’organicità, infatti, di quest’opera e il suo stesso
valore sentimentale e drammatico le provengono piuttosto dal riflesso
degli elementi di suggestione del poema che direttamente da quello della
musica.
Dir ciò non significa disconoscere il valore del musicista. Il quale ha
saputo sposare, sapientemente sempre e spesso anche con commozione
sincera, la sua ispirazione a quella del poeta, così da porre in
efficace rilievo, non solo, ma da accentuare anche il disegno dell’opera
d’arte, com’è ufficio, per necessità, della musica.
Una sola riserva dovrebbe farsi in proposito. Lo Zandonai usa dell’
orchestra con rara perizia; ma essa, che nella Francesca non ha sempre
un vero interesse sinfonico, tende a imporsi e a sovrapporsi anche là
dove le esigenze del dramma richiederebbero la più chiara e intensa
utilizzazione del canto e della declamazione. L’orchestra dello
Zandonai, che pure sa trovare voci sottili e garrule e morbide e
delicate, grida invece, talvolta, grida troppo. E chi grida – si sa –
non ha sempre ragione.
Tuttavia, l’arte istrumentale dello Zandonai rimane sempre l’elemento
più interessante del suo talento di compositore. La sua vera invenzione,
infatti, palesa ancora con evidenza un processo assimilativo che, pur
permettendo alla personalità dello Zandonai di affermarsi con rara
energia, le nega i caratteri più sinceri e distintivi di uno stile vero
e proprio. Né il suo pensiero, nobile e quasi senza eccezione, e di
volta in volta elegante o passionale, gli sgorga sempre fresco dal
cervello o senz’enfasi dall’anima.
63 Vista così in blocco l’arte dello Zandonai, è superfluo qui scrutarne e
discuterne i dettagli. Per quanto un esame di tal genere, a proposito
della Francesca ci indurrebbe forse e conclusioni diverse da quelle che
si fanno generalmente intorno a quest’opera e che sembrano le più
fondate e le più razionali. Come pesare, ad esempio, il valore poetico
del primo atto con quello drammatico del secondo o quello passionale del
terzo? Nel suo criterio d’impressione, chi ascolta ha ragione di
preferire l’una pagina all’altra. Ma tutte recano i segni della tempra
robusta del musicista, dei suoi pregi e insieme dei suo difetti; e in
ciò sta appunto – come dicemmo – l’organicità dell’opera.
Essa ritorna fra noi dopo un suo forzato giro nei principali teatri
italiani. E di ciò è da rallegrarsi come di un segno del nuovo
orientamento del nostro pubblico verso un ideale d’arte più nobile; e un
po’ anche come una prova dell’elevazione del livello della media dei
nostri artisti. Perché la Francesca non è tra quelle opere che «tutti
possono cantare», come suol dirsi.
Certo però questa del Dal Verme è una delle migliori edizioni. Vi
primeggia Augusta Concato, una Francesca di ideale figura e dalla voce
un po’ tagliente ma di un’estensione e di un’intensità che ricordano
quelle dei nostri migliori soprani dei bei tempi andati. Come attrice la
Concato, pur nella misura del gesto e dell’espressione, sa raggiungere
un’efficacia emotiva notevolissima. Il baritono Enrico Roggio, che ha
fatto della tipica figura di Gianciotto uno studio assai accurato, vi
lumeggia le migliori doti della sua versatilità artistica. E un buon
Paolo è il tenore Nino Piccaluga. la sua voce, di un carattere un po’
oscuro nei centri, acquista salendo calore e vigoria, e si fonde bene
colle alte sonorità dell’orchestra, che il suo canto deve spesso
dominare. Va pure ricordata la Zita Fumagalli (Samaritana) e il Treves
(Malatestino), ottimi nelle loro parti importanti. L’orchestra, diretta
dal maestro Angelo Ferrari, apparve fusa e colorita nel suo dinamismo
ritmico e in quello fonico anche, avuto riguardo alla difficoltà di
rendere perfettamente tutte le sfumature e le finezze della tavolozza
istrumentale.
L’allestimento scenico, al quale la direzione del Dal Verme ha dedicato
evidentemente le migliori cure, è degno dei maggiori teatri.
145
G.M.C., «Francesca da Rimini» al Dal Verme, «La Sera», 23.1.1921
Questa «Francesca» che apparve per la prima volta al Regio di Torino nel
1914, e che noi gustammo due anni dopo in una bellissima esecuzione
scaligera, era rimasta poi, per alcuni anni, in penombra. Ma da un po’
di tempo assistiamo ad una ripresa rigogliosissima, che riconduce la
maggiore opera dello Zandonai sulle scene principali d’Italia e di
fuori, e non sulle principali soltanto, da Trieste a Napoli, da Mantova
a Bologna, e in America, e al Cairo. Dappertutto – a quel che si
apprende – il pubblico l’accoglie con vivo favore e se dobbiamo
ascoltare i discorsi della farmacia teatrale, anche le imprese, alle
quali pure costa assai più di tante altre opere di minore impegno, si
dichiarano soddisfatte del successo finanziario. La coincidenza non può
essere casuale, e bisogna dunque che il pregio intrinseco, e non
solamente quello formale, entri per grande parte nelle ragioni del
rinnovato successo.
In verità, questa Francesca non si concede tutta, né immediatamente, a
chi l’ascolta: all’amoroso uditore attento e diligente serba ogni sera
nuove grazie e bellezze non prima rivelate; ma anche al primo suo
mostrarsi, anche allo spettatore semplice appare veramente una bella e
nobile cosa.
64 Virtù della vicenda scenica? Non direi. Ché sebbene questa Francesca sia
stata martellata in magnifici versi dall’«Imaginifico» ed abilmente
ridotta per la scena di musica, nessuno – dopo il gran padre Dante – ha
saputo ispirarci pei cognati incestuosi quella pietà profonda che nel
divino poema fa sì che un incesto immondo si ammanti nelle pieghe di un
doloroso ma umano peccato d’amore.
Già. Il sommo poeta si compiacque di trasformare con la sua arte
insuperata un crimine volgare in una leggenda di suprema bellezza:
eppure, più vicino come egli era all’evento, non ignorava che Francesca
era sposa da anni di Giovanni Malatesta e madre di un paio di bambini, e
che nelle braccia del cognato era stata spinta soltanto dalla propria e
dalla sudiceria di lui, e che insomma era questione di mancanza di senso
morale, e non di Fato più o meno greco.
Ma tutti quelli che hanno rimesso le mani in questa leggenda, poeti e
musicisti, questi per necessario vassallaggio filosofico verso di
quelli, non son riusciti a mantener rovesciate quelle leggi etiche che
Dante solo aveva potuto capovolgere. Paolo e Francesca, nel quinto canto
dell’Inferno, sono due eroi doloranti e miserevoli d’un amore fatale e
irresistibile; Giovanni resta nell’ombra e non conta. Invece, in tutte
le manipolazioni successive della leggenda Paolo e Francesca, per quanto
belle e dolci e profonde cose si vadano e ci vadano dicendo non riescono
a velare la loro turpitudine: e Giovanni Ciotto balza fuori diritto,
eroico nella sua ferocia, e compie una giusta vendetta.
***
Comunque sia, anche con questo rovesciamento di valori morali, vi era
nel libretto d’annunziano tanto volo lirico e tanta violenza tragica da
trarne fuori un’opera di proporzione e di armonia. Ci voleva l’artista
nobile e degno che, assorto nella sua visione d’arte, non si curasse
delle tradizionali esigenze della platea. E questi è stato certamente
Riccardo Zandonai.
Sarebbe intempestivo dire oggi come e con quali procedimenti lo Zandonai
è riuscito a fare opera di austera dignità. Questa è ormai giudicata
dalla critica, e il pubblico di venti e più teatri italiani che la
riapplaudisce
con
unanime
fervore
dimostra
che
anche
ad
esso,
indipendentemente dalle disquisizioni dei professori, l’opera piace e
più ancora piacerà nel seguito.
Si parla di frigidità nell’espressione passionale; ma nel finale del
primo atto, nella scena d’amore del terzo, nel commiato dalla sorellina
ed altrove qua e là si sente tratto tratto quel brivido che non può
esser dato soltanto da un piacere estetico. Si parla di mancanza di
originalità; ma lo Zandonai, pur valendosi con profonda cognizione di
mezzi e procedimenti che altri usò, imprime sovente al suo discorso una
sigla personale. Ed è ricco nella forma, vario nel colore, nobilissimo
sempre e sempre efficace, mentre attorno alla vicenda tragica si
svolgono con eleganza squisita i particolari decorativi, vuoi corali,
vuoi orchestrali, che dànno all’orecchio una vera gioia sonora.
***
Così avvenne che l’altra sera al Dal Verme l’opera dello Zandonai,
ascoltata con raccolta attenzione da un pubblico non foltissimo ma
eletto, fu salutata da sinceri applausi al finire di ogni atto ed anche,
qua e là, a scena aperta. Particolarmente fu applaudito il superbo
finale del primo atto e la «canzone a ballo» e il «duo» del terzo, e
furono gustati i particolari ornamentali che arricchiscono tutta quanta
la partitura.
Ed è giusto, perché nell’allestire questa Francesca l’impresa del Dal
Verme ha usato una particolare diligenza, sì da farne il migliore
spettacolo della stagione. Ogni cosa è stata curata con amore, dalla
scelta degli artisti alla composizione dei quadri, alla ricca varietà
65 dei costumi, all’armonia delle luci. Il maestro Ferrari ha posto ogni
impegno nella difficile concertazione, ottenendo dalla sua orchestra che
pure non è ricca di archi, quanto occorrerebbe: effetti di sonorità e
fusione e stacchi di tempi veramente lodevoli.
Tutte le parti secondarie – che qui hanno tanta importanza – hanno fatto
egregiamente il loro dovere, tanto che le quattro damigelle nella
canzone a ballo furono meritatamente applaudite. Particolarmente graziosa Biancofiore apparve la Zonghi, ed ottima Samaritana la FumagalliRiva. Buon Ostasio il Grandis, al quale però non perdono i candidissimi
guanti «glacés» che indossava mentre afferrava pel collo il Giullare.
Ma il terzetto Concato, Piccaluga, Roggio merita una lode veramente speciale. Ciascuno di essi ha composto la figura scenica del suo
personaggio con grandissima cura ed efficacia e tutti e tre hanno
cantato con bellissime voci. La signorina Concato possiede un organo di
particolare limpidezza, di rara estensione, uguale e fresca in tutta la
sua gamma: Francesca dolorosa e appassionata in tutto il suo asprissimo
ruolo. Il Piccaluga (Paolo) – quasi nuovo anch’egli alla scena – ha una
robusta voce che nonostante il timbro baritonale [....]nte, ascende
sicura agli acuti nei quali si fa brillante e calda. Il Roggio è sempre
l’artista intelligente e corretto che già conoscemmo, e fa di Gianciotto
una fiera e robusta figura piena di truce espressione. Accanto a loro il
Treves è stato un Malatestino torvo e perverso, che ha cantato con
sicurezza e precisione la sua parte non agevole.
E da per tutto ma particolarmente nel turbinoso secondo atto fu lodevole
il movimento delle masse sulla torre fiammeggiante nella battaglia, e
degni d’ogni lode i cori, ottimamente disciplinati.
146
M.C., «Francesca da Rimini» di R. Zandonai al «Dal Verme», «L’Italia»,
23.1.1921
Più fortunata delle altre opere omonime tratte dal V Canto dell’Inferno,
da quelle di Mercadante e di Morlacchi alla recente Paolo e Francesca di
Mancinelli, la quarta opera di Zandonai in ordine di tempo vivrà sulle
scene. Della tragedia dannunziana, la più umanamente sentita e scritta
fra le diverse del poeta, e delle terzine immortali che alla tragedia
fornirono la materia, il Zandonai seppe far suo il contenuto poetico:
poesia d’ambiente, poesia di costumi, poesia di odii e di amori e
sopratutto seppe creare intorno alle figure dei protagonisti quella
atmosfera di estasi smemorata di tutto quanto non sa le loro passioni,
assetate di ebbrezze peccaminose negli uni o di torve vendette negli
altri. Merito precipuo dello Zandonai fu quello di non aver suscitato
contrasti colla musica all’ambiente medioevale in cui si muovono le
figure del poema: e così la gioconda serenità della casa di Francesca,
arrisa dal vasto cielo che inazzurra
...la manica dove il Po discende
per aver pace coi seguaci sui
e la dura vigilia d’armi sugli spalti del Castello di Gianni Ciotto, e
l’uniforme e pigro trascorrere del tempo nella appartata chiostra in cui
era segregata la castellana, e quell’ardere cupo di gelosie, di odi e di
misfatti che prepara e consuma i delitti: tutto si inquadra nella varia
cornice musicale che il Zandonai seppe foggiare per la sua Francesca.
L’opera già corse i teatri: da Torino ove si diede la prima volta, alla
Scala dove fu riprodotta nel 1916, conobbe quasi tutte le scene
italiane: meno favorita all’estero, ebbe tra noi quasi sempre favorevole
il giudizio dei pubblici.
66 Non giova soffermarsi a richiamare la mancanza della trovata musicale
per rendere efficace il secondo atto, quello dell’assedio: sappiamo che
dal più al meno tutte le battaglie che si vollero descrivere
musicalmente, siano quelle convenzionalissime espresse nel Macbeth o
nella Forza del destino, o quelle più elaborate di Parisina o dei poemi
eroici straussiani, hanno tutte mancato il loro effetto, e si capisce:
poiché una mischia si può concepire come un campo in cui rumori
disordinati si sovrappongono, non certo come un torneo in cui giostrino
preordinate figurazioni musicali; ne informi la baruffa dei Maestri
Cantori che è riuscita un capolavoro per la simmetria delle parti che
concorrono a formare il fugato. Aggiungasi che anche nella tragedia è
questo atto il meno fortunato, sia per la inverosimiglianza della lunga
sosta di Paolo e Francesca a discorrere della loro fiamma nascente tra
tanto concitato battagliare dei saettatori e dei manovratori di ordigni
di guerra, sia perché l’azione poetica non ha agio di espandervisi.
Neppure giova rilevare qua e là segni di procedere prolisso: a questo,
come opportunamente si fece ieri sera nel secondo atto e alla fine
dell’ultimo, si può ben provvedere con qualche ben inciso taglio. Ma di
fronte a queste mende – troviamo fra le opere degli ultimi anni quale ne
vada immune! – quanta nobiltà sempre nel sostenere il discorso musicale,
quale varietà nello sviluppare il commento al forbito canto di Paolo e
Francesca nei duetti, che penetrante mestizia nel brano sinfonico che
accompagna la scena dell’incontro al finale del primo atto, quale
eleganza fresca di quella gioia di vivere che ci figuriamo arridesse a
quelle adunate di cavalieri e damigelle medievali, sentiamo spirare dai
piccoli cori e dai canti a quattro voci femminili, e infine, ultimo ma
non inferiore di pregio, quanta forza nel ruvido ed energico substrato
orchestrale che accompagna le scene tra Francesca e Malatestino, quella
seguente fra Malatestino e Giovanni Ciotto all’ultimo atto! Questo mezzo
atto, a nostro parere, per quanto non contenga di che accarezzare
melodicamente l’orecchio degli ascoltatori, è, se l’opera musicale venga
considerata come un complesso in cui musica, parola ed azione debbono
fare delle loro tre anime un’anima sola, la parte veramente perfetta
dello spartito. Dopo il quadro di preparazione costituito dal primo
atto, oltrepassato la soglia del secondo atto, la musica di Francesca da
Rimini, fattasi palpitante nel duetto del terzo atto, insinuante per
freschezza d’invenzione là dove Paolo, trasognando, canta la sua
visione:
Inghirlandata di violette
m’appariste ieri ad una sosta...
indi mormorante, nella aspettazione dell’inevitabile, durante la lettura
del libro che fu galeotto ai nuovi amanti, pervasa da un soffio cocente
nell’attimo di demenza che fece Paolo tutto tremante come canta il
Poeta, – si nobilita sempre più ed acquista in espressione quando dal
brusco contrasto della truce scena della delazione e del malinconico
commiato delle damigelle, assurge alla più intensa passionalità nel
breve duetto che precede la repentina catastrofe che sospingerà gli
amanti tra la dolorante schiera di coloro cui trascina
la bufera infernal che mai non resta.
Il crescendo di interesse musicale e di intensità emotiva che si
sviluppa dall’inizio alla fine dello spartito si rispecchiò nel lieto
successo che arrise ieri sera all’opera: tre chiamate dopo il primo
atto, altrettante dopo il secondo, un applauso a scena aperta dopo
67 l’evocazione di Paolo, cinque alla fine dell’atto, e quattro o cinque
alla fine dell’opera, segnarono le tappe del lusinghiero successo.
La concertazione dell’opera segna un vero titolo di merito pel maestro
Ferrari: l’equilibrio delle parti, la sottolineatura di particolari, la
vigoria degli stacchi, la pastosità delle varie emotivazioni [sic], tutto
egli curò con grande diligenza, sicché ne emerse una interpretazione
efficace alla quale solo si potrebbe osservare qualche esagerata
tendenza ai rallentamenti nel duetto del terzo atto.
La sig. Concato fu scenicamente e vocalmente una Francesca quale non si
avrebbe potuto desiderare migliore: investita completamente nella sua
parte, diede forma di squisitezza alla femminilità della Riminese, come
specialmente apparve nei deliziosi duettini con la Samaritana nel primo
atto e con Biancofiore nell’ultimo.
Il tenore Piccaluga, prestante di aspetto e ricco di una voce maschia e
squillante, sostenne con grande sicurezza e baldanza la non lieve sua
parte: ben meritato fu l’applauso che seguì la evocazione dell’incontro
con Francesca nel terzo atto, e la scena finale dell’opera.
Il Roggi, che già in questa stagione si era fatto favorevolmente notare
come Scarpia e come Rigoletto, incarnò il personaggio del difforme
Giovanni Malatesta con grande verità rappresentativa: la ferocia degli
atti, la impetuosità del gesto, la concitazione della voce furono
studiate da lui nei più minuti particolari.
Ottima la sig. Fumagalli-Riva nella parte di Samaritana, e le sig.e
Zonghi, Avezza, Garroni e Pizzoli nelle parti delle damigelle.
Alla messa in scena la direzione del teatro diede ogni cura, sicché
anche sotto questo aspetto lo spettacolo si può qualificare di
primissimo ordine: gli arrida la fortuna di numerose repliche e di
ripetuti successi.
147
La «Francesca da Rimini» al Dal Verme, «L’Avanti!», 23.1.1921
La Francesca da Rimini di Zandonai fu data per la prima volta a Milano
alla Scala cinque anni or sono e vi ottenne un legittimo e serio
successo. Non grandi entusiasmi, si capisce. È opera concepita con
talento, distinzione e coltura, con sincero fervore, ma non di quelle
che afferrano irresistibilmente. La composizione stessa del libretto non
consente un’emozione progressiva e continua. Il primo atto, musicalmente
assai degno, è tutto episodico e non ha riferimenti coll’azione vera e
propria che nel fugace incontro di Paolo e Francesca e nell’inquietudine
di Samaritana. Il resto è frasche... [?] elegante, di un’espressione e di
un sapore troppo letterario per costituire pur quel color locale e
quell’atmosfera del tempo, a cui si aspirerebbe. Anche il secondo atto è
nelle sue linee predominanti tutto esteriore, tutto speso a descrivere i
preparativi e gli incidenti guerreschi, così che i momenti lirici, che
soli contano per la sensibilità dello spettatore, restano come soffocati
ed oppressi dall’agitarsi della folla, dal fischiar delle balestre,
dall’avvampar del fuoco greco. Certo, anche in questi due atti lo
Zandonai ha profuse pagine interessanti, ricche di sentimento e di
colore come il coretto delle donne, il rimpianto di Samaritana, il
finale del primo atto; e il duetto di un ardore contenuto, pieno di
dolorosa ambiguità, fra Paolo e Francesca nel secondo; ma sono brani
fugaci, frammentari e quasi in margine della tragedia vera e propria,
per suggestionare durevolmente il pubblico.
Dove
l’azione
diventa
avvincente
e
l’ispirazione
del
maestro,
d’ordinario un po’ frigida, si riscalda e s’infiamma, è al terzo atto,
largamente melodioso, delicato e suggestivo, pieno veramente di profumo
e di mollezza primaverile, col canto e il leggiadro ballo delle ancelle,
68 coll’impeto di desiderio e la fiamma di passione che abbattono Francesca
fra le braccia di Paolo.
L’ultimo atto, all’interessante episodio fra Gianciotto e Malatestino,
pieno d’incubo tragico, n0n aggiunge gran cosa. Il duetto fra i due
immortali amanti non traduce lo struggimento e il febbrile spasimo che
dovrà avvincerli per l’eternità, pur fra la turbinosa violenza della
«bufera infernale». A giudicare dal tono dimesso delle loro effusioni,
più enfatiche che travolgenti, si direbbero degli amanti che si vogliono
illudere, non degli smarriti in un oceano di voluttà. Tuttavia anche
questo atto, non meno dei precedenti, malgrado l’ora tarda, fu ascoltato
con attenzione ed applaudito con cordiale insistenza; così come si
ebbero numerose chiamate agli esecutori tutti ad ogni calar di velario,
alla signorina Augusta Concato, protagonista, al tenore Piccaluga e al
Roggio, anche a scena aperta.
La Concato è stata infatti una bellissima Francesca per la voce calda ed
insinuante, dolce ed appassionata, cui [così] aggiunge una azione di una
grazia estetica forse eccessivamente stilizzata, ma di una nobiltà e di
un fascino notevoli. Anche il Piccaluga ha cantato con un vigore ed una
sicurezza d’accento non comune, sapendo essere scenicamente di una
grande ed espressiva distinzione. Delicata Samaritana la Zita Fumagalli
Riva; un aspro Gianciotto il Roggio, e buon Malatestino il Treves. La
Zonghi, l’Avezza, la Garrone e le altre furono eleganti, disinvolte e
sicure ancelle, e ottimi il Longone ed il Friggi. Complessivamente
accurata e lodevole l’esecuzione orchestrale diretta dal maestro
Ferrari; pittoresca la messa in scena, ma di stili un po’ troppo
promiscui e anacronistici; sontuosi i costumi.
Stasera Tosca e Carillon magico, domani ultima mattinata col Mefistofele
e nell’entrante settimana il Barbiere di Siviglia.
148
G.B.N., «Francesca da Rimini» di R. Zandonai al Dal Verme, «La
Perseveranza», 23.1.1921
Fra le produzioni liriche nazionali di questi ultimi anni, «Francesca da
Rimini» – la quale appare spesso sulle scene dei teatri italiani e dell’
estero – è forse la sola che, malgrado l’importante consacrazione del
primo, brillante successo di Torino, compiutasi alla Scala nel 1916, non
sia stata più riprodotta a Milano.
Si è fatto ieri sera, al Dal Verme, ammenda di una grande trascuranza;
doverosa ammenda, perché trattasi d’un lavoro che molto si eleva dalla
sfera comune.
Opera organica nella sua complessa architettura, è in pari tempo
documento – tanto raro ai giorni che corrono – di probità, di sincerità
artistica. Il suo autore non si preoccupò di fare breccia colla volgare
esteriorità dell’effetto. Se ne è anzi quasi totalmente disinteressato,
mirando piuttosto – e vi riescì più volte – a rendere strettissimi i
rapporti tra dramma e musica, la quale – malgrado la spiccata impronta
moderna che esclude la forma chiusa – col suo materiale armonistico
sovrabbondante di procedimenti cromistici, risulta quasi sempre chiara,
illustrativa, tanto per merito dell’elemento sinfonico quanto di quello
della declamazione cantata.
La musica è riescita a integrare la produzione d’annunziana generosamente sfrondata da Tito Ricordi, facendo talvolta dimenticare che
quest’ultima non fu ideata a immagine e somiglianza del melodramma. Essa
esercita ancora molta suggestione raccolta nella cornice lirica dallo
Zandonai bene intonata al quadro medioevale. coi suoi vaghi spunti
decorativi e colle tinte fosche, sanguigne della plumbea tragedia.
69 Ma pure manca all’opera d’arte quel «quid» che può procurare profonde
impressioni, anche non tenendo conto dell’azione negativa esercitata dal
secondo atto quasi sempre tumultuoso, farraginoso e anche frammentario,
ideato con annebbiata visione del risultato della scena, da Gabriele
D’Annunzio. Manca sopratutto l’ultimo episodio dell’opera, ove la musica
doveva essere incandescente come la mattina vulcanica (anche se a questa
temperatura non si elevano i versi della tragedia) tanto da esaltare al
massimo grado la violenta passione dei due eroi della vicenda
leggendaria; quella fiamma distruggitrice di anime e di sensi che, in
una quasi identica situazione, invade la scena – dando il brivido agli
spettatori – durante il duetto dell’atto secondo di «Tristano e Isotta».
Gli è che qui l’ispirazione non assurge a vette eccelse. I pregi formali
non possono pretendere – quantunque ammirevoli per raffinatezza e buon
gusto – di fare vibrare profondamente le corde dei nostri intimi
sentimenti. Ma quali opere modernissime, in grazia, sanno conseguire
questo risultato?
Lo Zandonai ha diffuso anche in «Francesca» quella squisita sensibilità
estetica che fin qui in lui tiene il posto del vero sentimento. Ma la
scena culminante della tragedia, lo spasmodico duetto d’amore di Paolo e
Francesca
domandava
bene
di
più.
Per
ciò
essa
lascia
freddi,
insoddisfatti; non rafforza così l’eccellente impressione prodotta in
ispecial modo dal delizioso, poetico incontro dei due protagonisti con
cui si chiude il primo atto veramente indovinato da capo a fondo;
impressione che non diminuisce al susseguente primo quadro dell’atto
quarto, pel quale il compositore seppe trovare una ideazione appropriata
e tratteggiare con essa, valendosi di molta sobrietà di mezzi, la truce
drammaticità della scena tra Gianciotto e Malatestino.
Sono però questi titoli cospicui – a parte molti altri particolari i
quali non domandano oggi ulteriori commenti critici – che possano
appagare le esigenze del moderno teatro di musica e dei molti i quali
attribuiscono all’arte rappresentativa un obbiettivo di elevazione
intellettuale.
Di questa opinione fu ieri sera la quasi totalità dei numerosi
frequentatori del Dal Verme. Essi hanno espresso intorno a quest’opera
un giudizio più calorosamente ammirativo di quello pronunziato cinque
anni fa dal pubblico della Scala. Alla fine d’ogni atto ripetute furono
le chiamate agli artisti e al maestro Ferrari, con accentuato fervore di
battimani al terzo, interrotto da applausi a scena aperta alla canzone
di «Calendimaggio» [Calendimarzo], e a una appassionata del tenore nel duetto
tra Paolo e Francesca.
L’esecuzione cooperò non poco al brillante successo dello spettacolo,
senza dubbio uno dei migliori dell’attuale stagione del Dal Verme.
La signora Concato mostrò di possedere per la parte della protagonista i
migliori attributi. Furono anche apprezzati il tenore Piccaluga, che
rappresentava «Paolo il Bello», e io baritono Roggio è stato un ottimo
«Gianciotto» nel senso completo della parola e il tenore Treves,
«Malatestino».
Le signore Zonghi, Avezza, Garrera [sic] e Pizzioli [sic] si meritarono
l’applauso per la difficile canzone di Calendimaggio.
Lo spettacolo avrà certamente numerose repliche.
149
g[aetano] c[esari], La «Francesca da Rimini» al Dal Verme, «Corriere
della sera» 23.1.1921
Abbia o non abbia contribuito la ricorrenza del centenario dantesco a
mettere in più viva circolazione l’opera che trae il soggetto dalla
eroina della passione amorosa immortalata nella Commedia; siano o non
70 siano complici di questo parallelismo di avvenimenti più o meno
danteschi altre forze che assecondano od avvinghiano le attività nel
campo teatrale, certo è che la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai
corre,
in
quest’anno
di
grazia,
i
palcoscenici
d’Italia
con
imprevedibile frequenza, date la piuttosto lenta carriera dell’opera, la
sua incerta popolarità e la fragile fortuna onde venne accompagnata dal
1914 in qua.
Il Dal Verme, fra il pullulare delle molte Francesche, non ha voluto
rimanere assente. Così ne ha messo ieri in iscena una sua, abbastanza
decorosa pei tempi che corrono; sufficientemente accurata e sfrondata
nel vanamente tumultuoso secondo atto per tentare le vie del favore, se
non del cuore del pubblico.
Ora la cronaca, che ricorda di aver seguito con spirito di benevolenza
lo Zandonai alle sue prime armi d’operista nello stesso Dal Verme,
rappresentandosi Conchita e Melenis, la cronaca, per essere esatta
interprete
delle
impressioni
suscitate
da
uno
spettacolo,
deve
registrare un successo d’applausi, una accoglienza confortata da tutte
le più lusinghiere manifestazioni di rito, ma non la esplosione vivace
di uno stato di commozione o di godimento: cosa di cui sono capaci solo
le vere e grandi opere d’arte.
Gli è che a questa Francesca – ricca di quadri di un colore antico e
tutto nostro, svolta in quattro atti istoriati vivacemente come quattro
arazzi trapuntati dalla fervida fantasia dannunziana, gentile di
figurazioni e fosca di motivi drammatici, – manca il fuoco della
passione espressa nel suono. Finché Zandonai resta puro e semplice
illustratore del quadro scenico la sua musica si ambienta abbastanza per
integrare con una sensazione acustica la poesia contenuta nella visione
della scena e dei personaggi. Ne fa fede il finale del primo atto, in
cui l’incontro di Paolo e Francesca è efficacemente accompagnato da una
aurora di suoni intercalati dagli strumenti imitanti la violetta, il
piffero, il liuto, mentre le donne di Francesca incorniciano la scena
fondendo le loro voci in quell’alba d’amore. Ne fanno fede ancora i
coretti e le danze delle donzelle inghirlandate, nel terz’atto; certi
tratti colti nelle figure di Gianciotto e Malatestino, felicemente resi
dalla musica nella prima parte del quarto atto, e quell’incalzare
continuo dei suoni assecondanti, insieme al declamato, il volgere degli
eventi nella tragedia: specie di dinamismo acustico filiato logicamente
dall’azione. Ma se tutto ciò, insieme all’interesse destato dalla
tragedia per sé, può bastare a tener desta l’attenzione di chi ascolta,
più non basta quando Paolo e Francesca, soli sulla scena o sotto l’
influsso della storia di Galeotto, hanno da mettere a nudo due anime
travolte dall’incendio di una passione funesta.
Allora i suoni dello Zandonai non riescono a scolpire come l’arte
vorrebbe. La sua cantillazione, sulle labbra dei due amanti, si perde
troppo nell’indeterminato. Dalle sue note non trapela il guizzo di una
fiamma interna, sia che l’orchestra tocchi i vertici massimi delle
sonorità o che le voci cerchino nel declamato le flessioni più acconce.
Già fu notato anche nelle altre opere dello stesso compositore: la musa
dello Zandonai, in questi momenti dominati dal sentimento, è di una
frigidità quasi assoluta. Ora è facile immaginare quanto soffra di un
tale difetto, costituzionale della natura del musicista, un’opera come
la Francesca, imperniata tutta sul tema della più accesa e tragica
passionalità. L’amore, dopo aver trovato il suo più alto poema nei pochi
versi onde la colpa di Francesca s’abbella nell’Inferno dantesco, non ha
strappato un accento all’arte a lui più vicina, nelle molte note dello
Zandonai. L’opera si regge in grazia a tutto ciò che musicalmente le è
secondario: al valore poetico del dramma e talvolta anche a quello delle
esecuzioni cui è affidato.
71 Ieri, a dir vero, l’allestimento della Francesca è sembrato, se non
sotto tutti almeno sotto parecchi aspetti, pari alle esigenze principali
dello spartito. E deve anche essere detto che se il duetto fra Paolo e
Francesca nel terz’atto è stato interrotto da un applauso e, tutto
sommato, è riuscito a sostenersi, il merito principale spetta alla
Concato ed al tenore Nino Piccaluga. Due buone voci, quelle della
Concato e del Piccaluga, e due temperamenti capaci di ravvivare la
declamazione musicale ad onta di una tessitura in parecchi punti audace.
Al loro concorso deve assai l’interpretazione dell’opera anche negli
altri atti, tanto che il pubblico, giusto con essi, li ha voluti
ripetutamente evocare al proscenio. Subito dopo questi due perni della
Francesca, vuol essere citato il baritono Roggio, Gianciotto efficace
per voce ed intuito drammatico; ed insieme a lui il Treves nella parte
di Malatestino. Infine non possono passare sotto silenzio Noretta Zonghi
e la Fumagalli Riva, come Biancofiore la prima, sotto il costume di
Samaritana la seconda.
La concertazione orchestrale e vocale, curata dal maestro Ferrari, è
apparsa lodevole. Senza rigidità metronomica e staccando giustamente i
movimenti, egli diresse la Francesca sicuro di sé e dell’efficacia degli
effetti ottenuti. Scenicamente non hanno guastato le poche innovazioni
apportate: hanno giovato anzi all’evidenza ed alla poesia dell’azione.
Per questo il Ferrari meritò di partecipare, insieme a tutti gli altri
artisti, agli onori della serata.
150
Guido Podrecca, Dal Verme - «Francesca da Rimini» di Zandonai, «Il
Popolo d’Italia», 23.1.1921
È una delle rare novità – alquanto attempata – che rompono a lunghi
intervalli la monotonia delle stagioni milanesi e che si distacca nelle
intenzioni dalla triade dei veristi fino a poco fa dominatori
indisturbati della scena lirica. Si distacca anche dall’impressionismo,
in quanto pulviscolo luminoso che nasconde i volumi o la loro assenza, e
in quanto il Zandonai si propone delle solide costruzioni melodiche in
un’atmosfera ampiamente armonica. Se le propone, ma non può attuarle
completamente per la contraddizione che nol consente tra il sinfonismo
portato nel melodramma con una varietà incalzante di ritmi e di tonalità
che mozza ogni possibilità di ampio respiro nella melodia canora; sia
essa il largo, drammatico declamato monteverdiano, sia il luminoso
saliente periodare belliniano.
Ma Zandonai fa dei nobili sforzi a che lo strumentale non sopraffaccia
le voci. Egli è perfettamente padrone, in scioltezza e libertà, dell’
orchestra, che tratta con mano sicura come un grande istrumento e mostra
di considerare più come mezzo che come fine a se stessa. Onde la sua
padronanza tecnica non urta come la presunzione dell’obbiettivo
raggiunto, ma appare un presupposto necessario come la competenza del
pittore nella preparazione dei colori sulla tavolozza, laddove troppi si
ritengono creatori solo pel fatto che conoscono gli strumenti e il modo
di maneggiarli. La tecnica degli effetti armonici e del colore, in molti
compositori raffinati ed abili – specialmente in Francia – tiene spesso
luogo dell’essenza, ossia del valore tematico, onde il mezzo d’
espressione, sapientemente impiegato nelle esercitazioni sinfoniche,
finisce col nascondere molte volte una desolata verità: che l’autore non
ha nulla da esprimere. E sotto la pompa lussureggiante delle tinte,
degli impasti e delle combinazioni, a chi ben guarda e in fondo, si
discopre il più squallido.
In questo poema del D’Annunzio, che ha solida l’ossatura tragica e che
consente, nella solennità ampia della linea, il rabesco di suggestivi
72 particolari, Riccardo Zandonai lascia qualche volta a nudo l’impeto
canoro, attenuando la polifonia numerosa, ed è su questi punti
particolarmente
che
può
soffermarsi
l’attenzione
dell’uditore
convergente sui temi. Allora questi appaiono più intieramente sentiti,
quando esprimono dolcezza raccolta e pudica di sensazioni, quasi una
nostalgia di certe pagine idilliache del «Grillo del focolare» o un
presentimento amabilmente giulivo della «Via della finestra».
Nei momenti drammatici prevale invece il sinfonista ed allora la forza
dell’accento non sempre sovrasta l’esuberanza del commento orchestrale.
Queste sono riserve teoriche; ma quanto è gradito segnalare in onta di
esse un successo pieno e incontrastato come quello che ieri a sera
coronò l’opera del maestro trentino a commento di una delle più possenti
ispirazioni della musa dannunziana.
Affrontare l’immenso argomento di passione che d’Annunzio racchiuse
nella cerchia torrida del dramma con una vivezza abbagliante d’immagini
e magniloquente ampiezza di verso, sarebbe stato ardimento aspro anche
per una perfetta maturità musicale. Zandonai vi si buttò con baldanza
giovanile e riuscì a trasfonderla nei tempestosi assieme del secondo
atto e nell’epilogo di violenza e di strazio; ma dove il suo
temperamento si trasfuse più efficace e limpido si è nelle situazioni
liriche e placide del primo e del terzo atto che hanno pagine di
indubbia efficacia espressiva.
Certo non si toccan le vette dell’ispirazione né qui né altrove, ché ai
nostri musicisti appar convenzionalismo abbandonarsi alla fluenza del
periodo melodico, quasiché fosse meno convenzionale la semplice
accentuazione della parola. Ma anche con questi voluti legami il
temperamento del compositore prende a tratti il sopravvento, ed allora
se non si ha una vera aria (o non sfuggono tutti i moderni questa
terribile pietra di paragone col pretesto che sia sorpassata?) si hanno
degli ariosi di bell’impeto e di intenso sentimento. Se l’ora non
incalzasse, vi sarebbe molto da dire sulle rinunzie ai pieni sviluppi
tematici, dei quali si sente la mancanza in momenti – come la battaglia
– che nella loro esasperata sonorità mancano di eloquenza appunto perché
manca una intensa espressione tematica esprimente le vicende della lotta
e il tripudio della vittoria. E il pensiero corre non ai Debussy o agli
Strauss o agli Strawinsky e ai Schönberg, ma ai Rossini e ai Verdi che i
nostri giovani hanno abbandonato illudendosi di averli superati.
Zandonai, compositore che non farà mai, neppur con Conchita o con
Melenis, cosa grossolana e che ha un temperamento fortemente teatrale,
ha avuto la fortuna per questa riproduzione del suo capolavoro di una
esecuzione assolutamente degna di sì nobile fatica.
La Concato è indubbiamente una Francesca ideale nella figura, nell’
espressione, nella voce di cristallo intatto. Nel suo canto fermo e puro
nulla del sentimento è sacrificato alla bellezza dell’inavvertito sforzo
canoro. Nel terzo atto – il più profondamente intimo – ebbe a compagno
un altro artista di grande valore, il Piccaluga, che accoppia alla voce
morbida e di facile ascesa una vibrante espressione drammatica di ampio
stile.
Magnificamente atteggiato nella figura torva il Roggio, che ha dato di
Giovanni Malatesta una interpretazione sobria, possente nell’impulso dei
bei mezzi vocali e del gesto, di eccezionale efficacia.
Intorno ai protagonisti una intonata armonia di atteggiamenti e di voci
da parte delle donne: la Fumagalli, un chiaro soprano, la Della Gorgona,
forte contralto, e le ancelle Zonghi, Avezza, Pizioli, Garrone, tutte
belle e ben impiegate voci. Anche gli uomini: Grandis, Treves, Longone,
Frizzi, Mirta cooperarono ottimamente all’insieme.
73 Si devono lodare anche l’apparato scenico e i costumi pittoreschi e di
artistiche intenzioni, e particolarmente la concertazione delle masse di
scena e d’orchestra dovuta al M.o Ferrari.
Conclusione: uno spettacolo eccezionale che venne coronato da un
progressivo successo.
E ne siamo lieti per i nostri autori moderni che hanno diritto a quella
considerazione che troppo spesso si accorda agli stranieri, troppo
spesso meno meritevoli e sempre inferiori nell’ispirazione che, ad onta
di tutto, nei nostri si conserva liricamente italiana.
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Palermo 1920 (151-156)
151
g.p., Francesca da Rimini di R. Zandonai, «Giornale di Sicilia», 23.3.1921(*)
La sala grandiosa del «Massimo», gremita fino all’inverosimile di
pubblico scelto dappertutto, intellettuale in gran parte nel loggione,
poiché vi si erano allogate alcune centinaia di studenti universitari,
presentava l’aspetto delle grandi premières, dapoiché iersera nel nostro
maggior teatro lirico si è data la «Francesca da Rimini», l’opera di
Riccardo Zandonai, che avrebbe dovuto darsi nel 1915 e che lo scoppio
della guerra mondiale non fece realizzare.
Ma il ritardo, prolungato forse da altre circostanze, ha in qualche modo
giovato, giacché l’edizione che se ne dà ora a Palermo è delle più
nobili ed elevate, concertata e diretta dal grande maestro, autore dello
spartito.
Ed il pubblico ha potuto assistere alla rappresentazione d’un lavoro
d’arte che della grandiosità possiede tutte le caratteristiche: essenza
tragica dell’argomento, nobiltà della forma letteraria, elevatezza della
concezione musicale, imponenza della messa in scena. La grande opera
d’arte dannunziana ha avuto in tal modo una ricostruzione meravigliosa
nel campo lirico. Essa dovrebbe svolgersi in quattro atti, ma
praticamente i due quadri del 4°, per ineluttabili ragioni di mutamento
di scena, la portano a cinque atti.
Ebbene, si assiste allo svolgimento d’un lavoro di tal mole con
attenzione vivissima, con interesse sempre crescente, entusiasti dall’
onda copiosa di poesia di cui la musica dello Zandonai è circonfusa nel
1° e nel 3° atto; impressionati dal quadro bellico che si svolge nel 2°,
dalla tragica potenzialità del 1° quadro dell’atto quarto, dalle tre
tendenze diverse di sviluppo che assume nel 2° quadro la concessione
musicale: nostalgica all’inizio, riboccante d’amore in seguito, per
finire alla catastrofe orrenda, che ha rilievo scultoreo: è l’opera di
grande stile, al grandioso poema dannunziano fa degno riscontro il poema
musicale di Riccardo Zandonai.
------
L’opera s’inizia con un allegretto mosso gradevolissimo e dopo poche
battute si apre il velario, l’orchestra ha accennato il tema del
giullare e l’allegro cinguettio delle quattro damigelle di Francesca si
svolge rapido, scoppiettante, in contrasto al tono semi-beffardo
dell’astuto tremacoldo. Bello lo spunto del racconto, troncato dalle
note iraconde di Ostasio, che maltratta e scaccia il giullare. Ed il
quadro musicale assume ora un aspetto meraviglioso mentre echeggia il
coro delle donne «Ohimè che adesso io provo – Che cosa è troppo
amore...» e si svolge il melanconico duetto fra i soprani (Francesca e
Samaritana), troncato a sua volta dalle note incalzanti con le quali le
damigelle annunziano a Francesca l’arrivo di Paolo.
74 Il coro delle donne canta «O dattero fronzuto», mentre la commozione di
Francesca si stempera in uno scoppio di pianto illuminato subitamente da
un lampo d’intensa gioia alla vista del presunto sposo che si comunica
nello scultoreo recitativo «Chi ho veduto? – Ah tu ora...». S’inizia il
magnifico finale con l’a solo di violoncello sostenuto dall’oboe e dal
liuto,
mentre
l’orchestra
svolge
un
poema
musicale
suggestivo,
estasiato, il coro delle donne canta «Per la terra di maggio» e
Francesca con le sue donne che la seguono in corona va ad offrire a
Paolo una rosa vermiglia. Il coro delle donne rallenta dolcemente fino a
spegnersi, mentre la melopea orchestrale ha termine con un pianissimo
meraviglioso che suggestiona l’uditorio e lo spinge all’applauso
entusiastico. Il maestro Zandonai e gli artisti sono evocasti cinque
volte alla ribalta in un delirio di applausi.
Il 2° atto s’inizia con note gravi e a volta concitate che danno l’idea
dell’azione bellica che vi si svolge; l’orchestra la rileva e la
commenta con effetti eccellenti. Degni di rilievo: l’episodio amoroso
svolto nel duetto tra soprano e tenore, quello truce dell’arrivo di
Gianciotto, rischiarato un po’ dalla bella frase del soprano «Bevete,
mio cognato...», che l’orchestra commenta in modo supremamente squisito,
e l’altro feroce, il ferimento di Malatestino seguito dalla ripresa
della battaglia, fra il suono delle buccine e il fragore orchestrale,
che dà l’idea del combattimento accanito.
------
Ma al 2° atto, denso di movimento e di [•] bellica, ne succede uno denso
di poesia [•].
Lo inizia un delicato breve preludio [••] lettura di Francesca dell’
istoria di Lancillotto, la sua disperazione per il vino bevuto nella
torre mastra che le ha sconvolto l’anima, che si svolge nel breve duetto
tra soprano e mezzosoprano. Il canto della Ballata per festeggiare il
calen di Marzo, cioè la primavera, fragrante episodio d’alta poesia, e
poi il gran duetto tra soprano e tenore denso di passione, uno dei più
belli del genere che siano stati scritti. Squisitamente delicata la
frase del tenore «Inghirlandata di violette...», e il duetto si svolge
con crescendo paradisiaco fino all’acme del bacio nella lettura della
istoria, mentre il movimento orchestrale ha una parentesi d’acceleramento e un coro lontano inneggia alla primavera che arriva. Poi le voci
rallentano, l’orchestra volge al pianissimo imitando il sospiro d’amore
di Paolo e di Francesca. È questa la parte dell’opera che ha
impressionato, ben a ragione, maggiormente il pubblico, estasiato da
tanta ricchezza di poesia quasi mistica.
L’entusiasmo degli spettatori non ha avuto più freno e dopo tre chiamate
agli artisti hanno fatto allo Zandonai un’infinità di calorosissime
ovazioni, che hanno commosso l’illustre autore.
L’atto 4° s’inizia nel 1° quadro con un movimento orchestrale pronunziato
che ne fa presagire l’alta drammaticità. Infatti al duetto aspro e
gravido di minaccie tra soprano e tenore (Francesca e Malatestino) si
svolge l’episodio più drammatico dell’opera, l’accusa di Malatestino
contro Francesca, nel duetto tra tenore e basso. Il maestro Zandonai
nell’interpretazione di questo supremo momento tragico ha concepito
pensieri musicali che destano meraviglia ed impressione profonda, anche
maggiore di quella che si prova ascoltando il fosco duetto fra i due
bassi nel «Don Carlos».
Tutto l’avvenimento tragico dell’opera appare condensato in questo
supremo duetto, che l’orchestra sostiene e rileva nel modo più
significante, con una veracità di espressione che gli conferisce un
carattere tremendo e solenne al tempo istesso.
L’effetto di questo 1° quadro del 4° atto sull’animo degli spettatori è
decisivo quanto quello del terzo, sebbene le impressioni siano di natura
affatto diversa, anzi antagonista.
75 Il 2° quadro s’inizia con un movimento musicale mesto e doloroso, le
ricordanze si addensano nel duetto tra Francesca e Biancofiore,
ampliando il quadro di mestizia che la musica dello Zandonai pone così
bellamente in rilievo.
Ed al momento doloroso segue uno scatto di passione suprema col duetto
tra soprano e tenore, momento di ebbrezza che precede la catastrofe. La
musica ha accenti sublimi di amore delirante e canta la suprema dolcezza
della vita; ma per brevi istanti d’indicibile gaudio, giacché la
catastrofe sopraggiunge rapida e inesorabile. Le note dolorose che
seguono l’uccisione di Francesca e di Paolo con un crescendo di
bell’effetto pervengono ad un fortissimo orchestrale con cui l’opera ha
termine.
Gli artisti e il maestro Zandonai sono stati evocati numerose volte alla
ribalta alla fine dell’opera, che ha conseguito un grande e vero
successo.
-----
L’esecuzione vocale è stata mirabile per il complesso, che merita in
generale il più vivo elogio. Il soprano signorina Scavizzi è un’artista
eccellente e per mezzi vocali efficientissimi e per azione scenica
conclusiva; ha cantato la difficilissima e faticosa parte con arte
squisita meritando applausi calorosi. Il soprano signorina Donatello,
dotata di bella voce, ha cantato benissimo nella parte di Samaritana.
Il mezzosoprano signora Lombardi Arangi nella brevissima parte di
Smaragdi, che ha cantato per favore, ha avuto campo di addimostrare le
sue
qualità
di
squisita
artista
dalla
voce
calda,
voluminosa,
estesissima, dall’azione scenica impagabile. Il gruppo delle quattro
damigelle di Francesca era costituito da quattro brave artiste: la
Rettore (Biancofiore), l’Avezza (Garsenda), la Fenoglio (Donella), la
Perosio (Altichiara), le quali hanno cantato in modo eccellente, specie
nella ballata del 3° atto, e sono state applaudite.
Fra
gli
artisti
il
tenore
Caceffo
(Paolo)
ha
impressionato
favorevolmente per la sua bella, calda ed estesa voce drammatica. Ha
cantato in modo eccellente i duetti d’amore col soprano e con grande
squisitezza la frase delle violette al 3° atto, meritando gli applausi
più sinceri. Il baritono Mauceri [sic] (Gianciotto) ha sostenuto la
difficilissima parte con grande intelligenza e con mezzi vocali
eccellenti. La sua interpretazione è superiore ad ogni elogio e nel
duetto del 1° quadro dell’atto quarto con Malatestino assurge ad un’
altezza drammatica degna della massima ammirazione. Il pubblico lo ha
lungamente e meritatamente applaudito. Ed ha applaudito del pari il
tenore Nessi, che ha cantato nell’odiosa parte di Malatestino in modo
inappuntabile e con molta efficacia.
Ottimamente il baritono Menni (Ostasio), il Gi[....] (Toldo) e il
Santolini (Giullare).
Eccellenti le masse corali e l’orchestra che sotto la direzione del
grande maestro ha suonato splendidamente.
Ma una parola d’ammirazione è doverosa per quel grande artista che è
Mario Sammarco, che preposto alla direzione artistica del Massimo, ha
voluto che nel programma delle opere si comprendesse la «Francesca da
Rimini», mettendola in iscena col maggiore sfarzo. Lodevolissima altresì
è stata l’azione dell’ing. Guido Valcarenghi, rappresentante artistico
della casa Ricordi.
---------(*)
Reperto gravemente logorato nella piegatura del foglio e inoltre assai sbiadito e scritto in caratteri minuscoli, così da
non permetterne la lettura integrale.
152
76 F.P. Mulè, Il trionfo della “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai,
«L’Ora», 2-3-.3.1921
Si risale nel tempo. Cespugli che verzicano, rose che disbocciano
vermiglie nella Primavera. Per la pineta folta va sfavillando il sole, e
s’odono nella chiarità serena le storie di Tristano, di messer
Lancillotto del Lago... Le donne ascoltano cupide i giullari, con grande
allegrezza: pause brevi nel cozzo ferreo delle ire di parte che
insanguinavano le mani e le città. Così Garsenda e Biancofiore e
Antichiara [Altichiara] e Donella, le donne di Francesca, in un’ampia corte
d’una casa dei Polentani. Così Francesca, ella stessa. Gli uomini vivono
d’ambizione, d’odio, di ferocia; le donne recano in sé una più gentile
umanità: aspettano l’amore, o amano, ristabilendo, secondo il clima
storico, l’equilibrio etico della vita. Amare, morire. Canta Samaritana,
la giovine sorella di Francesca:
E si vivrà, oimè,
si vivrà tuttavia!
E il tempo fuggirà,
fuggirà sempre!
E Francesca canta con lei:
E si morrà, oimè,
si morrà tuttavia!
E il tempo fuggirà,
fuggirà sempre.
Riccardo Zandonai intrecciò le due voci feminee in guisa da risultarne –
ritmo, modulazione, colore – oltre che un rimpianto, un ammonimento,
quasi, del destino. Amare, morire: ala di vento è la vota: spira e
passa.
Riccardo Zandonai, cosciente o nell’inconsapevolezza dell’intuito, pur
seguendo la tragedia apprestatagli da Gabriele D’Annunzio, ebbe sempre
innanzi a sé quel triste umano fato, e il fato che pesa inesorabile
sulla tragedia dei due cognati nel divino canto dantesco. Per via della
sua musica la storia di Francesca e di Paolo – che, tornata dall’inferno
in terra diventa un caso comune d’adulterio – si ricongiunge, nei
momenti essenziali, col significato che Dante diede, che Dante volle
dare al peccato dei due cognati. Francesca è veramente Francesca là dove
Dante la lanciò per l’eternità, nella bufera infernale, a scontare sì la
sua pena, ma fra le braccia di Paolo. E così Paolo. Sono in Dante
spiragli pei quali s’intravede la realtà terrena della tragedia, ma
questa si compie e si purifica nell’eternità della pena. Quel che si
svolse in terra è il presupposto, l’antefatto: la tragedia di Dante è in
quanto si compie nell’inferno. Si compie e non avrà mai fine, perché la
pena continuerà senza mai fine. Da qui l’elemento della pietà,
inseparabile dall’episodio dantesco. Cattolico, Dante ha condannato, ma
uomo piange, cadendo a terra «come corpo morto», Non giustifica, ma fa
di più: divinizza. Fa intangibile quell’amore. Non fu esso un atto di
volontà, ma opera del destino. Fatalità d’amore, eternità di gastigo,
pietà: queste le tre forze strapotenti che fanno dell’episodio di
Francesca la tragedia più profonda e più originale che genio di poeta
abbia mai concepito. Quanto da essa lontane le varie ricostruzioni che
se ne sono tentate! Ugo Foscolo ammonì. E Dante, in verità, schiaccia.
Riccardo Zandonai segue, sì, come ho detto, il tessuto drammatico
apprestatogli dal D’Annunzio, ma ha nell’anima Dante. Lo hanno notato i
critici? Non so. Se non lo hanno notato, non sanno essi ancora dove sia
da ricercare il meglio, il più nobile, il più caratteristico nell’opera
77 del musicista. Peggio poi se abbiano giudicato quest’opera alla stregua
d’un qualsiasi dramma erotico. Quelli che sono i suoi pregi essenziali
potrebbero apparire difetti. Potrebbero, ad esempio, sembrar monotoni
quei passi – e sono frequenti – nei quali i dialoghi tra Francesca e
Paolo procedon quasi sui modi del canto liturgico. Musica quasi
religiosa nell’andatura grave e sostenuta delle frasi melodiche, nel
trapunto armonico, nel chiaroscuro dell’orchestra. Religiosa, dico, nel
significato assoluto che ha la parola religione: Qualcosa che supera la
volontà umana, una potenza misteriosa alla quale non puoi ribellarti e
devi soggiacere: l’amore, non sola fatalità d’amore: quella che indusse
Francesca e Paolo «ad una morte».
Solenne nella sua contenuta tenerezza è la confessione del peccato in
Dante; quasi ieraticamente parlano Francesca e Paolo nella musica di
Riccardo Zandonai. Tanto esiste nella musica il senso di religiosità
ch’io dico che una frase di Paolo, là dov’egli modula:
Inghirlandata
di violette m’appariste ieri
a una sosta
questa frase, pur nella sua freschezza ed eloquenza teatrale, sembra
turbi l’austerità di quel discorso musicale sgorgante largo, in ampi
respiri, dalla più riposta intimità dell’essere. Nulla di mondano e di
profano nella rivelazione melodica di quest’amore colpevole. È un
tradimento alla fede coniugale e al proprio sangue, pure la musica si
snoda, fluisce, si accentua in onde canore e sinfoniali che hanno qua e
là la linea severa d’un oratorio. Riccardo Zandonai ebbe ognor presente
lo spirito e il significato dell’episodio dantesco. Dolore. Tutto, o
quasi, è dolore nella rivelazione d’amore. Il fato impera. Vorrebbero le
due anime disgiungersi, ma sono sospinte irresistibilmente l’una verso
l’altra; e il grido travolgente della passione prorompe, sì, quando il
cuore più non può contenerlo, ma si dispiana tosto nella solennità della
travagliosa elegia. Sembra che Riccardo Zandonai pianga sul destino dei
due cognati nell’atto stesso in cui dà loro il linguaggio d’amore. È il
processo interiore di Dante. E se non esistesse il quinto canto dell’
Inferno, Francesca e Paolo si esprimerebbero certamente con melodie
d’altro carattere, più terrenamente, più mondanamente: spesso questa
musica d’amore non è più la veste della tragedia D’Annunziana, ma un
commento mirabile delle terzine dantesche.
Ed è qui la sua virtù essenziale e più alta, qui il suo fascino squisito
e la suggestione che essa esercita su chi è fatto per intendere. Molti
elementi, che la tragedia di Francesca ha perduto facendosi terrena, qui
ritornano riavvicinandoci a Dante.
Rivissuta così la figura di Francesca, il resto della musica ne è un
logico complemento psicologico ed estetico. L’atmosfera sentimentale e
musicale
dell’opera
s’irradia
da
Francesca
e
con
lei
s’intona
meravigliosamente. Non vale che le donne di Francesca ciarlino
spensierate col giullare, non vale che esse cantino la ballata per
salutare il marzo. Gaia, rorida, odorosa ballata, che nel suo ritmo reca
la freschezza e l’incanto della Primavera giovinetta, pure essa spande
non so qual senso di malinconia, che le viene dal dolore di Francesca.
Dolore, amore. E sempre, i contrasti di quest’opera, si colorano di
quell’amore, di quel dolore, fuoco centrale, che tutto illumina, tutto
fondendo in unità inscindibile. Anche la scena della battaglia, nel
secondo atto vertiginoso e sonoro. Quanta ferocia e quanto sangue
attorno al bisogno d’amore di Francesca! Anche l’episodio del quarto
atto
allorché
Malatestino,
perverso
e
subdolo,
uccide
Montagna
prigioniero recandone la testa avviluppata in un drappo sanguinante.
78 Troppa ferocia e troppo sangue. Vita di belve è quella. La musica di
Riccardo Zandonai rasenta il più aspro e rude realismo dipingendo a
grosse macchie di colore, perché più essa è rude ed aspra, più intendi e
ti avvicini allo stato d’animo di Francesca, al suo dolore, alla sua
passione, che trova inflessioni di spasimo indicibile e si risolve in
cadenze materiate di lacrime cocenti.
Questo contenuto di dolore si annunzia tosto, al primo atto, nella
modulazione che Riccardo Zandonai ha dato alle parole di Biancofiore,
allorché ella, chiedendo al giullare di cantare una canzone, gli dice:
Ne sa Madonna Francesca una bella,
che comincia: «Meravigliosamente
un amor mi distringe».
Una frase musicale acerbamente sconsolata, per la quale sappiamo chi sia
Francesca e come viva e a che cosa tenda. E sappiamo anche lo stile
musicale di Francesca. L’elegia tragica ha il suo deciso cominciamento.
Non fa più meraviglia che Francesca sia annunziata da un canto quasi
funebre:
Oimè che adesso io provo
che cosa è troppo amore,
Oimè ch’egli è un ardore
che il cor mi coce. Oimè
Francesca sembra nasca sulla scena e al suo tremendo destino sull’onda
desolata di questo canto modulato dalle sue donne e che trasvola dalla
voce delle donne agli strumenti, dagli strumenti sulla scena e si spande
per tutta la casa dei Polentani, e dalla casa ai clivi attorno, per la
pineta dove la luce smuore. Per virtù di canti, per virtù di suoni la
luce smuore nelle cose e nelle anime, che è apparsa Francesca e Paolo
giunge; giunge recando l’amore e la morte. È un fremere vasto, un
sussultare vasto di tutta l’orchestra. Giunge l’amore, ma in compagnia
della morte. Il triste presentimento è nell’aria, è nelle anime. È in
Francesca. Trema Francesca, sbigottita, e piange. «Tacete! Tacete!» Una
corda geme, insistente. Vorrebbe esultare e geme, insistente. Quadro
scenico, quadro drammatico, quadro musicale di bellezza sovrana, degno
in tutto della tragedia dantesca e d’un grande poeta dei suoni.
Basterebbe ad acquistar nome imperituro ad un musicista. Su esso i
venturi si fermeranno affascinati, come ad una delle maggiori realizzazioni estetiche del nostro tempo.
Ma qui ora si entra nel valore musicalmente drammatico, o teatrale che
dir si voglia, di Riccardo Zandonai. Non è il caso, in verità, di
indugiarvisi. Importa specialmente stabilire in qual modo Francesca
rivivesse nella fantasia del maestro, quello appunto che a tratti
sintetici ho tentato di fare. Il valore musicalmente drammatico di
Riccardo Zandonai è ormai noto da anni. Lo abbiamo ammirato in altre sue
opere. E qui ritorna in elaborazione di progresso.
Anche qui ciascuna persona del dramma reca la propria individualità
musicale piena e recisa, inconfondibile con quella delle altre persone.
Individualità musicale non conseguita meccanicamente con calcolato abuso
di motivi conduttori, ma pel carattere diverso della musica onde
ciascuna persona del dramma si esprime. Ho detto di Francesca. Paolo,
non ostante la diversità del tema, vive nella stessa atmosfera lirica.
Vicina a questa, come dietro un vaporoso velo d’innocenza e di
malinconia, fiorisce in tutta grazia la Samaritana, mettendo soavissime
venature di tenerezza nel fosco della tragedia. La colomba che canta.
Scabra e veemente la muscolatura melodica, armonica e strumentale di
79 Giovanni lo sciancato. Balza costui dai contrasti sonori con un rumor
secco di rugginose armature. Chi al secondo atto, in una tregua della
battaglia, si annunzia imperioso, violento, ricorruscante com’egli fa, è
fatale debba versare il sangue di Francesca e di Paolo. È fatale debba
versarlo chi, nel dialogo rivelatore con Malatestino prorompe, com’egli
fa, in ruggiti di belva. Ma quei ruggiti gli rompono l’anima. Ed è qui,
in questo fulmineo annientamento della sua vita, la sua umanità
profonda.
Senso d’umanità che manca in Malatestino, più prossimo alla belva che
all’uomo. Sinuosa e fraudolenta la sua coscienza, sinuosa e fraudolenta
sempre la musica onde si esprime. Egli è la ferocia, il sangue. Il
dialogo concitato, pauroso, formidabile tra questi due sciagurati, rotto
e balzante sul tema ferrigno e aguzzo dello Sciancato, è e rimarrà una
delle pagine più superbe del dramma musicale contemporaneo. Chi ha avuto
la concezione musicale di questo dialogo può affrontare tutti gli
argomenti e dar vita di canti e di suoni a tutte le coscienze. Egli,
pure serbandosi fedele al suo stile, è sulle orme estreme e maggiori di
Giuseppe Verdi, allorché, sceso dai vertici della forma melodrammatica
con le pagine più possenti dell’«Otello» e con l’eloquentissima,
melodica declamazione del «Falstaff» si propose dare all’Italia il
dramma e la commedia musicale italiana.
E impressa d’indelebile, aristocraticissima italianità è la «Francesca
da Rimini» di Riccardo Zandonai, il quale sa tutte le conquiste che la
musica fin qua ha fatto, ma di esse si avvale per non soffocare, come in
altri accade, ma per rendere più caratteristica l’espressione del
proprio sentimento che, anche là dove la ricerca dell’eleganza può
sembrare eccessiva, mai non perde la sua chiarezza, il suo sapore, la
sua euritmia decisamente italiana.
Ché se l’orchestra nel dovizioso susseguirsi dei ritmi è un continuo
poema, meglio che sia così: il quartetto e la sinfonia non sono soltanto
gloria straniera. E qual miracolosa tavolozza questa di Riccardo
Zandonai! Può dar fondo alla natura. E lo farà. È di razza leonina.
*
Il successo dell’opera è stato trionfale, come nelle altre città, e ciò
torna ad onore del nostro pubblico, il quale, a una prima audizione, pur
non potendo afferrare se non la grandiosità di linea e il fulgore totale
che si irradia dalla vasta mole sonora, sentì che si trovava innanzi a
un’opera d’arte di singolarissimo valore. Ma è una di quelle opere che
vanno risentite: i suoi particolari bellissimi si concedono poco alla
volta. E sono innumerevoli.
Più di venti volte fu chiamato al proscenio il maestro Zandonai, tra
ovazioni ed acclamazioni festose e convinte.
L’opera, concertata e diretta dallo stesso autore, apparve nei suoi
segreti più riposti. Gli spiriti ai quali essa obbedisce si svelarono
prodigiosamente. Riccardo Zandonai è anche uno straordinario animatore
dell’orchestra e della scena. I cantanti lo secondano mirabilmente,
mirabilmente gli obbediscono l’orchestra e i cori.
Francesca è la signora Lina Scavizzi. Creatura fremente, ella fa sentire
nelle vibrazioni della sua bella voce la mala passione che la strugge,
l’ansia, lo sbigottimento, l’ardore, il terrore onde a volta a volta è
dominata Francesca.
Paolo stupendo il tenore Socrate Caceffo, figura aitante, voce rara di
tenore, eguale e tutta argento, spontaneità di canto, nobiltà di scena.
È destinato a salire alto.
Credo che nessuno oggi possa rendere il carattere di Giovanni lo
Sciancato come lo rende il baritono Carmelo Maugeri. Egli piega la sua
magnifica, poderosa voce a tutte le inflessioni, a tutti gli accenti che
80 il creatore di una persona drammatica possa desiderare nel suo
interprete. È un artista di grande stile e di grande avvenire.
Bella la signora Maria Donatello nelle vesti di Samaritana. Figura e
canto di dolcezza e di grazia che danno una squisita commozione.
Malatestino dall’Occhio è il tenore Giuseppe Nessi. Veramente mirabile.
D’un’efficacia assoluta. Nel grande duetto con lo Sciancato raggiunge la
perfezione.
Ostasio corretto e colorito il Menni.
Vaga e soave Biancofiore la signorina Aurora Rettore ed oltremodo
musicale la signorina Maria Avezza. La ballata del terzo atto ha in loro
e nelle signore Perosio (Antichiara [Altichiara]) e Fenoglio (Donella)
quattro commendevoli esecutrici.
La signora Lombardi Arangi, per un omaggio al maestro Zandonai, assunse
la breve parte della Schiava, e la cantò naturalmente alla perfezione.
Stupendamente il tenore Gilardi nella duplice parte di ser Toldo
Berardengo e del Balestriere e il Santolini (Giullare e Torrigiano).
Intonatissimi i cori, preparati alla perfezione dal maestro Rio.
Il maestro Profeta eseguì limpidamente l’a solo di viola e il maestro
Carafa fu oltremodo ammirato pel modo veramente magistrale onde colorì
l’a solo di violoncello nel finale incantevole del primo atto.
Scenari e costumi degni del Massimo.
Mi piace terminare con una lode vivissima all’ingegner Guido Valcarenghi
che, mandato qui dalla casa Ricordi, curò in ogni più minuto particolare
l’andata in iscena dell’opera, e al comm. Mario Sammarco, direttore
artistico della stagione, la quale non potrà svolgersi se non con alto
senso di responsabilità e di decoro. Non per nulla Mario Sammarco è un
signore autentico della scena lirica.
153
Al Massimo - La seconda della “Francesca da Rimini”, «L’Ora», 4-5.3.1921
Pubblico imponente, come alla prima, elegantissimo, in ogni ordine di
posti. Oltremodo affollato anche il loggione.
Il successo dell’opera è stato iersera anche più trionfale. L’onda
continua del canto e dell’orchestra si propaga nella sala con fascino
ognor crescente.
Il nobile carattere delle melodie rifiorenti sull’elegante e modernissimo tessuto armonico solleva gli spettatori in un’atmosfera d’arte
superiore. Nulla di esteriore in questi peregrini discorsi melodici, in
queste frasi scandite e accentuate con vero travaglio di passione: tutto
è profondità scaturente in compiutezza di espressione da una poderosa
fantasia di poeta e che rende a meraviglia gli alti spiriti onde la
tragedia è pervasa.
Iersera il pubblico cominciò ad entrare nei preziosi particolari della
miracolosa partitura e qua e là, alle scene salienti, dovette fare
sforzi per contenere gli applausi e le acclamazioni, coi quali qualche
volta tentò di interrompere il fluire dei canti e dei suoni.
Quest’opera non consente interruzioni: è un’architettura lirica di
suprema compattezza ed equilibrio. Nessuno oggi disdegna il plauso del
vulgo quanto Riccardo Zandonai. Nessuna lusinga, mai, al gusto delle
platee. Fa arte, Non vuole abbassarsi fino al pubblico mediocre, ma
vuole che il pubblico s’innalzi fino a lui. E vola, in piena libertà
d’ispirazione.
Così la Francesca, mentre dà un ineffabile godimento estetico, ha sul
pubblico una sicura virtù educativa. Sono ore di vera e propria
elevazione spirituale.
Anche l’esecuzione è stata mirabilissima, da parte di tutti gli
interpreti, dell’orchestra, dei cori, i quali non sono stati preparati,
81 come per equivoco abbiamo pubblicato, dal maestro Rio, ma dal maestro
Amedeo Barbieri.
Alla fine d’ogni atto, innumerevoli chiamate al proscenio, e a Riccardo
Zandonai furono tributate feste entusiastiche e interminabili, da
commuoverlo profondamente.
154
Al Massimo - La serata d’onore di R. Zandonai, «L’Ora», 28-29.3.1921
Pubblico eletto ed imponentissimo gremì sabato l’abbagliante sala del
Massimo per rendere omaggio al maestro Riccardo Zandonai, del quale
ricorreva la serata d’onore e di addio.
Le feste che il pubblico tributò al giovane e illustre musicista sono
indescrivibili.
Le musiche profonde e affascinanti di Francesca scossero ed estasiarono
ancora una volta le anime sollevandole in un’atmosfera d’arte superiore
e strappando acclamazioni e ovazioni altissime.
E con quale ardore di stima e di simpatia cantarono i singoli interpreti. E come fu veramente grande il baritono Maugeri nel rendere la ferrea
figura di Gianciotto!
Interpreti, coristi, tutto il palcoscenico e l’orchestra si unirono alla
fine d’ogni atto al pubblico nel fare plauso al possente animatore.
La dimostrazione inobliabile culminò dopo la squisitissima, sognante
Serenata Medievale e il caratteristico Intermezzo della Conchita dello
stesso maestro Zandonai, di cui si volle ad alte grida il bis.
Il pubblico sembrava preso da delirio e la tempesta degli applausi si
prolungò per una diecina di minuti.
Il maestro, costretto a presentarsi innumerevoli volte alla ribalta,
appariva profondamente commosso di quell’ondata schietta e ardente
d’entusiasmo.
A Riccardo Zandonai dall’Impresa, dagli artisti, da estimatori ed amici
furono offerti molti doni di valore.
Al Maestro che parte con la sua gentile signora mandiamo il nostro
cordiale saluto e l’augurio fraterno che Giulietta e Romeo, l’opera alla
quale attende, sia una nuova gagliarda affermazione del suo genio
rinnovatore dell’arte musicale italiana.
Bei fasci di fiori furono offerti anche alla valorosa signora Scavizzi,
che sabato, con l’ultima della Francesca da Rimini, terminava i suoi
impegni con l’impresa.
[...]
155
Claudio Luciani, “Amor condusse noi ad una morte” - Ricordando... Una
data - Un documento del battesimo glorioso di “Francesca da Rimini”, «Il
Piccolo», 6.3.1921
La tragedia
«Amor che al cor gentil ratto s’apprende.
«Amor che a nullo amato amar perdona
«Amor condusse noi ad una morte.
Addio corte dei Polentani, con il giardino e le arcate, le colonnette e
la loggia; addio, sorella Samaritana, sorriso divino di giovinezza,
desolata e triste dell’abbandono...
È arrivato lo sposo. Egli è il più bello cavalieri del mondo.
Avventurata, avventurata colei che gli bacerà la bocca. Avanzati sola,
Francesca. Con passo lieve, tra le tue donne, Biancofiore, Altichiara,
82 Adonella: raccogli nell’arca fiorita una rosa vermiglia. Offrila allo
sposo giunto in silenzio.
Domani, fatalmente, ti troverai sospinta verso il tuo destino vermiglio.
La rosa offerta fiorirà, fiorirà in miracolo di passione e di sangue.
Domani sarà pauroso il risveglio. L’astuzia tortuosa di un notaio,
l’ambizione rapace di Ostasio e di Guido da Polenta, con l’inganno
atroce come una vendetta, ti hanno gettata nelle braccia di Gianciotto.
Inutilmente, inutilmente, cercherai lo sposo perduto, cercherai di Paolo
il Bello. Inutilmente lagrimerai la giovinezza tua, la bellezza tua,
superba e meravigliosa come un prodigio, sfiorita, nelle mani rozze di
Gianciotto...
Ma Francesca non è creatura di lagrime, di rimpianti desolati, di
nostalgie inutili. Francesca è creatura d’amore, di passione e di
sangue.
Tutta la sua vita è come la fiamma che ella tiene in pugno, senza paura.
La fiamma vibra, rosseggia, sanguina. La fiamma è bella.
Con la Morte e con la vita ella giuoca, come con una fiamma. Eccola
sulla torre di battaglia. Tra i balestrieri ed i torrigiani, tra le
balestre e le baliste e gli arganelli. Tra la lotta e la Morte. Tra la
Morte e l’Amore.
Eccola. E la parola è pronunziata. Ed il destino è segnato. Con fermi
occhi, Francesca, hai atteso il Giudizio di Dio. Senza tremare.
Tu chini gli occhi, ora, e tremi per la paura del destino segnato; per
la paura del tuo amore, di te stessa simile alla fiamma.
Eccolo colui che ti perde. Eccolo, l’adolescente Malatestino. Giunge
polveroso e sanguinante e ferito. Fatto di coraggio e di ferocia, ebbro
di tumulto e di lotta e di grida e di strage... Sulla sua adolescenza
ardente e violenta passa l’immagine di te. Tu lo sferzi, tu lo sproni,
tu l’aizzi, tu l’avvampi con la tua bellezza; tu gli ravvolgi l’anima di
fiamma...
Malatestino dall’Occhio ti ha perduto. Vi ha perduti. Ecco Gianciotto.
Ecco il ferro, ecco la Morte.
Ecco il sangue vermiglio, il destino vermiglio, fioriti dalla rosa.
Ecco la tua Vita e la tua Morte, Francesca...
La tragedia si è compiuta.
Dal tempo lontano, dal Duecento fiorito di canzoni e di storie d’amore,
balza in tutta la luce viva il poema di sangue e di lussuria.
Tutte le attese e tutti i rimpianti e tutte le esitazioni, la musica di
Riccardo Zandonai le ha dette. Ha detto il prodigio delle rose in
fioritura, ha detto l’attesa e l’amore. Ha detto l’incalzare del
Destino, inevitabile e tragico; si è piegata di dolcezza; si è rotta di
tormento.
Dalla sua arte, Francesca è balzata ancora una volta con occhi
dolcissimi e bocca violenta. Ha recato la sua anima insanguinata.
Tale noi la vedemmo, nel sogno. Tale, tra le creature tutte, superba
d’amore, ardente di lussuria, magica di bellezza.
Ancora una volta la tragedia è fiorita, come il rosaio vermiglio, nell’
arca bisantina.
E nelle nostre anime, avvinte, incalzate tormentosamente di modernità,
ha lasciato la traccia del suo profumo e del suo sangue...
156
F.d.M., La musica di Riccardo Zandonai, id.
La Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai è l’opera musicale più
notevole prodotta in quest’ultimo decennio. Poche opere, di autori
italiani, a eccezione del Mefistofele di Arrigo Boito, presentano un
complesso così notevole come questa. In generale, il melodramma – se ne
83 togliamo i tentativi originali certo, ma indubbiamente privi di quelle
caratteristiche che impongono alle folle il capolavoro dello Schumann,
del Debussy e del Gilbert – il melodramma altro non è che l’arioso del
tenore, la romanza della soprano, la cavatina, il duetto d’amore, il
quartetto e il preludio, collegati da un amalgama stentato di note: ciò
stesso fu grande presso i classici, diventa meschino, malgrado
l’orchestrazione prosopopeica, in molti moderni.
**
Riccardo Zandonai, a simiglianza in questo del suo gigantesco omonimo
germanico, il Wagner, ò fatto l’opera completa, senza legature
artificiose, senza lacune, senza pezzi, Dalla prima all’ultima nota, la
Francesca da Rimini si sostiene sempre allo stesso livello, pur avendo,
sì, quelle ondulazioni che sono proprie a tutte le musiche della natura.
È un cerchio mirabile, ogni molecola del quale è necessaria alle altre
per la saldezza della sua compagine armonica. Musica, direi, acquea,
nella quale tu senti ora il murmure delle bonacce, ora il ritmo
colossale delle maree, ora l’urlo forsennato dei cavalloni; ma che è
sempre lo stesso carattere, la stessa fluidità, la stessa ampiezza
infinita.
Più che il melodramma come comunemente va inteso, pare a me che lo
Zandonai abbia voluto realizzare la sinfonia, nella quale le voci umane
sono strumenti talvolta predominanti, ma mirabilmente fusi nel ritmo
orchestrale, sono accenti necessarii nella selva beethoveniana dei
suoni. E ciò senza quelle astrusità che taluni vogliono vedervi, poiché
a me pare che la melodia si sviluppi sin dal principio, senza soste,
unica e varia nello stesso tempo, accompagnata e scandita dal mareggiare
dell’armonia.
Lo Zandonai non à affastellato reminiscenze, non à fatto pompa
presuntuosa di erudizione: l’opera è sbocciata naturalmente dall’anima
dell’anima sua geniale e matura, è fiorita chiara e logica, limpida e
definitiva come tutti i capolavori. Ascoltandola, pare a noi che essa
non potesse essere che così; noi ci aspettavamo che essa fosse tale
quale è. E per questo il godimento è grande, per questo noi ci
abbandoniamo inconsapevolmente all’onda dei suoni, che l’anima nostra
accompagna con mille echi gioiosi.
Nel blocco cristallino dell’opera non v’à incrinature né opacità, mai.
L’amore e il dolore di Francesca, la passione e la follia di Paolo, la
gelosia e la rudezza di Gianciotto, la ferocia sinistra di Malatestino,
il candore timido di Samaritana, ànno accenti e voci universali, senza
cader mai in quelle volgarità plateali da cui pure non seppero sempre e
a bastanza difendersi musicisti fra i più eccelsi. Qui Bellini canta dal
principio alla fine una sua melodia che Beethoven e Wagner rivestono
ardentemente dei loro ritmi sonanti. Fiori purpurei di passione si
schiudono, tra una pioggia interrotta di gelsomini; il vento impetuoso
della nona sinfonia si sposa alla primavera che schiuse la porta
dell’abituro di Siegmund. E ciò è Zandonai.
**
Nella Francesca è anche mantenuto miracolosamente, oltre che il colore
delle passioni e dell’ambiente, anche quello del tempo: pregio questo di
primissimo ordine e che in ben pochi autori troviamo così perfettamente
intonato, senza stanchezze e senza distrazioni ed oblii. Il fosco e
passionale duecento forma lo sfondo anche musicale dell’opera, e ciò non
soltanto quando le vivuole e i leuti accolgono Paolo Malatesta in
Ravenna, o quando Malatestino ferito è trasportato sul ballatoio della
torre, o gli amanti leggono le istorie di Lancillotto del Lago; ma pure
nei minimi particolari, nei dialoghi delle ancelle e dei valletti, nel
gesto del Torrigiano che prepara il fuoco greco, nelle parole della
schiava, negli urli lontani del Podestà prigioniero.
84 La tragedia stessa, nella quale il D’Annunzio aveva versato a piene mani
le gemme rutilanti della sua arte animatrice, ci pare completa ora solo
che lo Zandonai vi à trasfuso l’anima sua musicale.
**
L’esecuzione è riuscita veramente impeccabile, fin da martedì, come
poche volte avviene in una prima rappresentazione. L’orchestra à
illuminato tutta la bellezza dell’opera con intelletto d’amore,
rendendone il carattere con evidenza rara.
Lina Scavizzi è la più perfetta Francesca che abbia mai calcato le
scene, poiché all’arte impeccabile, alla voce squisita accoppia la bella
persona che prese Paolo fin oltre la morte. Socrate Caceffo, dalla voce
chiara, magnificamente timbrata, è un tenore di grande avvenire: è un
Paolo eccellente. Ottimo Gianciotto il baritono Maugeri, composto,
misurato, ricco d’invidiabili mezzi vocali. Il tenore Nessi incarna a
meraviglia la figura di Malatestino.
La signora Lombardo Arangi à fatto rifulgere le sue eccezionali qualità
d’artista pure nella piccola parte della schiava.
Egregiamente ànno partecipato al successo trionfale anche gli altri
esecutori, tra cui non ultimi i cori, e la messa in iscena suggestiva e
sfarzosa,
curata
con
signorilità
e
fine
gusto
dall’Ing.
Guido
Valcarenghi e dal nostro illustre concittadino Comm. Mario Sammarco, cui
dobbiamo
il
piacere
della
direzione
artistica
di
questa
tanto
promettente stagione lirica del nostro Massimo Teatro.
---------
Ricordando... Una data - Un documento del battesimo glorioso di
«Francesca da Rimini»
Roma attendeva «Francesca» con un’ansia che era fatta di curiosità
fervida e di esaltazione vibrante. Il Poeta aveva dato alle prove tutta
la sua passione frenetica. Il «Costanzi» splendeva di una magnificenza
non mai veduta. Tutti i poeti e tutti i prosatori, tutti i critici e
tutti gli esteti eran convenuti d’ogni parte d’Italia e d’altre Nazioni
per l’avvenimento singolare e grandioso. E il successo della tragedia fu
delirante...
Sul palco scenico, il Poeta aveva al suo fianco Edoardo Scarfoglio,
Vincenzo Morello e Paolo Michetti: tre anime fraterne, tre fiaccole
dell’intellettualità più nobile, un trittico ben degno di partecipare a
tanta gloria –, ed il Poeta, raggiante, con quel suo fresco vivo e
metallico riso gioioso, riceveva gli omaggi vibranti ed incessanti che
tutti gli ammiratori con alterna vicenda gli recavano mentre ancora
dalla sala del «Costanzi» giungeva l’eco fragorosa delle acclamazioni
altissime.
In quell’ora, in quell’istante che consacrava «Francesca» alla gloria,
gli occhi e l’anima del Poeta si volsero verso un nostro concittadino
che a Roma s’era recato come per assistere alla celebrazione di un rito
sacro e solenne, e che assistendo alle prove di «Francesca» era stato
testimone
della
superba
fatica
dell’artefice,
infaticabile
e
meraviglioso. E a questo nostro collega – il Conte d’Ugenta – Egli – il
Poeta – volle offrire un ricordo singolare – il bel disegno di De
Carolis – che era il suggello fiammante di «Francesca» con le firme
autografe di tutti gli artisti che, interpretando le dramatis personæ
della tragedia, avevano contribuito al suo successo e alla sua gloria.
Oggi che la magnifica tragedia ha avuto un nuovo trionfo a traverso il
superbo poema musicale di Zandonai, vogliamo riprodurre questo originale
ricordo, in memoria di quella sera inobliabile che segnò il battesimo
glorioso di «Francesca»: una data che ci è caro rivivere con immutato
cuore, con bagliori di giovinezza e di entusiasmi inesausti e
inestinguibili........
85 -----------------------------------------------------------------------------------------
Trieste 1921 (157-158)
157
Francesca da Rimini
Lavoratore», 25.9.1921
di
R.
Zandonai
al
Politeama
Rossetti,
«Il
Assetato di buona musica, dopo una vera indigestione di operette e
riviste delle quali ben pochissime degne di considerazione per elementi
formali elevati, il pubblico affollò ieri in modo, se non superlativo,
lusinghiero per l’impresa, platea, gradinata e gallerie, e ciò
nonostante il rilevante aumento dei prezzi, che suscitò vivi commenti,
non benevoli certo per l’impresa, fra gli intellettuali squattrinati,
cui sarà tolta – a meno di una insperata vincita al lotto – la
possibilità di penetrare in quel «sancta sanctorum» riserbato ai
pescicani e bipedi affini. E saremo in vena di fare altre amare
constatazioni nei riguardi del caro-teatro se il proto, vista l’ora
tarda, non lanciasse delle occhiate così espressive da indurre
prontamente a smettere e ritornare in argomento: la tragedia musicale e
l’esecuzione. Sui caratteri estetici della «Francesca da Rimini» abbiamo
parlato a lungo due anni or sono, quando il poema d’amore e di morte dei
due cognati che Dante vede nella divina visione trasvolare per il cielo
corrusco
«come colombe dal disìo chiamate
fu allestito sulle scene del Verdi, sotto la personale direzione dello
Zandonai. Diremo soltanto che anche in questa nuova edizione, curata
dall’impresa Lovrich in modo degno d’encomio, il poema musicale che ebbe
la fortuna di ascendere la scena lirica e mantenere gagliardamente – a
differenza d’altre opere musicali germogliate dal ceppo dannunziano – ci
parve ricco di poesia e pervaso di sottile musicalità. Certo non tutto
quello che luce è oro: vi appaiono qua e là ricordanze stilistiche e
ritorni melodici, e l’enfasi a volte sostituisce la vigoria passionale e
drammatica. Ma nell’insieme è opera schietta che ritrae delle migliori
qualità artistiche del giovane maestro trentino, così italianamente
affermatosi sul nostro non troppo lieto teatro lirico. In queste opere
nelle quali il colore ha il predominio, e il compito di commentare
l’espressione lirica dei personaggi, la verità umana di lamenti e
sospiri, di passione e di odio, è affidato allo strumentale, sta in
orchestra il primo coefficiente di successo. È noto che le ottimissime
falangi orchestrali, sotto la guida dello Zandonai, ci offrirono già un
commento di suprema distinzione, delicatamente suggestivo nel gioco
continuo di luce ed ombra. Iersera la concertazione dell’opera non ci è
sembrata delle migliori: la rumorosità soverchiò spesso le voci, messe
ancora a dura prova da un eccessivo allargamento dei tempi, per cui
molte bellezze apparvero, se non perdute, molto attenuate. Dalla
genialità del maestro Barone dovevamo attenderci qualcosa di meglio, di
più cesellato.
Sul palco invece le cose andarono nel miglior modo possibile.
Gl’infelici amanti ebbero la fortuna di avere per interpreti due artisti
di indiscutibile valore: Linda Barla-Ricci e Filippo Piccaluga. Ma
bisogna convenire che gli onori massimi andarono particolarmente alla
prima, uno dei pochi soprani di schietto temperamento lirico-drammatico.
Dotata di voce ampia, purissima, sicura, vibrante di passionalità, Linda
Barla-Ricci seppe riprodurre con squisitezza poetica il carattere di
Francesca, e specialmente nell’episodio della lettura del «libro
galeotto» e del bacio fatale l’arte sua fu suscitatrice di profonda
emozione. Le fu degno compagno il tenore Piccaluga, artista di grande
avvenire, che al personaggio di Paolo conferì vigoria di mezzi vocali ed
accenti di bella espressività nell’incalzare della travolgente passione
86 amorosa. Voce dunque dall’ampio respiro, di magnifico squillo e sicura
nell’ascensione ai suoni acuti. Il baritono Enrico Roggio seppe dar
rilievo poderoso al triste personaggio di Giovanni lo sciancato, il rude
uomo di guerra: sfoggiò voce piena ed armoniosamente timbrata; l’azione
sua fu sobria, espressiva e incisiva. Un Malatestino di valore fu il
Nessi, che si affermò tanto per virtù vocali che interpretative; Ostasio
veramente efficace fu il Bevilacqua, che si fece notare per bella e
pastosa voce. Ottimi poi tutti gli altri interpreti, che contribuirono
con le loro virtù canore alla miglior riuscita dello spettacolo: la
brava Delfina Menotti, la Zappata, Gioconda Pagnini ed Etta Obersnù che
anche negli atteggiamenti rivelarono spiccato senso d’arte. La massa
corale – se si toglie qualche scusabile incertezza – apparve per
intonazione e coloriti meritevole di lode sincera.
La messa in scena, accurata, indovinato il gioco delle luci. Decoroso e
fresco il vestiario.
Per la cronaca diremo ancora che gli applausi scrosciarono frequenti
dopo ogni atto. E gl’interpreti dovettero presentarsi ripetutamente al
proscenio.
Abbiamo – così per incidenza – notato come Paolo-Pittaluga sia ben più
cavaliere del fu Paolo-Fleta. Mentre quest’ultimo lasciava cadere la
rosa vermiglia che Francesca gli porgeva, il primo la piglia, l’annusa e
se la stringe al petto.
Ci ha fatto poi impressione la crescita della trecentesca «viola d’amore, divenuta ormai... violoncello visibilissimo. Fra due anni – se
avremo il piacere di rivederla – la saluteremo contrabasso.
Questa sera seconda di «Francesca da Rimini».
158
La «Francesca da Rimini» di R.
lavoratore socialista», 25.9.21
Zandonai
al
Politeama
Rossetti,
«Il
A distanza di due anni, questa «Francesca» che grado grado sulle scene
del nostro Massimo ha saputo destare la più viva ammirazione nel
pubblico triestino, ritorna oggi fra noi, auspice l’impresa Lovrich, in
un ambiente più popolare, non però meno atto a gustare le bellezze del
geniale spartito che in breve tempo, meglio di «Melenis», del «Grillo
del focolare», di «Conchita» e di «Via della finestra» ha trovato la via
di quella fama che assegna oggi a Riccardo Zandonai uno dei posti più
eccelsi della moderna scuola italiana della musica.
A suo tempo abbiamo già rilevato il valore intrinseco dell’opera, i suoi
mirabili pregi ed i suoi difetti organici, dovuti in parte al libretto
che non sempre si presta ad essere rivestito di note, ed anche iersera
ci tornarono palesi gli stessi meriti e le stesse mende di questa
«Francesca», la cui recente esecuzione nel suo complesso poco ha da
invidiare a quella di due anni or sono.
Forse, stringendo maggiormente certi tempi, si sarebbero isnellite e
rese più agili alcune prolisse scene di fianco; comunque, ripetiamo,
queste sottigliezze non tolgono nulla al merito del maestro Giuseppe
Baroni che concertò lo spettacolo e diresse l’orchestra con minuziosa
cura di artista, ricavando dall’ottima compagine orchestrale preziosi
effetti coloristici, in perfetta fusione col palcoscenico.
Il complesso artistico è stato degno del grande successo ottenuto ieri
dall’opera. La signora Barba-Ricci [sic] è un’artista che possiede uno
squillante e simpatico timbro di voce e che facilmente si piega alla
ardua e faticosissima parte di Francesca. Essa incarnò la figura della
protagonista con grande varietà ed efficacia. Il tenore Filippo
Piccaluga, anche lui nuovo per le nostre scene, ha saputo tosto
conquistarsi le simpatie del pubblico, dotato com’è di rari mezzi vocali
87 che gli consentono di spiegare, massime nel registro più acuto, note di
squisita purezza. Egli fu un Paolo pieno di calore e si ebbe applausi
anche a scena aperta dopo le frasi appassionate. «Perché volete voi...».
Di non minore efficacia ci è sembrato il baritono Enrico Roggio
(Giovanni lo Sciancato), dal volume di voce poderoso e plastico insieme
e che possiede inoltre una preziosa qualità per un artista lirico: una
dizione chiarissima. La signora Delfina Menotti, troppo sacrificata
nella breve parte di Samaritana, si è riconfermata quella artista di
grande valore che noi abbiamo già ammirata sulle scene del Verdi.
Nella truce scena della prima parte del quarto atto, il tenore Giuseppe
Nessi ci presentò una figura di Malatestino come meglio non si sarebbe
potuto desiderare: voce squillante, dizione chiara, possesso di scena
concorsero al suo meritatissimo successo.
Nelle parti di fianco citiamo in prima linea la signorina Masetti
(Schiava) un lodevolissimo contralto, e degne di encomio sono pure le
signorine Pagnini, nostra concittadina (Altichiara), Zappata (delicato
Biancofiore), Obersnù (Garsenda) e Franzini (Adonella) ed i signori
baritono Bevilacqua (Ostasio), tenore Garroni (Ser Toldo), Brilli,
Mosetti e Prodan.
Ammirata, come al solito del resto, la carezzevole cavata del nostro
Baraldi nell’assolo del primo atto.
Né va dimenticato il coro che nella breve parte cantò magnificamente
disciplinato, massime nel delizioso primo atto.
Grazie alla competenza del direttore artistico signor Delfino Menotti,
il movimento scenico è stato molto accurato ed ammirato. Gli scenari, i
giuochi delle luci ed i vestiari furono decorosa cornice al quadro di
assieme.
A tale spettacolo il successo del pubblico non poteva mancare ed il
vasto ambiente del Politeama, gremitissimo, risuonò di applausi nutriti
e spontanei in chiusa di ogni atto. Ci furono quindici o sedici chiamate
agli artisti ed al maestro Baroni che dell’esito del riuscitissimo
spettacolo può essere ben lieto. Stasera ad ore 20 e 30 precisissime, un
tanto
vale
per
i
molesti
ritardatari,
seconda
rappresentazione
dell’applaudita «Francesca».
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Napoli 1921 (159-161)
159
B.P., “Francesca da
2.10.1921
Rimini”
di
Zandonai
al
“Politeama”,
«Roma»,
L’opera è bella. L’abbiamo già rilevato quando nella passata stagione
sancarliana fu eseguita per la prima volta fra noi, con un crescendo di
successo di rappresentazione in rappresentazione, tutte date a teatri
gremiti.
Allora fu concertata e diretta dallo stesso autore. Oggi è stata
concertata e diretta da Edoardo Vitale. E a noi l’opera di Zandonai è
piaciuta anche di più della prima edizione. È piaciuta perché questa
opera sinfonica quanto più si ascolta più interessa, e i pregi di
ispirazione e di fattura risultano maggiormente. È piaciuta perché il
Maestro Vitale ne ha data una interpretazione di reale valore. Nessun
colorito orchestrale è stato trascurato, nessun particolare è stato
obliato. I temi tutti sono stati resi chiaramente nell’orchestrale, ogni
frase melodica ha avuto il suo rilievo. Il Maestro Vitale ha dato, con
questa interpretazione della Francesca da Rimini, un’altra prova del suo
indiscutibile valore. Quando un’opera è affidata ad un interprete, ad un
direttore di orchestra così preciso quale è lui, così sicuro nella
88 distribuzione dei coloriti, nella gradazione degli effetti, si può
essere certi del risultato.
Ecco perché a noi è sembrato doveroso rivolgere, innanzi tutto, l’elogio
sentito e meritato alla esecuzione orchestrale ed alla direzione di un
Maestro che vuole e sa darci interpretazioni musicali degne veramente di
illustri scene. Il successo è stato dunque, ieri sera, principalmente
del Maestro Vitale.
Noi abbiamo sempre affermato che quando l’orchestra è affidata alla
sapiente direzione di chi sa e può, di chi è duce sicuro e un animatore
nello stesso tempo, essa sa farsi apprezzare degnamente.
Ieri sera erano gli stessi professori d’orchestra del San Carlo che
nella passata stagione, con nove direttori, non sapevano più a quale
santo votarsi. È bastato un Maestro, un solo Maestro, pel quale l’
orchestra ha fiducia, e che sa guidarla senza titubanze di sorta, con
padronanza
assoluta
degli
effetti,
perché
l’orchestra
napoletana
ritrovasse sé stessa ancora.
Dunque Francesca da Rimini ha ieri sera avuto accoglienze festose.
Numerose chiamate dopo ogni atto. Feste agli interpreti tutti e all’
illustre Direttore d’orchestra.
Un ottimo Giovanni lo sciancato è stato il baritono Stabile. Dizione
chiara, precisa, ritmica la sua, nella accentazione e nella sillabazione
nitida e nella intonazione esatta. Il baritono Stabile ha saputo essere,
più che un cantante, un interprete della parte di Gianciotto. Ecco un
cantante che ha compreso che per essere un artista non occorre avere
mezzi eccezionali; ma bastano mezzi sufficienti vocali adoperati con
gusto, con chiarezza di dizione, con la progressione concordante del
canto con quella dei sentimenti che si esprimono, rendendo così la voce
pieghevole a tutte le espressioni del personaggio che si interpreta
sulla scena. E il pubblico lo ha applaudito con convinzione e
compiacimento. La Rinolfi ha reso la parte di Francesca con sentimento e
con bella voce. È una parte che si adatta pienamente ai suoi buoni mezzi
vocali. Ed è stata applauditissima. Anche il tenore Caceffo è piaciuto
nel personaggio di Paolo. In tutte le scene con Francesca egli ha saputo
nel canto, nel declamato musicale, nella figurazione scenica del
personaggio, essere degno di encomio.
Ma tutte le altre parti ancora sono state, in questa edizione della
Francesca, presentate con speciale cura. Il gruppo delle Donne di
Francesca ha avuto brave esecutrici nelle signorine Rettore, Fabbri,
Perosio e Marini. Caratteristico giullare Giorgio Schottler, cantante
sicuro. Ottimo Ostasio il Pinza. Soave Samaritana la Agozzino. La parte
di Malatestino è stata affidata al Treves.
I cori, che il Maestro Papa ha addestrati bene, si sono fatti onore.
Tutta l’opera, dal quadro musicalmente suggestivo del primo atto nelle
case dei Polentani, con l’incontro primo di Paolo e Francesca ricco di
tanta poesia al così movimentato della scena del secondo atto sulla
torre rotonda nelle case dei Malatesti, al bellissimo terzo quadro nella
camera di Francesca, quando Paolo e Francesca apprendono il desiato viso
esser baciati da cotanto amante, al drammaticissimo della uccisione di
essi: amor condusse noi ad una morte; – tutta l’opera è squisitamente
bella nella parte sinfonica, nella ricchezza melodica, nella delineazione delle figure principali, nei particolari.
E mentre ieri sera il pubblico confermava il suo giudizio, già così
favorevolmente espresso mesi sono, un amico mi leggeva una lettera di
Zandonai, dopo il primo atto della Francesca, lettera pervenutagli
allora. Il compositore gli annunziava commosso che aveva scritto il
finale della sua opera nuovissima Giulietta e Romeo.
89 E gli applausi che il pubblico, in quel momento, rivolgeva al magnifico
primo atto evocando alla ribalta numerose volte gli esecutori, mi
sembrarono felice augurio per l’opera nuovissima e per l’arte italiana.
Questa sera si darà La forza del destino. Domani sera seconda
rappresentazione della Francesca da Rimini.
160
D[iego] P[etriccione], La «Francesca da Rimini - Il trionfo dell’opera e
degli interpreti», «Il Mezzogiorno», 27-28.10.1921
L’Impresa Torre, mettendo in scena la «Francesca da Rimini», il cui
ricordo era così vivo nel pubblico e il cui successo l’anno scorso, al
San Carlo, ebbe un crescendo impressionante, ha voluto oscurare la sua
stessa gloria, superando nella magnificenza dell’allestimento, nel
complesso degli artisti raccolti in un solo spettacolo, nell’imponenza
delle masse e nella minuzia dei particolari scenici, scenografici,
figurativi d’ogni sua precedente benemerenza. La ripresa della nobile e
affascinante opera di R. Zandonai era nei voti di tutti i buongustai di
musica.
La
incisiva
caratterizzazione
dei
personaggi,
l’inclito
andamento della melodia larga ed espressiva, la stupenda agitazione
sinfonica che solleva il discorso musicale a imponenza ora di melopea
ora di calda declamazione, la sensibilità dell’ambiente spirituale e
storico, il gusto dell’affresco leggiadro e la vastità del quadro
bellico, i fiati panici e il gran fraseggio della passione umana sono le
qualità superiori di questa tragedia lirica che trascinarono il pubblico
alla prima udizione di «Francesca». E ora le impressioni si riproducono
con identica immediatezza, anzi con maggior copia, poi che la partitura
dello Zandonai ha sempre nuovi profumi da rivelare a chi ha diligente
l’olfatto e nuove eleganze descrittive da offrire a chi studia la
dovizia orchestrale del magnifico sinfonista trentino.
«Francesca», dunque, trionfò iersera nel rispettivo aspetto dei suoi
vari quadri: drammatico, lirico, sinfonico, pittoresco.
Il merito massimo di questa netta individuazione spetta al maestro
Vitale, che mai come iersera provò di non avere scroccata l’onorificenza
di Grand’Ufficiale. Egli ha tutte inquadrate e condotte al fuoco della
ribalta le forze dell’esercito musicale: l’orchestra, che obbedì con
slancio al comando di compattezza, di omogeneità, di polifonico impasto
nel reggere la melodia vocale o nel descrivere eventi e stati d’animo; i
cori che, sotto la guida dell’eccellente maestro Papa, sostennero
l’ardua prova della battaglia sulla torre e le delicate miniature del
primo e terz’atto; gli artisti, che non solo delle loro voci furono
padroni, bensì dell’azione plastica e d’ogni reciproca concordanza di
coloriti e d’espressione drammatica.
Le manifestazioni entusiastiche al vigoroso concertatore e al direttoreinterprete del significativo sinfonismo della «Francesca», le chiamate
numerosissime alla ribalta non furono che un equo riconoscimento delle
virtù singolari di questo alacre, acuto, vivido maestro napoletano,
quotato a buon diritto tra i più emeriti dirigenti d’orchestre primarie.
La signora Rinolfi ha tutte le qualità vocali per infondere alla
protagonista il lirismo e il drammatismo di cui lo Zandonai l’ha
parimenti fornita.
Caldo il suono, robusto il volume, fluidissimo il canto, la voce di
questo soprano drammatico avvince per la chiarezza dell’espressione e
per la intensità dell’accento. Ella iersera ebbe un completo successo. E
se alla pastosa bellezza d’un organo così dotato aggiungerà una plastica
più suggestiva, sarà una Francesca ideale.
Deliziosa la De Voltri nella particina incantevole di Samaritana,
ch’ella accettò con encomiabile gesto di cortesia. Il canto accorato e
90 soave della piccola sorella dai mesti presagi fluì dolce e tenero dalla
gola aurea dello squisito soprano lirico.
Ideale Senaragdi [Smaragdi] Rina Agozzino, un’altra benemerita di questa
riproduzione della «Francesca».
Pieno d’ardore, di baldanza squillante, di facile limpidezza melodica
(egli miniò il canto delle violette), di nobile fraseggio passionale nei
due duetti, il tenore Caceffo che, anche dal lato pittorico, è un Paolo
eccezionale. Egli fu acclamatissimo, interrotto spesso dagli applausi.
Gianciotto non poteva essere impersonato con più rude potenza d’accento,
con maggiore veemenza d’ira, con più rotonda bellezza di dizione, nella
figura agitata e minacciosa, che gli conferì il baritono Stabile: un
grande attore e un cantante nobilissimo e intelligentissimo.
Aggiustato Malatestino il Treves. Stupendo Ostasio il basso Pinza, che
volle anche lui collaborare alla riuscita di questa meravigliosa
«Francesca».
Ottime le ancelle Rettore e Fabbri, Perozio [sic] e Marini, che dissero
con scrupolosa intonazione la canzone a ballo del terz’atto. Un Giullare
spigliato e misurato lo Schottler.
E non c’è da lodare nessun altro. Gloria, dunque, a Torre, che fu
chiamato iersera ben due volte alla ribalta.
«Francesca» si ripeterà venerdì. E poi continuerà la sua corsa
all’apoteosi, per almeno un mese.
Stasera «La forza del destino».
161
La lirica al Politeama - «Francesca da Rimini», «Il Giornale della
sera», 27-28.10.1921
L’impresa di Eugenio Torre ha voluto dare un’altra prova, e ancor più
convincente delle altre, della somma cura che pone nel presentare. in
questi spettacoli autunnali che cominciano a diventare una bella
tradizione, opere eseguite con complessi artistici di prim’ordine e con
grande larghezza di mezzi nell’allestimento. È giusto, pertanto, prima
di passare alla cronaca della serata, tributare una calda lode alla
impresa, che vede i suoi nobili sforzi coronati sempre meglio dal
successo.
La Francesca da Rimini aveva, dal ciclo di rappresentazioni sancarliano,
iniettato nel pubblico il filtro della sua seduzione e del suo fascino.
Chi l’aveva già sentita desiderava ardentemente di lasciarsi trasportare
ancora dalle ondate melodiche e dalle rudi e possenti polifonie dello
spartito; chi non l’aveva sentita aveva doppio desiderio di conoscerla,
per le relazioni altrui. Una stagione lirica napoletana doveva quindi
sfruttare
questo
stato
d’animo,
pur
correndo
il
rischio
degli
inevitabili confronti.
Ma diciamo subito che il valore degli interpreti, e sopra tutto la loro
messa in valore da parte di quel prodigioso animatore che è Edoardo
Vitale, han posta questa edizione di Francesca in condizioni di
gareggiare con le più accurate.
L’entusiasmo del pubblico, ieri sera, è la prova migliore di questo
giudizio; le chiamate ad ogni finale d’atto, e specialmente del primo e
del terzo (quest’ultimo una vera meraviglia per la delicatezza squisita
dell’esecuzione orchestrale e vocale), e non si contavano più. E con gli
interpreti si volle ripetute volte l’illustre direttore; e si volle
anche il maestro Papa, che aveva addestrato i cori con amore
grandissimo; e finalmente si volle anche Eugenio Torre, giustamente
ricompensato così della perfetta organizzazione dello spettacolo.
Isora Rinolfi fu dell’opera una protagonista ammiratissima. La sua
magnifica voce, calda, vibrante di passionalità nelle molteplici
91 inflessioni, trovò i migliori effetti nel grande duetto d’amore del
terzo atto, che tenne il pubblico sotto l’incanto del prodigio. Negli
altri duetti con Paolo, con Samaritana, con Biancofiore, la personalissima interprete si rivelò ancora cantante di mezzi eccezionali. Il
successo individuale di Isora Rinolfi fu in conseguenza caldissimo, tale
da poter rendere orgogliosa la squisita artista.
Un Paolo veramente eccezionale apparve il giovane tenore Socrate
Caceffo, che già avevamo ammirato in altre opere. Non ci stupisce quindi
che lo Zandonai lo abbia preferito come interprete della sua opera, per
circa 70 recite, a Carpi, a Verona, a Mantova, a Cremona, a Piacenza, al
Massimo di Palermo, ecc. Di aspetto prestante ed elegante – requisito
essenziale per un Paolo – il Caceffo ha posto nella sua difficile parte
– difficile per canto e per azione – tutta la sua vibrante anima di
artista. Voce chiara, squillante, calda, impetuosa, piena di tenerezza e
di dolcezza di inflessione nelle mirabili scene di amore: al finale del
terzo atto ebbe la sua più commossa e commovente esplosione di bellezza
lirica. Questa interpretazione di Paolo, che per il giovane tenore ha
costituito ieri un vero autentico trionfo, lo mette in primissima linea,
e noi siamo veramente lieti di constatarlo, per un giovane che si
afferma così superbamente, ma con tanta dignità di artista.
Un altro trionfo memorabile quello di Mariano Stabile, nella poderosa
parte di Gianciotto. Questo giovane baritono, divenuti illustre in breve
volger di tempo – tanto che il Toscanini non ha veduto chi meglio di lui
potesse interpretare il Falstaff scaligero –, si è appropriato del truce
personaggio in una maniera che possiamo chiamare addirittura impressionante. Dalla impetuosa «sortita» del secondo atto, via via attraverso le
manifestazioni selvagge dell’iracondo signore, fino al culminare dell’
odio fratricida, lo Stabile ha reso la primitiva brutalità di Gianciotto
con una veemenza magnifica. Il feroce zoppo non poteva trovare chi
meglio di Stabile (ricordate il meraviglioso Jago dell’anno scorso)
ne cogliesse con tanto crudo realismo la violenta anima. A questa
superba interpretazione scenica bisogna naturalmente aggiungere la
singolare potenza della voce di Stabile: ampia, ritonda, piena di
colorito e ricca di calore. La quale ha completato il valore totale
della stupenda raffigurazione del bieco personaggio.
Mafalda de Voltri, che per gentile concessione si era prestata ad una
parte di lieve importanza per una squisita cantante come lei, fu una
Samaritana piena di dolcezza e di poesia. Una delicata Biancofiore la
Rettori [Rettore]. Anche il Pinza in una piccola parte – quella di Ostasio
– spiegò il tesoro della sua magnifica voce di basso. Incisivo
Malatestino il Treves. Ottima Smaragdi la Agozzino. Un sonoro giullare
il bravo Schotter [Schottler]. Tutti gli altri perfettamente a posto. I cori
a meraviglia. L’orchestra degna della illustre e sapiente guida.
Uno spettacolo, dunque, veramente di primissimo ordine, senza nessuna
stonatura, che si replicherà molte volte e altrettante volte costituirà
un trionfo.
[...]
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Roma 1921 (162-178)
162
“Francesca” e R.
25.12.1921
Zandonai
al
Costanzi,
«Il
Giornale
d’Italia»,
L’inaugurazione della stagione lirica al “Costanzi” avverrà dunque
lunedì prossimo alle 20.30 precise, nella sera tradizionale di Santo
Stefano, con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, opera che è
tra le più acclamate di questi ultimi tempi e che per la bellezza della
92 concezione artistica e l’ampiezza delle sue linee teatrali costituisce
uno spettacolo di grande attrattiva.
La scelta di quest’opera, così italiana nella musica, il soggetto
stesso, i nomi degli autori – Riccardo Zandonai, nativo di Rovereto ora
redenta e di Gabriele d’Annunzio che ideò la magnifica tragedia –
daranno all’inaugurazione quel carattere d’italianità che era da tante
parti invocato: poiché, mentre nei teatri dell’estero si fa ora un’aspra
guerra ad opere ed artisti nostri, è giusto che in Italia almeno avvenga
la “valorizzazione” della produzione italiana. E l’inaugurare la grande
stagione lirica della Capitale con la Francesca vuol dire consacrare
anche davanti agli occhi degli stranieri la continua vitalità dell’opera
italiana, che si rinnova ed assume, come appunto in Francesca, le forme
più moderne senza divenire astrusa per il gran pubblico; e significa
anche consacrare il nome del nuovo e genialissimo operista che viene,
giovane, ad aggiungersi al gruppo famoso che fa capo a Pietro Mascagni,
a Giacomo Puccini, a Umberto Giordano, al Cilea, al Montemezzi.
Valori d’arte e valori teatrali sono questi nomi, che molto significano
all’estero. Se altri nomi, come questo di Riccardo Zandonai si
aggiungono, ascriviamolo a fortuna. Ed è necessario che il massimo
teatro della Capitale assuma anche questa funzione di utile propaganda,
quando le circostanze lo consentano.
Così lunedì sera il pubblico di Roma saluterà sul podio del “Costanzi”
Riccardo Zandonai – che si affermerà anche come direttore di singolari
attitudini, del resto già rivelate altrove – subendo il fascino della
sua musica; e saluterà in lui il giovane ed operoso artista vissuto
finora lungi da ogni scalpore, solo intento al proprio lavoro.
E nel corso della stagione il pubblico di Roma, come già per quasi tutte
le nuove opere dei nostri più amati ed acclamati autori viventi, fino al
Trittico di Puccini, fino al Piccolo Marat, sarà chiamato giustamente a
dare il primo giudizio sulla novissima opera dell’autore di Francesca,
l’opera che s’intitola anch’essa italianamente alla nostra popolarissima
ed affascinante leggenda di Giulietta e Romeo.
163
R[affaello] De Rensis,
Messaggero», 28.12.1921
“La
Francesca
da
Rimini
”
di
Zandonai,
«Il
All’inaugurazione solenne e austera dei concerti all’Augusteo è seguita
l’inaugurazione solenne e brillante del teatro Costanzi. Intorno all’uno
e all’altro una fioritura rigogliosa di canti, suoni e balli, ovunque.
Navighiamo in pieno oceano musicale e la nostra barchetta si lascia
dolcemente trascinare dalle ondate incessanti. I tormenti della
esistenza sociale, politica, intima, specie dopo il già troppo
prolungato dopo guerra, sono stati investiti dalla marea musicale che li
attenua, li annulla letificando animi, spiriti e corpi.
S’aggiunga che tanto l’Augusteo quanto il Costanzi, i due massimi
istituti della vita artistica romana, hanno riaperti i loro battenti con
lavori di autori nostri soddisfacendo un desiderio generale. Nulla di
più logico, del resto, perché non si comprende la ragione di inaugurare,
come si faceva per il passato sospinti da un falso snobismo, le nostre
più cospicue cerimonie artistiche con il riconoscimento e l’esaltazione
del genio altrui, quando di genio la nostra razza ne ha ancora da
vendere. Né sostenendo e tutelando questo diritto dell’arte nostra, come
noi abbiamo fatto in ogni occasione e da quando l’infatuazione esotica
annebbiava le menti della generazione di cui facciamo parte, facevamo
del conservatorismo servile dal quale, vivaddio, eravamo e siamo ancora
lontani; ma si trattava di una sensibilità natìa (non usiamo a bella
93 posta l’aggettivo nazionale o patriottico) ottusa nei più ed oggi per
virtù reattiva decisamente trionfante.
In un giro non lungo di anni abbiamo avuto la fortuna di assistere alla
nascita e al decadimento dell’anzidetta infatuazione esotica, col sano
ritorno ad un sentimento di razza invano conculcato e rinnegato.
Per circostanze indipendenti da ogni volontà si stava per iniziare le
rappresentazioni al Costanzi con i Maestri Cantori. Noi di quest’opera
siamo
ammiratori
caldi
e
convinti,
ma
ci
sarebbe
immensamente
dispiaciuto se avesse dovuto prendere il posto della Francesca di
Zandonai, la quale, a parte ogni paragone non possibile, aveva il
compito di caratterizzare la cerimonia inaugurale, appunto come l’ha
caratterizzata e significata.
E poi, guardate un po’ com’è interessante la figura di questo nostro
rude montanaro trentino: tozzo e quadrato, con l’occhio acuto e fisso
verso un punto lontano, forse non percettibile, cammina calmo, sereno,
senza soste, senza tornare indietro preoccupandosi appena quanto basta
di ciò che avviene intorno a lui, guadagnando terreno, attingendo
vertici; baldo e sicuro di giungere. Dove e quando, egli non lo sa e
forse non vuol saperlo: sa soltanto che cammina diritto.
Guardate invece gli altri nostri maestri giovani e di eterne belle
speranze: corrono e toccano un primo scalino, si arrestano, cadono,
ricorrono e ricadono, esercitando questo loro acrobatismo sempre nello
stesso cerchio... o circolo vizioso. E poi si piegano a destra e a
manca, innanzi e indietro, cogliendo e raccattando la materia o gli
elementi di materia per riempire la bisaccia e riversarla un bel giorno,
in forma di note e accordi, sul paziente pentagramma. Vi sono altri
maestri ancora che logorano il loro talento nella ricerca laboriosa del
nuovissimo, lasciandosi abbagliare dai trovati senza dubbio geniali ma
altrettanto personali e di natura eccezionale provenienti d’oltr’Alpe.
Essi si tengono deliberatamente discosti dall’anima e dal canto del
popolo e perciò partoriscono un’arte di eccezione e quindi di decadenza.
Sono i cosiddetti avveniristi e internazionalisti, in buona o mala fede
non importa, che si scalmanano per importare una merce ostica al nostro
palato e che da venti anni (ormai l’esperimento dura da troppo tempo per
insistervi) non ancora ottengono una sola vibrazione della psiche
collettiva.
Zandonai invece è della stirpe evoluzionista tipo immortale Verdi, e dal
tenue romanticismo del Grillo del focolare alla passionalità luminosa di
Conchita, dalla coreografia ellenica di Melenis alla tragica umanità di
Francesca, è tutto un procedere verso la conquista dell’espressione, che
a traverso un magistero tecnico indiscutibilmente formidabile deve accostare l’opera d’arte alla folla. E questo accostamento, questa
penetrazione, avvengono lentamente, sicuramente. La personalità in
germe, latente nelle prime opere, va man mano crescendo, fiorendo e
diramandosi, e con Francesca quasi carpisce quella fiaccola del genio
musicale italiano... che per buona ventura non è ancora spenta.
Zandonai, tra i suoi colleghi e coetanei di cui abbiamo fatto cenno, è
il solo o quasi che della rinascita in Italia della musica strumentale –
fenomeno importantissimo e nobilissimo – con tendenze decisamente e
giustificatamente moderniste (perché nessuno oggi s’azzarda più a
sostenere che si debba retrocedere nel passato) abbia saputo profittare
con senso squisito di misura e di equilibrio. Questa rinascita della
musica strumentale doveva influire fortemente sull’indirizzo dell’opera
teatrale; ma che il sinfonismo sia proprio quello destinato a risolvere
l’eterno conflitto fra la parola e la musica sovrapponendosi e
dominando, non abbiamo mai creduto neppure quando il fanatismo degli
strumentatori
in
Italia
inneggiava
vittorioso
all’egemonia
dell’
orchestra.
94 Ora questa fase è per nostra fortuna superata e la necessità di un’arte
più rispondente all’indole di nostra gente va affermandosi giornalmente.
Chi questa necessità istintivamente sentì subito e praticò è appunto il
maestro Zandonai che, se nel momento acuto dell’orgia strumentale per
poco non venne ricacciato nel branco dei passatisti, oggi si trova,
perché ha camminato rapido, anche più innanzi di coloro che per voler
saltare su secoli di tradizioni si sono spezzati l’osso delle reni.
Egli ha sempre ascoltato la voce immensa e multiforme del popolo, pur
non sapendola o volendola riprodurre: vi si opponeva la crisi tormentosa
di una musicalità in fieri.
L’opera
Anche dalla Francesca emerge evidente il dissidio tra la materia ancora
poco duttile e il sentimento umano schietto, ingenuo e profondo. Ed il
dissidio non è di facile risoluzione, poiché dove il dramma d’anime leva
il suo grido più alto e trova più diritte le vie del cuore delle masse,
è là che l’artista ricorre, inconsapevolmente o trascinatovi dall’
istinto, a forme meno libere, più strofiche e, diciamolo pure ché
nessuno più ormai se ne offende, tradizionali. Così alla fine del primo
atto, in quasi tutto il terzo atto, nel recitativo di Gianciotto e nel
duetto di questi col Malatestino, ecc.
Ma noi non dobbiamo giudicare in appello l’opera, che rivede per la
terza volta le scene del Costanzi e che gira per tutti i teatri. Non
dobbiamo segnalare nuovamente la bellezza poetica di tutto il primo atto
e di tutti [i] numerosi quadri descritti con mano maestra e
irresistibilmente seducenti.
Quella signorile gentilezza di ambiente ricondotta sul teatro da
Gabriele d’Annunzio non solo è stata perfettamente intesa da Zandonai ma
intensificata, illuminata con i suoi smaglianti e delicatissimi ricami
sonori.
Non dobbiamo notare la manchevolezza del secondo atto, in cui è stato
ripetuto ed aggravato l’errore dannunziano che nella riduzione del poema
drammatico a libretto avrebbe potuto essere evitato con la successione
dei due episodi: ma si capisce come anche a Zandonai, che non disdegna
le audacie, abbia sorriso la sovrapposizione del colloquio dei due
cognati sullo sfondo fragoroso della battaglia, fecondo di effetti
musicali... però non raggiunti. Né, infine, dobbiamo indicare all’
ammirazione del pubblico, che li ha compresi, ammirati, l’intero
delizioso terzo atto, la scena impressionante tra l’orbo e lo sciancato
del quarto atto, quella angosciosa e sensuale tra Paolo e Francesca. A
noi non resta che il gradito compito di registrare la lieta accoglienza
fatta all’opera e all’autore e la cronaca dell’esecuzione. La quale è
apparsa assai accurata sia dal lato musicale che da quello scenico. Il
maestro Zandonai è anche un’eccellente bacchetta che sa scoprire e
mettere in rilievo non solo le ossature tematiche e strumentali ma anche
i dettagli, gli ornamenti e i colori più tenui. E la sua opera che è,
per quanto finemente e limpidamente, assai elaborata ha bisogno appunto
di una bacchetta indagatrice, sicura, scrupolosa come la sua. Aggiungasi
che la falange orchestrale, pronta e agguerrita, gli ha ubbidito con
mirabile esattezza.
Anche gl’interpreti hanno gareggiato per valentia e volontà, a
cominciare dalla protagonista Gilda Dalla Rizza, che sebbene afflitta da
una lieve indisposizione ugolare si è mantenuta, tranne nel primo atto,
all’altezza della non facile incarnazione. Nel terzo atto, per
gentilezza e stile di movimenti, per dolcezza di canto emesso con vigile
distribuzione di respiri, ella ha data novella prova della versatilità
interpretativa che le ha reso la rinomanza di cui gode.
95 La voce tersa, vigorosa, rotonda del tenore Michele Fleta si è effusa
con fluidità ed ha perfettamente seguite le ondulazioni della sua parte;
mentre non sempre il carattere di Paolo il bello, che ce lo immaginiamo
contenuto e pensoso anche nei momenti di fervida passionalità, è stato
reso tale da lui. Piccola menda, alla quale se vuole il Fleta, che è
intelligentissimo, può facilmente riparare.
Una figura fortemente scolpita è stata quella di Gianciotto, riprodotta
dal giovane baritono Maugeri con opportuna brutalità e violenza. Nel
colloquio, che non vogliamo chiamare duetto, tra lui e Malatestino la
drammaticità della scena si è scatenata col più turbinoso vigore.
Degni di encomio il tenore Palai nei panni di Malatestino perverso e
feroce, e il baritono Besanzoni nella parte di Ostasio: meritevoli di
menzione il Malfatti (ser Toldo), De Vecchi (il Giullare), la Vitulli,
dolcissima Samaritana.
Le donne di Francesca, corrette, vivaci, rispettose, malinconiche a
seconda
delle
situazioni,
hanno
contribuito
validamente
alla
riproduzione storica e politica dell’ambiente. Le lievi danze del terzo
atto non son sembrate rispondenti e intonate al momento psicologico;
mentre i piccoli e deliziosi cori sparsi qua e là per la partitura e il
gran coro finale del secondo atto (che però per la distribuzione delle
masse hanno un po’ del vecchio melodramma) si son diffusi nell’aria
armoniosi e affiatati, del che va data lode all’istruttore maestro
Consoli.
Quando avremo nominati il régisseur Francioli e il direttore scenico
Ansaldo avremo forse non dimenticato alcun cooperatore del riuscitissimo
spettacolo inaugurale della stagione, che in tal modo si apre sotto i
più favorevoli auspici.
Alla fine di ogni atto il maestro Zandonai da solo e insieme ai
principali interpreti è stato ripetutamente evocato ed acclamato.
[...]
164
R[oberto] Forges-Davanzati, La
«L’Idea nazionale», 28.12.1921
“Francesca
da
Rimini
”
al
Costanzi,
Di aver finalmente scrollata l’inesplicabile consuetudine di inaugurare
la stagione d’opera con Wagner o con altro repertorio straniero, l’
impresa del Costanzi può esser soddisfatta. Senza discutere qui del
cosmopolitismo in arte, e anche accettandolo, si può esser facilmente
d’accordo nel dire che in casa nostra per far bene gli onori di casa
dobbiamo cominciare con rispettare noi stessi.
Di avere scelta Francesca da Rimini, lo spartito più giovanilmente sano
della nova generazione musicale, come spettacolo di inaugurazione, può
essere ancor più soddisfatta.
Iersera, nella sala del Costanzi, il gran pubblico che si ritrovava non
soltanto col desiderio di ascoltare e riascoltare Francesca ma con la
affettuosa disposizione di celebrare un rito d’arte e di buona
mondanità, s’è raccolto volentieri con slancio spontaneo nell’applauso
cordiale e ripetuto al maestro Zandonai che era sul podio a dirigere la
sua musica.
Iersera nella sala c’è stato buon calore di italianità. L’ovazione piena
e pronta che ha salutato il Re, la Regina, il Principe ereditario; le
salve
d’applausi
che
hanno
accompagnato
la
musica
fragorosa
e
sussultante dell’inno reale, si sono mirabilmente fuse con tutto il
sentimento del pubblico, felice di riconoscere nella Francesca i segni
di nobiltà di un’arte italiana. Nel grido: viva l’Italia, ch’è stato
gettato dalla galleria, non si è concluso un cerimoniale di acclamazioni
ma è stato quanto era nei cuori.
96 Quando Francesca era venuta sulle scene del “Costanzi”, il suo autore,
italiano, italianissimo, aveva tuttavia nel petto l’amarezza dell’esule.
La sua terra, il Trentino, era Italia ed era tuttavia un cuneo straniero
di prepotenza austriaca, a continua minaccia dell’Italia bella. Oggi
Riccardo Zandonai sale sul podio a inaugurare la stagione della
Capitale, di Roma che è finalmente capitale anche per la sua terra: e,
prima che il velario si apra sul fragore dell’antica contesa guelfa e
ghibellina, egli può finalmente, attaccando le note dell’inno, salutare
il suo Re che è Re anche sulla sua terra, fino al Brennero.
Viva l’Italia! E nel grido era salutata la poesia di Dante, che primo
diede a Francesca l’immortalità, era salutata la poesia di Gabriele
d’Annunzio, il poeta-soldato, era salutata la musica dell’autore redento
e che, appunto in questi accenti di italianità, aveva, prima della
guerra vittoriosa, gettato un’altra voce della stirpe.
Viva l’Italia! E tutte le cose dette e non dette, pensate e non pensate,
consapevoli o istintive, sono state raccolte da quel grido, mentre
davano a questa prima rappresentazione un’intimità appassionata che
altre volte era mancata.
E non per questo è stato sforzato il valore artistico dell’opera, il
valore dell’esecuzione. Gli applausi agli artisti e al maestro Zandonai,
ripetutamente chiamato da solo al proscenio, sono stati quali dovevano
essere: schietti, spontanei, calorosi. Per una musica che ha soprattutto
una virtù di misura stilistica; che anche dove cede alla sonorità riesce
a sfuggire la banalità retorica; che ha grazie di atteggiamenti canori,
languori accorati di passione, squisite tristezze di presentimenti.
Fra Puccini, che aveva nella Fanciulla del West ceduto ad un esotismo
violento, e Mascagni che con Isabeau s’era abbandonato ad una
esasperazione sonora ed esteriore, questa contemporanea Francesca da
Rimini del giovane trentino della nova generazione musicale si presentò
con virtù proprie, innegabili. Virtù di espressione più che di
inspirazione. Ché anche oggi, in una riposata e tranquilla accoglienza
come quella di ieri sera, le idee e gli accenti e i sentimenti musicali
dell’autore appaiono fragili, limitati. L’ampiezza sonora, alla quale,
come nel primo e nel terzo atto è possibile abbandonarsi, è più di
sviluppo decorativo che di intimità e di linguaggio melodico, anche nei
momenti di passione.
La musica non raggiunge mai profondità vive di emozione, ché anzi perde
le virtù di levità e di tenuità squisite dei momenti migliori dell’opera
quando vuol essere travolgente come nella passione durante la battaglia,
come nel colloquio finale dei due amanti prima della morte cruda. Ma
quanta grazia di accenti luminosi, quanta dolcezza triste è nel
femminile primo atto, tra le ancelle gaie e festose, l’attesa contenuta
di Francesca, l’improvviso tenerissimo sbigottimento di Samaritana!
Quale vaghezza di canto, quale atmosfera di amore e di morte è nel
femminile terzo atto, nell’ingenuità di Biancofiore, nella misteriosa
complicità di Smaragdi, nel colloquio d’amore in cui Paolo stesso è
tutto languore e smarrimento!
Queste virtù sono state iersera pienamente intese dal pubblico con una
sensibilità di gusto veramente confortante. E l’opera ha avuto la
riconsacrazione di un successo senza sottintesi.
Sotto la direzione esperta dell’autore ha prevalso, nel canto e nell’
orchestra, l’elemento decorativo di quest’opera, che si presenta ad
affreschi chiari e trasparenti, dolci e armoniosi negli episodi d’amore,
esteriore e fiacco in quello della battaglia, abile di luci e d’ombre
nell’episodio della denunzia rabbiosa di Malatestino. Questa Francesca
più che dramma di persone vive, travolte di passione in un’ora di fosca
vita e di duro battagliare, appare con una sua magia di antica istoria.
Effigiata in quadri espressivi, che improvvisamente si anima e si muove
97 in una luce lunare, così come Heine imaginava ripetersi il mito di
Gianfredo Rudello su dagli arazzi del vecchio castello, fluttuanti al
vento notturno.
Riccardo Zandonai, cui l’orchestra ha obbedito docilmente, è riuscito a
mantenere sempre l’incanto di questa evocazione e dare carattere agli
episodi, che pretendono a robustezza e incisione di accenti, come il
soliloquio di Gianciotto e di Malatestino, fortemente eseguito dal
baritono Maugeri e dal tenore Palai. Francesca era Gilda dalla Rizza, la
cui voce rotonda e disegnata era iersera velata nelle note alte per un’
incresciosa indisposizione. Paolo il tenore Fleta, un artista che ha
accenti di forza e di grazia vocali da farlo piegare alle più diverse
interpretazioni. Il pubblico li ha chiamati, con gli altri, ad ogni fine
d’atto, salutandoli di applausi meritati. Né noi sapremmo rimproverare
un difetto di drammaticità nei protagonisti, poiché, se mai, lo stile
decorativo dell’opera ci fa credere più interessante quella parte della
loro interpretazione che è sobria di gesti, rifugge dalle espansioni
canore e preferisce l’accentuazione armoniosa e la dizione scandita.
Ci parvero una stonatura le danze al terzo atto, soprattutto per quelle
ballerine in maglia e scarpini rosa, anacronistici e fastidiosissimi.
Possibile che non ne abbia per primo sentito il fastidio il maestro
Zandonai?
Tutti gli atti furono applauditi; con maggior fervore il primo e il
terzo e l’episodio di Gianciotto e Malatestino.
È nel cuore di tutti che la nuova opera di Riccardo Zandonai, Giulietta
e Romeo, sia quale merita l’arte italiana, né morta né moritura.
165
M[atteo] Incagliati, “Francesca da Rimini” di G. D’Annunzio e R.
Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 28.12.1921
Non si riascolta questa Francesca senza che la fantasia evochi le pagine
che intorno all’episodio immortalato dalle terzine dantesche scrisse in
un lampo di genialità Francesco De Sanctis.
Perché nella visione poetico-musicale di Riccardo Zandonai Francesca è
quale la scolpisce il grande critico napoletano – un’opera tutta
irradiata di luci e di fulgori, di sorrisi e di leggiadrie, un’opera
nella quale vigila e tormenta il fato sinistro della sciagura. Lo
spirito dantesco è presente, e par quasi alimenti tutta l’essenza del
contenuto musicale.
Il fascino dantesco
La Francesca dugentesca con la musica di Zandonai e con la poesia di
Gabriele d’Annunzio è dunque rinata all’arte. Vi fu nel giro dei secoli
chi tentò l’ardua ricostruzione artistica ma con tale aridità d’ispirazione e con tale pesantezza intellettualistica che lo sforzo, e meglio
il tentativo riuscito inane, non servì che a diminuire la luminosa
creazione del divino Poeta. Ben altro occorreva possedere per vincere la
prova; occorreva che un poeta come d’Annunzio rivivesse dopo Dante la
passione di Paolo e Francesca traducendola in dramma e in scene reali,
le creasse intorno una realtà fatta di poesia ed anche un ambiente quasi
di segno poetico o di visione tragica. Occorreva poi che un cuore di
musicista inspirato non rimanesse sordo alla voce che proveniva
dall’anima del poeta divino e colorisse di suoni le immagini della
fantasia dannunziana.
Un lavoro geniale dunque, che, a distanza di secoli, prende motivo dal
tema dantesco e ripete il miracolo che per lo innanzi la storia non
aveva registrato e per il quale la gloria di Francesca si rinnova e
s’illumina di luce nuova.
98 Il volo è prodigioso: dalle terzine immortali alla musica nata dalla
comunione di due nobili spiriti, in nome della bellezza e dell’arte.
Una musica che ha ormai conquistata nella universale estimazione degna
rinomanza, malgrado i lai di una critica... cesarea che non si sa se sia
più
denigratrice
dei
veri
valori
musicali
nazionali
o
più
partigianamente fautrice dei precetti e forme d’arte che il progresso
del tempo e la mutata sensibilità ha ormai sorpassati.
Peggio per quella critica, come sopra, la cui sensibilità è ottusa a
questi nuovi accenti.
Ormai la Francesca è bene e definitivamente giudicata; e nel centenario
dantesco come del resto negli anni che lo precedettero essa porta in
giro il segno della non spenta genialità italica, con quel grido della
passione umana che è di tutti i tempi, se pure espresso con nuovi
accenti e più ampii sospiri.
Ma nel seguire le vicende della rappresentazione di iersera – ed era nel
breve giro di pochi anni, pel Costanzi, la terza riapparizione di questa
opera italianamente ideata e italianamente canora – sembrò che la
Francesca stavolta destasse e accarezzasse con più molle abbandono le
sottili patetiche emozioni e tendesse a disegnare più nettamente, più
decisivamente, con il moto della tragedia gentile e truce insieme, la
poesia – amore e morte – dei due amanti infelici...
Perché, se la tragedia di Francesca è, secondo il De Sanctis, la
tragedia della donna – eternità d’amore, eternità di martirio – , la
musica di Zandonai è la musica di Francesca, di cui rispecchia
compiutamente l’anima e profila gli aspetti esteriori, psicologicamente,
esteticamente.
L’insistente motivo musicale che pervade la tragedia e tutta la investe
e la colora, fa risuonare il sottile senso di speranza, di nostalgia, di
angoscia che ne forma l’atmosfera. La melodia si profila, s’inarca e
s’inabissa – è il grido affannoso dell’amore, è l’urlo spaventoso della
paura – con tratto di una individualità ben distinta. Come Francesca
appare in scena la musica parla di lei, disvela il suo interno affanno;
ma poi, con l’incalzare della tragedia, quella melodia si ripete, si
rinnova, si amplifica. Tutte le voci dell’orchestra si fondono nelle
voci dei due amanti come ad esaltarne la passione – una passione di vita
e un presentimento di morte. Poi la tragedia gonfia e straripa...
Come in Dante, nell’opera di d’Annunzio e di Zandonai Francesca porta
segnato sulla fronte il suo destino. Questo destino – ed è qui che si
rivela la genialità del musicista – traspare attraverso la musica della
Francesca.
Il motivo di Francesca
Il fato di Francesca! Non diversamente di come intese ed eternò l’amore
della dolente dolce creatura il De Sanctis.
«Sembra – scrive il De Sanctis – che nell’anima di Francesca non possa
farsi adito altro sentimento che l’amore. Amore, Amore, Amore! Qui è la
sua felicità e qui la sua miseria!».
Ora, senza ricorrere a temi conduttori, senza la petulanza di formule
viete, senza scambiare l’arte per una esercitazione di sterile
speculazione – di questa fatalità Riccardo Zandonai par che nella sua
musica sia riuscito a cogliere e a fissare tutto il concitato palpito.
Una fatalità – la fatalità della passione, ch’è nell’anima turbata e
sconvolta di Francesca, e che la musica disegna con il libero volo della
fantasia, con la espressività cioè di una voce inascoltata per lo
innanzi – una voce che non ne ricorda altre. Tale e tant’è la forza
creatrice dell’artista.
Ma – prosegue il De Sanctis – «Francesca niente dissimula, niente
ricopre. Paolo – ella dice – mi ha amato perché io ero bella, ed io l’ho
99 amato, perché mi compiaceva di essere amata, e sentivo il piacere del
piacere di lui... Chiama «bella persona» quello di che s’invaghì Paolo,
chiama «piacere» il sentimento che ancora non abbandona; e quando Paolo
le baciò la bocca «tutto tremante», certo la carne di Paolo non tremava
per paura. Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di
voluttà».
A tant’aura di tenerezza e di dolcezza che alita nell’anima della
Francesca dantesca s’inspira e assume tono l’incanto della musica di
Zandonai, liberamente, agilmente, ma sempre con una nota di nostalgia,
con una eco di dolente angosciosa musicalità, di commossa psicologia
intima – sino a che la passione:
Amor ch’a cor gentil ratto s’apprende...
Amor ch’a nullo amato amar perdona...
Amor condusse noi ad una morte...
non prorompe, e il fremito della voluttà e la gioia del piacere non si
liberano in una melodia nuova così da divampare in fiamme ardenti da
tutte le voci dell’orchestra...
Francesca è il leit-motif, [sic] italianamente, inteso così nelle terzine
dantesche come nella musica di Zandonai. «Ella – è il De Sanctis che
parla – riempie di sé tutta la scena. Paolo è l’espressione muta di
Francesca; la corda che preme quello che la parola parla; il gesto
accompagna la voce, l’uno parla, l’altro piange, il pianto dell’uno è la
parola dell’altro: sono due colombe portate dallo stesso volere...».
Con quella intuizione ch’è propria degli artisti geniali, di Francesca
anche Riccardo Zandonai, è bene ripeterlo, riempie tutta la scena.
Francesca ha un motivo – ed è motivo d’amore e di dolore; ha un sorriso
– ed è sorriso che desta insieme il piacere e la pietà; ha un fascino di
vita, ma ahimè velato dal presentimento della sciagura. Ricordate la
voce di Francesca? «Smaragdi, lo sparviero torna?!».
La tragedia balza viva e possente dalla musica che ne illustra e ne
commenta le vicende. La voce di Francesca ha come una misteriosa
rispondenza sentimentale, e l’umanità di lei assurge subito all’
universale. E quanta umiltà, quanta bontà, quanto terrore nell’
espressività lirica dei canti ch’ella trae dalla sua anima, un’anima che
l’artista colse in tumulto d’amore. E le altre voci, sian voci di
allegrezza e sian voci di cupo terrore, e siano echi di lontani delitti,
e siano tumulti di battaglia e turbamenti di ardori, hanno tutte la loro
peculiare espressività secondo la propria anima: individualità di
caratteri, figure secondo un disegno, secondo un criterio d’arte con
impronta di valore estetico. Ah, come respira in così alterna vicenda la
fantasia del musicista! Singolare e profonda psicologia umana, di contro
alla ricostruzione dell’epoca della quale il musicista riesce a dare
l’impressione caratteristica di un determinato ambiente ch’egli ha
sognato e che ha realizzato attingendo ispirazione alle fonti della sua
fantasia. Perché la Francesca ha una sua vita umanissima il cui senso
trascende l’atmosfera storica della tragedia per assurgere al pathos di
tutte le passioni, senza mai lasciare che nel folleggiare di spiriti
diversi vada confuso lo spirito che domina ogni istante dell’opera
d’arte: lo spirito di Francesca.
E basta ciò per perdonare al musicista talune insistenze e predilezioni
strumentali. L’opera è ormai penetrata nel gusto del pubblico.
Lo spettacolo
La inaugurazione dunque della stagione lirica al Costanzi si è svolta
iersera con un tono di solennità e di orgoglio; la solennità insita alla
data ormai memoranda del Santo Stefano – e che è una tradizione
100 tipicamente italiana – e l’orgoglio di avere iniziato la serie degli
spettacoli con un’opera nazionale di un maestro nato su quei monti del
Trentino che la guerra ha restituito definitivamente all’Italia, e di un
Poeta che è tra i più nobili spiriti dell’arte. Riccardo Zandonai e
Gabriele d’Annunzio parvero così veramente, dinanzi a un pubblico
imponente – la sala era radiosa di tutte le bellezze e di tutte le
notabilità artistiche e politiche e ospitava nel palchetto di Corte la
Regina Elena, elegantissima, il Re in frak, il principe Umberto e la
principessa Mafalda –, parvero rappresentare un simbolo – il simbolo
della genialità.
La cronaca è presto fatta. Il maestro Zandonai, accolto al suo primo
apparire sul podio direttoriale da una calorosa dimostrazione, fu
festeggiato con significative e calorose dimostrazioni lungo il corso di
tutta l’opera. Duce dello spettacolo, alla sua bacchetta obbedirono con
un senso di collaborazione ammirevole e l’orchestra e i cantanti. E
quando, al chiudersi del velario, il maestro illustre era invocato a
gran voce, l’omaggio assumeva forma di affettuosa confidenza, tanta e
così diffusa era nell’animo degli spettatori la gioia di partecipare a
una festa dell’arte e di tributare a chi n’era l’esponente tutto il suo
legittimo orgoglio.
Certo, sotto la guida dell’autore, lo spettacolo non poteva non riuscire
fuso e colorito, improntato cioè a una espressività di austera bellezza.
Ogni interprete contribuì dunque al trionfo che arrise alla Francesca. E
prima d’ogni altro una fervida lode all’orchestra che suonò con slancio
e con un senso di suggestiva poesia e nella quale emerse, al finale
primo, un violoncellista insigne, il maestro Gaetano Morelli.
Di Francesca Gilda Dalla Rizza mostrò innanzi tutto d’intendere il
personaggio, che modellò in una sobria e artistica linea ed espresse con
un senso di poesia e di femminilità – con quella femminilità che durante
il terzo atto parve dare una nota di passione e di ardore e di contenuta
voluttà alla tragedia musicale. Il suo canto, ch’è sempre nobile frutto
di studio e di meditazione, si sciolse con tutto il fascino di accenti
carezzevoli e caldi. Ogni frase si delineò con pura bellezza e ogni
frammento d’amore trovò il suo motivo melico.
Ma ciò che valse a dare un’individualità a questa nuova e pur ardua
fatica di Gilda Dalla Rizza fu lo spirito di commozione da cui era
pervaso il suo canto che, trionfando di ogni difficoltà, passò agilmente
dalla linea lirica alla linea drammatica. E con un senso di gioia ella
parve sciogliere, in ultimo, le più ardite e alte note della sua gola,
sensibile com’è la voce alla intima espressività del canto.
Il tenore Fleta, un tenore ormai che ha conquistato un posto d’onore
sulla scena lirica, intese di Paolo il bello il fascino esteriore e
interiore. La sua voce è doviziosa, ha largo respiro e una disciplina
così ferrea ch’essa può passare da una tessitura all’altra con un senso
di misura e con un criterio di buon gusto. Paolo iersera cantò con le
sue più belle doviziose note, e sciolse una mezza voce così dolce da
evocare il tempo in cui – ed era in teatro Alessandro Bonci, un tenore
glorioso, un maestro – la fortuna di un artista non era riposta
solamente nelle note acute. Una mezza voce e una profusione di acuti che
dissero ed espressero tutta la passione di Paolo il bello.
Il baritono Maugeri fu un Gianciotto superbo: cantante e attore
vigoroso. Cantante dalla voce disciplinata e ricca di risorse; attore
drammatico di impeto e di ardore. La Willaume, nella parte di Smaragdi,
profuse la sua voce pastosa. La Vitulli fu una patetica Samaritana, e
cantò con voce sicura e con fine buon gusto. Il bravo tenore Palai nella
parte di Malatestino fu superiore ad ogni elogio per l’agilità e la
resistenza della voce. La Rettore espresse il personaggio di Biancofiore
101 con un senso di dolce poesia. Fuso e di bell’impeto il coro istruito dal
maestro Consoli.
Magnifico, sontuoso lo scenario, cui presiedette quel grande artista
ch’è Pericle Ansaldo, il quale riuscì a dar colorazione alla scena
dell’ultimo atto con effetti di rara suggestione.
Ed ora che la Francesca porti fortuna alla stagione del Costanzi
iniziatasi così lietamente.
166
m[atteo] i[ncagliati],
28.12.1921
“Francesca”
al
Costanzi,
«Il
Piccolo»,
27-
[...](*)
---------(*)
L’articolo riproduce quasi testualmente il paragrafo “Lo spettacolo” dal pezzo, dello stesso Incagliati, riportato dal
«Giornale d’Italia» del 28.12.1921 – cfr. n. 165.
167
g.n., La sala, «Il Piccolo», 27-28.12.1921
Ecco – per le lettrici che non hanno assistito a questo spettacolo del
Costanzi, dove ogni anno nella serata di Santo Stefano si celebra la
maggior festa dell’eleganza – ecco com’erano vestite le signore che
apparivano numerosissime in ogni ordine di posti.
Non farò una rassegna particolare delle personalità e delle loro
toilettes – la sola lista dei nomi richiederebbe uno spazio grande.
Contentiamoci di uno sguardo sintetico gettato nei palchi e nelle
poltrone per fissare le caratteristiche degli abbigliamenti come
appaiono nei loro colori e nelle loro linee generali. Nelle serate che
seguiranno, a teatro meno affollato, avremo agio di rendere più
interessante
questa
rassegna
della
eleganza
con
descrizioni
particolareggiate.
Ma incominciamo dal notare la presenza nei palchi di Corte della
famiglia reale. Il Re e la Regina siedono nel palco di proscenio, ed
alla fine del primo atto, quando il pubblico s’accorge della loro
presenza, scoppia un’ovazione prolungata con evviva al loro indirizzo: i
Sovrani,
il
principe
ereditario
e
le
principesse
si
alzano
e
s’inchinano. Il Re veste in borghese. La Regina aveva un abito di satin
mauve chiaro e portava sulle spalle una volpe grigia. Semplice e modesto
come sempre l’abbigliamento delle principesse nei loro corsages di tinte
sobrie.
Nella sala è tutto un luccichìo di paillettes, di perle di jais e di
lamés nei colori nero, granata e grigio-perla su fondi di tessuto nero e
di toni armonizzanti.
Erano drappeggiati di velluto, di satin, di crespo marocain, di chiffon,
di mantilly che mostravano ornamenti di frangie di cordonetto o di perle
di jeis, ornamenti costituiti in gran parte da panneaux ricamati di
paillettes, pendenti dai fianchi e strascicanti. Erano centurati di
nastro ciré, di fiori artificiali e di catene di metallo, e di
galaliithe.
Nessun cappello, o pochissime toques minuscole, drappeggiate a turbante
e portate specialmente nelle poltrone. Nelle pettinature predominava lo
stile semplice, rotondo, a ondulazioni, con acconciature di verreries
nere, bandeaux di perle e semplici nastri cingenti la fronte. Poche le
pettinature artistiche drappeggiate a volute e adorne di pettini di
ultima novità.
Fra le signore che ricordo di avere veduto erano degne di ammirazione la
P.ssa Giovannelli, in nero, Donna Elsie Torlonia in abbigliamento
102 grigio, la marchesa Godi di Godio. La marchesa Misciatelli. La contessa
Antonelli, signora Pavoncelli, signora Ceresa marchesa di Bagno. Donna
Ruspoli Maria Contessa di Samnuj. Marchesa Patrizi. La signora Nicolaj
in un elegante abbigliamento di duvetyne bianco adorno di astrakan nero.
La
baronessa
Compagna.
Contessa
Ceriano-Grazioli.
Signora
Falbo,
Contessa e contessine Andreozzi. Marchesa Serlupi, donna Corinna
dall’Ongaro Fabris, donna Bianca Varvaro, Principessa Maria AnticiMattei. Marchesa di Bagno, signora Vurtz, contessa Guardi, duchesse
Sforza Cesarini. Contessa Ceresa. Signora Tabanelli, contessa Rossi,
signora Montorsi, signorina Moglia, signora Romano, ecc.
168
[Cronache romane] – Costanzi, «Rivista nazionale di musica» II/58,
30.12.1921
Francesca da Rimini. – Con gli auspici del Poeta fiorentino, di cui
tutto il mondo ha testé onorato la memoria nel secentenario della
nascita (ché gli amori di Paolo e Francesca ispirano alcune fra le
pagine immortali di Dante Alighieri); nel nome del Poeta-Soldato
abruzzese cui l’Italia nuova deve non piccola parte delle sue invano
prima sognate riconquiste e della sua gloriosa vittoria, nel nome, dico,
di Gabriele D’Annunzio che plasmò con gli spunti della leggenda più
volte secolare dei due giovani amanti romagnoli la trama di un dramma
fra i più forti e passionali che siano stati scritti per il teatro; e
nel nome del trentino Riccardo Zandonai che il dramma stesso ha saputo
intensificare e completare con appropriata espressione musicale si è
italianamente inaugurata la stagione lirica romana. Come a Milano con il
Falstaff, capolavoro della commedia musicale non soltanto nostrana,
diretto da A. Toscanini, così a Roma con Francesca da Rimini, nobile ed
equilibrata opera di un ingegno meritevole della nostra maggior
considerazione e del nostro più profondo affetto, il Santo Stefano è
stato festeggiato italianamente.
R. Zandonai ha diretto personalmente la sua Francesca anche al Costanzi
dopo d’averla condotta ai trionfi degli altri teatri nostri, ed anche
sulle scene romane l’autore illustre, il direttore interprete autentico,
unitamente ai suoi collaboratori è stato acclamatissimo. In verità rare
volte si era accorsi ad una rappresentazione inaugurale con tanta
serenità di spirito come a questa di cui riferisco. Nota ormai la
capacità, anzi la forza dello Zandonai nel dirigere i suoi lavori
teatrali e sinfonici, memori perfettamente del successo che Francesca
aveva riportato or son parecchi anni sulle stesse scene del Costanzi,
desiderosi di ribattezzare non soltanto all’Augusteo il fratel nostro
già da tre anni redento, ognuno di quanti convenimmo all’atteso
spettacolo aveva la certezza di poter assistere ad una festa, ad una
grande festa dell’intelletto e dell’animo oltre che dei sensi. E
l’aspettativa non è stata delusa. L’orchestra ha suonato, specie nei
momenti di maggiore responsabilità, come meglio non avrebbe potuto
suonare; i cori, intonatissimi e disciplinatissimi, hanno fatto onore al
loro maestro Consoli, concorrendo sensibilmente alla bellezza totale
dello spettacolo; ben date e distribuite le luci sugli scenari
appropriati ed armonizzantisi pienamente con i costumi degli attori, fra
i quali Paolo il bello impersonato dal tenore Fleta degnamente;
Gianciotto rivissuto dal baritono Maugeri con tanta fierezza di accenti
e con così nobile e sicuro portamento da esser giudicato con voti
plebiscitari non solo un verosimile Gianciotto ma un artista di
prim’ordine per virtù canore e sceniche; Malatestino perfettamente a
posto nei panni e nella voce del giovane tenore Palai; Samaritana
fedelmente piagnucolosa nelle vesti della brava Vitulli ed intelligente
103 confortatrice – con il valido aiuto delle altre fide impersonate dalla
Donati, dalla Peroni [sic], dalla Porter, dalla Rettore, ecc. – della
protagonista del dramma. Della quale avrei preferito tacere se ciò
facendo non venissi meno al mio dovere.
E volentieri ne avrei taciuto perché ad eccezione del giuoco scenico,
mirabile sempre e non soltanto in questa fatica, null’altro avrei da
lodare di una Francesca reincarnata da Gilda Dalla Rizza. Essa infatti
non ci ha fatto intendere una sola delle bellissime frasi dannunziane,
né il difetto della dizione è stato velato da purezza di timbro della
voce, che, forse per la inadattabilità alla parte, aveva perduto ogni
freschezza, ogni limpidezza, ogni pieghevolezza: se fosse stata meno
piacente e meno flessuosa Paolo il bello non se ne sarebbe innamorato
più per la millesima volta ed il pubblico non le avrebbe nascosto
neppure in parte la sua delusione. C’è da augurarsi che l’impresa voglia
aggiungere ai sacrifici compiuti per allestire un così decoroso
spettacolo anche quello di mutar vesti a Francesca. L’autore per il
primo ne sarà lieto, benché egli non possa che gloriarsi del trionfale
successo rinnovatogli la sera del 28.
[...]
169
Edoardo Pompei, “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Paese»,
28.12.1921
Lo spettacolo col quale si è iniziata la stagione lirica al Costanzi ha
assunto quest’anno un carattere d’italianità che per uno sterile omaggio
alla moda esotica da parecchio tempo era stato bandito dalle solennità
inaugurali. Bisogna sinceramente rallegrarcene, tanto più che la scelta
della Francesca da Rimini, di un’opera così vasta e complessa che
congiunge insieme in una stessa visione possente di amore e di ardore,
di passione e di morte il nome del nostro più grande poeta e del più
insigne dei nostri più giovani musicisti, non poteva riuscire per la
profondità del suo contenuto poetico e musicale, per l’ampiezza delle
sue
linee
architettoniche,
più
gradita
al
pubblico
eletto
che
raccoglievasi ieri sera nella sala magnifica del Costanzi e che le
vicende sceniche, i canti e le novità di pensieri, di forme, d’impasti,
di figurazioni sonore, seguì col più vivo interesse, se pure non sempre
con profondo ed intimo convincimento.
Tra i giovani musicisti in Italia non vi è alcuno che possa eguagliare
lo Zandonai nel difficile magistero strumentale. Egli possiede non solo
il dominio assoluto della dottrina e la sapienza e la coscienza degli
effetti musicali, ma ha lo spirito audace della ricerca, la sicurezza
dinamica del grande organo orchestrale, conosce tutte le forze
sentimentali, espressive ed intime di ogni singolo strumento e di ogni
famiglia di strumenti, ed ha un temperamento particolarmente adatto a
rendere ogni colore nella infinita varietà dei toni, dei chiaroscuri,
dei contrasti.
Ma in tutto questo trapunto orchestrale, fra tanta bellezza di sottili
disegni e di arabeschi musicali, l’idea melodica non ha mai respiro
ampio e profondo e si ha la impressione che il compositore illustre,
come già nelle sue opere precedenti, miri piuttosto, nella esuberanza
dei mezzi a sua disposizione, a trascurare di proposito, per una
invincibile tendenza del suo temperamento, il periodo largo, senza
raggiungere nel declamato quella intensità di espressione, quel soffio
possente ed ampio di ispirazione che talora le situazioni sceniche
richiedono e che costituiscono e costituiranno sempre l’essenza di ogni
opera destinata a vincere gli urti del tempo.
104 La Francesca da Rimini ha valore di un antico affresco giottesco in cui
la rappresentazione pittorica si trasfiguri per un prodigio della
fantasia umana in armonia musicale. E in verità la potenza di
quest’opera, più di ogni altra sua precedente rivelatrice delle
superiori qualità del compositore, non si palesa nel disegno vigoroso
dei caratteri, concepiti ed espressi con un taglio netto, con un impeto
melodico tale da costruire la loro personalità unica e diversa, bensì
con la varietà delle tinte e con la ricchezza sinfonica.
Riccardo Zandonai non vede e non sente il profilo caratteristico di
ciascun personaggio ma intende e rende i colori degli abiti e dei fondi
sì che le figure sono spesso ombre che si muovono in una atmosfera di
colorazioni
sapienti,
leggiadre,
tenui,
dolcissime.
Ma
quando
dall’arazzo devono emergere le persone, e le passioni umane prendere
membra e voci, quando dal sogno si discende nella vita, questa appare
minore del sogno, minore, più fiacca, meno suadente: le figure erano più
vive nell’affresco velato che non sulla scena ove deve risuonare il
grido, la parola, il canto della loro passione.
Il sogno che domina nella serenità fiorita del primo atto, quando il
destino sembra clemente alle due giovinezze che «amor condusse ad una
morte», cade aspramente nella realtà del secondo atto, allorché il
contrasto di guerra e quello delle anime in pena dovrebbe essere
espresso con ben più grande robustezza di rilievi.
La battaglia è intorno per le case e per le strade e infuria e
insanguina Rimini. Ma una battaglia più violenta, un duello a vita e a
morte si combatte nelle anime di Paolo e di Francesca tra il fragore
delle arme, il saettìo dei dardi, le vampe inestinguibili del fuoco
greco sulla torre dei Malatesta. Le lotte dei partigiani dei guelfi e
dei ghibellini è colore; l’urto delle anime è vita.
Ma il colore non è efficace, non suscita la visione, non ha quel sicuro
carattere guerresco che trasporta gli spiriti più calmi nell’ardere
della mischia. L’orchestra ha fragori improvvisi, dissonanze sapienti,
abilità tecniche di contrappunto, ma non ha un ritmo netto, un valore
melodico che solo poteva dare l’illusione e la sensazione.
Così le due anime di Francesca e di Paolo, in cui l’amore arde occulto e
terribile, pronto a divampare se ode la parola che dona e perdona, se
scorge il gesto che consente; le due anime che diverranno i simboli
eterni della passione sovrumana, non hanno un accento singolare, una
espressione chiara, netta, precisa, uno di quei movimenti melodici con
cui Verdi scolpiva l’ansia, l’angoscia, la gioia, ma sono voci fioche
nel fragore della lotta atroce.
E pure quel giudizio di Dio innanzi alla finestra imbertescata, quel
Pater proferito lentamente fra il dardeggiare fitto, quel perdono
concesso da Francesca con una parola di donazione piena, potevano
assurgere a valori significativi musicali ed umani. La situazione
scenica supera l’espressione musicale. Tra i rumori della battaglia,
solo le due anime dovevano emergere. Il quadro del combattimento doveva
essere il fondo su cui i due profili si disegnavano taglienti come in
una pittura di Giotto, e nessuna accademia imitativa avrebbe dovuto
turbare la bellezza e la potenza di quella scena di perdizione.
In una situazione eguale e contraria Riccardo Zandonai è stato salvato
dalla potenza del contrasto drammatico che si determina sopra uno sfondo
di stanza, un fondo opaco senza movimento di masse. Nel primo episodio
del quart’atto, quando Malatestino rivela a Gianciotto la tresca della
bella moglie, il musicista ha una certa terribilità tragica che
impressiona profondamente.
I due fratelli, diversi di spirito ma egualmente segnati nel corpo, sono
in urto. Malatestino, perfido, insinua il sospetto nel cuore del rude
Gianciotto ed i loro accenti son melodici, hanno un severo ritmo di
105 dramma ben comentato dai legni
e dalle corde dell’orchestra.
Violoncelli, violini, clarini ed oboe danno un colore cupo e sordo a
tutta la scena.
Ma in tutti gli altri atti l’ambiente e la preoccupazione delle
colorazioni musicali dominano il maestro. Colori chiari, melodie tenui e
graziose,
declamati
eleganti
ed
armoniosi
danno
tinte
musicali
primaverili all’atto primo: vi è nelle voci e nell’orchestra come una
fiorita gaia e delicata. Le modulazioni vocali ed il comento vario e
leggero diffondono negli ascoltatori un senso di freschezza e di poesia
che non sarà dimenticato. Nell’atto terzo, l’atto del sogno, l’atto del
bacio tremendo e divino, i colori sono sparsi con ricchezza magnifica.
Colori d’ambiente, non melodia di anime, atmosfera musicale, non grido
schietto di passione, eleganze formali, non disegno sobrio e serrato.
Arte decorativa, non sagoma di creature vive, impressa a punta di ferro
sulla parete che deve essere accesa dalla pittura.
E la fosca tragedia, nell’ultimo episodio, si spegne nel sangue senza
che il fiotto rosso fiammeggi sulla scena. Ombre e non persone. «Noi che
tingemmo il mondo di sanguigno» grida Francesca nel verso immortale: qui
non vi è il mondo ed il sangue non gronda.
L’abilità tecnica, il buon gusto, le eleganze formali, le armoniose
accademie musicali non hanno energia di trasportare nella musica le
persone del Canto V. I morti di Dante giacciono solitari e lontani!
L’opera ha avuto nel suo complesso una esecuzione magnifica. Dirigeva
l’autore. Piccolo, pallido, magro, nervoso, con gli spiriti della vita
raccolti e sfavillanti nelle pupille, il maestro Zandonai appare un
animatore della scena e sorge gagliardo e impetuoso fra gli strumenti
dell’orchestra in faccia al palcoscenico.
Il suo sguardo lucido sostiene la forza degli artisti, afferra nella sua
rapina le musiche espresse dalle note, si solleva sull’orchestra vasta.
Il gesto accompagna lo sguardo: gesto netto, sicuro, significativo, e al
suo richiamo misterioso e possente tutte le anime vibrano come un’anima
sola; tutte le volontà si tendono come una volontà sola, come l’anima,
la volontà, il cuore di Riccardo Zandonai, che solo da poco tempo alle
fatiche della composizione ha aggiunto quella della direzione, rivelando
anche qui una bella energia comunicativa, un’anima ardente, appassionata, impetuosa, una nuova espressione della sua arte ammaliatrice,
lusingatrice dei cuori umani.
Egli ha tradotto la sua visione nell’animo degli esecutori e degli
ascoltatori, evocato le immagini, temperato i suoni, moderati i colori,
ottenendo effetti non raggiunti nella edizione precedente.
Successo dunque assai lieto al quale ha notevolmente concorso la
collaborazione preziosa dell’orchestra e degli esecutori rivelatisi
tutti degni dell’opera d’arte e della solennità inaugurale.
Gilda Dalla Rizza, la cantante deliziosa, così cara al nostro pubblico,
superò senza sforzo e con invidiabile sicurezza l’ardua e faticosa
tessitura della sua parte, avvincendo come sempre l’uditorio col fascino
della sua voce, coll’arte mirabile del suo canto. Né l’attrice apparve
inferiore alla cantante poiché nel gesto, nella grazia e nella
leggiadria della persona ella seppe rendere il personaggio con robusto
rilievo.
Il tenore Michele Fleta per l’estensione e la duttilità della sua voce
potente e vigorosa negli acuti, delicatissima nelle sfumature, vellutata
nelle note medie, rese con grande efficacia la figura di Paolo, e il
baritono Maugeri fu un Gianciotto eccezionale per potenza e bellezza di
voce, per maestrìa di canto, per talento interpretativo. Ed ottimo
Malatestino il tenore Palai, che si distinse specialmente nel grande
duetto del quarto atto. Né vanno dimenticate la Vetulli [Vitulli] nella
106 parte di Samaritana e il gruppo delle quattro ancelle formato dalla
Rettore, dalla Porter, dalla Peroni [sic] e dalla Donati.
I cori, guidati dal maestro Achille Consoli, si distinsero per bravura e
per fusione.
Ricchissimi veramente e improntati ad un grande senso d’arte i quadri
scenici e i costumi.
Interpreti e autore furono più volte evocati al proscenio alla fine di
ogni atto fra interminabili ovazioni.
[...]
170
Alberto Gasco, “Francesca da Rimini” di R. Zandonai, «La Tribuna»,
28.12.1921
Un altro “Santo Stefano” con buona musica, cantanti pregevoli, dame
seminude, uomini in marsina, piccoli pettegolezzi e flirts magnifici,
sentenze di conoscitori e sorrisi di snobs infrolliti. L’inaugurazione
della stagione d’opera al “Costanzi” è sempre un gaio avvenimento d’arte
e di eleganza, atteso dal pubblico con impazienza estrema. Coloro che
hanno il portafogli ben guernito o che possono contare su qualche
biglietto di favore si mostrano pieni di fiducia per la nuova stagione;
gli altri affettano una diffidenza profonda od anche un olimpico
disprezzo. È giusto che sia così. Per spiegazioni, rivolgersi ad Esopo.
Tout bien consideré, riconosciamo che il programma lirico di quest’anno
si presenta copioso ed eclettico, sì da soddisfare alle generali
esigenze. D’altra parte, notando come il massimo teatro d’opera della
Capitale si trovi abbandonato a sé stesso in un periodo di crisi acuta
in quanto esso non riceve aiuti dallo Stato, non ha mecenati su cui fare
affidamento e riceve dal Comune di Roma una somma che fa pietà, dato il
valore odierno della moneta, notando questo increscioso stato di cose,
siamo tratti a dichiarare che la gestione del “Costanzi” costituisce un
rischio tremendo per un’impresa che voglia conciliare le ragioni
dell’arte con quelle dell’industria e allestire spettacoli degni d’alto
rispetto come appunto quello che iersera ci è stato offerto.
Bene inteso, se questo eccellente inizio di stagione non avesse un
seguito e l’impresa tradisse le sue solenni promesse, considerando il
“cartellone” come un qualsiasi... atto diplomatico destinato ad essere
strappato a tempo opportuno, noi protesteremmo e strilleremmo ad
oltranza: tuttavia, per il momento, dobbiamo ritenerci paghi e
soddisfatti. Il Santo Stefano del 1921 ha avuto tutta la giocondità
mondana e la sontuosità artistica che desideravamo.
Riccardo Zandonai è venuto personalmente a ripresentarci la sua
Francesca da Rimini che in questi ultimi anni ha girato il mondo sotto
l’egida della fortuna. Abbiamo ritrovato Francesca prospera, formosa ed
eloquente: quella, insomma, che già altre volte aveva destato in noi un
interesse vivace. L’opera, ormai, si è imposta alla estimazione del
pubblico internazionale ed è entrata a far parte del repertorio lirico
moderno: sarebbe sterile e ingrata fatica rinnovare adesso l’esame
meticoloso della partitura. Non tutto è oro, non tutto è luce: ma l’oro
non è soltanto nelle chiome di Francesca e la luce del pomeriggio di
primavera passa, a tratti, nell’orchestra fervida di vita e di grazia. I
momenti di schietta poesia non sono rari – basta citare la conclusione
del primo atto e tutto il terzo episodio che culmina con la lettura del
libro galeotto – ma essi non vanno a discapito del dramma che,
segnatamente nelle scene iniziali del quarto atto, prorompe con una
violenza impressionante.
Come già altra volta abbiamo detto, l’opera dello Zandonai, pur senza
avere una individualità piena, si distacca alquanto dalle solite forme
107 del melodramma italiano contemporaneo. Si nota in essa una insolita
dignità di stile, una ricchezza di dettagli sinfonici e un quasi totale
abbandono delle viete formule retoriche che tanto hanno nociuto, presso
gli aristarchi della critica internazionale, al buon nome dei nostri
operisti.
Se Wagner di tanto in tanto fa capolino, non mai si comporta da padrone
e se nel tessuto armonico e orchestrale si avverte l’influenza dei
modernissimi maestri d’oltralpe, è da escludersi tuttavia che lo
Zandonai soggiaccia alla tirannia di costoro: egli riesce a mantenersi
abbastanza libero, per quanto non possa aspirare alla qualifica di
innovatore.
Lo ripetiamo: questa Francesca da Rimini, che trascorre giorni tanto
felici, va considerata come l’opera egregia di un periodo di
transizione: melodica quanto basta per accarezzare il pubblico,
armoniosa senza ricercatezze stucchevoli, irrobustita ma non appesantita
da una molteplicità di elementi sinfonici, varia d’accenti e spesso vaga
di colori, ha sopra tutto il pregio dell’equilibrio e del buon gusto. Se
Giulietta, che è prossima a venire al mondo, avrà il fascino di
Francesca, saremo soddisfatti; se vincerà la sua maggiore sorella in
abbondanza di concetti e di solidità di impianto tematico, canteremo a
voce spiegata la nostra allegrezza.
Il giudizio espresso iersera dallo stupendo uditorio del “Costanzi”
sulla musica di Francesca è stato di calorosa simpatia. Si è formato
subito un corteo in onore della Ravennate e la bella peccatrice è
passata tra acclamazioni di festa. Soltanto al secondo atto dell’opera,
pieno di fracasso e non di peregrine idee musicali, il pubblico ha avuto
un attimo di esitazione. È un peccato che Francesca non possa liberarsi
da questa bardatura di guerra. Sembra che la botte di resina ardente
manganata dagli armigeri di Gianciotto riversi sugli spettatori non
fuoco ma ghiaccio. Per contro, il finale dell’atto primo – pagina così
elevatamente poetica da far vibrare di tenerezza anche il cuore di un
coccodrillo feroce –, il terzo quadro con i suoi delicati arcaismi
orchestrali e le sue larghe ondate di melodia armoniosa, come pure la
prima parte dell’ultimo atto, aspra, rombante di minaccie, superbamente
drammatica, sono state apprezzate a giusto limite. Non abbiamo fatto il
conto delle chiamate al proscenio: certamente però lo Zandonai e i suoi
interpreti si debbono essere presentati almeno una ventina di volte a
ringraziare l’uditorio plaudente. In complesso, dunque, una serata di
esultanza. Ci è oltremodo gradito segnalare la vittoria incontestabile
della musica di Riccardo Zandonai e l’assoluto trionfo della tragedia
dannunziana, creazione d’arte schietta il cui valore col procedere degli
anni e con il raffinarsi del gusto del pubblico appare sempre più
sicuro. Paolo e Francesca, Gianciotto e Malatestino sono creature vere –
grazie a Dio – e non simboli: il loro linguaggio, a volta a volta, ci
incanta blandamente o ci atterrisce; il loro gesto ha non soltanto
un’evidenza
tragica
ma
una
forza
d’umanità
che
tutta
avvince
l’attenzione nostra.
Al successo dello spettacolo ha contribuito in larga misura l’
esecuzione. Artisti scelti con singolare acume, orchestra volonterosa ed
abile, massa corale potentissima, mise en scène di sfarzo regale. Ogni
dettaglio è stato curato con la sollecitudine più scrupolosa. Questa
edizione
della
Francesca
da
Rimini
dimostra
che
l’impresa
del
“Costanzi”, quando vuole, può compiere prodigi, anche con i mezzi
limitati dei quali le è dato disporre.
Gilda Dalla Rizza ci aveva fatto tremare, negli scorsi giorni, per la
sua salute. Si diceva che ella giacesse in letto con la febbre a
cinquanta gradi – o poco meno – vigilata da cerusici di vaglia. Invece
doveva trattarsi di indisposizione assai passeggera poiché la bella e
108 valente artista, riconquistate di colpo le forze, si è potuta presentare
iersera nell’ardua parte di “Francesca” e conquistarsi l’applauso della
folla unanime. Col procedere della serata la Della Rizza [sic] sembrava
che acquistasse nuovo vigore; al terzo atto ella è stata letteralmente
affascinante, sia per la soavità del fraseggio che per la sincerità
degli scatti di passione, sia per la mirabile ricchezza dell’abbigliamento che per la signorile armoniosità del giuoco scenico.
L’interprete leggiadra e commossa ha trovato nel tenore Fleta un
compagno di meriti non comuni. “Paolo il bello” è stato confortato
iersera, al terzo atto, da un’ovazione a scena aperta. A sua volta, il
baritono Maugeri, un “Gianciotto” formidabilmente espressivo, ha avuto
nei brani culminanti dell’atto quarto, accenti di memorabile fierezza.
Grande artista questo Maugeri, sbucato dall’ombra e impostosi d’un
tratto, quasi con la violenza, alla generale considerazione.
Non dobbiamo essere avari di lodi verso il giovane tenore Palai,
cantante e attore di infinite risorse, che ha impersonato “Malatestino”
con vera perfezione. Buona la Vitulli nella parte piagnucolosa di
“Samaritana” e oltremodo notevole la Willaume, una “Smaragdi” degna in
tutto e per tutto di stare presso a Francesca e confortarla nell’attesa
d’amore. Le altre parti, di minore rilievo, sono state sostenute, spesso
con bravura, dalla Donati, dalla Peroni [sic], dalla Porter, dalla
Rettore, ecc.
Scenarii di una magnificenza superlativa. Specialmente al primo e al
terzo atto, il quadro scenico ha costituito una vera festa per gli occhi
dei felici mortali presenti allo spettacolo. È facile, tirando le somme,
concludere che questa Francesca da Rimini, artisticamente tanto
pregevole e allestita senza risparmio di tempo e di spesa, avrà al
“Costanzi” un largo seguito di rappresentazioni fortunate. Intanto,
stasera i Maestri Cantori di Wagner ci chiamano all’appello. Nessuno fra
gli intellettuali romani vorrà mancare al convegno. Siamo intesi: alle
20,15 precise! I ritardatari saranno linciati e appesi al lucernario del
teatro.
Avvisiamo premurosamente di questo giusto ukase i tardigradi che iersera
ci hanno funestato durante l’audizione di quasi tutto il primo atto
della Francesca da Rimini...
171
a.d.d., Francesca da Rimini di R. Zandonai, «La Voce repubblicana»,
28.12.1921
Riccardo Zandonai è un musicista che sa il fatto suo. Diligente, esperto
nell’uso sapiente della tecnica orchestrale, accurato, misurato. Non ha
esuberanze e non ha eccessive parsimonie; non ricerca facili effetti e
non trascura tutte le risorse teatrali. Si sente che egli è padrone di
una consumata esperienza, dalla quale ormai ha poco o nulla da imparare.
Ma questa sua Francesca è povera di idee, o per lo meno di idee
notevoli. La vicenda tragica dei due amanti, trasumanati nel respiro
oceanico
della
poesia
dantesca
e
rievocati
in
una
suggestiva
riproduzione
di
ambiente
dal
virtuosismo
pittorico
di
Gabriele
D’Annunzio, parla all’anima delle folle con un fascino gagliardo.
Riesprimere col linguaggio dei suoni la tragedia significa allargare
ancora i confini della passione umana segnati dalla poesia e trarre
scaturigini di sentimento capaci di creare intorno al cuore e alla
fantasia dello spettatore una irresistibile gamma di sensazioni e di
emozioni.
Riccardo Zandonai invece non ha né sconcertato né trascinato il
pubblico: lo ha invitato a gustare graziosi motivi decorativi, colorite
pennellate di sfondo, miniature e quadretti simpatici, ma la grande,
109 prorompente anima del lirismo è rimasta sorda ai richiami del travaglio
d’amore e dello schianto di morte.
Eppure la volontà del compositore sembra indirizzata verso la lampada
della lirica, di cui fin’ora abbiamo soltanto una preziosa preparazione
orchestrale. Il passaggio dalla Francesca a Giulietta e Romeo non può e
non deve significare altro. Auguriamoci che il fuoco del canto d’amore
nasca questa volta con uno sprazzo di faville che non si spegneranno.
L’insieme dello spettacolo allestito dall’impresa del Costanzi era
decoroso. Cantanti ed orchestra sono apparsi fusi sotto la guida di una
vigile e scrupolosa direzione. L’autore è stato secondato da un’
orchestra valorosa; Gilda Della Rizza [sic] ha cantato con calore e la sua
voce ha raggiunto tutti gli effetti di una difficile tessitura. Molto
apprezzato il tenore Fleta per la sua voce calda ed estesa e per una
chiara dizione che ha dato rilievo alla pallida e dolente figura di
Paolo. Attore efficace e cantante robusto il baritono Maugini [Maugeri]
(Giannetto) [Gianciotto] e veramente ottimo il tenore Palai nella veste del
perverso Malatestino.
Notevoli la Vetulli [sic], il baritono Besanzoni, il Malfatti, il De
Vecchi e le donne di Francesca. Molto disciplinati i cori istruiti dal
maestro Consoli, per quanto sarebbe opportuno non schierarli sul
proscenio in primo piano al finale del secondo atto. Gli scenari buoni,
specialmente quelli del terzo atto. Il maestro Zandonai è stato il
piccolo prodigio animatore dello spettacolo che il pubblico numeroso ed
eletto ha apprezzato ed acclamato ad ogni fine di atto.
[...]
172
F., “Francesca da Rimini” al Costanzi, «L’Epoca», 28.12.1921
L’inaugurazione della “stagione” lirica al “Costanzi” può essere e non
essere un notevole avvenimento artistico, ma è sempre un eccezionale
avvenimento mondano: la prima grande riunione di tutta l’élite della
capitale dopo le vacanze estive ed autunnali, la prima grande
esposizione di toilettes invernali, la prima rassegna delle “novità”
della stagione: cronaca, critica, pettegolezzo, malignazioni...
Ho assistito iersera, ahimè, alla ventesima “inaugurazione” e ho sentito
i medesimi discorsi degli anni passati, sebbene non abbia visto le
stesse persone.
Le fanciulle, i giovinetti attendono la “serata” del Santo Stefano con
una impazienza, con un’ansia singolarissima; hanno sentito ripetere
cento volte, a casa, nelle famiglie amiche, al the danzante che quella è
la seratissima per eccellenza, che esser notate, che avere un successo
di eleganza e di grazia fra tanta esposizione di ricchezze e di bellezze
è premio generoso per ogni più faticosa, costosa e intelligente
“preparazione”. Ma le mamme dai capelli bianchi o grigi – quando non
sono eternamente biondi o ramati – par che provino un gusto speciale a
smontare i facili entusiasmi della figliuolanza anelante a dolci
emozioni.
-La solita piena, si sa. I prezzi alti oggi non fanno più paura. Ma che
sala, dio mio. Dove son più quelle eleganze raffinate, aristocratiche,
mirabili degli anni scorsi? Gente nuova, gente grossolana, gente buffa,
stasera.
-Ma c’è la principessa A, la duchessa B, la contessa C...
-Eccezioni, figliuola mia. Quanta gente si conosce? Poca, poca, poca...
La folla, la grande folla, nei palchi e nelle poltrone, è fatta di nuovi
ricchi, ottima clientela per il botteghino, magra soddisfazione per chi
ricorda altri tempi, altre sale, altri sfolgorii di diademi e di
collane; gioie degli occhi che non tornano più...
110 -Come la giovinezza, mammà!
E segue la conversazione, con piccole variazioni sul tema ma che
ripetono più o meno esattamente le chiacchiere di due, di cinque, di
dieci anni fa. Sempre deliziosi i tempi andati per le mamme non più
giovani, dalle quali le fanciulle di oggi, le mamme e le nonne di
domani, apprendono l’arte di dir male delle “nuove generazioni” che se
ne infischiano e continuano a divertirsi come prima, meglio di prima...
***
Si comincia con un’opera di repertorio; e la critica cede il posto alla
cronaca.
-La «Francesca»! Ma perché non ce la fanno sentire tutti gli anni? È
l’opera che prediligo fra le ultime venute ad arricchire il repertorio
italiano.
È la marchesa Di Bagno che parla così. E n’è felicissimo Nicolino d’Atri
– il diminutivo può continuare per altri cinquant’anni – perché Riccardo
Zandonai è un poco “opera” sua: l’ha scoperto lui. Mascagni sostiene
invece che l’aveva già scoperto da un pezzo, da quando l’ebbe discepolo
al Liceo musicale di Pesaro.
E il rappresentante di Casa Ricordi sostiene che il merito principale è
di don Giulio Ricordi che aiutò con sicura fede il giovinetto, malgrado
i tiepidi successi del Grillo del focolare, di Conchita e di Melenis.
Zandonai ringrazia con commosso cuore. Ma forse pensa che si è aiutato
soprattutto da sé, col suo talento, con il suo studio, con la sua fede.
E noi auguriamo ch’egli vada ben lontano su la via de la fortuna
artistica, perch’egli è certamente il migliore dei giovani musicisti
italiani – nel mondo della musica si è giovani fino a cinquant’anni: ed
è da pochissimo tempo infatti che non sentiamo più parlare della
“giovane scuola italiana” quando si tratti di Puccini, Mascagni,
Leoncavallo, Giordano – e non si concede riposi, così che anche
quest’anno assisteremo ad una sua nuova opera, Giulietta e Romeo, alla
quale si può fare l’augurio più lieto, sperando che le arrida il
successo che dal suo primo apparire sulle scene ha accompagnato la
Francesca da Rimini.
***
Un critico dei più severi, lodando nel suo complesso quest’opera di
giovinezza che segna tuttavia la compiuta maturità del talento musicale
e della sapienza tecnica di Riccardo Zandonai, affermò che la Francesca
avrebbe guadagnato in snellezza e in bellezza con la soppressione del
secondo atto: inutile e farraginoso.
Il giudizio è certamente acre, per quanto tutti debbano riconoscere che
il secondo sia l’atto meno felice dei quattro: poche idee e molto
rumore. E tuttavia iersera anche il second’atto è stato ascoltato con
deferenza e con interesse – ma quei trombettieri sul palcoscenico non
potrebbero suonare l’inno di vittoria rivolti ai combattenti del...
retroscena anziché rivolti al pubblico? – perché esso rivela nello
Zandonai quel valente sinfonista che più tardi abbiamo meglio apprezzato
nelle sale di concerti e perché il musicista trentino, pur quando la
invenzione gli fa difetto, sa sfruttare con squisita abilità i temi che
presceglie, tenendosi sapientemente lontano – anche quando l’occasione
lo tenti come nell’atto della battaglia – da quella clamorosa banalità,
da quel vuoto polifonismo orgiastico che altri maestri italiani, e non
soltanto
italiani,
c’infliggono
assai
spesso
con
incosciente
compiacenza.
Riccardo Zandonai è un maestro del colore; nella Francesca sono
pennellate di una vivezza, di una freschezza, di una grazia che fanno
pensare a un musicista consumato nei lenocini dell’Arte. E il colore non
è a scapito della melodia che nel primo e nel terzo atto trabocca dal
111 canto gentile delle ancelle come nel duetto del bacio, così vibrante di
indomita passione.
Non canto quadrato, non melodia a lungo metraggio; ma declamato
melodico, ma largo, ampio fraseggio melodico che segna in più punti la
più felice fusione dell’espressione poetica e musicale: passo risoluto
tra le antiche forme e le nuove dell’arte melodrammatica nostra, che può
allontanarsi fino a un certo punto dalla tradizione melodica italiana e
può concedere quel tanto che non offuschi la bellezza del discorso, del
canto melodico al commento orchestrale.
***
Francesca da Rimini è stata ascoltata iersera con crescente diletto,
dalla prima all’ultima scena. E il gran pubblico che affollava il
“Costanzi” è stato assai lieto di applaudire, oltre che l’autore, il
concertatore e direttore d’orchestra pieno di energia, animatore
eccellente di masse, pieno di nervi e di passione, coloritore
efficacissimo della sua mirabile partitura.
L’orchestra, a sua volta, ha ben risposto ai richiami vivaci, sottili,
amorosi dell’insigne maestro; così come il coro è stato impeccabile
sotto la guida del maestro Consoli.
Il pubblico ha appreso con schietto compiacimento che Gilda Dalla Rizza
si era rimessa dalla lieve indisposizione che l’aveva colpita giungendo
a Roma e che avrebbe indossato ancora una volta le vesti eleganti della
celebre peccatrice.
La Dalla Rizza ci ha dato una nuova, mirabile interpretazione della
Francesca. la sua voce stupenda, la sua dizione raffinata, il suo gesto
signoreggiato da una non comune intelligenza artistica, dànno il più
alto rilievo ad ogni scena, ad ogni frase. Spira dal suo volto una
languida tristezza che solo nel bacio di Paolo si tramuta in gioia
veemente tetragona ad ogni preoccupazione. E la tristezza o la gioia si
trasfondono con magnifica trasparenza dal volto nella voce, così ch’ella
ci dà l’impressione squisita di una vivente realtà scenica, non facile
ad ottenersi sul teatro di prosa, assai più difficile a raggiungersi nel
teatro di musica.
Il tenore Fleta ci è parso bene a posto nella parte di Paolo: bel
giovane, ha perfezionato il suo canto togliendogli molte di quelle
ineguaglianze che sminuivano il valore della sua bella voce. Sta in
scena con signorile correttezza ed è certo uno dei più sicuri elementi
di successo di questa interpretazione, che conta anche un ottimo
Gianciotto,
il
Maugeri,
baritono
dalla
voce
potente
ed
attore
efficacissimo, e un eccellente Malatestino, il tenore Palai, che potremo
ancora meglio apprezzare in parti più importanti. La Vetulli [sic] – la
Samaritana – e le quattro ancelle – le signorine Rettore, Porter,
Pieroni [sic] e Donati – sono degne dell’insieme.
Elegante e accurato l’allestimento scenico.
Gli applausi sono stati molti e calorosi. E fanno prevedere un gran
numero di repliche dell’opera di Zandonai. Intanto stasera in seconda
recita di abbonamento, prima rappresentazione dei Maestri Cantori di
Wagner, sotto la direzione del maestro Reiner. Lo spettacolo comincia
alle 20.15. Niente paura: si va a cena un po’ prima. E, del resto,
peggio per i ritardatari!
173
L.T., La serata inaugurale al Costanzi, «Il Popolo romano», 28.12.1921
Non c’è da disperare nell’avvenire economico d’Italia. Iersera, malgrado
i prezzi enormi, il Costanzi era pieno. E tutta la gente intervenuta
mostrava il volto ilare di chi non ha lasciato a casa nessuna
preoccupazione.
112 C’erano più diamanti sul seno delle signore che non vi siano stelle
nello zodiaco. E nel sorriso delle dame, che è sempre un po’ il
termometro delle borse dei mariti, c’era l’augusta serenità di chi ha,
appesa sul retropalco, una pelliccia da venticinquemila lire. Dopo di
che andate a negare che la vita è bella e che i pallidi economisti non
sono gli eunuchi dello spirito.
Signora Emma Carelli, voi potete ancor più calcare la mano sui vostri
prezzi (per rifarvi, s’intende, del disastro finanziario dell’anno
scorso); ci sarà sempre della gente che accorrerà fidente a voi, come
belando inconscio l’agnellino allo scannatoio.
Tutta la più eletta aristocrazia e la borghesia dei più fini generi
(assai notato in preponderanza il genere alimentare) era rappresentata
alla cerimonia votiva di Santo Stefano. Tutti gli intenditori ufficiosi
ed ufficiali della musica avevan preso posto per tempo sugli scanni del
loro tribunale senza appello.
Allorché la marcia reale ha annunciato la Corte, la sala presentava
veramente uno spettacolo che, per rimanere nella tradizione delle parole
di etichetta, poteva dirsi imponente.
A un tratto le lampade si spengono e nel silenzio azzurrognolo solcato
di mobili iridescenze (sono le pietre preziose delle dame?) la bacchetta
di Zandonai batte il colpettino di avviso. In un’atmosfera da mistero
eleusino la Francesca si inizia.
E si vivrà, oimè
e si vivrà tuttavia
e il tempo fuggirà,
fuggirà sempre!...
O sì, spaventosamente su te sfugge il tempo, Francesca di Zandonai.
Quanti anni son passati per te dal 1914? Innumerevoli. Sei vecchia.
Questa è la sensazione dolorosa che io ho avuto di te iersera. Vecchia
d’una vecchiezza spaventosamente precoce. Oimè, che i venditori di
aromati, di pomate, di lavande hanno oggi tutto adulterato e sotto la
loro patina falsa il fiore della carne viva non avrà più durata
dell’emerocallide!
Ma è forse l’ora di abbandonare la perifrasi fiorita. Zandonai può
dall’alto della ormai sua indiscutibile celebrità e del suo chiaro e
fortissimo ingegno ascoltare le parole brevi e precise che, se non
altro, manifestano una opinione onesta.
Francesca deve la sua vecchiezza precoce, secondo me, al suo respiro:
respiro breve, poco ossigeno, senza di che la giovinezza muore per
fatalità organica.
Anche le opere musicali sono un po’ come le creature umane: non c’è buon
respiro senza una inspirazione profonda. È l’inspirazione profonda che
manca a Zandonai, sempre. Egli tutto apprese dal suo maestro tranne che
questo: il segreto dell’inspirazione.
Francesca non ha un’anima: ha dei piccoli frammenti di animule
primordiali, saldati tra loro da un mastice caduco di cui, volatilizzate
le resine tenaci, non rimane che creta friabile. Sette anni son bastati
a render creta il mastice della forma; e la sostanza, eterogenea, si è
dispersa. Troppo ha cercato un valore, Zandonai – e troppo vi ha
confidato – nel lenocinio della forma armonica e strumentale come chi
troppo si indugia a seguire nei suoi più minimi particolari una moda
immanente. Ne viene di conseguenza – come ne è venuto all’autore di
Francesca – che l’abito troppo aderente alla moda di un tempo non è più
portabile quando, anche di poco, questa moda muti. E in sette anni la
moda è mutata assai. Nuovi disegni, nuovi colori, nuove armonie di tagli
113 e di scorci si stanno già da tempo negli ateliers della creazione
musicale preparando.
Francesca senz’anima, con un vestito fuori tempo, chi più si volgerà ai
tuoi richiami tra poco?
E si morrà, oimè
e si morrà tuttavia
E il tempo fuggirà,
fuggirà sempre!...
Né ti fidare degli applausi di iersera, Francesca. I pubblici delle
grandi occasioni sono infidi assai e se ne vanno via come “le
gallinelle” per poco che la “stella Diana” della moda li attiri verso un
altro quadrante del cielo musicale.
Zandonai: tutto il mio augurio fervido e sincero per la nuova battaglia
imminente: Giulietta e Romeo.
***
La cronaca ha registrato iersera infinite chiamate ed entusiasmo
delirante: per l’autore e per gli esecutori i quali tutti, cori
compresi, veramente hanno fatto il loro possibile per raggiungere il
buono affiatamento. La Dalla Rizza – che ormai conosciamo da tempo
immemorabile: non è forse divenuta una interprete inamovibile al
Costanzi? – è sempre una elettissima artista anche quando come iersera
il suo canto è lievemente nasale.
Il Fleta – nuovo cantore di moda – ha nella sua voce ancor non
completamente trenata, elementi simpatici e promettenti.
Il Palai mostra di voler avere un personalissimo stile di canto, la qual
cosa è oltremodo lodevole.
174
a[driano] b[elli], La Francesca da Rimini del maestro Zandonai, «Il
Corriere d’Italia», 28.12.1921
Lo spettacolo inaugurale della grande stagione lirica di carnevalequaresima al Costanzi è riuscito ottimo sotto ogni riguardo.
I sovrani, insieme con il principe ereditario e le Principesse, hanno
voluto assistere allo spettacolo, ed il pubblico l’ha salutati con
grandi applausi.
L’ampia sala era uno splendore: ovunque una folla innumerevole che non
lasciava libero il minimo spazio: tutto un pubblico intellettuale, che
ha seguito col massimo interesse l’opera dello Zandonai ed ha mostrato
di gustarne ogni bellezza ed apprezzarne l’odierna pregevole esecuzione.
Francesca da Rimini, passata in sette anni di vita attraverso i più
disparati pubblici suscitando ovunque i più schietti entusiasmi, è opera
che oramai non si discute più. La musica dello Zandonai piace e piace
molto, perché i suoni sono in sapiente armonia tra loro, perché ogni
situazione risulta in modo scultoreo ed ha pagine che vi cullano in una
vera atmosfera di sogno, e perché l’armonizzazione è moderna senza
pedestri imitazioni, e l’orchestra robusta, completa in modo mirabile il
dramma. La melodia ha respiro breve ma è sempre convincente e rende
perfettamente il senso della parola. Alla tragedia medioevale il
musicista è riuscito a dare il colore di cose remote che le si addice.
Il primo atto è di una felice efficacia descrittiva e nel finale il
musicista diviene un colorista impareggiabile. La melodia riboccante di
tenerezze affidata alla “viola pomposa” e il canto dolcissimo delle
donne «Per la terra di maggio...» sopra il morbido accompagnamento
orchestrale sono di una suggestiva e trascinante bellezza che non si
discute. Basterebbe il terzo atto con il suo continuo progresso di
114 magnifici effetti per far decretare il trionfo all’autore genialissimo,
padrone assoluto della tecnica e del teatro.
Il pubblico acclamò vivamente e calorosamente l’autore, tanto più che
ieri sera si presentava sotto una veste nuova: quella di concertatore e
direttore d’orchestra. E fu una vera e assoluta rivelazione. Lo Zandonai
si è mostrato un concertatore poderosissimo. Il secondo atto così vario
e complesso, così movimentato, che assurge al finale ad una strapotente
sonorità corale ed orchestrale, ci apparve di una chiarezza mirabile per
merito di lui, che seppe far risaltare ogni tema ed ogni attacco ed ogni
frase in modo scultoreo. Riccardo Zandonai è un grande, grandissimo
direttore di orchestra e il pubblico gli decretò così un doppio trionfo.
Protagonista Gilda Dalla Rizza, la quale, quantunque indisposta, non ha
voluto negare il contributo della sua arte al grande avvenimento. La sua
voce, animata sempre da un grande calore di espressione, rese la parte
con grande efficacia. Scenicamente compose con bella linea la figura di
Francesca e riuscì così nelle dolci e soavi scene del primo atto come in
quelle di sgomento, di dolore e di passione e di disperazione del resto
dell’opera, sempre efficacissima, e seppe farsi ammirare e applaudire
dall’imponente uditorio. L’opera si presenta un po’ grave per lei e noi
vorremmo che l’intelligentissima artista abbandonasse un genere che
potrà esserle fatale.
Nella parte di Paolo il tenore Michele Fleta confermò la buona fama
conquistatasi già lo scorso anno. Disse tutta la parte, irta di enormi
difficoltà di tessitura, con grande arte e giusta espressione riuscendo
a rendere con uguale perfezione la mezza voce e gli acuti più poderosi.
Fu applauditissimo.
Il baritono Carmelo Maugeri diede per robusta voce e per vigoria di
accento un ottimo risalto alla parte di Gianciotto e così anche
efficacissimo si mostrò Nello Palai in quella molto difficile vocalmente
e scenicamente di Malatestino.
Le parti secondarie tutte ottime: la Vitulli (Samaritana), la Rettore
(Biancofiore), la Porter (Garsenda), la Zerovio [sic] (Altichiara), la
Donati (Donella), la Willaume (la schiava), il Malfatti (ser Toldo), il
Marcotto (il Balestriere), De Petris (il Torrigiano).
I cori benissimo istruiti dal maestro Achille Consoli, a cui per stasera
nei Maestri Cantori è riservata la prova del fuoco.
175
La sera del Santo Stefano al Costanzi, «Il Tempo», 27.12.1921
Ieri sera il Costanzi era bello a vedersi, pieno sino all’orlo,
raggiante di luce e di bellezze muliebri. Un pubblico enorme e
sceltissimo s’era dato convegno nell’elegante e armoniosa sala per
assistere, dopo molti mesi di silenzio, alla solenne riapertura della
stagione lirica. Tutte le figure più note dell’arte e della mondanità
erano presenti alla recita della Francesca da Rimini di Riccardo
Zandonai, che venne accolta con un continuo e spontaneo favore. La
esecuzione, sotto ogni rapporto accurata e vivace, contribuì a rendere
vittoriosa e felice questa serata dell’inaugurazione. Già fin dall’
inizio, al suo uscire, il maestro Zandonai salito sul podio venne fatto
segno ad una cordiale manifestazione di simpatia.
Alla fine del primo atto, che fu ascoltato come tutto il resto dell’
opera con religiosa e deferente attenzione, il pubblico plaudente volle
chiamare con grido unanime il giovane compositore trentino alla ribalta.
Per parecchie volte il maestro Zandonai fu costretto a presentarsi,
accolto da battimani fragorosi e incessanti, prima con gli artisti e poi
da solo nella luce e nella gloria violenta. Uguali accoglienze ottennero
il secondo, il terzo e il quarto atto; il successo insomma, decisamente
115 delineato al principio della recita, si mantenne ugualmente caldo ed
entusiastico sino alla fine.
La celebrata artista Gilda dalla Rizza, che sosteneva la parte della
protagonista, assolse con grandissimo valore e incomparabile semplicità
e chiarezza di mezzi il difficile compito che le venne assegnato. Questa
artista che si dà sempre con passione, anima e corpo all’arte sua, non
avrebbe potuto rappresentare con maggior delicatezza e con più calda
intelligenza il personaggio di Francesca da Rimini. Essa suscitò
naturalmente nel pubblico romano, che la conosce e la predilige anche
per la squisitezza immacolata della sua intonazione, un entusiasmo senza
limiti.
Il giovanissimo tenore Fleta, che si fece favorevolmente conoscere al
Costanzi durante la scorsa stagione, fu, nella parte di Paolo il bello,
cantante ed attore misurato e felice; la bellezza dei suoi mezzi e
l’impeto ricco di giovinezza che egli mette nelle frasi più salienti
dell’opera gli valsero le più lusinghiere accoglienze.
Il baritono signor Maugeri, Gianciotto, fu per noi una rivelazione
lietissima: non conoscevamo nemmeno per nome questo cantante e questo
attore dal temperamento così irruento e dall’intelligenza così ardente;
non abbiamo qui il tempo di fare analisi, ci basti dire che egli
possiede le più virili e autentiche qualità di un artista.
Il tenore Palai, Malatestino dall’occhio, fu anch’egli una vera e degna
sorpresa di questa stagione appena incominciata: la sua maniera
tagliente e precisa, il suo accento crudele e quel modo chiaro e
violento di scoppiare con la voce valsero a dare il massimo rilievo al
carattere che egli doveva rappresentare. Tanto egli che il baritono
Maugeri contribuirono decisamente al successo della recita.
Anche la signorina Vitulli, il signor Malfatti e tutti gli altri di cui
ora ci sfugge il nome, consorsero a completare la bellezza del quadro e
la dignità della esecuzione musicale. L’orchestra, diretta con grande
foga dallo stesso autore, fu spesso ammirevole; i cori fecero miracoli e
le scene furono decorose.
Assistevano alla rappresentazione le LL. MM. il Re e la Regina, il
Principe ereditario, la Principessa Mafalda, con i rispettivi seguiti.
[...]
176
Al Teatro Costanzi torna la “Francesca da Rimini” poema di vita e di
passione, attraverso le possenti armonie di Riccardo Zandonai e nella
magnifica interpretazione di Gilda Dalla Rizza, di Michele Fleta e di
Carmelo Maugeri, «La Maschera» II/28, 28.12.1921
[a centro pagina: sonetto firma RE-BECCHINO]
Gilda Dalla Rizza
Tu che sprigioni, col gorgheggio alato,
la melodia ch’ogni fibra tocca,
perdona se vogliamo celebrato
il gran fastigio della grande bocca!
Dicci chi fu che modulò le note
nella gola sublime, ammaliatrice?
È un divino poter quello che puote
fare il divino... ch’all’uman non lice.
Signora eccelsa di virtù preclari:
nell’arte, fiera, ben sicura avanzi...
Luce Tu sei fra tanti luminari!
116 I maestri s’inchinano d’innanzi
a quei trilli canori, senza pari,
che, perfetti, regali nel Costanzi!
L’opera
È accaduto per la Francesca da Rimini di Zandonai quel che avviene per
le opere migliori di altri musicisti. Tornando – alla distanza di
diversi anni – desideratissima – sulle scene del Costanzi – vi ha
ritrovato le magnifiche accoglienze che la salutarono la prima volta al
suo apparire. Gli è che la Francesca da Rimini è di quelle opere che –
riascoltandole – danno modo di meglio gustare le varie bellezze in esse
racchiuse. E ieri sera, in virtù di una esecuzione quanto mai efficace,
l’opera dello Zandonai ha riportato nuovamente un autentico completo
successo.
L’opera di Riccardo Zandonai – quarta di una produzione nobilissima –
suscitò deferenti discussioni da parte di critici e di musicisti, i
quali, incontentabili come sono, cercavano di scindere la personalità
dell’autore: vale a dire separavano il sinfonista dall’autore di teatro,
giacché per loro il valore poetico del primo atto non poteva amalgamarsi
con quello drammatico del secondo e con quello passionale del terzo.
Se allora queste osservazioni potevano sembrare opportune, oggi invece,
dopo aver udite con serenità di spirito le passionali melodie di Paolo e
Francesca, la nostra impressione è di un’ammirazione incondizionata.
La musica di Zandonai nella Francesca da Rimini, al par di quella di
Conchita, ha una vita tutta propria, ha caratteristiche tutte speciali
che si estrinsecano in una lirica atmosfera musicale – di alto pregio –.
Non ci si venga a dire che il sinfonista soverchia di gran lunga
l’autore teatrale, poiché in Francesca da Rimini riscontriamo qualità
dell’uno e dell’altro che procedono di pari passo e si fondono in un
tutto inscindibile.
Zandonai è un semplice e puro illustratore del quadro scenico nel finale
del primo atto, in cui l’incontro di Paolo e Francesca è degnamente
accompagnato da strumenti imitanti la violetta, il piffero, il liuto; è
un ottimo colorista nei coretti e nelle danze delle donzelle
inghirlandate nel terzo atto; ma è soprattutto un melodista che lirizza
e canta nel duetto tra Paolo e Francesca. Anzi, si può dire che la
Francesca da Rimini contenga musica melodica e cantabile che riconduce
le voci alla grande tradizione nostra, mentre l’orchestra si limita a
descrivere, a commentare le melodie vocali.
Riccardo Zandonai nella Francesca da Rimini ha dato libero sfogo al
canto. Distaccandosi dalle opere precedenti, egli canta con spontaneità,
con sincerità, con vera sentimentalità italiana, sicché troviamo interi
periodi melodici che assumono valore drammatico e senso musicale
ispiratissimo.
Lo stridente contrasto che si rileva nel secondo atto che con le
possenti sonorità e i suoi coloriti accesi sembra quasi una stornatura
fra la squisita delicatezza del primo e la passionalità del terzo atto,
è da ricercarsi nelle natura del libretto. Ed è appunto per secondare lo
svolgimento dell’azione che lo Zandonai si rimette alla sua sapienza di
sinfonista e di colorista. Infatti l’orchestra, dal primo tema grave e
pesante per l’apparizione di Gianciotto, passa a descrivere l’impeto
della battaglia in una fusione sinfonica perfetta, per poi riallacciarsi
al tema di Paolo ed attaccare il quarto tema svolto sulla quarta corda
degli archi, ritmicamente accompagnato dal battito del dorso degli archi
sulle corde dei controbassi: accompagnamento caratteristico che fa
rimanere perplesso il pubblico, il quale viene rianimato dalla fine
dell’atto che è maestosa, imponente.
117 Senza più oltre attardarsi nell’esame dell’opera, dobbiamo riconoscere
che Riccardo Zandonai nella sua opera ha saputo sposare, sapientemente
sempre e spesso anche con commozione sincera, la ispirazione a quella
del poeta in modo da porre in degno rilievo, forse anche accentuandolo,
il disegno dell’opera d’arte.
Da questa pura e schietta ispirazione, Riccardo Zandonai trae l’arte sua
che è profondamente umana: per cui la meravigliosa leggenda dantesca
evocata con grande efficacia rappresentativa da Gabriele d’Annunzio
appare molto più chiara e compiuta, poiché vi spira, attraverso melodie
attraenti e potenti sinfonie, l’alito di una nobilissima anima musicale.
Gli è che la musica di Riccardo Zandonai, specie in Francesca, è
squisitamente e modernamente italiana, nel sentimento, nel gusto e nell’
estetica stessa. Italianità che ci sarà dato apprezzare e considerare
ancora di più nella nuova opera «Giulietta e Romeo». Dopo la
rappresentazione della nuova opera potremo tornare a discutere della
italianità della musica zandonaiana: per ora ascoltiamo, ammirando, la
Francesca, racchiudendo la nostra sensibilità in una attesa febbrile.
Forse dalle balze del fatidico Trentino scaturirà la ricca, limpida
fonte d’italianità attraverso l’amore ed il desio accorato di Giulietta
e Romeo.
L’esecuzione
L’esecuzione non poteva essere migliore. Sotto la vigile, sapiente,
accurata direzione dell’autore, l’opera è stata presentata in una
edizione
nuova,
diremmo
quasi
nuovissima.
Riccardo
Zandonai
ha
riconfermato la sua fama di un direttore fortissimo e mirabile per
efficacia, per misura, per slancio, per sapienza di concertazione e di
coloritore.
Egli
è
stato
festeggiatissimo
e
come
autore
e
come
direttore
d’orchestra. Duplice successo, adunque, che torna ad onore dell’illustre
musicista. Serata solenne, questa della Francesca da Rimini, e
solennemente trionfale per Riccardo Zandonai.
Il pubblico romano ha voluto riconfermargli tutta la sua stima ed
esternargli tutta la sua riconoscenza evocandolo infinite volte al
proscenio, insieme agli artisti tutti.
La bacchetta animatrice del maestro ha trovato magnifica rispondenza di
valore e di entusiasmo in tutti gli elementi dell’esecuzione, a
cominciare dall’orchestra, che ha suonato splendidamente.
E che dire degli interpreti tutti? Hanno gareggiato in bravura ed han
fatto bene.
Gilda Dalla Rizza, la mirabile artista che onora il teatro lirico
italiano, reduce dalla trionfale tournée americana, si è affermata
ancora una volta interprete eccezionale.
La Dalla Rizza, che ha una voce bellissima, dolce e forte, vellutata e
squillante, fresca ed estesa, intonatissima, la adopera con arte
consumata. Per giunta, iersera, dimostrò d’aver inteso il personaggio
dell’eroina
dantesca,
componendolo
in
una
nobile
linea
d’interpretazione.
Gilda Dalla Rizza è troppo nota ormai per doverci ripetere sulle sue
qualità artistiche. Non v’è musicista che non la prescelga a interprete
delle proprie opere. Ciò torna ad onore dell’esimia cantante ed è un
giusto riconoscimento dei suoi meriti.
Riascoltando Gilda Dalla Rizza dobbiamo constatare che la sua voce è
sempre e più che mai la voce famosa che si piega a tutte le volontà
della cantante, che ha sonorità ed estensione meravigliose, che in sé
aduna la solidità del bronzo e la morbidezza del velluto e si erge
arditissima nei punti più aspettati con note acute che sono raggi di
sole in pieno meriggio.
118 Nella Francesca da Rimini ha riportato un successo personalissimo,
inquantoché è la prima volta che si presenta al pubblico romano sulla
parte della creatura zandonaiana. E bene ha fatto il pubblico romano a
rimeritarla di vivi, calorosi, prolungati applausi.
Degno compagno dell’esimia artista è stato il tenore Michele Fleta.
Anch’egli, apprezzato e conosciuto dal pubblico romano, ha cantato con
maestria ed ha fraseggiato con vigore d’intenzioni e con splendida
chiarezza.
Sono recenti i successi riportati dal tenore Fleta a Venezia e a Bologna
ove è stato assai festeggiato e dove ha ottenuto successi lusinghieri.
L’anno scorso al nostro Costanzi fu una rivelazione: nelle opere da lui
eseguite seppe fare sfoggio della sua possente voce e della sua arte
incomparabile. Fin da allora facemmo per lui le migliori previsioni. Ed
infatti, nella prova di ieri sera, ha riconfermato le sue qualità
d’artista valentissimo.
La Francesca da Rimini è un’opera nella quale può mostrarsi la virtù di
chi possiede un grande volume di voce. Il tenore Fleta, oltre che
portare la sua virtù alla massima espressione di potenza, fu anche
aderentissimo al personaggio di Paolo. Ebbe impeti – di passione e di
spasimo – esteriorizzati con bella incisività. Sin dalle prime frasi
egli avvinse l’uditorio colla potenza dei suoi mezzi vocali, squillanti
ed omogenei, dando una calda suggestione alle frasi – che scolpisce con
sentita espressione – e sensazioni profonde al pubblico che poté
apprezzare ancora una volta il talento preclaro del valentissimo
artista.
Il tenore Fleta, in una parola, si è dimostrato un cantante superbo, il
cantante dalle
grandi risorse, dalle chiare note ampie e squillanti,
che sa abilmente temperare la grande potenza del suo organo vocale colle
delicate sfumature delle mezze voci e raggiungere così effetti canori
felicissimi.
Noi siamo lieti di registrare il nuovo successo romano.
Accanto a Gilda Dalla Rizza e a Michele Fleta, per completare il
terzetto,
è
giusto
collocare
il
baritono
Maugeri
nella
parte
importantissima di Gianciotto. Il baritono Maugeri, nuovo per le scene
del Costanzi, ha vinto una bella prova che l’ha posto magnificamente in
luce. Egli ha fatto [della] tipica figura di Gianciotto uno studio assai
accurato,
lumeggiandovi
le
migliori
doti
della
sua
versatilità
artistica.
Ha saputo alternare le più soavi morbidezze vocali agli impeti
drammatici di una parte che ha difficoltà pericolosissime.
Si è dimostrato eccellente cantante per freschezza di voce e chiarezza
di fraseggio, ornato di una voce intonata, bella, non priva di energia
nell’accentuazione, vibrante nel registro più basso.
Il suo canto fu assai espressivo. La voce che egli sa rendere dolce e
insinuante poté prodigarsi sempre nei punti anche più scabrosi della sua
ardua partitura e resistere fino all’ultimo atto, dove nella prima
parte, nel duetto con Malatestino, fu particolarmente ammirato.
Battesimo più felice e più propizio non poteva <non> avere il baritono
Maugeri: successo che sarà l’inizio di altri ancora migliori nell’
attuale stagione lirica.
Il tenore Palai Nello, buon cantante e coscienzioso artista, ha fatto
della parte di Malatestino una creazione speciale, meritandosi vive
acclamazioni.
Altro successo da registrarsi nella lieta cronaca di questo spettacolo è
quello del baritono Besanzoni. Il giovane e diggià provetto artista ha
inaugurato le sue fatiche di quest’anno al Costanzi con una singolare
interpretazione del personaggio di Ostasio.
119 L’anno scorso, quando debuttò nella Carmen sulle stesse scene del
Costanzi, avemmo parole assai lusinghiere per il giovane baritono.
Quest’anno poi, reduce da un fortunato giro nei migliori teatri
americani, abbiamo riscontrato in lui qualità e pregi ancora maggiori.
La sua voce sana, uguale, estesa: voce sonora e ferma, di carattere
adamantino, è adatta alle opere di grande stile che richiedono forza di
accenti e una declamazione robusta e una espressività convincente.
Queste doti, il baritono Besanzoni ha dimostrate dinanzi al pubblico
intelligente
del
Costanzi
ed
ha
avuto
in
compenso
accoglienze
brillantissime.
Di questo giovane artista avremo modo di riparlare più a lungo durante
la stagione. Per ora ci limitiamo a segnalare il vivo successo ottenuto.
Ed eccoci a Thea Vitulli, la Samaritana, l’artista bella e graziosa che
si avanza per l’aspro sentiero dell’arte con passo rapido e sicuro. Thea
Vitulli, l’anno scorso, ottenne uno schietto successo nell’opera del
maestro Vittadini Anima Allegra. Alla distanza di un anno ha riportato
un nuovo successo nell’opera del maestro Zandonai.
È veramente notevole come la gentile artista cerchi di farsi strada nel
campo lirico ed è veramente degna di encomio l’accuratezza singolare che
dimostra in ogni personaggio che interpreta. Dotata di un temperamento
artistico eccezionale, porta in sé tutta la vividezza, tutta la grazia,
tutto il fascino dell’anima latina.
La sua voce – di una purezza adamantina – ha trovato nella parte
assegnatale dal musicista il mezzo più adatto per avere il proprio
risalto. In tutta la parte – vibrante di vivo sentimento – essa fece
sfoggio di una voce bellissima, calda, insinuante, di facile e pura
emissione, felicissima nel registro acuto, confermando le sue doti di
interprete versatile e perspicace.
Le feste schiette e fervide che il pubblico le tributò furono segni non
dubbi e ben lieti dell’unanime consesso dell’uditorio.
Le quattro ancelle di Francesca erano impersonate dalle Sig.re Portes
[Porter], Peresio [Perosio], Donati e Rettore – Cantarono efficacemente. – La
Sig.ra Donati ebbe modo di sfoggiare delle belle note che le
accattivarono la simpatia del numeroso pubblico.
Gli è che la Sig.ra Donati ha una voce dolcissima, piena di risonanze,
vellutata, che emette con singolare facilità.
Con la sua bella voce accompagnata da un’arte da provetta artista ha
dato vivo rilievo alla parte di Donella, parte ardua e difficoltosa.
Una lode senza riserva spetta al coro egregiamente istruito dal maestro
Consoli, il valente animatore di masse corali, prezioso ausilio di ogni
spettacolo. Il maestro Consoli ha portato la massa corale alla migliore
efficienza ed alla maggiore espressione di organicità e di ciò dobbiamo
congratularci con lui.
L’allestimento scenico, oltremodo luminoso, è parso superiore ad ogni
previsione. Pericle Ansaldo, l’infaticabile ed apprezzato direttore di
ogni spettacolo, ha dimostrato ancora una volta il suo aristocratico
buon gusto.
In complesso si tratta di uno spettacolo di ordine elevatissimo al quale
tutta Roma accorrerà plaudente se non altro per onorare Riccardo
Zandonai, l’illustre maestro trentino che rapidamente ascende verso la
gloria lusinghiera.
Non possiamo chiudere queste note di cronaca senza rivolgere il nostro
incondizionato plauso ed i nostri vivi rallegramenti ad Emma Carelli che
ha prodigata tutta la sua attività perché lo spettacolo riuscisse
degnissimo del Costanzi, né è da dimenticarsi l’infaticabile cav.
Poggioli che coopera con illuminata saggezza al buon andamento di tutto.
Ottimi per voce e azione scenica il tenore Malfatti, il De Vecchi.
[...](*)
120 ---------(*)
L’articolo prosegue con un profilo del baritono Carmelo Maugeri.
177
“Francesca da Rimini” du maestro Zandonai, heureusement choisie pour
l’inauguration de la saison d’opéra au Costanzi, a marqué un triomphe
magnifique et aristocratique d’art ed te beauté, «L’Italie», 28.12.1921
Le public des grands événements scéniques se pressait hier soir dans la
vaste salle du Costanzi. Les beautés féminines et les célébrités
masculines les plus connues passaient dans le foyer et le long des
couloirs suivies par un murmure d’admiration.
Cet hommage de Tout-Rome au maestro Zandonai et à ses interprètes était
vraiment émouvant. Personne n’avait voulu manquer l’occasion de
témoigner au grand musicien et à la célèbre artiste Gilda della Rizza
[sic] toute [riga saltata, n.d.r.] public romain.
Lorsque M. Zandonai est monté sur le “podium” une vaste ovation lui a
porté l’éclat du sentiment de sympathie des spectateurs. Et l’opéra a
commencé tandis que la salle retentissait encore des applaudissements
enthousiastes.
L’opéra
La renaissance de la musique orchestrale et symphonique a marqué en
Italie le passage définitif d’une époque à une autre. Les derniers échos
du romantisme mourant, retentissaient dans les œuvres des premiers
symphonistes et Arrigo Boito, à l’audace innovatrice et à l’esprit
original duquel nous devons le commencement de la réforme, écrivait en
même temps le «Mefistofele» en musique et le «Re Orso» en prose. Les
premiers
efforts
pour
rentrer
dans
une
ligne
classique
et
traditionnelle, efforts qui aboutiront ensuite aux nouvelles écoles
poétiques symbolistes et “verslibristes” sont facilement visibles dans
le «Re Orso»; de même que les derniers cris du romantisme musical, ce
romantisme qui produit toutes le œuvres de Verdi avant le «Falstaff»,
passent dans les harmonies de «Mefistofele». Et c’est à dessein que nous
rappelons le nom d’Arrigo Boito au sujet de l’œuvre de Zandonai. On ne
doit pas voir dans ce rapprochement une “diminutio capitis” pour la
«Francesca da Rimini». Nous cherchons simplement à expliquer ainsi les
raisons du contraste intime que la musique de Zandonai porte en son
sein. C’est une œuvre née dans ces temps derniers, mais elle porte
encore en elle les signes de cette lutte et de ces signes naît, étrange
cas, une puissance de vie et d’humanité vraiment supérieure. Si la
«Francesca da Rimini» avait été posée dans une formule, silencieusement,
elle aurait été une œuvre morte. Ainsi, elle vit d’une vie puissante et
originale, qui l’impose au public et à la critique.
L’interprétation
Nous avions annoncé hier que Mlle Gilda della Rizza à cause d’une
indisposition avait dû renoncer d’interpréter le rôle de Francesca.
Heureusement cette nouvelle était fausse: bien qu'un peu malade, Mlle
della Rizza n’a pas voulu manquer cette superbe première et elle s’est
présentée au jugement du public, sûre de sa compréhension. Mais sa voix,
quoique un petit peu voilée, a triomphé de sa maladie et s’est répandue
magnifique comme toujours dans la salle enthousiasmée. Elle a porté les
vagues de l’harmonie la plus exquise dans un ensemble superbe; elle a su
broder les soupirs et la volupté du troisième acte d’une façon
absolument sans pareille. Son interprétation artistique, digne de nos
plus grandes actrices, a donné à la figure de Francesca un relief tout
particulier et une vie très humaine. Le triomphe de Mlle Della Rizza a
121 été énorme. Le public l’a couverte de fleurs et les ovations des
admirateurs se suivaient innombrables.
La voix du ténor M. Fleta a, elle aussi, très bien caractérisé la
personnalité de Paolo et M. Maugeri (Gianciotto), M. Palai (il
Malatestino), M. Besanzoni (Ostasio) et tous les autres ont été dignes
de leur grands partenaire. On ne pouvait, en somme, s’attendre à rien de
mieux, on ne pouvait espérer un succès plus complet pour cette
inauguration, qui a vraiment marqué un triomphe aristocratique et sans
pareil d’art et de beauté.
[...]
178
[Costanzi], «Musica» XVI/1, 15.1.1922
Il Costanzi la sera di Santo Stefano era affollato, riboccante di tutto
il miglior pubblico artistico, letterario, mondano della capitale,
accorso ad ascoltare una delle opere moderne che più si fanno applaudire
per la severa concezione drammatica, per la poetica coloritura della
musica e per il cesello orchestrale: cioè la «Francesca da Rimini»
diretta dall’insigne autore Riccardo Zandonai.
L’accoglienza fu quale siamo soliti a registrare in tutte le città
d’Italia ove l’opera si era presentata. La musica dello Zandonai è come
una ragnatela di soavissima malinconia, i cui fili iridati di rugiada
avvolgono l’anima di una rete nostalgica e disperata. Non conosco autore
che renda più pittoricamente quella vita medioevale intessuta di sfarzi
e di povertà, di canti e di urli, di abbandoni e di lotte, di amore e di
morte, quale ormai si dipinge la nostra fantasia assuefatta a sognare
nelle viuzze sotto i portici entro le mura delle nostre antiche e
gloriose città, quando i merli le altane. [?]
L’insieme degl’interpreti dell’opera è veramente pregevole: Gilda Dalla
Rizza (Francesca), benché manifestasse specie nel 1. atto i segni della
convalescenza, si mantenne all’altezza della sua fama; Michele Fleta
(Paolo) fu un po’ rigido come attore ma cantò con squisito sentimento e
buon gusto; ottimo sotto tutti i rapporti il Maugeri (Gianciotto) e
molto bene a posto Nardi (Malatestino)
[...]
179
La settimana al Costanzi, «Le Maschere» IV/2, 16.1.1922
Si sono alternate recite di «Francesca da Rimini», de «I Maestri
Cantori» e di «Tosca». Ne la «Francesca da Rimini» la parte della
protagonista fu ripresa dalla valorosissima signorina Rinolfi, che – in
verità – aveva cantato, vestita fin anco in costume, fino alla prova
generale dell’opera. A noi sfuggono le ragioni per le quali ella non
“montò”, come aveva fatto a Pesaro, l’opera dello Zandonai; ma giungiamo
in tempo a proclamarla artista dai mezzi vocali poderosi e bellissimi e
dalla dizione buona e corretta.
Saremo felici di giudicarla ancora in un’opera di repertorio [...]
-----------------------------------------------------------------------------------------
Firenze 1921 (180-181)
180
Ildebrando Pizzetti, Francesca da
Pergola, «La Nazione», 19.3.1922
Rimini
di
Riccardo
Zandonai
alla
L’opera di Riccardo Zandonai ha vinto un’altra bella vittoria.
122 Il pubblico – magnifico per numero e per qualità, ché il teatro era
gremito in ogni ordine di posti, e vi erano molte delle più cospicue
personalità del mondo fiorentino – il pubblico è stato preso dalla
facile delicata grazia dei canti del primo atto, dalle imponenti
sonorità del secondo, dalle belle scene drammatiche e dal calore
melodico del terzo, e dalle aspre e violente scene, sapientemente
accompagnate dalla musica, del quarto atto, ed ha applaudito con calore,
spesso con entusiasmo, ad ogni fin d’atto, ed anche a scena aperta, là
dove l’animo suo numeroso e composito è stato più vivamente toccato da
un felice sgorgo di canto, o da un potente scoppio sonoro delle voci e
degli strumenti, o da un bell’accordo drammatico.
Bisogna dir subito che gli applausi, espressione di consenso e di
ammirazione, sono stati indirizzati non solo all’opera ma anche, e
talvolta principalmente, alla interpretazione e all’esecuzione, veramente ottime.
L’aver concertato in pochissimi giorni, ottenendo i risultati che ha
ottenuto, un’opera complicata e piena di difficoltà insidiose come è la
Francesca da Rimini dello Zandonai, è una nuova prova, e validissima,
della singolare intelligenza e della grande esperienza del M.o Giacomo
Armani. Sotto la sua direzione attenta vigile e calorosa, orchestra e
artisti e cori hanno collaborato concordemente a un’esecuzione in tutto
degna di un grande teatro.
La signora Isora Rinolfi ha dato al personaggio di Francesca prestanza
di persona, amorevole cura di atteggiamenti e di gesti, e la bellezza di
una voce estesa e calda e bene intonata, Il tenore Barra è stato un
Paolo di prim’ordine, per la bellezza e l’eguaglianza e il vigore della
voce e per l’efficacia scenica. Magnifico Gianciotto il baritono
Morellato: voce ampia, potente, ricca di accento e di colore, e azione
efficacissima. Eccellente Malatestino il tenore Angelo Algos, e
lodevolissimo,
fra
l’altro,
per
la
chiarezza
della
dizione.
E
lodevolissimi anche gli interpreti secondari, fra i quali citeremo
particolarmente la sig. Romanelli (Samaritana) e Pina Serra (Smaragdi).
L’orchestra ha sonato in modo degno della più viva ammirazione, e così
ha cantato il coro, istruito dal M.o Naegel. Decorosissima, anzi ricca,
la messa in scena.
**
Eccettuati i due più cospicui rappresentanti di quella che vent’anni fa
si chiamava, e v’è chi continua a chiamarla così, la giovine scuola
italiana, Riccardo Zandonai è oggi il più fortunato fra gli operisti
italiani. E meritevolissimo egli è di fortuna, per la onestà e dirittura
della sua attività, per il sincero amore con cui concepisce e compone le
sue opere, per lo studio ch’egli pone a renderle in ogni loro parte bene
ornate e quanto più sia possibile chiare e perfette e interessanti.
Artista di una sensibilità docile e corriva, lo Zandonai ha facile e
abbondante l’invenzione di motivi chiari e piacevoli: e possiede una
tecnica armonistica ricca e varia, che gli permette di modificare
sapientemente secondo le convenienze sceniche l’espressione dei temi, ed
ha una sensibilità ritmica che gli giova a rendere anche con un semplice
disegno ritmico la figura di un personaggio. Ed egli è un mirabile
conoscitore dell’orchestra, che usa, relativamente alla sua concezione
musicale, non solo con sicurezza ma con maestria.
Dovendo poi dire il nostro parere sul valore dell’arte dello Zandonai,
noi diremmo che se l’«in medio virtus» potesse riferirsi anche all’arte,
Riccardo Zandonai dovrebbe essere considerato come uno dei più grandi
maestri viventi e la sua Francesca da Rimini come un capolavoro. Una
concezione propria e particolare, o comunque chiara e precisa del
dramma, egli, a parer nostro, non l’ha, ma ha adottato e pratica una
forma drammatica musicale che sta fra il melodramma tradizionale
123 ottocentesco e il dramma musicale quale lo perseguirono e tentarono i
precursori italiani del primo seicento e poi Gluck, Wagner, e Debussy
fra i moderni, ma senza avere né la chiarezza e la purezza dei
melodrammi dell’800 né i deliberati ardimenti degli altri maestri che
abbiamo nominato. Egli canta, come alcuni direbbero, all’italiana, ma i
suoi temi, nati e cresciuti in medio, non generano, come nel melodramma
ottocentesco, larghi e compiuti organismi musicali rispondenti a una
necessità estetica lirica: e spesso egli canta là dove i nostri antichi
maestri avrebbero posto un semplice recitativo, mentre poi compone un
semplice recitativo, ancorché accompagnato da piacevoli eleganti ingegnosi giochi strumentali, là dove i nostri vecchi maestri avrebbero
trovato motivo e materia di canto (e avrebbero chiesto e voluto, giustamente, una poesia favorevole al loro canto).
E se si considera la materia musicale delle opere dello Zandonai, e
della Francesca particolarmente, se si considerano cioè i temi, e gli
accordi che li generarono e li accompagnano, e la ritmica dei temi
stessi e degli accompagnamenti, e lo strumentale, ci si trova ancora e
sempre, o siam noi che ci inganniamo, in medio. Temi che hanno una loro
propria organicità, e una loro propria originalità, ma che per questo o
quel particolare della loro struttura e per la loro espressione si
possono accostare a cento altri: e lo stesso intendasi dei ritmi
complementari, delle armonie, dello strumentale.
E dei personaggi delle opere dello Zandonai, e di quelli della Francesca
in particolare, si può dire, sebbene la loro declamazione sia piuttosto
monotona, troppo spesso amplificazione sonora di una recitazione
retorica, si può dire che essi hanno, nella espressione musicale, una
qualche caratteristica che li fa diversi e abbastanza vivi da
interessare il comune spettatore (Francesca e Paolo cantano motivi dolci
e di una sentimentalità erotica, Gianciotto ha accenti rudi ed aspri,
Malatestino ha accenti crudi e striduli, e le ancelle cantano dolci
cantilene non prive di freschezza giovanile); ma una loro propria e
singolare vita musicale, una vita quale hanno nella tragedia dannunziana
(non vogliamo toccare, per carità!, di quella che hanno nel divino canto
dantesco) essi, a parer nostro, non l’hanno.
Arte, insomma, concepita da un artista di grande e ammirevole rettitudine e coscienziosità, il quale non conosce le bassure paludose in cui
l’uomo s’infanga (ma chi abbia il coraggio e la forza di attraversarle,
quanto vigore e quanta chiarezza di coscienza acquisterà!) ma neppure
guarda alle altezze che innalzano l’uomo il quale pur solamente le
contempli con l’aspirazione di attingerle. Arte di un artista che ama
vivere a mezza costa del monte della conoscenza, contento di limitati
orizzonti e schivo di numerosi contatti umani. Onde la speciale felicità
e bellezza di certe sue espressioni musicali crepuscolari, come, per
esempio, le pagine dolcemente malinconiche e tremanti di lieve angoscia
là dove Smaragdi sta alla finestra a scrutare il cielo per vedere se
torni lo sparviero sperduto e Francesca ha il presentimento della venuta
di Paolo.
Ma nonostante tutte queste cose che abbiam detto, ed anzi appunto per
tutte queste cose, l’arte di Riccardo Zandonai ha in sé le ragioni di
quella sua fortuna che dicevamo prima: in quanto, cioè, essa non turba
le aspirazioni estetiche del pubblico medio, ma anzi a queste risponde
in modo esauriente e pacifico.
Guardate, per un esempio (uno dei tanti che si potrebbero citare),
guardate alla scena finale del primo atto. Francesca ha visto Paolo, e
si copre la faccia con le mani, poi si discopre «e appare trasfigurata»,
e stretta nelle braccia della sorella «d’improvviso dà in un pianto», e
poi repentinamente ride un luminoso riso, e poi dice alla sorella: «Ah
tu ora, tu ora pigliami, cara sorella, tu ora pigliami, e me con te.
124 Portami nella stanza e chiudi la finestra, e dammi un poco d’ombra, e
dammi un sorso d’acqua, e ponimi sul tuo piccolo letto, e con un velo
ricoprimi e fa tacere queste grida, fa tacere queste grida e il tumulto
che ho nell’anima mia!» Parole – ponete mente a quelle frasi spezzate, a
quelle congiunzioni affannose, e a quel desiderio di ombra e di
refrigerio – parole che avrebber voluto essere dette con appassionata
concitazione, e in un ritmo quasi convulso, e intonate in un’armonia
mossa e di tonalità instabile: e invece son distesamente cantate in un
largo arioso unitonale del quale il compositore stesso definisce il
carattere con le indicazioni «calmo, pianissimo, dolcissimo». Un’espressione che contrasta alla ragione drammatica, alla ragione scenica, e
allo spirito e alla forma del testo poetico; ma non contrasta, ecco il
punto, a quella intuizione generica della donna amante, si chiami questa
Francesca di Guido da Polenta o con tutt’altro nome, che il pubblico
medio porta seco alla superficie della sua coscienza. Contrasterebbe
anche con questa intuizione, e anche il pubblico medio ne sarebbe
urtato, soltanto se fin dalle prime note dell’opera musicale un creatore
di genio avesse strappato il pubblico dalla piccola realtà della sua
vita quotidiana e l’avesse portato su su, a quelle altezze dove
splendono e vivono le cose eterne.
**
Già abbiamo detto come questa edizione della Francesca di Riccardo
Zandonai sia tale da meritare quel pieno favore del pubblico che ieri
sera ha ottenuto (non meno di 14 chiamate, agli artisti e al M.o
Armani).
È uno spettacolo che, per l’opera in ogni modo interessantissima, e per
l’eccellenza degli interpreti e per la bellezza della messa in scena,
deve essere visto e ammirato e applaudito. La prima delle repliche, che
crediamo saranno numerosissime, sarà dato stasera alle ore 8,45.
181
C., Una eccezionale rappresentazione della
«Pergola», «Il Nuovo giornale», 29.3.22
Francesca
da
Rimini
alla
La rappresentazione della «Francesca da Rimini» del m.o Zandonai datasi
ieri sera alla Pergola ha assunto un carattere di eccezionale solennità
per
la
presenza
dell’illustre
autore
e
della
principessa
Mary
d’Inghilterra col consorte Visconte di Lascelles, ospiti graditi della
nostra città
Il teatro era gremito in ogni sua parte del pubblico più elegante di
Firenze: in un palco era il Sindaco comm. prof. Garbasso, e in un altro
il rappresentante del Prefetto; numerosissima la colonia straniera.
La «Francesca da Rimini» fu eseguita in modo eccellente dai soliti
interpreti e diretta con rara valentia dal mo. Giacomo Armani; molto
applaudito fu il giovane ed eccellente tenore Barra, che venne
complimentato anche dall’autore; la signora Rinolfi, che aveva terminati
i suoi impegni, era stata sostituita da un’altra eletta artista, la
signora Giulia Tess, che per quanto fosse andata in scena senza prove,
ottenne un vivissimo successo per l’arte squisita con la quale
interpretò la difficile parte della protagonista.
Il mo. Riccardo Zandonai fu vivamente festeggiato ed acclamato alla fine
di ogni atto e dovette presentarsi innumerevoli volte al proscenio, in
mezzo agli applausi più calorosi del pubblico che volle manifestargli la
sua ammirazione e il desiderio di rivederlo presto fra noi a dirigere la
«Giulietta e Romeo», l’ultimo suo applaudito lavoro.
Dopo il 3.o atto, il più bello e suggestivo dell’opera, venne presentata
al maestro una corona d’alloro, con nastro tricolore, offerta dai
trentini residenti a Firenze.
125 Anche la principessa Mary, che insieme al consorte e al seguito aveva
preso posto nel palco reale ed era stata oggetto della deferente
ammirazione degli spettatori, volle congratularsi col valoroso autore e
lo fece pregare di recarsi da lei. Il maestro Zandonai si trattenne per
ima diecina di minuti a colloquio con la Principessa, la quale, parlando
in italiano, dimostrò al maestro tutto il suo compiacimento. Lascelles
ricordò, fra l’altro, le rappresentazioni di « Francesca» date nel 1914
al Covent Garden di Londra.
Infine il pubblico, chiamando ancora il maestro al proscenio, volle
dargli non un addio, ma un festoso arrivederci.
[...]
-----------------------------------------------------------------------------------------
Catania 1922 (182)
182
g.d.s., La prima di Francesca da Rimini al Teatro Massimo, «Giornale
dell’isola», 13.4.1922
Dobbiamo confessare candidamente il nostro errore: noi conoscevamo
l’opera che contiene nelle sue pagine i più avanzati azzardi della
tecnica musicale moderna, conoscevamo il nostro pubblico poco adusato,
per difetto non di possibilità intellettuale ma di istituzioni
educative, a tale genere di musica elevatissima nella forma e nell’
espressione melodica, ed in conseguenza avevamo avanzato i nostri dubbi
sul successo che la «Francesca da Rimini» avrebbe conseguito.
Ci rende ora assai lieti la costatazione d’aver ricevuto ieri sera la
più chiara smentita.
A giudicare dagli applausi che coronarono ogni atto di questa bella
opera di Zandonai, non si può non riscontrare nel nostro pubblico una
magnifica capacità intellettiva, una confortante maturità di gusto. E
ciò, malgrado smentisca le nostre previsioni, ci riempie l’animo di
soddisfazione e di orgoglio.
L’opera fu presentata ieri sera in un insieme degno d’ogni elogio per
merito primo di Eduardo Vitale che dell’ardua partizione, irta di
difficoltà tecniche quasi insormontabili, si rese interprete ed
animatore magnifico.
Egli ne ha curato ogni particolare con coscienza d’artista, con
magistrale perizia, ottenendo dall’orchestra degli effetti sorprendenti,
e dall’insieme una fusione perfetta, una esecuzione ricca di quei
coloriti indispensabili perché tutte le intenzioni dell’autore si
rivelino.
E non possiamo non rivolgere a tutti gli oscuri elementi dell’orchestra
il nostro caldo elogio per l’assidua cura e per l’esattezza con cui
mostrarono di seguire l’energica bacchetta del duce, ed una speciale
lode ai maestri Barberi, Benvenuto e Indovino alla cui vigilanza era
affidato il palcoscenico.
Lina Scavizzi, giunta a noi come un nome nuovo, fu una rivelazione.
Una intelligenza superiore, un’anima esuberante d’artista, un senso
squisito di femminilità le permetterono [sic] di penetrare il dramma
talmente da trasmettere al pubblico tutta la travolgente passionalità.
Compone il personaggio di «Francesca» con la più bella nobiltà di linea
che sa mantenere anche quando appare travolta dalla tragica passione, e
con la sua voce caratteristica che sa carezzare col sospiro e straziare
con l’urlo, esprime il dolore, l’amore e la voluttà in modo da suscitare
la più intensa commozione.
«Paolo» era Carmelo Alabiso, il nostro concittadino che tanto lieto
ricordo aveva lasciato fra noi.
126 Pochi tenori oggi possono con la voce sorpassare l’orchestra in molti
brani di quest’opera; ma la voce di Alabiso è di tal timbro metallico ed
è così ricca di sonorità e di squillo da permettergli qualunque lusso,
anche quello, per esempio, di farsi sentire in mezzo agli urli, vocali e
strumentali, del secondo atto. Ed oltre a ciò seppe dimostrarsi ottimo
cantante, specie al terzo atto, dove la freschezza della melodia e la
eleganza del ritmo esigono delle sfumature di voce ed uno stile
nobilissimo di canto.
Ma chi entusiasmò addirittura fu il baritono Pacini, che diede al
personaggio di «Gianciotto» una meravigliosa vigoria.
Sin dal secondo atto apparve sicuro di sé e dei suoi mezzi, ma si rivelò
attore ed artista magnifico nel quarto atto, nel duetto con Malatestino,
dove la sua voce ed il suo canto raggiunsero una potenza d’espressione
affatto degna della grande tragedia.
E con lui il tenore Gerardi visse il personaggio di «Malatestino» con
intelligenza assai rara, con verità sorprendente e servendosi della sua
bella voce in modo da esprimere tutta la infantile ferocia del bieco
giovanotto.
Nell’insieme uno spettacolo di prim’ordine.
Anche le seconde parti furono degne di lode: il Lo Giudice fu un
«Giullare» assai caratteristico, pieno di garbo e di misura; il Galli un
vigoroso «Ostasio»; il Malincow un ottimo Torrigiano.
La Briganti nelle vesti di «Samaritana», la De Franco, «Smaragdi», e le
quattro ancelle di Francesca, la Piccioni, la Bonabitacolo e le sorelle
Benf, illeggiadrirono la scena con la freschezza delle loro voci
argentine e con l’esattezza del loro canto.
Indubbiamente quest’opera avrà una fortunata serie di repliche.
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Ascoli 1922 (183-187)
183
La «Francesca» da Rimini al Ventidio di Ascoli Piceno, «Il Giornale di
Ascoli», 27.11.1922
La viva attesa che ha preceduto l’andata in scena della Francesca da
Rimini, diretta dall’autore, l’illustre maestro Riccardo Zandonai, non è
andata delusa perché il pubblico ascolano, abituato ad assistere agli
spettacoli lirici, ieri sera ha ammirato, nella grande opera, una musica
deliziosa, fine, penetrante che si differenzia completamente da tutte le
altre opere.
Fin dalle ore 8.30, ora in cui si aprirono i battenti del Ventidio
Basso, una folla enorme prese d’assalto l’ingresso. Tutta Ascoli accorse
a celebrare il maestro Zandonai, ravvisando in lui, oltre il fratello
irredento, il grande musicista che onora l’Italia nel mondo.
Nella platea, nei palchi, nella galleria, nel loggione un pubblico
eccezionalmente
folto,
meravigliosamente
attento
assistette
alla
première della grande opera applaudendo entusiasticamente autore e
artisti.
Alle ore 21 precise, quando il maestro Zandonai sale sul podio
direttoriale, un grande applauso si scatena in tutto il teatro
all’indirizzo dell’autore, applauso che si ripercuote per alcuni minuti.
Il maestro Zandonai, vivamente commosso, ringrazia della grandiosa
dimostrazione di simpatia e dà subito il segnale all’orchestra per l’
inizio. Fin dalle prime battute si ha la visione che il maestro Zandonai
trasfonde in essa tutta l’anima sua d’artista, tutto il tesoro raro di
una direzione che è sicura guida, forza d’anima e avvincente fascino. La
sua mirabile bacchetta elettrizza e fonde nel modo più perfetto
orchestra e palcoscenico, riuscendo a raggiungere la massima perfezione.
127 Gli artisti tutti, parti principali e secondarie, il coro, hanno cantato
con passione riscuotendo grandiosi applausi.
La nostra concittadina Linda Barla-Ricci, che per la prima volta ha
cantato nella nostra città, è stata una protagonista insuperabile, una
intelligenza superiore all’anima esuberante d’artista un senso squisito
di femminilità, le permettano di penetrare il dramma talmente da
trasmettere al pubblico tutta la travolgente passionalità. Compone il
personaggio di Francesca con la più bella nobiltà di linea che sa
mantenere anche quando appare travolta dalla tragica passione, e con la
sua voce caratteristica che sa carezzare col sospiro e straziare con l’
urlo, esprime il dolore, l’amore e la voluttà in modo da suscitare la
più intensa commozione.
Nel duetto del terzo atto con Paolo il Bello, il pubblico ha potuto
ammirare i suoi potenti mezzi vocali, improvvisandogli una imponente
manifestazione.
Il tenore Socrate Caceffo ha impersonato la figura di Paolo il Bello in
modo impeccabile, gareggiando con la Barla a rendere lo spettacolo di
prim’ordine. L’interpretazione data al personaggio di Paolo il Bello ha
attirato su di sé l’attenzione del pubblico, che è stato conquistato
completamente a suo favore. Di lui non ci soffermiamo a fare le lodi che
tutti gli fanno; sarebbe superfluo, poiché la prestanza della sua
persona, la chiarezza della voce, la intelligenza che dimostra lo
indicano un artista superiore che non ha bisogno di reclame.
Il baritono Enrico Roggio è addirittura un creatore della parte di
Giovanni lo sciancato (Cianciotto).
L’ottimo artista ha fatto un particolare studio per interpretare la
figura di questo feroce e disgraziato personaggio, tanto che non si
potrebbe concepire una esecuzione di Francesca senza la sua valida
cooperazione.
Nella
cura
dell’interpretazione
che
sa
dare
con
meravigliosa efficacia, ha conquistato il nostro pubblico per la sua
voce potente, intonata e stupenda nel timbro.
Il tenore Treves Gino ha interpretato la parte di Malatestino dall’
occhio con grande efficacia e con ottimi mezzi vocali, riuscendo a dare
al personaggio una ferocia eccezionale.
La parte di Samaritana è stata interpretata dalla soprano Irma Miore, la
quale per la sua voce chiara e fresca ha avuto la sua parte di applausi.
Il basso Carlo Scattola ha interpretato meravigliosamente la parte del
Giullare. Questo artista che per la prima volta ha cantato nella
Francesca ha mezzi vocali ottimi ed è stato magnifico per potenza di
voce e per efficacia di azione.
Ottimamente hanno cantato pure Giunta Enrico nella parte di Ostasio,
Mazza Aurelio del Torrigiano, Santoro Ascocina, Nobili Lina, Squarzini
Luisa e Marocolini Vittoria che sono state ancelle insuperabili e la
Fambri Debora, un’ottima schiava.
Il coro è stato degno del suo maestro, il cav. Everaldo Bernardelli.
Meravigliosa la messa in scena e ottimi gli effetti di luce.
Per la cronaca, gli artisti sono stati chiamati, unitamente al maestro
Zandonai, al proscenio tre volte nel primo atto, due volte nel secondo,
tre volte nel terzo e alla fine del quarto, prima che il pubblico
abbandonasse il teatro, ha improvvisato a tutti gli artisti ed al
maestro una grande ovazione.
Alla fine del secondo atto, i legionari fiumani hanno donato al maestro
Zandonai una grande corona d’alloro con i nastri dei colori di Fiume,
ciò che ha fatto scattare il pubblico in un grande applauso all’
indirizzo dell’acclamato autore e a D’Annunzio.
La corona era portata dai legionari Mercolini Luigi e Costantini Luigi.
L’opera, che è stata accolta dal grande favore del pubblico, sarà
rappresentata ancora per parecchie sere. [...]
128 184
G.S. Squarcia, La «Francesca da Rimini» al «Ventidio» di Ascoli, «Il
giornale d’Italia», 29.11.1922
La serata di ieri sera per la prima di Francesca da Rimini era
attesissima
ed
aveva
richiamato
al
Ventidio
Basso
una
folla
elegantissima; moltissimi i forestieri provenienti dall’Abruzzo e dall’
alta Marca. La sala, sfolgorante di luce, presentava un colpo d’occhio
magnifico e i palchi, in ogni loro ordine, raccoglievano quanto di più
bello, ricco ed elegante vanti la vita femminile ascolana.
L’attesa era veramente febbrile e appena è comparso il maestro Zandonai
ed è salito sul podio, il pubblico gli ha tributato una entusiastica
ovazione.
Quindi si è iniziato il primo atto tra vivissima attenzione; il pubblico
è rimasto subito soggiogato dalla singolarità e dalla finezza artistica
del grande compositore trentino, che pone nella direzione della sua
opera un fervore mirabile ed una animazione perfettamente cerebrale,
raggiungendo così un grado altissimo di fusione tra il suono e la voce;
onde l’uditorio si sente rapito e conquiso da un godimento più che
estetico, interiore: e tutti i sentimenti che muovono ed agitano i
personaggi della tragedia dannunziana passano, per il magistero divino
dell’artista, nell’anima degli spettatori.
Alla fine del primo atto, che si conchiude con la poetica visione di
Paolo mentre l’orchestra esprime la passione di Francesca con pagine
veramente sublimi, il pubblico scatta in un applauso entusiastico,
interminabile E l’applauso agli artisti che compaiono al proscenio si
ripete per quattro volte; ma il pubblico delirante vuole il Maestro, e
Zandonai appare ed è fatto oggetto di una ovazione grandiosa,
insistente, scrosciante. Zandonai, abituato ai trionfi, sembra commosso
di questa imponente dimostrazione che non ha fine. Infatti per ben
quattro volte, sempre fra uragani di applausi, il pubblico ascolano
vuole il Maestro al proscenio per dire ad esso la sua riconoscenza, la
sua ammirazione, il suo amore.
Gli altri atti hanno segnato tanti nuovi trionfi così per l’opera come
per l’autore magnifico, insuperabile.
Non cadremo nella volgarità di fare alcun esame particolare della
Francesca da Rimini, perché dal 1913 i più grandi pubblici italiani
consacrano con i loro autorevoli giudizi la magnificenza del lavoro: e i
più celebrati critici musicali ne esaltarono tutti i tesori d’arte.
Diremo soltanto che le nostre previsioni ebbero, dal grandioso successo
di iersera, completa realizzazione, e questa è stata anche superiore
alle nostre aspettative, unanime tra i migliori intenditori di musica
raccolti ieri sera nel nostro Massimo, e favorevole è stato il giudizio
su questa edizione ascolana di Francesca da Rimini, la quale richiamerà
certamente largo concorso di pubblico nelle recite successive.
Dovendo parlare degli artisti, dobbiamo porre al primo posto la sig.a
Linda Barla Ricci. Senza farci guidare da predilezioni campanilistiche –
da notarsi che giustamente il pubblico un grande particolare applauso
alla sua esimia concittadina soltanto alla sua rientrata nel secondo
atto – dobbiamo dire che la Barla ha una voce ben timbrata, agile,
fresca, voluminosa e la usa con metodo e con intelligenza da grande
artista. Ed è una grande artista anche nella parte drammatica dove
supera le enormi difficoltà rappresentative mercé lo speciale sussidio
della sua non comune intelligenza.
Mion Irma, la Samaritana, ha cantato con accorata passione, ponendo in
valore i pregi della sua bellissima voce. Il baritono Enrico Roggio,
Giovanni lo sciancato, è stato singolarmente ammirato perché alla
129 preziosa dovizia dei suoi eccezionali mezzi vocali aggiunge virtù
sceniche davvero felici ed efficaci. Socrate Caceffo, tenore nella parte
di Paolo il Bello, ottiene risultati eccellenti: possessore di una voce
magnifica per estensione, colore e morbidità, sa valersene per il più
grande successo anche nella interpretazione scenica in cui egli
raggiunge la perfezione. Mazza Aurelio, Ostasio, si è confermato
buonissimo artista, Treves Gino è stato un Malatestino incomparabile.
Buonissime cantanti, degne di parti assai più notevoli, sono state le
donne di Francesca, signorina Lina Nobili che ha bellissima voce, scuola
perfetta e quindi un brillante e prossimo avvenire artistico; così
dicasi delle altre, Annina Santoro, Biancofiore; Luisa Squazzina,
Altichiara; Vittoria Marcolini, Donella; Debora Fambri, la Schiava.
Ottimi cantanti sono stati Enrico Giunta, Ser Toldo Berardengo; Carlo
Scattola, un Giullare che per la voce e per la maestria fa della sua
parte una vera creazione personale.
I cori, preparati abilmente e diretti dal valente maestro Bernardelli,
hanno
ottenuto
un
vero
ed
autentico
successo
per
precisione,
affiatamento ed esecuzione senza mende.
Dovrei parlare dell’orchestra; ma non è facile dire in breve ciò che si
dovrebbe pur dire per rendere appieno il sentimento di ammirazione
suscitato in tutto il pubblico. Dirò solo che Zandonai ha giustamente
preteso – e lo ha ottenuto dallo slancio del benemerito impresario
Albertarelli – un complesso orchestrale degno della singolarità e
difficoltà dello spartito. A questo complesso privilegiato il Maestro
trentino ha richiesto un atto di speciale devozione. Così si è giunti
alla fusione di un corpo orchestrale degno di un teatro metropolitano.
Aggiungasi che le straordinarie virtù animatrici della bacchetta di
Riccardo Zandonai hanno completato il miracolo; e giunto a questo punto,
cioè a questa conclusione, a me pare che non abbisognano altre parole
per dimostrare che il pubblico ebbe tutte le ragioni di decretare il
trionfo dell’intero spettacolo.
E il successo della stagione deve anche attribuirsi al Sindaco mari e
alla deputazione teatrale che furono in ogni difficoltà e controversia
coraggiosi ed instancabili.
185
La Francesca da Rimini diretta dal m. Zandonai al «Ventidio Basso», «La
Tribuna», 29.11.1922 (tronco)
ASCOLI PICENO, 28. – Ieri sera, come era stato annunziato su queste
colonne, ha avuto luogo l’apertura della tradizionale stagione lirica
autunnale nel nostro teatro «Ventidio basso», restaurato e completato
con i più moderni impianti della tecnica teatrale.
L’opera scelta per la riapertura è stata la Francesca da Rimini del
maestro Riccardo Zandonai, il quale è venuto espressamente in Ascoli per
concertare e dirigere l’esecuzione dell’opera perché riuscisse – come è
riuscita – assolutamente perfetta.
Il concorso del pubblico
Chi non conosce le usanze e le tradizioni della nostra vita provinciale,
non riesce facilmente ad intendere la ragione dell’eccezionale concorso
di pubblico a spettacoli come quello di ieri sera: l’opera lirica ha il
culto istintivo delle nostre laboriose popolazioni, che in tutte le loro
classi, dagli operai ai latifondisti, dagli studenti ai professionisti e
agli impiegati, partecipano come ad un rito a questi spettacoli,
manifestando il più alto fervore per queste pur elettissime forme della
espressione artistica.
130 Così ieri sera, da ogni parte del Piceno e dell’Abruzzo, accorsero
numerosissimi appassionati, formando gruppi e carovane automobilistiche
che trasformarono la via prospiciente il teatro in un rombante parco
automobilistico.
Parecchie ore prima dello spettacolo non solo gli alberghi, ma tutti i
ritrovi cittadini apparivano affollati di forestieri, mentre gli ultimi
arrivati si arrabattavano per assicurarsi un posto per assistere alla
interessante première.
La notizia che il maestro Zandonai era giunto nella città e dopo aver
diretto le prove aveva dichiarata la sua soddisfazione per il perfetto
allestimento dell’opera, rendeva più vivace e confidente l’attesa.
Lo
spettacolo
che
presentava
la
sala
del
teatro
è
veramente
meraviglioso.
Un pubblico foltissimo ed eletto gremiva ogni ordine di posti che
sembravano insufficienti, nonostante gli ampliamenti ed adattamenti
testé apportati al teatro, a contenerlo tutto.
I palchi accoglievano il fior fiore della intellettualità maschile e
femminile della città e delle regioni confinanti, mentre sulla
uniformità degli abiti da sera mettevano una nota di vivacità e di
eleganze le ricche toilettes e lo sfolgorio dell’avvenenza muliebre.
Assistevano allo spettacolo anche le autorità civili e militari, dal
prefetto comm. Wenzel al sindaco Mari, con una brillante rappresentazione dell’ufficialità del presidio.
L’esecuzione
Appena il maestro Riccardo Zandonai è salito sul podio direttoriale, il
pubblico imponente lo ha salutato con una spontanea, vibratissima
manifestazione di simpatia.
Non riferiamo la trama della tragedia che il giovane e fecondo maestro
Zandonai ha animato colla sua musica perché la dolorosa storia di
Francesca è entrata ormai a far parte del patrimonio intellettuale del
nostro popolo che l’ha sentita narrare da Dante a Pellico, a d’Annunzio
in forma diversa, ma con identità sostanziale di contenuto.
Limitandoci a dar conto dell’esecuzione e della interpretazione che
della tragedia lirica ci hanno dato l’autore e gli artisti, dobbiamo
anzitutto riconoscere che non era possibile raggiungere un più alto
grado di affiatamento e di unità artistica: il maestro Zandonai ha
saputo fondere e costringere sotto la sua energica direttiva ogni
particolare virtuosità degli interpreti, in modo che l’opera si
presentasse come una cosa viva e sintetica, ed il pubblico ricevesse l’
impressione complessiva e generale e su di essa formasse il suo
convincimento ed il suo giudizio.
Questa unità di interpretazione e di esecuzione dà il maggior valore
agli applausi scroscianti che ripetutamente, alla fine di ogni atto
salutarono l’Autore ed i suoi valentissimi collaboratori, i quali tutti,
dall’orchestra ai protagonisti, dai comprimari al coro, contribuirono
efficacemente al trionfale successo dell’opera.
L’aver saputo imporre sin dalla prima sera ad un pubblico – le cui
preferenze per la musica melodica sono conformi a quella che è la
tradizione prevalente in Italia, un’opera in cui predomina l’ampio
svolgimento sinfonico, e che ha una coloratura impressionistica delle
più moderne ed originali – è indubbiamente un merito grandissimo del
maestro Zandonai, che ha saputo non soltanto presentarci una superiore
esecuzione dell’opera già così favorevolmente giudicata da uditori assai
più esperti e raffinati del nostro, ma anche e sopratutto far
comprendere e gustare l’opera stessa al nostro pubblico il cui
interessamento allo spettacolo è ormai completamente assicurato.
131 Ha avuto particolare rilievo nella esecuzione la seconda parte del primo
atto, quando nella preparazione degli spiriti al momento culminante
dell’azione, con l’incontro di Paolo con Francesca e il dono della rosa
vermiglia, la musica, con un largo svolgimento in cui vibra come il
presentimento della erompente passione, crea attorno ai tragici amanti
un’atmosfera quasi mistica, mentre nel fondo della scena un rosso
tramonto adriatico incendia gli intercolumni della Pineta ravennate.
Il grandioso effetto del finale del primo atto è stato favorito anche
dal magnifico scenario e dal felicissimo gioco delle luci che hanno
saputo riprodurre alcuni di quegli effetti per ottenere i quali, nei più
grandi teatri si è dovuto ricorrere alla cupola Fortuny.
Nel secondo atto ha avuto il massimo rilievo la scena iniziale tra Paolo
e Francesca che il pubblico ha inteso e gustato appieno nel suo ampio
respiro musicale, che è come un’anticipazione della parte centrale
dell’opera che nel terzo atto raggiunge le più alte vette del lirismo,
nella scena che comincia con le parole di Francesca:
Benvenuto, signore mio cognato
e si chiude col bacio colpevole ed innocente.
Nel quarto atto è stata vivamente ammirata la scena, che anticipa
l’epilogo tragico dell’azione, fra Gianciotto e Malatestino e nella
seconda parte il duetto di Paolo e Francesca, che è come il coronamento
fina-(*)
---------(*)
Il ritaglio presente nella cartella SZ 523 si interrompe qui.
186
La «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai - Grande successo
artistico al Ventidio, «Il Giornale di Ascoli», 27.11.1922 (tronco)
Prima dello spettacolo
Sabato sera l’aspetto del nostro Massimo era davvero imponente e il
pubblico subito ammirò il grandioso ed artistico lampadario che, dopo un
lungo ed immeritato esilio, è tornato a signoreggiare con i suoi di luce
tutta la vasta sala, finalmente restituita a maggior decoro con la
sostituzione di poltroncine agli antichi banchi da taverna; oggetto di
ammirazione è stata pure la modificazione della illuminazione dei
palchi, nei quali ora si spande una luce tenue e regolare specialmente
favorevole agli «sbinocolatori» impenitenti
Ottima impressione hanno destato gli importanti lavori eseguiti nell’
atrio reso più vasto e comodo. Ma delle notevoli modificazioni ed
ampliamenti apportati al Ventidio ci occuperemo in seguito. Mentre l’ora
che volge ci impone ben altro compito e noi vogliamo assolverlo con la
consueta diligenza, ma con raddoppiato impegno, perché riteniamo che
questa stagione teatrale – dopo una navigazione assai incerta e che
giunse all’approdo sol per la ferrea volontà del timoniere il quale
porta un nome di buon augurio – rappresenterà un completo successo e
restituirà al Ventidio Basso il fastigio e la fama del passato.
Guardando il teatro, in platea come nei palchi, noi abbiamo l’immediata
impressione che la nostra Ascoli, cioè la parte più ricca e più
intellettuale, si è riunita per consacrare col suo giudizio la solennità
dell’avvenimento artistico il quale, per il fulgore della fama di
Riccardo Zandonai nostro illustre ed amato ospite, per la notorietà
degli esimi artisti, per la decorosità dell’intero allestimento, è
destinato a lasciare un ricordo non facilmente obliabile.
[...]
132 L’aspettazione dava a tutti un caratteristico senso di emotività; e così
quando Riccardo Zandonai ha tagliato rapidamente la sala gremita di
pubblico distintissimo ed è salito sul podio impugnando nervosamente la
bacchetta, tutto l’uditorio maschile e femminile si è levato in piedi e
gli ha fatto una lunga e vibrante ovazione, volendo così esprimere
all’incomparabile e grande Maestro la riconoscenza e l’ammirazione di
Ascoli.
Nella casa dei Polentani
Lo spettacolo si inizia in un raccoglimento religioso; l’orchestra, sin
dalle prime belle pagine introduttive del primo atto, si afferma di una
fusione, di una finezza e precisione perfette; e la musica di Zandonai
ci si presenta subito con le sue forti caratteristiche personali, onde
l’educazione dei nostri sensi uditori formata dalle maliose reminiscenze
di autori prediletti viene improvvisamente squassata, travolta, respinta
da un’onda nuova, assai più fresca e possente, da una vigorosità nervosa
e vibrante. Il batter delle ali di un grande aquilotto ha commosso la
roccia alpina e dalle sue vene ora sgorgano nuove linfe di dolcissimi
canti, così santificando e perpetuando col Genio di Riccardo Zandonai il
prodigio di una Patria immortale.
Le donne dei Polentani, quasi come tutte le donne, si avvicinano e
celiano col Giullare che sa narrar appetitose novelle; Ostasio,
scorgendo quel conversare, se ne adonta e malmena il povero Giullare
perché lo ritiene emissario dei Malatesti e teme che esso possa svelare
il segreto di Paolo che verrà col mandato di Gianciotto – lo sciancato –
per isposare Francesca. Ma il Giullare si salva dalle furie di Ostasio e
fugge; mentre Ostasio e Ser Toldo escono in cerca di Paolo.
Le donne di casa Polenta si raccolgono in un coro che si svolge su un
tema dolcissimo:
Oimè che adesso io provo
che cosa è troppo amore! Oimè.
Oimè ch’egli è un ardore
che al cor mi coce. Oimè
Escono dalle stanze ed attraversano la loggia Francesca e Samaritana, le
figlie di Guido minore da Polenta; Francesca si sofferma e sospira:
Amor le fa cantare!
È venuto Paolo, l’uomo che porterà lontano dalla sua casa una delle due
sorelle. Francesca non conosce il suo sposo; ma nel sogno della sua
solitaria giovinezza lo ha già visto splendente di bellezza. E quando
nella realtà vede l’uomo che attraversa il portico, e lo vede circonfuso
di ogni grazia, Francesca si commuove profondamente e nell’impeto
dell’amore prega, scongiura le sue donne:
Andategli incontro, e
ditegli ch’io lo saluto!
Ecco apparire Paolo Malatesta; il solo cancello lo divide da Francesca;
i due giovani si guardano senza parole e senza gesto. Francesca coglie
una grande rosa vermiglia e glie la offre. Con questo quadro d’amore, di
significato profondo perché segna l’attimo in cui due anime si fondono
in una fiamma, termina l’atto.
Il finale della musica è una meraviglia; suscita nell’animo una emozione
incomprimibile che si spande su tutto l’uditorio. Scoppiano, scrosciano,
s’addensano gli applausi; gli artisti si presentano quattro volte al
133 proscenio tra ovazioni lunghissime. Ma il pubblico, quasi tutto in
piedi, reclama il Maestro: ecco apparire la piccola nervosa figura di
Zandonai circondato dagli artisti. È accolto da una ovazione che risuona
con l’impeto di una tempesta. E per quattro volte il velario si chiude e
si riapre, tra gli applausi sempre generali ed interminabili.
Usciamo dalla sala ancor commossi dalla magnificenza dello spettacolo e
vibranti di entusiasmo; scambiandoci le prime impressioni, abbiamo la
esatta sensazione che tutti – nessuno escluso – sono entusiasti di
questa Francesca che è onore e vanto di coloro che la portarono sulle
nostre scene.
Presso le torri dei Malatesti
Si fanno alacri apprestamenti guerreschi dagli uomini della casa dei
Malatesti dove Francesca, andata sposa, ha trovato il suo vero marito,
Gianciotto. La battaglia si inizia e si svolge accanita e feroce con le
armi di quei tempi, armi assai più barbare dei moderni gas asfissianti.
Paolo e Francesca si amano furtivamente; nell’anima loro ardono tutti i
tormenti e trabocca nei loro cuori l’impeto della passione colpevole.
Paolo viene a partecipare alla battaglia, perché alla vita di uno
strazio insopportabile preferisce la morte. Mentre l’attacco guerresco
rugge e squilla, i due amanti ricordano il loro incontro. Dice
Francesca:
Videro
gli occhi miei l’alba,
la videro i miei occhi
sopra di me con l’onta
e con l’orrore.
E Paolo, disperatamente, pensa ad immolarsi:
Come debbo io morire?
Suona la campana di S. Colomba. È il segno. A fuoco, a fuoco, viva
Malatesta! urla il Balestriere; uno stuolo di armigeri accorre e dà mano
alle armi e alle macchine.
Paolo cerca la morte e si espone ai colpi dei nemici; Francesca vuol
seguirlo. Ad un tratto sembra ferito; non da ferro:
ma le vostre mani
toccato m’hanno, e l’anima disfatta
m’è dentro il cuore, e forza
più non ho d’esser vivo!
dice Paolo in un impeto accorato.
Ad un tratto, ecco arriva Gianciotto che grida vituperi agli armigeri
ch’egli ritiene felloni; e questi, come accade in ogni tempo, sono
pronti ad applaudirlo. La battaglia si placa, mentre Gianciotto, Paolo e
Francesca bevono nella stessa coppa e Gianciotto annunzia a suo fratello
la nomina a Capitano del Popolo a Firenze.
Giunge ora Malatestino ferito; egli in breve si rianima ed acceso di
odio contro i ghibellini, incita i suoi arcieri e li guida nuovamente in
battaglia. Il quadro finale è impressionante per vigoria aspra e
movimento. La musica lo svolge in un comento magnifico che strappa nuove
deliranti acclamazioni agli artisti ed al Maestro. Gli artisti sono
chiamati da soli 4 volte alla ribalta; e successivamente, presentatosi
Riccardo Zandonai, la dimostrazione si ripete entusiasticamente altre 5
volte, tra ovazioni grandiose e commoventi.
134 Per gentile pensiero dei volontari Fiumani, viene offerta al maestro
Trentino una grande corona d’alloro; mentre i simpatici e valorosi
giovani avevano diffuso tra il pubblico questo fervido messaggio:
«L’illustre Maestro Riccardo Zandonai che per il grande amore verso
l’Italia, doveva essere strangolato dal boia dell’impero AustroUngarico decaduto per sempre per virtù ed eroismo dei nostri
fratelli, oggi, ospite di Ascoli Piceno, fa rifulgere nel nostro
Ventidio con le sue sublimi armonie di Francesca da Rimini la
grandezza del genio Italiano!»
Galeotto fu il libro
Al terzo atto siamo nella camera di Francesca che è circondata dalle
donne; Paolo trovasi pel suo officio a Firenze ma Francesca è sempre
posseduta dal suo ricordo e ne attende il ritorno, perché è presa dalla
morsa della sua passione. Invano Smaragdi – la fattucchiera – cerca
pretesti per sollevare il suo spirito, ancor più turbato per cagione di
Malatestino che ha osato manifestarle il suo amore bieco e violento. Ma
Paolo abbandona Firenze e giunge improvvisamente, sospinto irrefrenabilmente dal suo amore.
Egli racconta a Francesca i suoi tormenti e poi legge il libro di
Galeotto:
E la reina vede il cavaliere
che non ardisce di fare di più.
Tra le braccia lo serra e lungamente
lo bacia in bocca...
Paolo bacia la cognata; quando le due bocche si distaccano, Francesca si
abbandona sui guanciali del ricchissimo letto, spaurita, sconsolata,
come spenta.
Da lontano s’ode lieve l’eco del coro mentre il movimento febbrile degli
archi conchiude questo episodio in cui lo spasimo di sue anime
innamorate assurge ad una sintesi di indescrivibile bellezza.
Le dimostrazioni si ripetono; tre volte vengono ovazioni agli artisti;
ben cinque volte il maestro Zandonai, verso il quale il pubblico non
cessa di manifestare l’onda del suo entusiasmo.
La bieca passione di Malatestino
Francesca teme Malatestino: E gli dice:
Perché sei tanto strano?
Avido d’ogni sangue
tu sei, sempre in agguato.
Nemico a tutti, In ogni tua parola
è una minaccia oscura.
Malaltestino, spinto dalla frenesia della sua passione, si avvicina a
Francesca per abbracciarla.
Non mi toccare, forsennato, o chiamo
il tuo fratello... ho pietà
di te, sei un fanciullo
perverso.
Malatestino ha un lampo sinistro di odio e maliziosamente le sussurra:
Chi vuoi tu chiamare?
– Il tuo fratello.
135 – Quale?
E per la sinistra passione propone a Francesca di disfarla di suo marito
e di risparmiare la vita di un prigioniero. Ma invano. E così
Malatestino esce con il proposito della vendetta.
Gianciotto, che sopraggiunge, trova Francesca tremante e spaurita; dalle
sue parole sospetta che Malatestino l’abbia offesa; vuol sapere. E
finalmente rientrando quel demone di vendetta, Malatestino, egli con
voce sorda e ciglio basso dice a Gianciotto:
E se il fratello vede che taluno
tocca la donna del fratello, e n’ha
sdegno, e s’adopra perché l’onta cessi
dimmi, pecca egli?
E se, per questo, accusato è d’avere
contro alla donna mal animo, dimmi:
giusta è l’accusa?
Gianciotto sobbalza terribile a questa rivelazione e vuole ed ottiene da
Malatestino la delazione completa: Paolo entra nella camera di
Francesca, di notte. Gianciotto vuol costatarlo.
–Vuoi stanotte?
–Voglio: urla Gianciotto.
Così la tragedia cammina verso il sanguinoso epilogo.
La vendetta di Gianciotto
Francesca, dopo essere restata tra le sue donne, le fa ritirare; mas nel
cuore vibra un presentimento mortale.
La melanconia notturna gonfia l’anima della donna. Si spengono le
lampade. Entra furtivamente Paolo che si getta nella braccia della
donna;
la
passione
dei
due
esseri
assurge
ad
una
grandezza
inesprimibile:
e tu sei mio
ed io son tutta tua
e la gioia perfetta
è nell’ardore della nostra vita.
Ai baci di Paolo, Francesca rabbrividisce e scolora, perché ha visto
aperta la porta. Ma l’amante, dominato dal suo spasimo, le dice:
Vieni, vieni, Francesca! ore di gaudii
lunghe ci son davanti.
Ti trarrò, ti trarrò dov’è l’oblio.
E Francesca:
Baciami gli occhi, baciami le tempia
e le guance e la gola...
tieni, e i polsi e le dita...
così... prendimi l’anima e riversala.
E Paolo:
Dammi la bocca. Ancora! ancora!
136 Mentre la donna è abbandonata sui guanciali, immemore, vinta, s’ode nel
silenzio un urlo terribile. È la voce di Gianciotto, del marito e
fratello tradito:
Francesca, apri Francesca.
Paolo, per salvare Francesca, tenta scendere in una cateratta; ma prima
si precipita furibondo su di lui Gianciotto; colpiti dal suo ferro,
avvinti anche nella morte, i due amanti raccolgono sulle loro bocche
l’ultimo respiro.
La fine della tragedia, così profondamente impressionante, lascia nel
pubblico una prima stretta di commozione violenta; poi scoppiano gli
applausi he consacrano questa magnifica edizione ascolana di Francesca
da Rimini, preparata dall’impresario sig. Albertarelli con slancio e
munificenza, onde è lecito attendersi il più completo successo della
benemerita Deputazione Teatrale con a capo l’egregio Sindaco Mari.
***
Le artistiche e riuscitissime caricature» sono state disegnate dal
nostro Musacchio» sig. Liberi Siro, al quale non mancherà un brillante
avvenire.
I fini clichés sono stati lavorati dal valente zincografo concittadino
Mario Pasinati.
Gli esecutori
Il Sindaco Benito Mari e gli altri membri della Deputazione Comm. Merli,
Marchese Serianni e Ing. Mario Mari e gli stessi condomini con la loro
munificenza, la Commissione per gli spettacoli pubblici composta dai
signori Pietro Trocchi, Giovanni Colucci, Ugo DE Scrilli. avv.
Alessandro Ferri, hanno conquistato per la magnifica esecuzione di
Francesca da Rimini nuovi titoli di riconoscenza da parte della
cittadinanza.
Questa edizione ascolana della Francesca ha il merito di aver raccolto
uno stuolo di elettissimi artisti. La nostra concittadina signora Linda
Barla-Ricci non è stata imposta da viete considerazioni campanilistiche,
ma è qui giunta preceduta da una fama meritatissima per i successi
riportati sui primi teatri italiani. Al tesoro naturale della sua voce
magnifica, fresca, ben timbrata, di un registro vasto ed uniforme, la
signora Barla unisce un metodo razionale ed accurato. Nella parte di
Francesca, ove la venustà delle forme della nostra concittadina
rievocano la bellezza della figlia di Guido da Polenta, poche artiste
possono eguagliarla per il gesto passionale e per l’efficacia drammatica
di tutta la difficoltosa azione.
Mion Irma, la Samaritana, che ha mezzi vocali veramente notevoli, si è
fatta assai apprezzare.
Il tenore Caceffo Socrate si è imposto subito per la vigorìa e la
morbidità del suo canto, rivelandosi anche nel giuoco drammatico ottimo
compagno della Barla.
Il baritono Enrico Roggio, Giovanni lo sciancato, è un artista di
altissimo merito; la sua voce è ampia e gradevole, e le risorse
dell’arte danno un immenso rilievo alla sua difficile parte. Sarà un
insuperabile Scarpia.
Mazza Aurelio (Ostasio) canta con molta grazia ed efficacia; bene si è
affermato il tenore Gino Treves in Malatestino.
Le donne di Francesca, a cominciare da Lina Nobili che in Garsenda
ottiene un brillante successo per la bellezza della voce e la grazia del
canto, sono tutte degne di lode: diamo i loro nomi: Annina Santoro,
Luisa Squarzina, Marcolini Vittoria, Debora Fambri, e siamo certi che
esse, nessuna esclusa, potrebbero ben figurare in parti primarie.
137 Ottimo Ser Toldo è stato Elviro Giunta; il basso comico Scattola Carlo
non poteva render meglio la figura del Giullare ed ha cantato la sua
parte con vero godimento del pubblico.
I cori, preparati e diretti da un valente maestro come il Bernardelli,
sono riusciti di una precisione e coloritura perfetta.
Come trovar parole per esprimere la nostra ammirazione per il magistero
dell’orchestra? Diciamo soltanto che poche volte accade di poter riunire
un simile complesso di valenti professori. E sotto la bacchetta di
Riccardo Zandonai, magico [...]
187
Ascoli a Riccardo Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 3.12.1922
Ascoli Piceno, 1 dicembre.
Il
ricevimento
offerto
dall’Amministrazione
comunale
all’illustre
maestro Riccardo Zandonai, che ha qui diretto la sua magnifica Francesca
da Rimini, non poteva riuscire più solenne e cordiale.
Le sontuose sale del Palazzo comunale accolsero quanto di più eletto
vanti la nostra città: abbiamo visto e segnato a caso:(*)
L’avv. De Sanctis, in nome della città, pronunziò un bellissimo discorso
inneggiando all’arte del maestro Zandonai; l’oratore fu interprete
eloquente dei sentimenti di riconoscenza degli ascolani; e nell’esame
artistico dell’opera del maestro triestino [sic] dimostrò vigoria di
pensiero e genialità di cultura. Concluse poeticamente ricordando
l’episodio dantesco della Francesca, di cui, nella bella sala, è
artistico pregio il bronzo del concittadino scultore Dal Gobbo. Generali
applausi coronarono l’ispirato discorso del rappresentante del Comune ed
una lunga ovazione venne rivolta al maestro Zandonai.
Quindi i graditi ospiti visitarono le nostre numerose e splendide sale,
dove si raccolgono in gran copia i documenti più insigni dell’arte
antica e moderna, tra cui si annovera il famoso Piviale di Sisto V,
rubato e poi restituito con gesto di munificenza da Pierpont Morgan che
lo aveva in buona fede acquistato in Inghilterra.
Elegante e ricco riuscì il tè offerto ai numerosi invitati, a cui furono
serviti anche dolci e liquori.
Il ricevimento riuscì una calda dimostrazione di riconoscenza e di
ammirazione al maestro Zandonai; e meritano plauso i dirigenti
l’amministrazione comunale che ne presero l’iniziativa.
Un meritato elogio vogliamo fare all’ingegnere Paoletti capo dell’
ufficio tecnico che curò personalmente l’organizzazione della importante
riunione, secondato dall’economo comunale sig. Antonio Bianchi.
---------(*)
Si omettono le successive 47 righe che riportano i nomi degli intervenuti.
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(extra) 1922 (188)
188
«Francesca da Rimini» illustrata a «Musica» dall’Autore, «Musica» XVI/2,
30.1.1922
Lunedì 16 le sale della nostra Redazione si aprirono ad una originale
simpaticissima festa che è destinata a segnare una data memorabile
nell’attività del nostro giornale. Riccardo Zandonai eseguiva al
pianoforte i punti più salienti della sua fortunata opera «Francesca da
Rimini» col concorso dei valorosi artisti che la interpretano nell’
attuale
stagione
del
Costanzi:
Gilda
Dalla
Rizza,
insuperabile
Francesca, il baritono Maugeri, Gianciotto perfettissimo, e la signorina
Vitulli, delicata Samaritana. Mancava il tenore Fleta ed ecco che
138 insistentemente pregato il Maestro stesso si mette a leggere la parte di
Paolo accompagnandosi al piano. Il duetto del 3° atto acquistò una
mirabile vivezza, un’espressività che solo dall’autore-attore si può
aspettare: molti si richiamarono all’antica arte greca.
Il pubblico elettissimo si accese di schietto irruento entusiasmo e alla
fine del 3° atto e del duetto dell’atto 4° fra Gianciotto e Malatestino
(impersonato con altrettanta energica suggestione dal M. Zandonai)
tributò all’Autore e agli esecutori ripetute salve di applausi.
Efficaci e utilissime furono le limpide parole con le quali l’on.
Giovanni Tofani aveva prima dell’audizione esposto notizie e dati su la
nascita dell’opera d’arte insigne, e sui rapporti di verace amicizia
intercorsi fra Gabriele D’Annunzio, allora (1912) esule, e Riccardo
Zandonai.
Come dicevamo, questa data del 16 gennaio sarà memorabile per noi,
perché segna il glorioso principio di quei Commenti Lirici che dovranno
essere una iniziativa nuova originale e feconda e per la quale abbiamo
già raccolto numerose e autorevoli adesioni. [...]
Senza ripeterci, ci limitiamo a ricordare che lo scopo di questi
commenti è di ripassare, illustrare e commentare al pianoforte opere
vecchie cadute in dimenticanza ovvero opere novissime che siano per
essere o siano state da poco sottoposte al giudizio del pubblico.
In questo secondo caso gli autori stessi parleranno del proprio lavoro,
lo soneranno al pianoforte e sceglieranno gli artisti che ne mettano in
luce con l’esecuzione accurata i brani più salienti, come nel caso di
«Francesca».
(Omissis)
Riccardo Zandonai ci leggerà nella prima quindicina di febbraio la sua
Giulietta e Romeo per cui è vivissima l’attesa al Costanzi.
[...]
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