Untitled - Federazione BCC Emilia Romagna

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Master Course
in diritto del lavoro
e amministrazione
del personale
Lezioni, contributi, documenti
a cura di Enrico Gragnoli
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uaderni di formazione
Collana di incontri e studi
a cura della
Federazione delle Banche
di Credito Cooperativo dell’Emilia Romagna
MASTER COURSE - Bologna, Gennaio - ottobre 2007
PRESENTAZIONE
Giulio Magagni
Presidente Federazione Regionale BCC Emilia Romagna e Iccrea Holding
INTRODUZIONE
Daniele Quadrelli
Direttore Generale Federazione Regionale BCC Emilia Romagna
Enrico Gragnoli - Luca Zaccarelli
L'inquadramento dei lavoratori
Potere di controllo del datore di lavoro
Il licenziamento disciplinare
pag.
pag.
pag.
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29
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Sintesi per schede delle giornate di studio
pag.
65
Giuseppe Alai
In conclusione
pag.
99
Alessandro Trombetti - Roberto Zalambani
Federazione Banche di Credito Cooperativo dell’Emilia Romagna
Via Calzoni, 1/3 - 40128 Bologna - Tel. 051.6314011 - Fax 051.379084
[email protected] - www.fedemilia.bcc.it
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Presentazione
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e persone che agiscono nell’ambito dei processi
chiave di business dell’industria dei servizi finanziari hanno bisogno di essere preparate al meglio
per affrontare sistemi e mercati sempre più evoluti e competitivi.
Con questo obiettivo primario, la nostra Federazione ha promosso un Master in diritto del lavoro
e amministrazione del personale che ha inaugurato una nuova fase formativa e progettuale all’interno del sistema del Credito Cooperativo che ha
fatto scuola e si sta rivelando di particolare utilità
per affrontare le sfide e i cambiamenti che stanno
interessando il personale delle BCC e delle società prodotto e di servizio.
Fondamentale risulta al riguardo la crescita professionale della funzione risorse umane nell’ambito della gestione amministrativa delle persone
con specifica attenzione agli aspetti amministrativi, giuridici e normativi che caratterizzano il
rapporto di lavoro.
Ringrazio pertanto il Direttore generale della
Federazione Daniele Quadrelli che ha diretto e
coordinato il Master, Enrico Gragnoli, relatore,
docente universitario e avvocato di chiara fama,
per la consulenza scientifica tanto del percorso
formativo che di questo “Quaderno”, il nostro
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servizio formazione e tutti i colleghi e collaboratori che hanno supportato l’aula, e tutti i prestigiosi docenti che ci hanno accompagnato in questo
impegnativo ma fruttuoso percorso.
Giulio Magagni
Presidente della Federazione delle Banche
di Credito Cooperativo dell'Emilia Romagna
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Introduzione
Daniele Quadrelli
Direttore Generale Federazione Regionale BCC Emilia Romagna
Questo ‘ Quaderno’ nasce a un anno
dalla conclusione del “Master Course
in Diritto del Lavoro“, una grande novità formativa per il Credito Cooperativo, promossa dalla Federazione dell’
Emilia Romagna, modello per il sistema ma soprattutto finalizzato - con
esiti eccellenti - a costruire nelle Bcc
un gruppo di professionisti, preparati
e motivati a gestire al meglio un settore così delicato e centrale: le risorse
umane in azienda.
Sono state ben 23 le giornate di lezione, ricche di stimoli per la varietà,
ovviamente in un contesto di coerente
programmazione, dei contributi formativi sia di docenti esterni di alto livello sia di competenze che il nostro
sistema ha mostrato di saper mettere
in campo. L’ attualità stringente di alcune problematiche e la continua evoluzione del quadro legislativo e normativo, per non parlare dei frequenti
contenziosi interpretativi e di norme
particolarmente complesse anche per
gli addetti ai lavori, se riportate nell’
integralità con la quale sono state
esposte, rischiavano di rendere questo
"Quaderno" già vecchio appena fosse
stato pubblicato.
Abbiamo pertanto ritenuto di rendere
un servizio più utile alle Bcc, ai partecipanti al Master e a tutti coloro che
vorranno confrontarsi con le problematiche esposte, chiedendo al Coordinatore scientifico del corso, avvocato
professor Enrico Gragnoli, e all’ avvocato e consulente del lavoro Luca
Zaccarelli, che è stato protagonista di
lezioni particolarmente apprezzate, di
riprendere alcuni dei temi di maggiore
interesse e utilità per i dirigenti e gli
addetti delle Bcc all’ area risorse umane, e gestione del personale, e, modulandosi nell’ approccio utilizzato per il
"Master" , di aggiornandoli nell’ ottica
della legislazione e delle norme vigenti al momento della pubblicazione.
Nel ringraziare pertanto loro e più in
generale tutti i docenti del corso per la
passione e la professionalità con cui
hanno approcciato l’ aula composta da
funzionari e operatori di quasi tutte le
nostre Bcc, presentiamo ai lettori questo volumetto che, peraltro, oltre ai tre
saggi di questi docenti, e la presentazione del Presidente della Federazione ingegner Giulio Magagni, riporta schede
sintetiche degli argomenti trattati nelle
23 giornate e dei docenti che si sono
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alternati nelle aule della Federazione.
Vorrei tuttavia, in questa introduzione,
fare alcune osservazioni e riflettere su
alcune tematiche sulle quali il credito
cooperativo, peraltro non ancora a sufficienza, si confronta oggi nel mondo
del cambiamento globale.
La prima è che questo lungo e impegnativo percorso formativo ha consentito un fruttuoso scambio di conoscenze e di esperienze tra collaboratori di
diverse età lavorative, provenienti da
banche in apparenza assai differenti
per dimensioni , approccio al territorio, contesti di riferimento.
La seconda è che questo scambio è avvenuto ancor più fruttuosamente con i
colleghi della Federazione e con la nostra struttura consulenziale potenziata
nell’ assistenza tecnica, nei livelli di
competenza, nelle tecnologie messe in
campo quali le piattaforme di rete, i sistemi più avanzati di videoconferenza,
la rete di saperi, la positiva accettazione degli obblighi formativi in settori
delicati quali la sicurezza e il soccorso, che troveranno un contenitore particolarmente accogliente e innovativo
nella nuova sede della Federazione in
corso di avanzato allestimento all’ interno del Bologna Business Park.
La terza è la conferma che ,anche
trattando problematiche di carattere
tecnico, di leggi “ uguali per tutti “, l’
approccio del credito cooperativo può
mantenersi “ differente “ nel senso che
il rispetto e la valorizzazione delle persone non possono fermarsi alle enunciazioni di principio ma devono trovare pratica quotidiana e riconoscibile
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nel lavoro di tutti i giorni, nell’ intranet
e nelle relazioni aziendali ma anche, e
soprattutto, nel rapporto con i soci e
la clientela, che è un rapporto di forte
prossimità, che lo vogliamo o no.
Questo rapporto è evidentemente un’
arma a doppio taglio: un grande vantaggio competitivo nel momento nel
quale la fiducia, da una parte e dall’
altra dello sportello, si costruisce, si
consolida, si allarga nella comunità;
un altrettanto grande rischio quando il
rapporto si incrina, serpeggia l’ insoddisfazione per operazioni non andate
a buon fine, deludenti nel rendimento
anche per fattori esterni e imprevedibili, addirittura per piccole disattenzioni magari legate a casuali fattori
del momento.
Quel cliente insoddisfatto lo trovi anche fuori dal lavoro, in chiesa piuttosto
che al bar, nei circoli ricreativi piuttosto che alla partita di calcio, nelle frequentazioni commerciali di ogni giorno; e non puoi pensare di rimuovere il
problema con l’ allontanamento dalla
zona del disagio, come invece fatto a
volte dalle grandi banche.
Abbiamo messo in campo la cultura,
l’ innovazione, la competenza, la capacità di ascolto e di rapporto con gli
altri anche attraverso tecniche che i
nostri Corsi di formazione, grazie alla
società del Gruppo SeF Consulting,
propongono da tempo in aula e che
riguardano tutta l’ area transazionale,
dalla relazione con il cliente all’ emotività quale fattore di successo.
In questo “ Master “ siamo partiti parlando di logiche di sistema del credito
cooperativo, abbiamo parlato di relazioni sindacali, di risorse umane, di
ruoli e di responsabilità nella gestione del personale.; abbiamo terminato
calando la gestione del personale nei
contesti aziendali, proponendo modelli di gestione e di sviluppo delle
risorse umane nel settore bancario cooperativo, parlando di sinergie, competenze e responsabilità. Quindi, come
acutamente ha osservato nell’ incontro
conclusivo il Presidente della Commissione regionale sulla formazione
Giuseppe Alai, i partecipanti hanno intensamente lavorato per crescere nelle
responsabilità e per dotarsi di quelle
capacità critiche che, per chi lavora
nella cooperazione,significano: trasfe-
rimento delle competenze, maggior
senso del dovere, maggiore autonomia
propositiva. E lo sforzo , anche economico, della Federazione e delle Bcc
Associate sarebbe stato inutile se i corsisti, tornati nelle proprie aziende, non
fossero stati messi nella condizione di
attuare le cose che hanno appreso.
Cosa che, per fortuna, non si è verificata, a merito delle Direzioni delle
nostre aziende che ci affiancano nella
condivisione delle scelte formative.
Ringrazio anche la Direzione Generale di Federcasse che ha consentito
di portare in aula in qualità di relatori i responsabili nazionali dei servizi
di consulenza nei settori oggetto del
"Master".
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L'inquadramento
dei lavoratori
Enrico Gragnoli
Luca Zaccarelli
1. Nozione.
2. Le qualifiche e l’art. 2103 cod. civ..
3. Le categorie legali.
4. Le qualifiche della contrattazionecollettiva ed il sistema di
inquadramento unico.
5. Il cosiddetto “diritto alla qualifica”.
6. La qualifica convenzionale.
7. La dequalificazione ed il risarcimento del danno.
8. L’adibizione a mansioni equivalenti.
9. La promozione.
10. L’inquadramento dei lavoratori pubblici.
1. Nozione.
Se le mansioni sono i compiti affidati
al singolo prestatore di opere e, pertanto, l’oggetto del contratto individuale, l’inquadramento è il sistema,
legale e contrattuale, di classificazione del facere, affinché possano essere
raggruppati i rapporti omogenei, con
la correlata identificazione del trattamento economico e normativo, stabilito in relazione alle categorie dell’art.
2095 cod. civ. e, per altro verso, in ragione delle qualifiche identificate dai
contratti collettivi. Se, in una prima
accezione, “qualifica” è un semplice
sinonimo di mansioni, più di frequente la locuzione identifica un meccanismo di valutazione dell’attività dovuta
e svolta. Quindi, la qualifica coincide
con la posizione nel complessivo inquadramento, attribuita secondo un
procedimento logico di paragone fra
le caratteristiche della prestazione
e le declaratorie generali, formulate
dall’accordo sindacale.
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L’inquadramento è il sistema di classificazione del facere, predisposto in
un primo livello di approssimazione
dall’art. 2095 cod. civ. e, poi, con un
dettaglio molto maggiore, dalle intese
collettive.
In questa prospettiva, la qualifica è
stata ritenuta un mero indice abbreviato di una serie di posizioni soggettive
attive e passive e, cioè, uno strumento
che riordina rapporti con connotazioni
simili, al fine di suddividerli in gruppi
omogenei e di fare sì che ciascun insieme abbia il medesimo trattamento,
in ordine alla retribuzione, ma anche
a molti altri aspetti, dalla durata del
periodo di prova a quella del periodo
di preavviso, per toccare i più diversi
profili della regolazione collettiva.
Da un primo punto di vista, lo studio
dell’inquadramento postula la riflessione sull’art. 2095 cod. civ., per la necessaria considerazione delle categorie
legali di dirigenti, quadri, impiegati ed
operai, non solo per la reciproca distinzione delle varie figure, ma anche
per cogliere le differenti disposizioni
applicabili alle une od alle altre.
Sotto un secondo punto di vista, l’analisi dell’inquadramento si traduce nella ricostruzione di una parte presente
in tutti i contratti nazionali di categoria, con enorme varietà di soluzioni,
seppure con alcuni tratti comuni.
La definizione della qualifica presuppone l’interpretazione degli accordi e,
dunque, delle numerose declaratorie
che, in ciascuno di essi, delimitano i
confini di ogni qualifica e, di conse10
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guenza, le prestazioni ivi ricomprese.
Una certa fantasia si esprime anche
nella denominazione e si sprecano i riferimenti ai numeri ordinali e cardinali
ed alle lettere, con varie combinazioni. Maggiore omogeneità si riscontra
in tema di lavoro pubblico “privatizzato”, anche se, ormai, il sistema di
inquadramento è abbastanza simile a
quello del lavoro privato, nonostante
l’applicazione solo parziale dell’art.
2103 cod. civ., per le deroghe apportate dal decreto legislativo n. 165 del
2001, in primo luogo in tema di promozioni.
2. Le qualifiche e l’art. 2103 cod.
civ..
Nell’accezione prevalente di criterio
di classificazione elaborato dalla contrattazione collettiva, la qualifica (e
lo stesso vale per le categorie legali
dell’art. 2095 cod. civ.) è in funzione
delle mansioni e, pertanto, dei compiti oggetto del contratto individuale,
a loro volta considerati dall’art. 2103
cod. civ., che, in particolare, alla luce
delle trasformazioni apportate dall’art.
13 St. lav., si sofferma sulla protezione del prestatore di opere a fronte delle modificazioni organizzative
dell’azienda e degli eventuali provvedimenti del datore di lavoro.
Di per sé, l’art. 2103 cod. civ. non regola l’inquadramento e le relative tecniche, né interferisce con gli accordi
collettivi e, in particolare, con quelli
di categoria, lasciati arbitri di definire
i parametri di valutazione delle diver-
se attività e, quindi, il raccordo fra le
mansioni ed il trattamento prefigurato.
Peraltro, poiché l’inquadramento presuppone la sintesi delle mansioni, le
relative indicazioni dei contratti proteggono la professionalità, con una tutela perfezionata dal testo oggi vigente
dell’art. 2103 cod. civ..
Per tale ultima disposizione, i compiti iniziali sono stabiliti, al momento
dell’assunzione, dal negozio individuale di lavoro; l’art. 2103 cod. civ.
vieta la dequalificazione (legittima
solo nei casi regolati in via espressa
da norme derogatorie), permette la
variazione delle mansioni a parità di
qualifica solo qualora le nuove siano
equivalenti alle precedenti dal punto
di vista professionale e disciplina la
promozione, riconoscendo l’immediato diritto alla maggiore retribuzione dal momento dell’adibizione alle
funzioni più rilevanti e lo stabilizzarsi
del provvedimento del datore di lavoro dopo tre mesi dalla sua adozione,
salvo il caso della semplice sostituzione di un dipendente assente con diritto
alla conservazione del posto.
Peraltro, rispetto all’evoluzione del
sistema contrattuale di inquadramento, le novità apportate nel 1970 all’art.
2103 cod. civ. non sono state affatto
neutre, ma hanno incoraggiato i soggetti collettivi a sperimentare nuovi
meccanismi di classificazione, con il
progressivo consolidarsi del cosiddetto sistema di inquadramento unico e,
quindi, con la concomitante considerazione, all’interno delle medesime
posizioni, sia di impiegati, sia di operai e, in alcuni casi, dei quadri.
Di fronte alla complessità delle declaratorie prefigurate dai contratti, l’interprete è costretto a delicati sforzi,
per riportare clausole di difficile lettura al frenetico modificarsi del contesto
aziendale ed alle rapide trasformazioni
di ciascuna impresa e della sua organizzazione.
Peraltro, hanno avuto scarso successo
i tentativi di alcuni accordi di deferire
ad organismi paritetici la responsabilità di stabilire l’inquadramento o di
governare in modo consensuale i processi di carriera.
Quindi, in prima battuta, spetta al datore di lavoro procedere alla ricostruzione della volontà dei soggetti collettivi
e, sulla base della ricognizione delle
mansioni, identificare il corrispondente inquadramento, comunicando le sue
conclusioni, anche ai sensi dell’art. 96
disp. att. cod. civ..
L’eventuale contestazione del prestatore di opere può portare ad un giudizio nel quale, per un verso, occorre
accertare i compiti svolti e, per altro
verso, ricondurli alle declaratorie, a
loro volta da interpretare e, quindi, da
riportare alla realtà produttiva ed alle
dinamiche gestionali.
Pertanto, “nel procedimento diretto
alla determinazione dell’inquadramento non si può prescindere da tre
fasi successive e, cioè, dall’accertamento delle attività esplicate, dall’individuazione delle qualifiche e gradi
previsti dal contratto di categoria e
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dal raffronto dei risultati di tali due indagini” (v. Cass. 16 febbraio 2005, n.
3069, in Giur. it. mass., 2005, c. 287).
Dunque, la ricognizione delle mansioni si accompagna alla ricostruzione della portata di ciascuna qualifica
e, quindi, all’interpretazione del testo
negoziale.
Il paragone richiesto non è sempre
agevole; ad esempio, il carattere vicario dell’attività preclude il diritto
al superiore inquadramento (v. Cass.
16 agosto 2004, n. 15968, in Giur. it.
mass., 2004, c. 897) e, nell’ipotesi di
mansioni promiscue, quella prevalente
non deve essere individuata sulla base
di una mera contrapposizione quantitativa, ma con l’identificazione, in base
all’analisi qualitativa, del compito più
significativo sul piano professionale
(cfr. Cass. 23 giugno 1998, n. 6230, in
Giur. it. mass., 1998, c. 457), quindi
con una valutazione complessiva e,
per ciò solo, opinabile.
Comunque, in un eventuale giudizio,
il lavoratore ha l’onere di allegare e
di provare quali siano i profili caratterizzanti dell’inquadramento richiesto, raffrontandoli con la sua attività
(v. Cass. 21 maggio 2003, n. 8025, in
Mass. giur. lav., 2003, p. 699).
In sostanza, il collegamento fra compiti e qualifica si traduce in quello fra
la realtà della vita produttiva e le indicazioni normative delle clausole dei
contratti, con un dialogo non sempre
agevole fra il modificarsi progressivo
e spesso rapido dei contesti aziendali
e le previsioni generali che, riferite a
molte situazioni diverse, sono talora
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impostate con locuzioni di voluta ambiguità. Le relative controversie si trasformano di frequente in dispute nominalistiche, sul significato delle varie
parole, con la difficoltà di riportare il
lessico dei contratti ad una appagante valutazione del lavoro e del suo
multiforme atteggiarsi. Peraltro, con
riguardo all’azione di accertamento
giudiziale della qualifica superiore, il
risultato utile e rilevante, richiesto per
la sussistenza dell’interesse ad agire,
è costituito dalla rimozione di uno
stato di incertezza sull’esatta portata
dei diritti e degli obblighi delle parti,
correlati all’inquadramento (v. Cass. 4
giugno 2004, n. 10661, in Mass. giur.
lav., 2005, p. 751).
3. Le categorie legali.
L’art. 2095 cod. civ. regola un insieme di categorie, di varia importanza, a
loro volta presupposto degli interventi
della contrattazione collettiva, in parte
votata a costruire su tale base il sistema delle qualifiche, in parte orientata
a prescindere dalle indicazioni dello
stesso art. 2095 cod. civ., come traspare dal cosiddetto inquadramento unico
e, pertanto, dalla considerazione nello
stesso sistema negoziale sia degli impiegati, sia degli operai.
Con riguardo alle condizioni di attribuzione della dirigenza, per lo meno
le tesi ultime della giurisprudenza sottolineano più il risalto delle clausole
dei contratti collettivi che il significato intrinseco della figura, desumibile
dall’art. 2095 cod. civ.; per esempio, si
suggerisce di non fare riferimento alla
nozione legale, ma alle relative previsioni degli accordi, cui il giudice di
merito avrebbe il dovere di attenersi,
per un loro preteso valore vincolante
e decisivo, sorretto dalla valutazione dell’esperienza di ciascun settore
merceologico, compiuto dai soggetti
stipulanti (v. Cass. 26 aprile 2005, n.
8650, in Giur. it. mass., 2005, c. 479).
Peraltro, in altre pronunce, i tratti caratteristici e tradizionali dell’impianto
dell’art. 2095 cod. civ. riaffiorano in
modo più chiaro, poiché si sottolinea
l’importanza dell’autonomia e della
discrezionalità delle scelte decisionali
dei dirigenti, in modo che la loro attività influisca sugli obbiettivi complessivi dell’imprenditore (v. Cass. 30 agosto 2004, n. 17344, in Lav. giur., 2005,
p. 281); anzi, il dirigente non dovrebbe
essere sottoposto ad una dipendenza
gerarchica, con l’esercizio di funzioni
tali da influire sulla conduzione di una
intera azienda o di un suo ramo autonomo, e non circoscritte ad un suo settore (cfr. Cass. 27 aprile 2004, n. 8064,
in Gius, 2004, p. 3442).
Ne deriva un panorama composito, nel
quale il rinvio alle indicazioni negoziali si combina con l’opposta tendenza a sottolineare elementi desunti dalla
ricostruzione dell’art. 2095 cod. civ..
Quindi, le sentenze si affidano ora alle
formule più analitiche dei contratti,
ora all’elaborazione tradizionale della
stessa giurisprudenza, piuttosto basata
sull’art. 2095 cod. civ..
Peraltro, il dibattito è significativo per
le rilevanti conseguenze del ricono-
scimento dell’appartenenza alla categoria di dirigente, con implicazioni
sulla definizione dei contratti collettivi
applicabili, soprattutto sulla disciplina
dei licenziamenti individuali.
Al contrario, resta confinata nell’interpretazione e nell’attuazione del
negozio collettivo la determinazione
del concetto di funzionario, ripreso
solo da taluni accordi, ad esempio nel
settore bancario, in contrapposizione
alla dirigenza e, quindi, con la scontata applicazione della legge n. 604 del
1966.
Al confine fra regolazione eteronoma
e contrattazione si pone la legge n. 190
del 1985, che ha introdotto la categoria del quadro, peraltro rimettendo ai
soggetti sindacali il compito di regolarne configurazione ed implicazioni.
Se mai, nel segno di una attenuazione
delle rigidità imposte dall’art. 2103
cod. civ., l’art. 6 della legge n. 190 del
1985 permette agli accordi collettivi di
stabilire un periodo di tempo superiore a tre mesi per conseguire il diritto
ad una qualifica propria della catego-
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ria dei quadri o di quella dei dirigenti
(v. Cass. 5 luglio 2004, n. 12238, in
Giur. it. mass., 2004, c. 1097), e questa
pare una delle novità più significative
dell’intera legge n. 190 del 1985.
Se, ormai, in un sistema di inquadramento unico, la categoria degli intermedi ha perso di significato, le ultime
evoluzioni normative hanno ridimensionato l’importanza della contrapposizione fra impiegati ed operai, per lo
più imperniata sulla natura manuale
od intellettuale dell’attività.
Peraltro, la distinzione ha perso molto
risalto, se non per aspetti previdenziali, ad esempio con riguardo al regime
dell’indennità di malattia.
Questa linea di tendenza ne testimonia
una più generale; ad eccezione della
categoria dei dirigenti, le altre dell’art.
2095 cod. civ. hanno vista ridotta la
loro incidenza sulla determinazione
del trattamento dovuto e, quindi, le
implicazioni dei contratti hanno acquistato un peso sempre maggiore,
divenendo il fulcro dell’intero inquadramento, a scapito dell’art. 2095 cod.
civ. e delle sue nozioni.
L’inquadramento è sempre più materia di contrattazione e non di legge,
se si esclude il caso più contrastato e
complesso dei dirigenti, in specie per
le conseguenze in tema di disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
4. Le qualifiche della contrattazione
collettiva ed il sistema di inquadramento unico.
Salutata con entusiasmi forse ecces14
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sivi, la svolta della contrattazione a
favore del sistema di inquadramento
unico ha contribuito a ridimensionare l’importanza della distinzione fra
attività impiegatizie ed operaie, in un
contesto produttivo nel quale l’adozione di moderne tecnologie addensa
anche nelle funzioni per tradizione
operaie componenti intellettuali, con il
necessario uso di macchine complesse
ed il ricorso a cognizioni non banali,
in specie di natura informatica.
Invece, sul piano del trattamento e,
quindi, delle implicazioni economiche
delle diverse qualifiche negoziali, l’inquadramento unico non ha apportato
le evoluzioni attese e, in primo luogo,
non ha introdotto significativi miglioramenti patrimoniali per i lavoratori
adibiti alle mansioni di minore contenuto professionale.
In realtà, con il sistema di inquadramento unico vi è stata una riduzione
delle differenze retributive tra i livelli
alti e quelli bassi.
In generale, la giurisprudenza riconosce un ampio spazio di autonomia
all’accordo sindacale, al quale è consentito prorogare l’efficacia dei precedenti contratti, modificare, anche in
senso peggiorativo, i vecchi inquadramenti e le pregresse retribuzioni, fermi
i diritti quesiti, nonché disporre sulla
prevalenza da attribuire di volta in volta ad una clausola del contratto nazionale o di quello aziendale (v. Cass. 26
giugno 2004, n. 11939, in Mass. giur.
lav., 2004, p. 789).
Del resto, queste conclusioni riportano al tema specifico un più generale
approccio del diritto contemporaneo
sull’autonomia sindacale e sui suoi
atti.
Peraltro, di fatto, sono contenute le
differenze di trattamento collegate
all’inserimento nell’una o nell’altra
qualifica, poiché la progressione economica è spesso poco pronunciata, per
una scelta comune a molti accordi di
categoria.
Quindi, la valorizzazione della professionalità e le sue implicazioni sulle
dinamiche salariali sono rimesse con
intensità molto maggiore al negoziato
individuale, in specie per quei prestatori di opere con meriti significativi e
con competenze rilevanti dal punto di
vista tecnologico e produttivo.
Di conseguenza, l’inquadramento ha
visto ridimensionate le sue ricadute
patrimoniali e non è più il principale
criterio di diversificazione del corrispettivo dovuto e di valorizzazione del
merito.
Il frequente intervento del contratto
individuale e la remunerazione della
dedizione personale con superminimi
hanno ridotto l’impatto dell’attribuzione dell’una o dell’altra qualifica,
con una tendenza alla compressione
delle differenze rispettive e, dunque,
con una progressiva perdita di significato patrimoniale dell’inquadramento.
Tale linea di tendenza, ancora contrastata, ma abbastanza evidente, determina una netta distinzione dall’impostazione del lavoro pubblico, invece
basato sempre, anzi in misura crescente, sull’inquadramento quale meccanismo fondamentale di organizzazione
gerarchica e di remunerazione dell’impegno di ciascun prestatore di opere.
Se, nel lavoro privato, le capacità trovano riscontro nel contratto individuale, nelle amministrazioni il senso di
appartenenza di ciascun prestatore di
opere per la sua qualifica rimane cruciale, vista l’assenza di altre forme di
incentivazione o di premio.
In ogni caso, sia nel lavoro privato, sia
in quello pubblico, la classificazione
ha luogo con valutazioni che collocano ciascuna prestazione in scale caratterizzate da una crescente complessità
concettuale, con il delicato tentativo
di stabilire l’impegno richiesto, le responsabilità connesse e, dunque, il valore organizzativo e retributivo di ogni
attività.
L’innovazione tecnologica costante e
la rapida trasformazione dell’assetto
produttivo minacciano la credibilità di
tale catalogazione, in specie facendo
emergere in modo repentino l’importanza di funzioni prima ignote e di difficile collocazione.
Quanto più rapidi sono tali processi,
tanto minore è la complessiva coerenza del sistema, come è dimostrato
dall’esperienza delle aree più dinamiche del mondo dell’impresa, aree nelle
quali è massiccio lo spiazzamento della logica dei contratti collettivi e dove
è imponente il ricorso al negoziato
individuale per la specifica individuazione della retribuzione.
Se, invece, l’organizzazione è meno
fluida e più stabile e l’innovazione è
più lenta, come accade nelle pubbliche amministrazioni, ma anche in vari
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settori del lavoro privato, non è scalfita la centralità dell’inquadramento,
non solo in una logica gerarchica, ma
come strumento di classificazione, con
il conforto di una più diffusa sensibilità dei lavoratori.
Vi è da chiedersi se il trattamento di
fatto riconosciuto sia oggetto in modo
prevalente delle implicazioni delle intese individuali o collettive; in tale secondo caso, il passaggio inevitabile è
la qualificazione dell’attività per mezzo dell’inquadramento, mentre, nella
prima ipotesi, scompare la mediazione
sindacale a fronte di un dialogo serrato sui meriti di ciascun collaboratore
e sulla sua forza negoziale, derivante
dalle sue competenze, vere o pretese
e, in ogni caso, dalla sua capacità di
imporsi alla controparte.
Nella moderna società economica, non
si assiste tanto ad una crisi dei meccanismi di inquadramento, quanto ad un
più generale ripensamento sul nesso
fra la contrattazione collettiva e quella
individuale.
Tale tensione coinvolge in modo inevitabile il più circoscritto profilo delle
qualifiche, del loro valore evocativo e
della loro importanza applicativa.
5. Il cosiddetto “diritto alla qualifica”.
Si è discusso a lungo se esista un
“diritto alla qualifica” e, accantonato
l’equivoco riferimento alla nozione di
status, se il prestatore di opere sia titolare di uno specifica posizione soggettiva all’attribuzione dell’inqua
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dramento conforme alle indicazioni
della legge (in ordine alle categorie) e,
in particolare, al riconoscimento delle
qualifiche negoziali, sulla base delle
declaratorie dei contratti collettivi.
La tesi negativa si fa preferire, perché
la qualifica è solo un meccanismo che
consente di selezionare i principi applicabili al rapporto e di individuare la
collocazione di ciascun prestatore di
opere nel sistema organizzativo, sulla
base della valutazione delle mansioni
e del loro inserimento in classi omogenee.
Dunque, l’inquadramento è uno strumento di determinazione delle previsioni legali o negoziali riferibili a ciascun rapporto, con il sorgere di diritti
inerenti alle varie componenti del trattamento correlato e non alla qualifica
in sé; anche ai sensi dell’art. 96 disp.
att. cod. civ., il diritto a conoscere le
determinazioni del datore di lavoro
non presuppone una autonoma posizione soggettiva che abbia per oggetto
l’inquadramento.
Questa è una semplice “formula sintetica” utilizzata per cogliere in modo
univoco la titolarità in capo al lavoratore di altri diritti, a partire da quello
alla retribuzione.
Quindi, l’atto dell’art. 96 disp. att.
cod. civ. ha mero valore ricognitivo; se
la qualifica e la categoria selezionano
le prescrizioni legali e convenzionali
vigenti in ordine a ciascun rapporto
e, pertanto, il corrispondente trattamento, l’impresa deve rendere edotto
il lavoratore delle sue valutazioni sul
regime al quale è assoggettato il contratto e, se la qualifica dichiarata è
contestata, il prestatore di opere può
agire in giudizio, non per tutelare un
inesistente “diritto alla qualifica”, ma
le effettive posizioni soggettive aventi
per oggetto le singole componenti del
trattamento.
Non è di questa opinione la giurisprudenza più recente, per la quale
“il diritto alla qualifica superiore è
configurabile come specifica posizione soggettiva e, anzi, essa si prescrive nell’ordinario termine decennale
dell’art. 2946 cod. civ., mentre il credito alle differenze retributive spettanti è sottoposto alla prescrizione quinquennale dell’art. 2948 cod. civ. (v.
Cass. 6 aprile 2005, n. 7116, in Guida
dir., 2005, fasc. 18, p. 66). Se si identifica un “diritto alla qualifica”, è inevitabile ravvisare l’operare del termine
decennale di prescrizione; peraltro,
a temperamento di questo criterio, si
soggiunge che “il decorso del decennio dal momento dell’insorgenza del
diritto non preclude l’accesso al superiore inquadramento allorché continui l’attività idonea a determinarlo”
e, quindi, l’adibizione alle mansioni
di maggiore contenuto professionale.
Infatti, se permane la situazione di
fatto alla quale la clausola negoziale e
l’art. 2103 cod. civ. collegano il sorgere del diritto, “la prescrizione decorre
da ogni giorno successivo a quello nel
quale si è per la prima volta concretata
tale situazione, fino alla sua cessazione” (v. Cass. 17 luglio 2001, n. 9662,
in Riv. it. dir. lav., 2002, II, p. 290).
Sono ragionevoli le soluzioni applicative di queste indicazioni, ma la tesi di
fondo desta perplessità.
E’ difficile immaginare che, in quanto espressione sintetica idonea a collegare le mansioni ad un trattamento
legale o negoziale, la qualifica possa
essere oggetto di un diritto, distinto da
quelli concernenti i vari beni della vita
riconosciuti per legge o per contratto e
correlati all’inquadramento stesso.
6. La qualifica convenzionale.
In generale, sia il riconoscimento della
categoria legale, sia quello della qualifica regolata dai contratti hanno luogo
a seguito di una considerazione analitica delle mansioni e, quindi, sono in
funzione di queste ultime.
In quanto indicative della dimensione
professionale, esse sono il presupposto dell’inquadramento e, perciò, della
classificazione della prestazione.
Tuttavia, tale nesso è relativo e può
essere superato nell’esercizio dell’autonomia individuale, poiché è possibile riconoscere “ad un lavoratore la
categoria di dirigente a prescindere
dalla corrispondenza della stessa alle
mansioni.
q
17
Il principio fondamentale desumibile
dall’art. 2103 cod. civ., secondo cui la
qualifica deve corrispondere ai compiti, essendo stabilito a tutela del lavoratore, può essere derogato in suo favore, anche qualora la deroga non sia
del tutto propizia, ma presenti aspetti
in astratto pregiudizievoli. Essa è legittima espressione di autonomia negoziale se risponde ad un apprezzabile
interesse e non ha finalità elusive di
norme imperative” (v. Cass. 12 settembre 2002, n. 13326, in Dir. e giust.,
2002, fasc. 36, p. 64).
Pertanto, il nesso fra mansioni ed inquadramento non impedisce un accordo modificativo, con l’attribuzione di
una categoria o di una qualifica superiori a quelle alle quali il lavoratore
avrebbe diritto. In tale caso, la rottura
del raccordo fra il facere e la sua valutazione è giustificato proprio dalla
riserva al prestatore di opere del trattamento migliorativo collegato al riconoscimento della qualifica superiore.
Il lavoratore non cambia mansioni, né
ha diritto ad eseguire una attività più
qualificata, ma gode solo dei benefici
dipendenti dal più elevato inquadramento, con variazioni concentrate sul
trattamento, senza implicazioni in ordine alla prestazione di facere.
Per le impostazioni più recenti, il potere di attribuire qualifiche più elevate non trova limite in alcun principio di parità di trattamento (v. Cass.
23 febbraio 2004, n. 3571, in Guida
dir., 2004, fasc. 14, p. 58). Pertanto,
ai fini della determinazione giudiziale dell’inquadramento, il termine
18
q
di paragone non può mai essere dato
dall’altrui qualifica, poiché essa può
essere stata riconosciuta in via convenzionale. Tale riferimento ha un
valore limitato ed occorre sempre una
prioritaria comparazione con le declaratorie dei contratti collettivi. Solo
le relative clausole normative fanno
sorgere posizioni soggettive attive in
capo a ciascun dipendente, che non
può pretendere una generica parità di
trattamento, ma solo invocare il rispetto degli accordi sindacali o, per altro
verso, dall’art. 2095 cod. civ..
7. La dequalificazione ed il risarcimento del danno.
Al di fuori dei casi previsti dalla legge (e fra essi il più importante è quello
dell’accordo stipulato con riguardo ad
una procedura di mobilità, per evitare
un licenziamento), dall’art. 2103 cod.
civ. si desume a ragione un generale
divieto di dequalificazione e questo è
il necessario corollario dell’attribuzione al datore di lavoro di un potere di
modificazione dei compiti nel rispetto
dell’equivalenza. Quindi, i criteri di
identificazione delle mansioni inferiori per contenuto sono speculari a
quelli impiegati per cogliere la nozione di equivalenza; la dequalificazione implica una compressione del
globale livello delle prestazioni, con
una sottoutilizzazione delle capacità
ed una consequenziale, apprezzabile
menomazione della professionalità,
nonché con la perdita di potenzialità
occupazionali o di ulteriori possibilità
di guadagno (v. Cass. 29 ottobre 2004,
n. 20989, in Giur. it. mass., 2004, c.
1735; Cass. 8 novembre 2003, n.
16792, in Amb. e sic., 2004, fasc. 8, p.
86). Il parametro è di natura professionale, con una specifica attenzione per
le ripercussioni pregiudizievoli sulla
posizione del dipendente non soltanto
nell’organizzazione aziendale, ma nel
mercato, con la tutela delle ulteriori
occasioni di reddito.
Ha lineamenti autonomi ed è oggetto
di valutazioni contrastanti il problema
dell’adibizione a mansioni inferiori al
fine evitare l’intimazione del licenziamento, fuori dal caso di quelli collettivi, fattispecie regolata in via espressa
dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991.
Se, talora, si invita il datore di lavoro
a valutare anche compiti dequalificanti ai fini dell’assolvimento del cosiddetto obbligo di ripescaggio (v. Cass.
19 agosto 2004, n. 16305, in Giur. it.
mass., 2004, c. 1035; con riguardo
ad un prestatore di opere invalido,
cfr. Cass. 3 maggio 2005, n. 9122, in
Guida dir., 2005, fasc. 24, p. 78), in
altre situazioni si giunge a conclusioni
opposte, in nome dell’inderogabilità
dell’art. 2103 cod. civ. (cfr. Cass. 20
agosto 2003, n. 12270, in Gius, 2004,
p. 515).
Il contrasto di opinioni può essere risolto in modo equilibrato se si ritiene
che l’impresa debba proporre la prosecuzione del rapporto con mansioni dequalificanti e che l’eventuale accordo
sia valido (v. Cass. 7 febbraio 2005, n.
2375, in Guida dir., 2005, fasc. 9, p.
88); non si vede perché il lavoratore
non potrebbe sacrificare il bene tutelato dall’art. 2103 cod. civ., in nome del
perseguimento di interessi di maggiore
risalto. Diverso sarebbe imporre l’adozione di un provvedimento unilaterale,
seppure per prevenire il recesso; a tale
fine, l’assegnazione dei compiti di minore contenuto postula il consenso del
dipendente, cui deve essere rappresentata in modo chiaro l’alternativa.
In generale, l’ingiustificata violazione
dell’art. 2103 cod. civ. determina una
responsabilità contrattuale e, secondo
la tesi maggioritaria (v. Cass., sez. un.,
14 marzo 2006, n. 6572, in Arg. dir.
lav., 2006), il lavoratore deve allegare
e dimostrare il danno (professionale od
anche nella sua eventuale componente
di pregiudizio alla vita di relazione o di
cosiddetto danno biologico) ed il nesso di causalità con l’inadempimento
(cfr. Cass. 28 maggio 2004, n. 10361,
in Mass. giur. lav., 2004, p. 719). Tale
impostazione supera qualunque automatismo e, in particolare, mette in crisi
l’abituale tendenza di larga parte della
giurisprudenza di merito a calcolare il
risarcimento in funzione della retribuzione versata a ciascun prestatore di
opere; se tale soluzione è comoda dal
punto di vista applicativo, non si capisce che nesso possa avere l’entità del-
q
19
la retribuzione con la quantificazione
del ristoro (in senso diverso, v. Cass. 2
marzo 2005, n. 4370, in Mass. giur. it.,
2005, c. 357).
Se mai, possono essere utilizzati “molti criteri, come la perdita di opportunità di carriera, la posizione gerarchica
abbandonata (alla quale possono essere connessi il danno all’immagine e la
sofferenza psicofisica), la durata della
dequalificazione, l’età del lavoratore,
l’elemento psicologico della condotta
del datore di lavoro” (v. Cass. 8 novembre 2003, n. 16792, in Guida dir.,
2003, fasc. 49, p. 53). Il potere equitativo del giudice è ampio ed è inevitabile il ricorso alle presunzioni; ciò ridimensiona la complessità dell’onere di
allegazione e di prova del prestatore di
opere, il quale, comunque, deve dare
elementi rilevanti ai fini dell’identificazione dei danni, della loro natura e
della loro entità, con tesi calate nella
specifica situazione.
In modo un po’ sorprendente, varie
sentenze negano che, in caso di dequalificazione, il dipendente possa rifiutare di eseguire la prestazione, qualora
sia versata la retribuzione (v. Cass.
23 dicembre 2003, n. 19689, in Gius,
2004, p. 2232; Cass. 7 febbraio 1998,
n. 1307, in Mass. giur. it., 1998, c. 93).
L’effetto lesivo dell’illegittimo provvedimento è identificato nella perdita
della possibilità di esercitare i compiti
coerenti con la propria esperienza e
non nell’aggravio, anche psicologico,
indotto dallo svolgimento di una attività imposta in modo illecito.
Tale punto di vista non è persuasivo
20
q
e non si vede perché, a fronte della
condotta dell’impresa in violazione
dell’art. 2103 cod. civ., il prestatore di
opere non possa reagire con il rifiuto
di svolgere compiti la cui esecuzione
non può essere pretesa.
8. L’adibizione a mansioni equivalenti.
Il potere unilaterale di adibire il prestatore di opere a mansioni equivalenti presuppone la ricostruzione di tale
ultima nozione e, a questo riguardo, è
insufficiente il fatto che i compiti appartengano alla stessa qualifica, poiché l’art. 2103 cod. civ. non si limita
ad una protezione del solo interesse
economico, ma cerca di salvaguardare
in modo più articolato le competenze
professionali, evitando turbative nello
svolgimento dell’attività che pregiudichino le competenze acquisite e, così,
le aspettative non solo inerenti all’ulteriore corso del rapporto, ma, soprattutto, alla posizione sul mercato del
lavoro.
Per la giurisprudenza, l’equivalenza tra
le nuove mansioni e quelle precedenti
deve essere intesa non solo nel senso
di pari valore oggettivo alla stregua
del sistema dell’inquadramento, ma
anche come attitudine a consentire la
piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio di abilità
(v. Cass. 12 aprile 2005, n. 7453, Giur.
it. mass., 2005, c. 487). Anzi, non è
sufficiente il riferimento in astratto
alla qualifica, ma i compiti devono essere aderenti alle specifiche capacità,
salvaguardandone il livello e garantendone l’accrescimento progressivo.
A tale fine, si chiede di verificare i
contenuti delle attività. In particolare,
le nuove mansioni sono equivalenti
alle ultime soltanto qualora sia tutelata
la professionalità e la nuova collocazione consenta di sfruttare le pregresse
conoscenze e le esperienze (cfr. Cass.
30 luglio 2004, n. 14666, in Lav. giur.,
2005, p. 73).
Peraltro, “l’art. 2103 cod. civ. pone il
divieto di adibire il lavoratore a mansioni non equivalenti, in quanto proprie di un livello di inquadramento
inferiore, rispetto alle ultime.
Invece, non rientra in tale previsione
la successiva equiparazione, in termini
di inquadramento, di mansioni inferiori ad altre prima considerate superiori”
(v. Cass. 19 aprile 2001, n. 5761, in
Giur. it. mass., 2001, c. 457).
Quindi, l’equivalenza non pone limiti
all’esercizio dell’autonomia negoziale
collettiva e non impedisce diverse soluzioni convenzionali sulla conformazione di ciascuna qualifica e dei presupposti per l’inserimento in essa.
A tale riguardo, l’art. 2103 cod. civ.
non preclude, né scoraggia differenti
valutazioni degli accordi sindacali che
si siano succeduti nel tempo, ma si riferisce solo ai provvedimenti del datore di lavoro incidenti sul facere, al fine
di proteggere le competenze dei prestatori di opere, per i valori morali ed
economici sottesi e, quindi, per la difesa della dignità e, al tempo stesso, delle abilità, quale premessa all’ulteriore
attività e, pertanto, al conseguimento
di una conforme collocazione. In questa prospettiva, la professionalità è una
componente della personalità.
9. La promozione.
L’art. 2103 cod. civ. regola le conseguenze dell’adibizione a mansioni superiori e, quindi, relative ad un più elevato inquadramento, senza soffermarsi
sulla natura dell’atto di promozione.
Se talora si nega il carattere unilaterale
del provvedimento, la tesi maggioritaria è di diverso avviso e riporta la fattispecie ai poteri del datore di lavoro,
non ad un apposito accordo.
Peraltro, l’art. 2103 cod. civ. asseconda la naturale vocazione di ciascun
prestatore di opere a progredire nella complessità e nell’importanza dei
compiti, e regola le implicazioni economiche della promozione, tra l’altro
distinguendo fra quella stabile e quella
temporanea e, in tale secondo caso,
imponendo il suo consolidarsi decorso
il termine di tre mesi, salva l’ipotesi
di sostituzione di un altro lavoratore
assente con diritto alla conservazione
del posto.
Dunque, “il diritto alla migliore qualifica è fondato sullo svolgimento delle mansioni superiori, fatto oggettivo
qualificato dal suo presupposto, costituito dal livello” della prestazione (v.
Cass. 3 gennaio 2005, n. 24, in Mass.
giur. lav., 2005, p. 292).
Nella struttura dell’art. 2103 cod. civ.,
la protezione non si impernia sulle
connotazioni dell’atto di modificazione del facere e, in particolare, prescin-
q
21
de per intero dalla considerazione del
suo carattere unilaterale o convenzionale.
L’art. 2103 cod. civ. considera solo le
mansioni, stabilendo il sorgere di un
diritto a svolgere in modo continuativo quelle superiori dopo tre mesi e,
comunque, l’immediato diritto a godere del trattamento corrispondente al
migliore inquadramento.
Non a caso, con esatta interpretazione dell’art. 2103 cod. civ., si rileva
che il diritto alla retribuzione è garantito in modo autonomo dal conseguimento della qualifica superiore e,
quindi, deve essere riconosciuto per
tutto il periodo di effettiva adibizione
(v. Cass. 12 marzo 2004, n. 5137, in
Mass. giur. lav., 2004, p. 539), anche a
prescindere da un espresso provvedimento, tanto meno formale.
L’art. 2103 cod. civ. presuppone la
regolazione negoziale dell’inquadramento e recepisce tale modello
di classificazione del facere, per un
verso assicurando il diritto all’immediata percezione del compenso proporzionato ai compiti espletati e, per
altro verso, prescrivendo la cosiddetta
promozione automatica e, quindi, il
diritto allo stabile espletamento delle
mansioni superiori decorsi tre mesi.
In entrambe le ipotesi, l’accento grava
sul fatto dell’attività esercitata, più che
sulle determinazioni dell’impresa e sul
loro carattere negoziale, ed il termine
di paragone è dato comunque dalle indicazioni degli accordi sindacali sulle
qualifiche, indice dei corrispondenti
trattamenti e, pertanto, della valutazio22
q
ne della complessità della prestazione
secondo una scala crescente.
Non a caso, lo stesso negoziato collettivo può disciplinare con apposite
clausole il problema delle mansioni
“promiscue”, per determinare quali rientrino in ciascuna qualifica (v. Cass.
10 marzo 2004, n. 4946, in Gius, 2004,
p. 2996), con un problema per lo più
risolto con il criterio della prevalenza.
10. L’inquadramento dei lavoratori
pubblici.
Il complesso tema dell’inquadramento dei lavoratori pubblici ha una articolata tradizione storica, nell’ambito
della quale è centrale la legge n. 93
del 1983. Se tale fonte ha superato il
precedente sistema delle carriere, ha
anche accorpato in poche qualifiche,
per lo più otto o nove, tutte le posizioni retributive presenti nel frastagliato
regime antecedente, vincolando in
larga parte i successivi accordi sindacali ed i relativi decreti presidenziali
di recepimento, e rendendo omogenee
la retribuzione e le qualifiche nelle diverse amministrazioni, con un unitario
disegno trasversale.
Esso si è basato sulle due comuni categorie legali della qualifica funzionale (conformata in modo simile nei
singoli comparti) e dei profili professionali, visti come articolazione della
qualifica ed indicativi della specifica
vocazione e della natura dell’attività.
Caratterizzato da una notevole rigidità, tale impianto presupponeva che il
passaggio dall’una all’altra qualifica
avesse luogo con una novazione del
rapporto ed a seguito di un concorso
pubblico, dunque con la competizione
fra i dipendenti e gli esterni, nonostante numerose deroghe siano state introdotte da prescrizioni eteronome e dai
contratti sindacali, su sollecitazione di
gruppi più o meno numerosi di impiegati.
La complessiva revisione della disciplina ha avuto luogo a seguito della
“privatizzazione” e, pertanto, del decreto legislativo n. 29 del 1993 e, da
ultimo, dell’art. 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001, che regola le
mansioni e le forme della loro modificazione, secondo principi ispirati a
quelli dell’art. 2103 cod. civ., ma con
evidenti differenze. In sintonia con
l’esperienza del lavoro privato, il decreto n. 165 del 2001 non si sofferma
sull’articolazione dell’inquadramento,
impostata, per ciascun comparto, dai
contratti nazionali del quadriennio
1999 - 2001, con soluzioni fino ad
oggi confermate nel loro assetto fondamentale dalle successive intese.
Le posizioni di inquadramento sono
raggruppate in aree, identificate da lettere, con suddivisioni interne, contras-
segnate da numeri cardinali.
Si discute fino a che punto l’art. 2095
cod. civ. sia applicabile al lavoro pubblico. Se, in ordine ai dirigenti, sovviene la specifica regolazione del decreto n. 165 del 2001 e se esso prevede
anche, per le amministrazioni statali,
la discussa figura della vicedirigenza,
per la giurisprudenza maggioritaria (v.
Cass. 5 luglio 2005, n. 14193, in Arg.
dir. lav., 2006, 577) la legge n. 190 del
1985 non potrebbe essere invocata dagli impiegati pubblici, che non potrebbero chiedere in via giudiziale l’accertamento del diritto al riconoscimento
della categoria di quadro.
Se la legge n. 93 del 1983 aveva mirato a rendere omogeneo il sistema
di inquadramento in tutti i comparti
e per qualunque amministrazione, i
contratti relativi al quadriennio 1999
- 2001 hanno adottato impostazioni
differenti, cercando di soddisfare le
esigenze di maggiore duttilità organizzativa degli enti locali e delle Regioni
e conservando un regime più tradizionale per lo Stato, gli enti pubblici non
economici e le università degli studi.
I singoli accordi hanno previsto anche
la possibile introduzione di “posizioni
organizzative”, che non interferiscono
con la classificazione del facere, ma
identificano e remunerano funzioni le
quali dovrebbero denotare specifiche
responsabilità.
Se le “posizioni organizzative” sono
state immaginate per incarichi a termine e retribuiti in modo specifico,
esse dovrebbero essere eterogenee
rispetto al sistema di inquadramento.
q
23
L’assegnazione dell’obbiettivo e del
compenso dovrebbe prescindere dalla
modificazione della qualifica, anche
perché la “posizione” non attiene alla
valutazione qualitativa del facere, ma
alla selezione ed alla ripartizione di
funzioni complesse.
Solo in apparenza l’art. 52, primo
comma, del decreto n. 165 del 2001 rievoca l’art. 2103 cod. civ. a proposito
della modificazione delle mansioni in
senso orizzontale. Infatti, le espressioni utilizzate (il prestatore di opere può
essere adibito “alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai
contratti collettivi”) e molte clausole
dei negozi sindacali hanno indotto a
chiedersi se l’assegnazione di mansioni “equivalenti” postuli una valutazione sulla coerenza professionale dei
compiti, alla stregua di quanto accade
con l’applicazione dell’art. 2103 cod.
civ. nel lavoro privato, o se il provvedimento dell’amministrazione sia libero da ulteriori vincoli, purché siano
attribuite funzioni proprie della medesima qualifica secondo le declaratorie
dei contratti collettivi.
Nonostante il tenore letterale dell’art.
52, primo comma, la prima tesi, più
garantista, si fa preferire, perché sarebbe singolare un potere dell’istituzione
di trasformare il facere senza che ne
sia considerata la specifica vocazione
professionale, soprattutto se si considera come nella stessa posizione di inquadramento siano comprese, in tutti
gli accordi collettivi, mansioni molto
diverse le une dalle altre.
24
q
In modo chiaro, l’art. 52 del decreto n.
165 del 2001 propone una regolazione
derogatoria della promozione, poiché
l’assegnazione di mansioni superiori
può avvenire solo “nel caso di vacanza
di posto in organico, per non più di sei
mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per
la copertura”, o di “sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla
conservazione del posto”.
Peraltro, a prescindere dal ricorrere di
tali fattispecie, “al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento
economico con la qualifica superiore”.
Dunque, la promozione disposta in situazioni diverse da quelle consentite
determina la nullità dell’atto, ma non
incide sul diritto alla maggiore retribuzione, salva la responsabilità patrimoniale del dirigente, per la violazione
dello stesso art. 52.
Però, non esiste alcuna forma di promozione automatica, perché “l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non
ha effetto ai fini dell’inquadramento
(...) o dell’assegnazione di incarichi di
direzione”.
Nel definire il nuovo sistema delle qualifiche, i contratti relativi al quadriennio 1999 - 2001 hanno previsto forme
di progressione basate su procedure di
selezione regolate dal diritto comune.
A tale fine, gli accordi distinguono fra
“progressioni orizzontali”, con l’acquisizione di una posizione superiore
all’interno delle aree, e “verticali”,
con il passaggio da una area all’altra.
Il forte dibattito giurisprudenziale di
questi anni ha indagato sul riparto di
giurisdizione, con tesi differenti e con
un quadro complessivo ancora in attesa di definizione, in particolare viste le
posizioni della Corte costituzionale,
secondo la quale l’attribuzione di una
qualifica superiore presuppone sempre
la partecipazione e la vittoria ad un
concorso pubblico, con la stipulazione di un contratto novativo (v. Corte
costituzionale 23 luglio 2002, n. 273,
in Lav. pubbl. amm., 2002, p. 573 ss.;
Corte costituzionale 16 maggio 2002,
n. 194, ibid., 2002, p. 289 ss.; Corte
costituzionale 29 maggio 2002, n. 218,
in Giust. civ., 2002, I, p. 437 ss.).
In realtà, né i principi costituzionali,
né la stessa struttura degli istituti possono indurre ad equiparare in modo
necessario le promozioni e le assunzioni e, pertanto, non si vede perché
le prime dovrebbero implicare un concorso pubblico. Né vi può essere giurisdizione del giudice amministrativo,
poiché essa attiene ai concorsi inerenti
all’accesso.
E’ pacifica la giurisdizione amministrativa in tema di concorsi esterni,
anche qualora vi siano quote riservate
(cfr. Cass., sez. un., 23 marzo 2005,
n. 6217, ord., in Foro amm., 2005,
1665).
Per altro verso, a differenza di quanto
si ricava dalle più recenti indicazioni,
la giurisdizione del giudice ordinario
non riguarda solo le procedure che
abbiano in palio una progressione
all’interno di ciascuna area, ma anche
quelle cosiddette verticali (invece, v.
Cass., sez. un., 20 maggio 2005, n.
10605, ord., in Foro amm., 2005, p.
1344; Cass., sez. un., 18 ottobre 2005,
n. 20107, in Giur. it. mass., 1205, c.
1379; Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno
2005, n. 2998, in Giur. it., 2005, c.
2205; Cons. stato, sez. IV, 7 giugno
2005, n. 2987, in Foro amm., 2005, p.
1708). Non si vede come si possa ritenere diversa la giurisdizione nei due
casi, se si considerano la stessa matrice convenzionale ed il simile regime
sostanziale delle “progressioni”, a prescindere dal fatto che siano “orizzontali” o “verticali”.
Nonostante, in apparenza, l’idea emersa nella giurisprudenza più recente
possa sembrare una comoda soluzione
di compromesso fra orientamenti opposti, alla ricerca di un punto di equilibrio fra la giurisdizione del giudice
amministrativo e di quello ordinario,
non è così. Infatti, se le “progressioni
verticali” implicassero una assunzione,
non sarebbe in discussione solo il riparto della giurisdizione, ma andrebbe
in crisi la validità stessa delle clausole
convenzionali, che concepirebbero la
promozione secondo meccanismi non
in sintonia con l’art. 97 cost. e, cioè,
con il semplice espletamento di selezioni regolate dal diritto privato. Vi è
da chiedersi se le sentenze degli ultimi
mesi non sottintendano la nullità delle
previsioni dei contratti che hanno voluto concorsi di diritto comune per la
modificazione dell’inquadramento.
q
25
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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26
q
del diritto del lavoro nel terziario, in Giorn. dir. lav. e rel. ind., 1991, p. 619 ss.;
TREU, Ricerca empirica sullo Statuto dei lavoratori negli anni ‘80, in Giorn. dir.
lav. e rel. ind., 1984, p. 514 ss..
q
27
28
q
Potere di controllo
del datore di lavoro
Enrico Gragnoli
Luca Zaccarelli
1. Nozione.
2. Limiti all’esercizio del potere di controllo visivo del datore di lavoro.
3. Gli strumenti di controllo a distanza.
4. Il potere di indagine su fatti attinenti all’idoneità professionale. Distinzione dal potere di controllo del datore di lavoro.
5. Il sistema della legge n. 300 del 1970 e quello della legge n. 675 del 1996 e
del decreto legislativo n. 196 del 2003.
6. Il potere di controllo del datore di lavoro ed il trattamento dei dati personali.
1. Nozione.
La legge n. 300 del 1970 ha introdotto specifici limiti all’esercizio dei
controlli del datore di lavoro, per contemperare l’interesse individuale alla
riservatezza con quello dell’impresa a
verificare l’esatto adempimento delle
obbligazioni del prestatore di opere
e, a maggiore ragione, per proteggere
la sfera privata del dipendente, a proposito di fatti estranei alla dimensione
professionale. Poi, il tema del controllo ha avuto ampio risalto a seguito
dell’emanazione della legge n. 675 del
1996 e del decreto legislativo n. 196
del 2003, sul cosiddetto “trattamento
dei dati personali”, vista l’incidenza di
tali fonti sul rapporto di lavoro.
Sul piano ricostruttivo, si discute se
esista una specifica posizione soggettiva del datore di lavoro avente per oggetto il controllo sul prestatore di opere e sul suo adempimento e, per lo più,
si riconosce tale potere, ricompreso
fra quelli che caratterizzano la subordinazione e la stessa struttura causale
del contratto. Si obbietta che il potere
non si distinguerebbe da quello in generale proprio di qualunque creditore;
q
29
quindi, non esisterebbe una separato
posizione soggettiva, distinta dal diritto all’esecuzione dell’altrui facere. Il
controllo non avrebbe natura diversa
da quello di ciascun creditore, nonostante la relativa disciplina legale e,
quindi, i vincoli apposti alle iniziative
dell’impresa.
Tale ultima tesi non è persuasiva; a
differenza di altri creditori, il datore di
lavoro cerca ed acquisisce informazioni sull’adempimento in modo duraturo e stabile, con un riscontro non solo
prolungato nel tempo, ma effettuato
grazie ad una apposita organizzazione, con una coordinata e riconoscibile
funzione aziendale di analisi costante
sul comportamento dei prestatori di
opere. E’ una attività concepita ed eseguita come un programmato, razionale
e metodico controllo, influenzato non
in modo estrinseco, ma nella sua stessa conformazione e nelle sue organizzate modalità di esecuzione dal fatto
che il rapporto è, per sua natura, di durata. La coabitazione in azienda comporta l’assoggettamento ad una verifica sistematica, espressione specifica
dell’autorità del datore di lavoro, con
una possibile interferenza sulla libertà
personale e sulla riservatezza.
Per un verso, l’esporsi del dipendente
all’informazione è uno degli elementi
della causa del contratto, con una netta differenza da altri negozi, che non
implicano analisi così invasive e continuative; per altro verso, il controllo è
oggetto di un potere, espressione della
subordinazione. Esso incontra limiti
appositi nel diritto positivo, sia nella
30
q
legge n. 300 del 1970, sia nel decreto
legislativo n. 196 del 2003. Tale potere si distingue da quello direttivo e da
quello disciplinare e l’acquisizione di
conoscenze non coincide con altre e
differenti manifestazioni dell’autorità.
Se mai, dal punto di vista empirico, i
risultati del controllo sono di stimolo
per l’esercizio del potere direttivo o
di quello disciplinare, all’interno della
complessiva sfera decisionale dell’impresa, senza che tali nozioni possano
essere considerate coincidenti o sovrapponibili.
Quindi, il potere di dirigere il facere,
per trarne un risultato soddisfacente, comporta quello di conoscere la
condotta solutoria dei lavoratori. Nel
circoscrivere le legittime iniziative
dell’impresa, la disciplina di tutela del
dipendente identifica taluni metodi di
controllo e rende non utilizzabili, in
primo luogo ai fini disciplinari, informazioni acquisite in violazione dei divieti. Se la legge n. 300 del 1970 ha
considerato le espressioni più brutali e
poliziesche dei meccanismi di verifica
propri degli anni ‘60, la legge n. 675
del 1996 ed il decreto n. 196 del 2003
hanno aggiornato le impostazioni
normative a fronte del prorompere di
nuove tecnologie informatiche e delle
connesse insidie alla libertà in azienda
ed alla riservatezza. In qualche modo,
sia gli artt. 2 ss. St. lav., sia i principi sul “trattamento dei dati personali”
(per quanto attiene al controllo) realizzano il criterio generale dell’art. 1
St. lav., sulla libera manifestazione del
pensiero in azienda, in sintonia con
una più generale vocazione personalista del nostro diritto.
2. Limiti all’esercizio del potere di
controllo visivo del datore di lavoro.
I limiti apposti dagli artt. 2 ss. St. lav.
alle forme di esercizio del potere di
controllo riguardano i metodi più tradizionali di verifica sul facere, basati
sull’analisi visiva. Pertanto, tali disposizioni presuppongono il potere e lo
adeguano ad esigenze di socialità e di
promozione della persona e delle sue
libere manifestazioni, anche in quella
necessitata comunità di vita costituita
dall’azienda. Quindi, non è persuasivo cogliere nella legge n. 300 del
1970 l’intento di “spersonalizzare” il
rapporto. Per un verso, nonostante le
restrizioni apposte ai meccanismi di
controllo, la prestazione resta dominata dall’elemento della persona del
dipendente, il quale esprime le sue
capacità e le sottopone all’inevitabile
valutazione altrui. Per altro verso, gli
artt. 2 ss. St. lav. vogliono fare emergere e razionalizzare il conflitto fra
persone presenti in azienda, e non già
eliminarlo.
La coabitazione dovuta alla stipulazione del contratto è una specifica
convivenza fra soggetti con interessi
confliggenti e con aspettative morali
e patrimoniali divergenti, alla ricerca
di un punto di equilibrio razionale,
seppure per lo più instabile. L’elemento personale qualifica il rapporto e la
legge n. 300 del 1970 ne è consapevole fino dall’art. 1, con l’enunciazione
del basilare criterio di effettiva tutela
della libertà del prestatore di opere.
Tale prospettiva deve essere conciliata con l’interesse economico dell’impresa; dunque, il potere di controllo è
in funzione delle ragioni economiche
di questa ultima ed i limiti mirano a
contemperarle con la difesa della dignità. Sarebbe impensabile un lavoro
“spersonalizzato”, con una insanabile
contraddizione fra i due termini, poiché la prestazione è resa ed apprezzata
proprio nella sua inevitabile e qualificante dimensione personale.
Oltre al rispettare criteri generali desumibili dal canone di correttezza,
il datore di lavoro deve osservare le
disposizioni sull’impiego di guardie
giurate (art. 2 St. lav.), sui compiti e
sulla necessaria identificazione del
personale di vigilanza (art. 3 St. lav.),
sul ricorso ad impianti audiovisivi (art.
4 St. lav.), sugli accertamenti sanitari
(art. 5 St. lav.) e sulle visite personali (art. 6 St. lav.). Sebbene il potere di
controllo non debba essere visto solo
in funzione dell’avvio del procedimento disciplinare, ma, se mai, prima
di tutto, in connessione con quello
direttivo, corona queste prescrizioni
q
31
l’art. 7 St. lav., appunto dedicato alle
sanzioni disciplinari, in una integrata
valorizzazione della persona e, quindi,
con la predisposizione di uno spettro
articolato di misure di tutela.
Gli artt. 2 ss. St. lav. non incidono sul
controllo eseguito dai superiori gerarchici, ai quali, in particolare, non si
applica l’art. 3, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale (ad esempio, v. Cass. 17 giugno
1981, n. 3960, in Giust. civ., 1981, I, p.
2227; Cass. 26 febbraio 1982, n. 1263,
in Not. giur. lav., 1982, p. 352; Cass.
10 maggio 1985, n. 2933, ibid., 1985,
p. 417). Inoltre, le stesse norme non
impediscono verifiche sulla commissione di reati, come è per le iniziative
dei cosiddetti agenti provocatori nelle imprese della grande distribuzione
(v. Cass. 14 luglio 2001, n. 9576, in
Giur. it. mass., 2001, c. 739) o per gli
altri interventi a tutela del patrimonio
aziendale (cfr. Cass. 7 febbraio 1983,
n. 1031, in Foro it., 1985, I, c. 439;
Cass. 18 settembre 1995, n. 9836, in
Orient. giur. lav., 1996, p. 17; Cass. 25
gennaio 1992, n. 829, in Not. giur. lav.,
1992, p. 523).
Il controllo delle guardie giurate o di
una agenzia investigativa non può riguardare l’adempimento dell’obbligazione di facere, poiché ciò è sottratto
a tale invasiva vigilanza; essa si deve
limitare agli atti illeciti diversi dal
mero inadempimento, come l’appropriazione indebita di denaro (v. Cass.
7 giugno 2003, n. 9167, in Arch. civ.,
2004, p. 531). Inoltre, gli artt. 2 e 3 St.
lav. non sono applicabili per iniziati32
q
ve compiute fuori dall’azienda, come
è per i riscontri su dipendenti incaricati di attività promozionali esterne
(v. Cass. 3 novembre 2000, n. 14383,
in Notiz. giur. lav., 2001, p. 161). A
maggiore ragione, sono legittime tutte
le azioni di protezione del patrimonio
compiute nei periodi non compresi
nell’orario di lavoro (cfr. Cass. 3 luglio 2001, n. 8898, in Giur. it. mass.,
2001, c. 679).
L’art. 6 St. lav. regola le visite personali e, quindi, un metodo di verifica
talora indispensabile, seppure di particolare incidenza sulla dignità del prestatore di opere. L’art. 6 consente queste operazioni solo se necessarie e per
l’esclusivo obiettivo di difendere gli
strumenti, le materie prime od i prodotti. Si discute se le cautele dell’art.
6 debbano essere applicate anche ad
ispezioni sulle borse (in senso contrario, v. Cass. 29 ottobre 1999, n. 12197,
in Giur. it. mass., 1999, c. 989; Cass.
10 febbraio 1988, n. 1461, in Orient.
giur. lav., 1988, p. 310).
Sarebbe singolare se un intervento
comunque invasivo, come l’ispezione
degli involucri portati con sé dal dipendente, non godesse delle garanzie
proprie delle visite personali. In tale
prospettiva acquista specifico risalto
l’autorizzazione concessa, in via alternativa, da un accordo sindacale o
dai servizi ispettivi della Direzione
provinciale del lavoro, affinché sia accertata l’oggettiva necessità di questa
forma di verifica.
3. Gli strumenti di controllo a distanza.
L’art. 4 St. lav. vieta l’uso di “impianti
audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza
dell’attività dei lavoratori”, con una
disposizione la quale, sorta in un diverso contesto tecnologico, identifica
una ipotesi tipica che fatica ad ambientarsi nel nuovo orizzonte, dominato
dall’informatica e dalle sue più complesse e sofisticate risorse di verifica.
Pensando in via diretta alle telecamere, l’art. 4 St. lav. ammette l’uso di tali
strumenti solo qualora sia richiesto
“da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro”,
nonostante gli apparecchi rivolti a tali
fini consenta il controllo del personale.
Però, in questa ipotesi, l’utilizzazione
deve essere autorizzata o da un accordo sindacale o, in via alternativa, da
un provvedimento dei servizi ispettivi
della Direzione provinciale del lavoro.
Peraltro, “la potenzialità di controllo
a distanza deve ritenersi innata negli
impianti audiovisivi e l’art. 4 St. lav.
opera a prescindere dalla prova della
concreta idoneità dell’impianto al controllo” delle persone (v. Cass. 16 settembre 1997, n. 9211, in Nuova giur.
civ. comm., 1998, I, p. 830).
E’ oggetto di un intenso dibattito la
possibilità di estendere gli stessi principi a forme di analisi sul comportamento realizzate con risorse informatiche, del tutto differenti dagli strumenti
audiovisivi, sebbene, in vari casi, possano portare a risultati paragonabili.
Se lo scopo della disposizione è proibire indagini lesive della dignità perché compiute in modo inquisitorio, lo
stesso obbiettivo dovrebbe essere perseguito con riguardo alle tecnologie
informatiche, non immaginabili dal
legislatore del 1970. L’art. 4 St. lav.
intende preservare la tranquillità del
prestatore di opere rispetto a controlli
imprevedibili, compiuti all’insaputa
del destinatario, protratti per un lungo
lasso di tempo. Anzi, per l’art. 4, secondo comma, St. lav., qualora possa
implicare una verifica sulla condotta
dei dipendenti, richiede una espressa
autorizzazione l’installazione di macchine comunque coerenti con esigenze
organizzative e produttive.
Se non contrasta con l’art. 4 St. lav.
l’uso di pareti di vetro, non sono proibiti neppure i riscontri che attengano
al risultato della prestazione e non alla
sua esecuzione ed alle relative modalità, nonostante tali analisi abbiano luogo a distanza e senza contraddittorio.
Del pari, sfuggono al divieto dell’art. 4
St. lav. gli strumenti di verifica sulle
q
33
porta l’irrilevanza su quello probatorio
delle immagini o delle informazioni
acquisite in modo illegittimo (v. Cass.
17 giugno 2000, n. 8250, in Orient.
giur. lav., 2000, I, p. 857).
presenze, anche se automatici, nonché
i centralini che permettano di identificare se le telefonate rispondano a
ragioni di servizio, ferma l’illiceità di
registrare la conversazione (v. Cass.
3 aprile 2002, n. 4746, in Arch. civ.,
2003, p. 207) ed i numeri chiamati
senza l’occultamento delle ultime tre
cifre.
Di fatto, ormai si accetta l’impiego
costante di programmi informatici indispensabili ai fini della produzione,
ma i quali, come effetto secondario,
consentono un riscontro sull’attività
di ciascun dipendente. Del resto, la
nostra società e la sua crescente dimensione tecnologica non possono
ammettere un generale divieto di impiegare le risorse informatiche per il
controllo, a maggiore ragione se il fine
è contrastare la commissione di reati
(v. Cass. 12 giugno 2002, n. 8388, in
Arch. civ., 2003, p. 442).
Pertanto, sono legittime le verifiche
eseguite sui registratori di cassa, con
l’uso delle relative potenzialità di memorizzazione delle operazioni compiute (cfr. Cass. 18 febbraio 1997, n.
1455, in Giust. civ., 1997, I, p. 493).
La violazione dell’art. 4 St. lav. non
rileva solo sul piano penale, ma com34
q
4. Il potere di indagine su fatti attinenti all’idoneità professionale. Distinzione dal potere di controllo del
datore di lavoro.
Non rientra nella disciplina in senso stretto delle modalità di controllo
dell’adempimento il divieto di indagini sulle opinioni dei prestatori di
opere, oggetto diverso dall’esecuzione
della prestazione e come tale concepito
dall’art. 8 St. lav., che allarga lo sguardo dal semplice controllo ad iniziative
invasive rivolte all’intera persona ed
agli aspetti indicativi delle sue libertà
e delle scelte individuali, sul terreno
morale, politico, sindacale, familiare,
affettivo. Con l’uso consapevole del
termine “indagini”, l’art. 8 St. lav. ha
considerato situazioni nelle quali la
conoscenza sia la conseguenza di uno
sforzo apposito di ricerca, invece di
essere il frutto di casuali constatazioni e di eventi non programmati e non
provocati da una scelta consapevole e
predeterminata.
Peraltro, l’indagine non implica un
processo di particolare sofisticazione,
né deve essere condotta in modo occulto o sleale, poiché basta una semplice domanda, illegittima qualora
non attenga a circostanze rivelatrici
dell’idoneità professionale. Quindi,
per l’operare dell’art. 8, non occorro-
no né la violazione di un segreto, né
il superamento dell’opposizione e della resistenza del lavoratore o di terzi,
ma è sufficiente la preordinazione di
mezzi (anche molto semplici) al fine
di acquisire notizie, non desunte dal
semplice comportamento del soggetto
passivo. Questi può rivendicare anche
sul luogo di lavoro la sua fede, la sua
militanza politica o sindacale, le decisioni sulla sua vita e le sue convinzioni
etiche, come confermato dall’art. 1 St.
lav.. Del resto, in larga parte, le informazioni indicate dall’art. 8 sono note
e, talora, pubbliche ed ostentate. Però,
il datore di lavoro non può indagare lo
stesso.
In questa prospettiva, l’art. 8 vuole
evitare che, anche con sforzi programmati di verifica, l’impresa possa imporre una complessiva soggezione a
precostituiti modelli di comportamento, con interventi invasivi che possano
mettere in pericolo la spontaneità e
la serenità delle scelte individuali. E’
ancora presente nella società contemporanea la grave tentazione di vedere
nella pretesa fedeltà del dipendente
una sorta di asservimento personale al
datore di lavoro, che può essere portato a proiettare suoi modelli etici ed a
pretenderne il rispetto.
Non rientrano nell’oggetto dell’art. 8
St. lav. questionari anonimi, destinati
a riscontri sulle motivazioni, in primo
luogo se è impossibile risalire dalle
risposte all’autore; invece, l’art. 8 ha
avuto larga risonanza in giurisprudenza con riguardo al sindacato di bandi
di concorso privati i quali indicavano
fra i requisiti di partecipazione aspetti
privi di qualunque connessione con un
oggettivo riscontro dell’idoneità professionale, come è per la condizione di
parente con chi fosse già stato assunto
dalla stessa impresa. Ad esempio, è
stata considerata nulla “la clausola del
bando di concorso per il reclutamento
di nuovo personale da parte di un ente
pubblico economico qualora si subordini l’assunzione sia all’esistenza, sia
alla mancanza di vincoli di parentela
con dipendenti” (v. Cass. 19 gennaio
2002, n. 570, in Giur. it. mass., 2002,
c. 79).
L’art. 8 St. lav. pone il problema di
identificare i fatti rilevanti ai fini del
giudizio sull’idoneità professionale e
la loro selezione si collega dall’ampiezza con la quale si colga nel contratto e nella sua causa un elemento
fiduciario. Peraltro, a tale riguardo,
non possono avere rilievo le soggettive valutazioni del datore di lavoro, ma
occorre utilizzare parametri oggettivi,
nonostante il dibattito presenti notevoli incertezze. In primo luogo, ci si
chiede fino a che punto le organizzazioni di tendenza possano subordinare
la prosecuzione del rapporto a comportamenti tenuti nella normale vita
di relazione, come è per i prestatori di
opere di strutture dalla dichiarata matrice cattolica. Quanto più si annette
risalto a tali circostanze, come la convivenza more uxorio, tanto più si allarga il confine dei fatti significativi sul
piano dell’idoneità professionale.
Per altro verso, di frequente sono intimati licenziamenti, ad esempio ai
q
35
dipendenti di istituti di credito, per
condotte illecite estranee all’adempimento, per lo spiccato desiderio di
molti datori di lavoro di proteggere la
loro immagine e la loro credibilità con
l’espulsione di chi si sia macchiato di
reati gravi, seppure nella vita privata.
Poiché tali comportamenti sono considerati meritevoli del recesso se incidono sull’idoneità all’adempimento
(v. Cass. 24 febbraio 1986, n. 1141,
in Dir. lav., 1986, II, 497), l’art. 8 St.
lav. non vieta indagini su queste materie, mentre sono illegittimi controlli
sul possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto (cfr. Cass.,
sez. un., 11 dicembre 1979, n. 6452, in
Giur. it. mass., 1979, 367). Se anche la
singola impresa non vuole avere lavoratori laureati per attività proprie dei
diplomati, tale specifico (e singolare)
punto di vista non consente verifiche,
perché, sul piano oggettivo, il profilo
non rientra nell’idoneità professionale.
In sostanza, per identificare i confini di
tale categoria, non importa stabilire che
cosa il datore di lavoro desideri conoscere; se così fosse, sarebbe travolta la
portata garantistica dell’art. 8 St. lav..
Occorre utilizzare parametri di meritevolezza sociale. In particolare, in carenza di appositi divieti, nell’esercizio
della sua libertà contrattuale, l’impresa
può porre alla base delle sue decisioni
aspetti contrari a principi di equilibrio
ed ai postulati della nostra vita civile,
e persino valutazioni immorali. Ad
esempio, non vi è modo di costringere
ad assumere lavoratori extracomuni36
q
tari chi non lo voglia fare. Tuttavia,
non vi è equiestensione fra la libertà
negoziale e quella di indagine, proprio
perché questa ultima si può esplicare
solo su materie che, sul piano oggettivo, siano indicative dell’idoneità professionale.
A prescindere dalla difficoltà di stabilire fino a quale punto si possa dare
risalto agli elementi fiduciari nel contratto di lavoro, l’art. 8 St. lav. porta la
protezione della dignità oltre a quanto
è previsto dalla disciplina antidiscriminatoria in relazione all’esercizio
della libertà contrattuale. Tale profilo
non deve sorprendere se si considera
fino a che punto la coscienza sociale
contemporanea annetta risalto alla gelosa difesa della riservatezza. Se mai,
la legge n. 300 del 1970 desta ammirazione per avere saputo precorrere i
tempi della complessiva evoluzione
del diritto privato, con un percorso faticoso coronato dall’emanazione della
legge n. 675 del 1996 e dal decreto legislativo n. 196 del 2003.
5. Il sistema della legge n. 300 del
1970 e quello della legge n. 675 del
1996 e del decreto legislativo n. 196
del 2003.
Nel regolare l’informazione del datore
di lavoro, la legge n. 675 del 1996 non
la considera una funzione conoscitiva
e la regola in modo indistinto, non per
specifici aspetti, qualificati per i loro
oggetti. Quindi, l’informazione non
è un fenomeno unitario, ma una attività psichica continuativa, di cui solo
alcuni segmenti hanno ricevuto una
regolazione apposita, circoscritta a
pochi settori. Mentre l’idea soggettiva
della conoscenza traspare dalla legge n. 300 del 1970 e dal suo sistema
più tradizionale, orientato a regolare i
comportamenti, ad esempio quelli più
intrusivi, con l’incisiva limitazione
dell’esercizio del potere di controllo,
tale concezione è meno nitida nella
legge n. 675 del 1996 e nel successivo
decreto legislativo n. 196 del 2003.
L’elaborazione elettronica permette
una utilizzazione diversa dai vecchi
strumenti, con una differente capacità di incidere nella sfera del soggetto
al quale le notizie si riferiscono e con
la conseguente necessità di corrispondenti tutele. Non importano tanto la rapidità e la sicurezza dei dati ottenibili
(rispetto a quelli immessi), la prolungata conservazione ed il progressivo
arricchimento delle cognizioni, quanto
la facoltà di creare collegamenti celeri
e certi fra aspetti diversi, i quali restano irrilevanti se considerati in modo
isolato e, invece, sono fonte di minaccia grazie alle intersezioni provocate
in via informatica.
A questi rischi ha cercato di ovviare la
legge n. 675 del 1996, con un chiaro
divario metodologico dal sistema consueto del diritto del lavoro. Incentrata
sul “dato”, come preteso frammento
oggettivo, senza riferimento alla sua
origine, la tutela diverge da quella
dell’art. 8 St. lav., il quale, con il rinvio alle indagini, impernia il divieto
sul processo intellettivo. Si può quasi
contrapporre la dimensione dinamica
dell’art. 8 St. lav. e dell’intera legge n.
300 del 1970 (volta a cogliere la conoscenza come rapporto con l’oggetto)
a quella statica della legge n. 675 del
1996, intenta a ricavare una immagine del “dato” come entità isolata, per
conferire ad esso una “realtà” fittizia
ed arbitraria. Ne è derivato un nuovo
orizzonte di problemi con i quali il
diritto del lavoro si sta cimentando,
per trovare una sintesi accettabile fra
il suo impianto tradizionale e le trasformazioni apportate dalla legge n.
675 del 1996 e dal successivo decreto
legislativo n. 196 del 2003.
La legge n. 675 del 1996 si è rivolta a
“qualunque informazione”; vi si trova
l’ambizione di comprendere nell’oggetto della nuova normativa una generale idea di “informazione” e di
“trattamento”, inteso quale operazione
comunque inerente alla notizia. Ne
sono derivati vincoli anche per condotte in passato ritenute immeritevoli
di tutela. Tale approccio generico ha
comportato un diffondersi di doveri strumentali, reso inevitabile dalla
pretesa di disciplinare ogni area economica ed i comportamenti di famiglie, associazioni, imprese e pubbliche
amministrazioni. Questa tentazione di
dominare l’intero problema dell’informazione è il frutto della consapevolezza dei collegamenti inevitabili
nel formarsi della conoscenza; a tale
esatta constatazione ha fatto seguito
una regolazione che, salve le eccezioni, ha voluto ripercorrere la traiettoria
della conoscenza e sovrapporre ai suoi
sviluppi imprevedibili un apparato di
q
37
restrizioni destinate a contenerne gli
esiti più pericolosi.
In questo sta il fascino della legge n.
675 del 1996 e del decreto n. 196 del
2003, ma anche la ragione della loro
difficile attuazione, dovuta al taglio
generale e quasi mai selettivo di disposizioni volte a regolare la sorte di
tutte le notizie. Invano si cercherebbe
una definizione di riservatezza in tali
testi normativi; essi ne prescindono,
per concentrarsi sull’informazione e
sulla sua sorte, accantonando l’identificazione dettagliata del bene protetto.
In contrasto singolare con il modello
della legge n. 300 del 1970, il decreto
n. 196 del 2003 abbraccia ogni “dato
personale”, cioè riferibile ad un soggetto noto; quindi, sono considerate
tutte le notizie non anonime, a prescindere dalla forma e dalle cause del
processo conoscitivo, nonché dagli ulteriori sviluppi del giudizio individuale, cioè dai comportamenti successivi
all’apprendimento.
Senza circoscrivere il suo campo di applicazione e rinnegando il taglio selettivo della legge n. 300 del 1970, quella
n. 675 del 1996 ha investito questioni
tradizionali nel dibattito antecedente,
ma fra loro differenti. Sarebbe stato strano se la pretesa di disciplinare
qualsiasi informazione (con modeste
eccezioni) avesse condotto ad una
regolazione coerente; se non il testo,
almeno la sua attuazione ha dovuto
riscontrare come la rilevanza giuridica non sia della conoscenza in sé, ma
dell’appuntarsi del processo intellettivo su oggetti specifici. Se non si muo38
q
ve dalle varie aspettative del singolo
e delle formazioni sociali, non si può
discriminare quanto può o deve avere
rilevanza giuridica; essa non attiene
ad ogni comportamento cognitivo, né
a tutti i connessi, possibili risultati, ma
si impernia sulla loro qualificazione in
ragione di interessi precisi.
6. Il potere di controllo del datore
di lavoro ed il trattamento dei dati
personali.
Il sistema di protezione della legge n.
675 del 1996 e, ora, del decreto legislativo n. 196 del 2003 si aggiunge a
quello della legge n. 300 del 1970, con
un metodo prescrittivo diverso, basato
non sulla considerazione e sul divieto
di specifici comportamenti, ma sulla
costruzione di categorie generali, destinate ad applicarsi anche ai lavoratori subordinati, pubblici e privati. La
legge n. 300 del 1970 ed il decreto legislativo n. 196 del 2003 si riferiscono
in modo diverso agli stessi fatti, con
innegabili punti di affinità, poiché, ad
esempio, le norme sul cosiddetto “trattamento dei dati sensibili” ricordano
l’art. 8 St. lav. e, soprattutto, giungono
a risultati paragonabili nella protezione della riservatezza.
Peraltro, di fronte a due contesti normativi differenti, seppure non incompatibili, il datore di lavoro deve rispettare tutte le disposizioni. Ad esempio,
l’osservanza dell’art. 4 St. lav. non
esonera dall’adempimento dell’obbligo di informare il lavoratore sulle
modalità del trattamento e, per altro
verso, in caso di installazione di impianti audiovisivi per finalità di tutela
del patrimonio aziendale, la necessaria
stipulazione dell’accordo sindacale ai
sensi dell’art. 4, secondo comma, St.
lav. non evita il rispetto delle prescrizioni dell’Autorità garante sull’uso
di strumenti di vigilanza a distanza,
con particolari previsioni aggiuntive
rispetto ai più sintetici obblighi desumibili dall’art. 4 St. lav.. Ad esempio,
tale ultima norma non si occupa della
custodia e dell’uso delle cassette contenenti le immagini registrate, mentre
sul punto si soffermano vari provvedimenti dell’Autorità garante.
Nell’esperienza applicativa, l’osservanza degli obblighi introdotti dal decreto legislativo n. 196 del 2003 non ha
provocato problemi molto significativi
e la tutela già predisposta dalla legge
n. 300 del 1970 è stata talora perfezionata (soprattutto grazie ad alcune decisioni dell’Autorità garante), ma non
è stata alterata né nei suoi fondamenti
teorici, né nei suoi pilastri regolativi; a
quasi quaranta anni dalla sua ideazione, la legge n. 300 del 1970 mantiene
piena attualità e continua ad essere il
principale baluardo nella difesa della
riservatezza in azienda.
I molti obblighi procedurali e strumentali voluti dal decreto legislativo
n. 196 del 2003 (come quello di informazione del lavoratore) e la tenace
valorizzazione del principio del consenso del soggetto passivo (nozione
propugnata dallo stesso decreto) non
hanno portato a risultati molto migliori in tema di valorizzazione della
dignità rispetto a quanto già era stato
ottenuto con la legge n. 300 del 1970.
In particolare, se essa presentava in
molte parti, ad esempio con riguardo
all’art. 8, seri problemi di effettività,
essi non sono stati superati dalla legge
n. 675 del 1996 e dal decreto legislativo n. 196 del 2003, nonostante la loro
diversa ispirazione.
Ad oggi, la separata applicazione su
temi simili di due differenti sistemi
prescrittivi ingenera problemi interpretativi e qualche sconcerto nelle imprese, perché può essere difficile capire
ed accettare come il potere di controllo
incontri vincoli introdotti in successivi momenti storici ed in fonti normative con separata ispirazione. Ferma
la perdurante centralità della legge n.
300 del 1970, il datore di lavoro deve
anche agire nel rispetto del decreto legislativo n. 196 del 2003, verificando
di volta in volta la legittimità dei suoi
comportamenti sulla base dell’uno e
dell’altro testo normativo. Essi non
possono essere sovrapposti, ma devono essere esaminati alla luce della loro
diversa concezione sistematica e, quindi, se mai, devono essere contrapposti.
Proprio per questo non è attuale alcuna
ipotesi di ricomposizione ricostruttiva
dei due orizzonti regolativi; le relative
divergenze devono essere accettate sia
sul piano della riflessione teorica, sia
su quello operativo.
q
39
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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poteri dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo Statuto dei lavoratori, Milano,
40
q
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Enc. giur. lav., diretta da MAZZONI, Padova, 1982; TREU, Statuto dei lavoratori e organizzazione del lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1972, p. 1034 ss.;
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una norma da riformare?, in Riv. giur. lav., 1991, I, p. 84 ss..
q
41
42
q
Il licenziamento
disciplinare
Enrico Gragnoli
Luca Zaccarelli
1. L’applicazione dell’art. 7 St. lav. al licenziamento.
2. La nozione di licenziamento disciplinare.
3. Il licenziamento come sanzione disciplinare.
4. Inadempimento, disciplina e licenziamento.
5. La proporzione, il potere del giudice ed i codici disciplinari.
1. L’applicazione dell’art. 7 St. lav.
al licenziamento.
Se ha avuto grande intensità nel passato1, il dibattito sul licenziamento disci-
plinare si è andato spegnendo nell’ultimo periodo, per lo meno per quanto
attiene alle implicazioni applicative,
poiché, se non altro in giurisprudenza2, non si dubita dell’operare dell’art.
7 St. lav. e delle relative disposizioni
procedurali a proposito del recesso per
giusta causa e per giustificato motivo
soggettivo3 e, forse in via definitiva,
lo stesso principio è stato enunciato
con riguardo al licenziamento del dirigente4 e, quindi, nell’area presidiata dall’art. 10 della legge n. 604 del
1966.
A dire il vero, se ancora si contesta
che coincidano nei loro lineamenti
strutturali il licenziamento disciplinare e quello per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo5, l’esito al
quale è pervenuta la giurisprudenza,
sul necessario rispetto dell’art. 7 St.
lav., è persuasivo e forse non avrebbe
meritato tante tensioni e così accese
contrapposizioni, in qualche modo sedate6. L’operare dell’art. 7 St. lav. non
comporta una trasformazione strutturale della giusta causa e del giustificato
motivo soggettivo, né impone di identificare tali categorie sulla scorta delle
esclusive previsioni dei codici disci-
q
43
plinari e, quindi, per lo più dei contratti collettivi nazionali di categoria. Nel
suo nucleo originario, l’art. 7 St. lav.
prefigura forme di tutela procedurale
che rendono il possibile destinatario
di una misura punitiva consapevole
dell’intenzione del datore di lavoro e,
quindi, in grado di comprendere in anticipo l’eventuale provvedimento.
Pertanto, a prescindere dalle sue
conseguenze ed anche se è legittimo
il recesso ad nutum, qualora l’atto
dell’impresa sottintenda un rimprovero, di qualunque natura, per un inadempimento contrattuale, il prestatore
di opere deve essere messo nelle condizioni di sapere in anticipo che cosa
stia accadendo, prima che lo sappiano
i colleghi, le persone che si occupano
di amministrazione del personale, i curiosi in grado di anticipare od immaginare le intenzioni del datore di lavoro.
Del resto, il cosiddetto procedimento
dell’art. 7 St. lav. non condiziona nel
merito le determinazioni in procinto di
essere assunte, ma introduce una protezione formale, non per questo meno
importante nella difesa della dignità.
Per qualche verso, proprio la strutturale limitazione delle garanzie dell’art.
7 St. lav. ed il loro mancato incidere
sull’elemento sostanziale dei singoli
provvedimenti rendono più agevole
e lineare l’applicazione della norma.
Chi può subire un licenziamento non
può essere ignaro e non può attendere
l’adozione dell’atto per avere conoscenza delle intenzioni del datore di
lavoro, con una posizione che sarebbe deteriore a paragone di chi affronta
44
q
una piccola misura conservativa, di
marginale rilievo nel progredire di un
rapporto di lavoro. In questa prospettiva, in parte anche di carattere equitativo, bene si comprendono le posizioni
della giurisprudenza costituzionale e
di quella di legittimità che, rinunciando a collegare la nullità alla violazione
dell’art. 7 St. lav.7, hanno fatto rientrare tale ipotesi in quella dell’illegittimità8, con il ricorso alle corrispondenti sanzioni9 e, cioè, ad esempio, a
quelle comminate dall’art. 18 St. lav.,
dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966
o dai contratti collettivi per i dirigenti10.
A prescindere dal problema delle conseguenze sanzionatorie, in qualche
modo autonomo, il tema dell’applicabilità dell’art. 7 St. lav. ai licenziamenti per giusta causa e per giustificato
motivo può essere affrontato, in prima
battuta, se si ridimensiona l’importanza di identificare i confini delle sanzioni disciplinari.
A prescindere dai limiti di tale concetto e, quindi, dai loro elementi distintivi, l’art. 7 St. lav. non può essere
riferito solo alle sanzioni disciplinari
in senso stretto e, come ha affermato
in modo persuasivo la giurisprudenza,
deve riguardare qualunque atto che
abbia quale presupposto un addebito
di responsabilità per inadempimento.
Non a caso, l’art. 7 St. lav. non può
essere invocato per licenziamenti riguardanti comportamenti del prestatore di opere tenuti nella vita privata e,
comunque, non nell’assolvimento delle mansioni. Infatti, tali condotte non
possono evocare le garanzie procedurali pensate per contestazioni concernenti l’attività convenuta.
Però, in tale ambito, l’art. 7 St. lav.
non apporta un contributo, tanto meno
innovativo od originale, alla costruzione dei lineamenti teorici del potere
disciplinare e del suo nesso con la più
complessiva nozione di subordinazione. Anzi, la disposizione si muove in
un terreno molto meno impegnativo
e solleva problemi ricostruttivi più
contenuti, perché non qualifica le finalità e le ragioni fondative del potere,
ma ne regola le modalità di esercizio
procedurali, per la valorizzazione della dignità e, quindi, della serenità e
della libertà del lavoratore, in primo
luogo informato in anticipo dei dubbi
che l’impresa si pone sulla puntualità
dell’adempimento.
Se si accetta questa prospettiva, che
ridimensiona il senso stesso dell’art. 7
St. lav. e ne valorizza l’effettiva portata garantistica, si giunge alle medesime conclusioni della giurisprudenza;
non vi è nessuna plausibile motivazione per cui, a prescindere dalla definizione teorica del potere disciplinare
e dall’analisi sulla sua dimensione di
autorità, la stessa promozione della
libertà e della dignità del dipendente
non debba essere garantita nel caso
della massima e più intensa minaccia
a tali valori e, cioè, nell’ipotesi del licenziamento.
Le ultime indicazioni sul recesso del
dirigente sono concordanti con questo
disegno complessivo11. Libera di licenziare senza rendere note le ragioni,
salvo il diritto del lavoratore all’indennità supplementare, se, per escludere
tale eventualità o anche per sottrarsi
agli obblighi del preavviso, l’impresa
addebita un inadempimento, l’art. 7
St. lav. deve essere rispettato.
Proprio perché esso recepisce una più
complessa idea di contraddittorio, il
cui fondamento è nell’art. 2 cost., il
dirigente ha diritto alla tutela dell’art.
7 St. lav.12 e, se così è, a tutti i lavoratori devono essere assicurate le stesse
forme di protezione.
Per stabilire se debba operare l’art. 7
St. lav., non ci si deve chiedere se il
provvedimento finale sia una sanzione,
ma se, mettendo a repentaglio la dignità del prestatore di opere, esso invochi
l’instaurazione del contraddittorio.
Se così non fosse, non per tutti i lavoratori l’azienda diventerebbe il luogo
di promozione della persona, ed a ciò
può indurre solo una concezione, superata sul piano storico, del diritto del
lavoro come strumento di protezione
privilegiata di chi sia in condizioni di
specifica debolezza economica.
L’offesa alla dignità si può accompagnare anche ad una elevata retribuzione e, soprattutto nella moderna
società, la salvaguardia della persona
e dei suoi valori deve prescindere da
qualunque considerazione delle possibilità patrimoniali e delle risorse professionali13.
Neppure attribuendo le massime gratificazioni economiche, l’impresa può
acquisire il diritto a conculcare la dignità dei collaboratori e l’elevata retribuzione non esonera dal rispetto delle
q
45
procedure, necessarie qualora si discuta di un possibile inadempimento. Esse
non sono mai uno sterile baluardo se
permettono una migliore protezione
dell’interesse di ciascun prestatore di
opere ad essere protagonista consapevole del suo destino14. Quindi, non è
persuasiva la ricorrente affermazione
per cui “il giudizio circa l’applicabilità al dirigente delle garanzie procedimentali dell’art. 7 St. lav. in caso di
suo licenziamento per motivi disciplinari involge accertamenti di fatto
(coinvolgenti l’identificazione delle
reali mansioni e della collocazione
nell’organizzazione) diretti a stabilire
se l’interessato appartiene al numero
dei dirigenti di vertice, cioè con funzioni di respiro tale da caratterizzare
la vita dell’azienda, ai quali soli non
sono applicabili dette garanzie”15.
Invece, poiché il contraddittorio protegge la dignità e prescinde da valutazioni organizzative, dove vi è
rimprovero vi deve essere un aperto
confronto preventivo. Se esso è ricondotto alla sua vera ragione di promozione della persona, non vi può essere
una appagante giustificazione per la
selettiva limitazione dei destinatari di
una delle garanzie che più contribuiscono a promuovere la responsabile
consapevolezza del prestatore di opere
sul suo destino16.
2. La nozione di licenziamento disciplinare.
L’applicazione del criterio del contraddittorio è compatibile con la disciplina
46
q
legale sulla libera recedibilità, perché,
come bene ha messo in luce di recente
la Suprema Corte17, la mancata contestazione degli addebiti non determina
la nullità dell’atto, ma provoca solo
l’attuazione degli specifici meccanismi sanzionatori previsti dal contratto
collettivo per i dirigenti18.
Tale principio è ormai consolidato
con riguardo ai recessi dei lavoratori
sottoposti alla cosiddetta tutela obbligatoria19, appunto da invocare qualora l’impresa abbia violato l’art. 7 St.
lav.20.
Se si vede nell’art. 7 St. lav. una tutela
della dignità, il licenziamento disciplinare diventa la massima pena suscettibile di essere inflitta21; si deve attribuire “al principio del contraddittorio
(...) un valore di speciale canone di garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo, di modo che finisce per configurarsi come del tutto illogica, alla
luce del parametro di eguaglianza, una
differenziazione legislativa che non
imponga al datore di procedere alla
preventiva contestazione degli addebiti in caso di licenziamento determinato
da fatto del lavoratore”22.
Se si accetta questa linea di argomentazione, l’operare dell’art. 7 St. lav.
prescinde da una compiuta definizione
sia della giusta causa, sia del giustificato motivo; senza che si entri nella
discussione sulla struttura di tali figure, il contraddittorio è garantito perché
esse implicano comunque un “rimprovero” nei confronti del prestatore di
opere o, meglio, fanno riferimento ad
un suo inadempimento.
Quindi, l’art. 7 St. lav. è colto nella sua
dimensione fondativa23, di prescrizione che presidia sulle implicazioni personali e relazionali dell’esercizio di
qualunque iniziativa di autorità del datore di lavoro, a prescindere dal fatto
che essa preluda a misure conservative
od all’estinzione del rapporto24.
In questa prospettiva, non sono rilevanti le previsioni dei contratti collettivi e, quindi, l’esplicita indicazione
del licenziamento quale sanzione disciplinare.
Per un verso, anche nel silenzio dei
codici, i giudici possono identificare
la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo, qualora la condotta
del prestatore di opere violi criteri generali di comportamento, fuori dalle
specifiche ipotesi contemplate dalle
intese sindacali25. Per altro verso, se
l’operare dell’art. 7 St. lav. non è condizionato dalla configurazione specifica della giusta causa e del giustificato
motivo, a maggiore ragione non hanno
incidenza le disposizioni convenzionali. Il discrimine è dato dalla componente di “rimprovero” che, comunque,
è insita nel licenziamento per giusta
causa o per giustificato motivo, poiché
si riprende dall’art. 7 St. lav. il principio del contraddittorio quale espressione di una evoluta forma di “civiltà
giuridica”26.
In ordine alle tecniche di tutela derivanti dall’applicazione dell’art. 7
St. lav., si può convenire con le più
generali osservazioni secondo cui “il
modulo è quello classico del diritto
privato, cioè di un rapporto, che viene
a costituire il «supporto» di posizioni
soggettive attive e passive, con una
duplice variante, la quale contraddistingue il diritto del lavoro come peculiare. Quantitativa, la prima, data dalla
ricchezza di tali posizioni, introdotte
ex lege; qualitativa la seconda, rappresentata dalla loro tecnica «sanzionatoria»”, poiché “la ragione è al tempo
stesso semplice e nota, essendo alla
base della nostra materia, cioè l’implicazione della persona del lavoratore,
che chiama in causa tutta una serie
di valori costituzionalmente garantiti,
destinati a «penetrare» nel rapporto
attraverso una mediazione legislativa,
divenuta col tempo sempre più diffusa
ed intensa”27. Infatti, l’art. 7 St. lav.
ha avuto la specifica funzione di introdurre una lunga serie di posizioni
soggettive del lavoratore, inerenti non
tanto all’oggetto del potere disciplinare e, quindi, alla reazione in sé, quanto
alle sue forme e, pertanto, a complessi
vincoli procedurali.
E’ un po’ sterile chiedersi fino a che
punto abbia avuto successo il tentativo
dell’art. 7 St. lav. di stemperare gli elementi di forte autorità dell’idea stessa
di disciplina, incidendo sulle modalità di esercizio di tale prerogativa e,
cioè, costringendo il datore di lavoro
all’instaurazione del contraddittorio e,
quindi, per un verso a confrontarsi con
il prestatore di opere e, per altro verso,
a garantire il rispetto della sua dignità.
Con tutti i suoi evidenti limiti, dovuti
al fatto che si colloca fuori dal cuore
del potere dell’impresa e non considera le fattispecie delle sanzioni conser-
q
47
vative o del licenziamento, l’art. 7 St.
lav. ha avviato un imponente dibattito ed una sterminata giurisprudenza,
talora con risultati solo in apparenza
sorprendenti. Come è per qualunque
intervento sulla forma, alcune delle
garanzie prefigurate dalla disposizione hanno ... protetto i colpevoli e non
sono riuscite a proteggere le persone
più meritevoli.
Tuttavia, questi rischi erano inevitabili
ed un esame della ricca giurisprudenza
mette in evidenza conclusioni scontate. Per la sua struttura, la salvaguardia
di carattere formale prescinde dalla
considerazione della meritevolezza
sociale dei comportamenti del singolo
e tocca in modo trasversale qualunque
prestatore di opere.
Peraltro, ciò non riduce l’importanza
della “procedimentalizzazione”, a prescindere dal fatto che molte imprese si
dimostrino incapaci di dominare procedure talora sofisticate come quelle
dell’art. 7 St. lav..
Infatti, la forma promuove una maggiore consapevolezza del possibile destinatario del procedimento, creando a
suo favore posizioni soggettive attive
su adempimenti del datore di lavoro
prodromici all’adozione dell’atto finale.
L’impresa si deve destreggiare in un
articolato panorama di misure preparatorie all’eventuale recesso e, pertanto, deve sfoggiare adeguata consapevolezza non solo della struttura del
procedimento disegnato dall’art. 7 St.
lav., ma anche della composita interpretazione giurisprudenziale.
48
q
Però, questo impatto della cosiddetta
“procedimentalizzazione” è inevitabile, come lo è la centralità del dibattito
sulla forma ai fini della valutazione
della legittimità del recesso.
Nonostante le passate, radicate resistenze a sancire l’operare dell’art. 7
St. lav. in tema di licenziamento per
giusta causa e per giustificato motivo
soggettivo, resta l’importanza della
protezione e della promozione della dignità, sottesa al riconoscimento
dell’applicabilità dell’art. 7 St. lav..
Anzi, la giurisprudenza costituzionale
e quella di legittimità hanno finito per
ricomporre intorno a tale disposizione
un quadro unitario di obblighi ed oneri
che, imperniati sulla figura del contraddittorio, presidiano le fattispecie
di contestazione e di “rimprovero” per
gli inadempimenti.
A tale riguardo, il ricorso ad una procedura non è un inutile appesantimento; invece, solo questa attenzione al
procedimento promuove la coerenza
fra la forma di esercizio del potere disciplinare per le misure conservative
e quella che deve essere seguita per
i licenziamenti, in relazione alla loro
comune matrice e, cioè, al vertere su
un inadempimento.
Se esso rileva ai fini della prosecuzione del rapporto o, comunque, all’adozione di provvedimenti sanzionatori,
implica un apprezzamento che riguarda una condotta umana e, come tale,
postula una immediata considerazione per le ragioni della persona sottoposta alla critica altrui, già sulla base
dell’art. 2 cost. e della valorizzazione
della dignità, quale bene non negoziabile e meritevole di incondizionata tutela, prima ancora che si dia risalto ai
profili di natura patrimoniale.
Se la subordinazione è il presupposto teorico del potere disciplinare e di
quello di licenziamento, non di meno
vi sono forme da valorizzare, perché
sia così difesa la consapevolezza del
dipendente. Questi ha il diritto di affrontare il recesso ... come avrebbe
fatto Farinata degli Uberti.
3. Il licenziamento come sanzione
disciplinare.
Questa prima osservazione pone un
problema ulteriore e, cioè, di stabilire se “il licenziamento conseguente al
notevole inadempimento degli obblighi del lavoratore corrisponde e, secondo i più, riassorbe, in ambito giuslavoristico, la risoluzione giudiziale
per inadempimento dei contratti sinallagmatici, ma rappresenta, in relazione alle garanzie procedimentali di cui
all’art. 7 St. lav., solo un equivalente
funzionale del potere disciplinare”,
perché i due poteri sarebbero diversi
sul versante strutturale.
Si soggiunge che il primo sarebbe
“strumentale alla predisposizione del
substrato aziendale che consente al
lavoratore di adempiere alla sua obbligazione principale e si esprime, perciò,
anzitutto, nella formazione del codice
disciplinare”.
Il potere di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta
causa salvaguarda, invece, la pos-
sibilità della parte fedele a mettere
in discussione la sopravvivenza del
contratto in caso di inadempimento
degli obblighi fissati nel regolamento
contrattuale e prescinde, pertanto, dal
contenuto del codice disciplinare”, per
lo meno in larga parte, se si vuole seguire la giurisprudenza.
Quindi, si conclude, “la comunanza tra
i due poteri, che giustifica l’applicazione ad entrambi del principio audiatur et altera pars, non risiede nel carattere sanzionatorio, che è inesistente in
quello risolutorio per inadempimento.
Essa va, piuttosto, cercata nel comune
presupposto dell’inadempimento nonché nel fatto che i due poteri vengono
esercitati in via stragiudiziale”28.
Se pone una corretta sintesi del problema, la tesi è infondata, sotto più
profili, a tacere dello specifico tema
della rilevanza del codice disciplinare
in relazione al recesso, aspetto secondario. In primo luogo, è persuasivo affermare che non occorre optare per la
completa omologazione strutturale del
licenziamento alle sanzioni conservative per sancire l’operare dell’art. 7
St. lav.. Peraltro, più che il riferimento
al “principio audiatur et altera pars”,
si dovrebbe vedere nell’art. 7 St. lav.
l’imposizione di un dovere di preventiva instaurazione del contraddittorio a
tutela della consapevolezza del destinatario (e non della ponderazione del
provvedimento).
Infatti, il datore di lavoro non è tenuto
a considerare le difese del dipendente, né queste devono essere comunque
presentate, né occorre una specifica
q
49
motivazione a conclusione della sintetica procedura.
Per altro verso, il potere di applicare le
sanzioni disciplinari e quello di recedere per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo sono diversi dal
punto di vista funzionale, né potrebbe
essere in modo differente, se si considera come l’obbiettivo sia per natura
diverso.
Peraltro, a tale livello e, cioè, ad una
analisi di carattere teleologico, si resta
ad uno stadio estrinseco nell’approfondimento del tema e non si esamina
il problema di fondo, dato non dalla
funzione dei due poteri, ma dalla loro
struttura. In difetto, si rimane ancorati
a condivisibili, ma limitate considerazioni descrittive, con una caduta in
ovvie tautologie.
Solo se si esamina la struttura intrinseca si può stabilire se si discuta di separate prerogative del datore di lavoro,
o di un unico potere, che, di volta in
volta, per vari illeciti e per soddisfare disomogenei interessi dell’impresa, comporta l’applicazione di misure
conservative od estintive.
Un errore di prospettiva risiede nell’affermazione per cui “la comunanza tra i
due poteri, che giustifica l’applicazione ad entrambi del principio audiatur
et altera pars, non risiede nel carattere sanzionatorio, che è inesistente in
quello risolutorio per inadempimento”. Tale osservazione è diffusa e, in
qualche modo, la frase citata è una
sorta di sintesi della prevalente opinione comune. E’ vero il contrario; vi è un
unico potere disciplinare, che inerisce
50
q
sia al licenziamento, sia ai provvedimenti conservativi, non perché tutti
gli atti siano sanzionatori, ma perché
nessuno lo è.
Quindi, la carenza di tali componenti
è l’indice primo dell’identità del potere, in quanto reazione ad un inadempimento, con la conseguente divaricazione rispetto al recesso per giusta
o per giustificato motivo soggettivo
intimati per fatti estranei al rapporto,
seppure rilevanti ai fini dell’accreditamento sociale del datore di lavoro.
Si può ricordare la tesi centrale ed insuperata di chi29 ammoniva a considerare come la vera sanzione, quale riaffermazione, in caso di trasgressione,
dell’ordinamento violato presupponga
sempre il processo e, pertanto, l’accertamento in sede giurisdizionale, senza
il quale non si può dare ricostituzione
piena del diritto oggettivo e, quindi,
neppure sanzione.
Dunque, fino all’intervento del giudice, qualunque procedimento espletato
da una parte non può portare all’applicazione di una sanzione, ma solo
all’adozione di un provvedimento nel
quale prevalgono gli interessi (appunto di parte) di natura ripristinatoria,
a scapito di quelli di esemplare chiarificazione del lecito o dell’illecito;
questa ultima funzione compete al
solo giudice, nel contraddittorio processuale. Tale considerazione vale a
maggiore ragione per il datore di lavoro privato, il quale, pure nei vincoli
dell’art. 7 St. lav., opera per realizzare
le sue ragioni patrimoniali, e non per
fini di giustizia.
Dunque, né le misure conservative, né
il licenziamento sono sanzioni e, sebbene sia diffusa nel linguaggio comune
e, ormai, ineliminabile, tale locuzione
deve essere intesa in senso improprio
ed atecnico, se ci si riferisce al potere
disciplinare.
Lungi dal cercare la verità, seppure
nei limiti delle facoltà umane, l’impresa agisce in sede disciplinare quale controparte del prestatore di opere,
così che vi è un solo accertamento sul
sussistere del preteso illecito, quello
del giudice.
A questi è rimessa la decisione sia sul
ricorrere dell’inadempimento, sia sulla proporzione fra questo e la misura
applicata, sia sulla complessiva responsabilità del dipendente.
Pertanto, non vi è nessuna sanzione
nei procedimenti dell’art. 7 St. lav. e,
proprio sul piano strutturale, vi è un
solo potere dell’impresa di reazione
all’inadempimento, identico per le
garanzie procedurali, ma anche per la
natura della determinazione del datore
di lavoro.
Questi si deve interrogare sull’esistenza di un inadempimento e sulla possibilità di emanare un provvedimento,
ma l’illecito può essere accertato solo
dal giudice e, in tale caso, l’originaria
misura può essere corroborata dalla
sentenza.
Se, poi, a fronte di una categoria non
delimitata dal diritto positivo, come
quella di sanzione, si volesse indicare
un suo diverso confine e se si volesse scolpirne i tratti secondo una altra
delle possibili varianti di tale impe-
gnativa nozione, le conclusioni non
cambierebbero. Ferma la contrapposizione teleologica e funzionale fra il
licenziamento per inadempimento e le
misure conservative, essi hanno identica struttura in ordine all’elemento
qualificante e, cioè, al nesso fra l’analisi e la decisione del datore di lavoro
ed il successivo sindacato del giudice.
Poco importa che la giusta causa ed il
giustificato motivo si distinguano dai
meno gravi inadempimenti che portano ai richiami, alle multe ed alle sospensioni.
Comunque, in tutti questi casi, il
giudice deve riscontrare il sussistere
dell’inadempimento, la proporzione
con il provvedimento applicato, la coerenza nella conduzione del procedimento.
Questi elementi fanno emergere come
sia uno solo il potere di reazione
all’inadempimento, né tale quadro di
insieme viene meno per le differenze
presenti nell’attuazione dell’art. 7, primo comma, St. lav., poiché la predisposizione del codice disciplinare ha
natura ricognitiva di condotte illecite
comunque riconoscibili e connesse
alla violazione di obblighi posti dalle
fonti autonome o da quelle eteronome.
Pertanto, il limitato incidere dell’art.
7, primo comma, St. lav. in tema di
recesso non modifica la conclusione
preferibile e, cioè, l’individuazione di
un solo potere disciplinare. In questa
logica, la disciplina non è il potere di
applicare sanzioni, ma di opporre misure di varia natura all’altrui inadempimento contrattuale.
q
51
Se l’art. 2106 cod. civ. e l’art. 7 St. lav.
sono espressione di una dimensione di
autorità propria del contratto di lavoro ed indicativa del nucleo originario
della subordinazione, lo stesso ragionamento vale per i provvedimenti
conservativi e per quelli estintivi e, se
mai, a tale ultimo riguardo, l’autorità
emerge con un risalto ancora maggiore, a prescindere dalla configurazione
della giusta causa e, cioè, dal fatto che
essa sia il presupposto di un potere di
recesso straordinario o solo del venire
meno del diritto al preavviso ed alla
relativa indennità sostitutiva.
Peraltro, il ricondurre il licenziamento
e le cosiddette “sanzioni” conservative
al medesimo potere è un profilo neutro
rispetto all’identificazione del proprio
della giusta causa e del giustificato
motivo e, per converso, della ragione della prefigurazione delle sanzioni
conservative.
Tali aspetti riguardano le connotazioni
di ogni, singolo atto, mentre il sussistere di un solo potere si collega a comuni lineamenti strutturali, vale a dire
al conferimento all’impresa del potere
di reagire in via diretta all’inadempimento, salva la piena, ma successiva
cognizione del giudice.
4. Inadempimento, disciplina e licenziamento.
Se, ormai, non vi è quasi più discussione sul carattere contrattuale del potere disciplinare30, esso contribuisce a
caratterizzare l’idea stessa della subordinazione, poiché il suo sorgere è uno
52
q
degli effetti qualificanti della stipulazione del negozio31. Tale aspetto non
assume spesso risalto centrale ai fini
della qualificazione di un accordo, fra
autonomia e subordinazione, poiché
per sua natura il potere è ad esercizio
sporadico e solo eventuale.
Peraltro, ci si chiede “in quale misura
l’interesse organizzativo del datore di
lavoro, in tutte le sue complesse sfaccettature, trovi una corrispondenza più
o meno ampia nella posizione debitoria del lavoratore che si esprime nel
contratto di lavoro subordinato, e dunque in che grado il potere disciplinare
possa essere considerato strumento di
tutela di interessi «contrattuali» del
datore, riconducendo così al solo contratto di lavoro il fondamento e l’origine della posizione di supremazia riconosciuta al capo dell’impresa”32.
Il perspicuo quesito merita una risposta articolata, su più piani. In primo
luogo, l’affermazione può apparire
scontata, il potere disciplinare trova
il suo fondamento nella legge e non
nel solo contratto, poiché è un effetto
legale (essenziale) dell’accordo e, pertanto, appartiene alla tipica configurazione della fattispecie.
La volontà delle parti si indirizza alla
costituzione di un rapporto di lavoro
subordinato, secondo la sua configurazione, propria del nostro ordinamento,
ma non si indirizza mai al potere disciplinare quale isolata componente dei
più articolati effetti che la norma riconnette alla stipulazione del negozio.
Le parti valutano nella loro autonomia
una composita figura di lavoro etero-
diretto, senza prendere in esame le sue
diverse componenti e, tanto meno, il
potere disciplinare, di esercizio sporadico e rivolto a situazioni di conflitto.
Se non avesse la sua matrice nella
legge, il potere non potrebbe essere
configurato, poiché esso rimanda ad
una dimensione di autorità, comunque
connessa ad una scelta del legislatore.
Ciò non esclude in alcun modo che il
potere derivi dal contratto33, poiché,
come per qualunque altro effetto, esso
è il frutto della concorde manifestazione di volontà, che comporta gli effetti prefigurati dalla fonte eteronoma.
Quindi, il fondamento del potere è negoziale, ma in ragione della struttura
del rapporto, voluta per legge.
I due profili non sono in contraddizione reciproca, poiché il contratto
produce gli effetti programmati dagli
artt. 2094 ss. cod. civ., fra cui si iscrive
l’art. 2106 cod. civ34..
Per altro verso, la struttura del rapporto
ed il potere che in essa si inserisce non
prefigurano interessi tipici dell’impresa, ma rimandano alle ragioni dell’attività espletata e, quindi, ad una ampia
gamma di aspettative produttive.
Esse non sono per loro natura oggetto
del contratto, ma esulano dal suo ambito e, se mai, rinviano ai motivi delle
scelte del datore di lavoro, rilevanti di
volta in volta, sulla base di specifiche
disposizioni, come è per il giustificato
motivo oggettivo, alla stregua dell’art.
3 della legge n. 604 del 1966.
Il potere disciplinare e, cioè, quello
di applicare misure conservative e di
licenziare per giusta causa o per giu-
stificato motivo soggettivo si impernia
sulla reazione ad un inadempimento e,
quindi, in tale ambito, non emergono i
motivi dell’atto ed il giudice si interroga su profili oggettivi, l’esistenza
dell’inadempimento e la proporzione
del provvedimento adottato.
Pertanto, gli interessi in concreto perseguiti sfuggono al paradigma dell’art.
2106 cod. civ., dell’art. 3 della legge
n. 604 del 1966 e dell’art. 7 St. lav..
Anzi, tali esigenze non hanno alcuna
implicazione sulla configurazione del
potere, tutto rivolto al solo elemento
dell’inadempimento.
Altro è chiedersi perché, nel costruire
il tipo del lavoro subordinato, la legge
conceda tanto all’autorità del datore di
lavoro, al punto da consentirgli di replicare all’altrui inadempimento o con
il recesso o con misure conservative.
A tale riguardo, più di considerazioni
di ordine sistematico, soccorrono valutazioni di indole storica, se si considera come, fino dai suoi primordi, il
lavoro subordinato della società industriale sia stato immerso in una logica
di autorità che ne è divenuta una componente inscindibile.
Peraltro, poiché sono diverse le forme
di reazione, sono differenti anche le
ragioni delle “sanzioni” conservative
e del licenziamento e, se le prime rimandano all’assicurazione del fruttuoso esercizio del potere direttivo35, il
recesso implica un fatto di gravità tale
da giustificare l’estinzione del rapporto, a fronte di ipotesi riconducibili alla
giusta causa od al giustificato motivo.
Quindi, l’osservanza delle disposizio-
q
53
ni relative alla disciplina è “in ogni
caso comportamento che il lavoratore
è chiamato a tenere in quanto obbligazione che nasce dal contratto e quindi
la reazione disciplinare è sempre reazione ad un inadempimento”36, fermo
il fatto che il problema si pone di fatto
per le sanzioni conservative.
Peraltro, tutte le misure disciplinari
(che non sono sanzioni) fanno seguito
ad un inadempimento37, poiché tale
è la violazione di regole di comportamento del prestatore di opere, suscettibili di portare alla reazione del datore
di lavoro, con il recesso o con un intervento conservativo.
Poco importano a tali fini la gravità del
fatto e la sua eventuale rilevanza ai fini
di una responsabilità risarcitoria, poiché il concetto di inadempimento è più
vasto di quello di condotta suscettibile
di portare al risarcimento del danno e
contempla tutte le ipotesi di imperfetta
esecuzione del programma negoziale
convenuto.
Pertanto, qualunque illecito trova la
sua giustificazione in doveri di matrice
legale o contrattuale, con una codificazione del datore di lavoro solo riepilogativa e volta a rendere consapevole
il prestatore di opere, così che “l’intrinseca correlazione fra prestazione
lavorativa in forma subordinata, poteri del datore di lavoro ed inserimento
del lavoro nell’impresa determina un
limite interno alla possibilità di emettere ordini, nel senso che essi non potrebbero in alcun caso essere esterni
all’obbligazione di lavoro, dovendosi
escludere in radice efficacia agli atti
54
q
di estrinsecazione del potere posti in
essere eccedendo da tale delimitazione
interna”38.
Questa ultima considerazione rimanda alla valutazione del presupposto
teorico del potere disciplinare; esso
comporta comunque una reazione ad
un comportamento illegittimo e, pertanto, alla violazione di un obbligo, il
quale trova il suo fondamento nel contratto e nella legge, che determina gli
effetti del primo. Se mai, il problema
è di identificare come siano stabiliti,
nello svolgersi del rapporto, gli specifici doveri del dipendente ed essi
non possono essere tutti identificati
nell’originario accordo, né nella legge, ma implicano una successiva fase
di precisazione e di analitica determinazione della collaborazione pretesa.
Tuttavia, tale sviluppo non rimanda al
potere disciplinare, ma a quello direttivo, di conformazione della condotta richiesta a ciascun lavoratore e, in
questa logica, l’art. 7, primo comma,
St. lav., a proposito della predeterminazione del codice, presuppone precedenti provvedimenti di delimitazione
degli obblighi. A ragione, si osserva
che “funzione del contratto (...) è anche quella di specificare il contenuto
della prestazione (...) in vista del fine
produttivo, nonché di coordinare tale
prestazione con quella degli altri lavoratori”39.
Questa componente dei poteri del datore di lavoro afferisce alla direzione,
non alla disciplina, la quale ha un contenuto molto più circoscritto. Se vi è
un obbligo e, quindi, se il prestatore di
opere ha ricevuto un ordine legittimo
e vincolante, egli cade in un inadempimento qualora trasgredisca a tali indicazioni.
Quindi, se, ricevuta una prescrizione
valida, il dipendente non ottempera40,
la reazione ha come sua premessa tale
preteso comportamento illecito e la disciplina si limita appunto a tale replica
dell’impresa all’altrui violazione, la
cui esistenza è alla fine accertata dal
giudice, se del caso. In questa prospettiva, il potere è la risposta autoritaria
alla dichiarata trasgressione a doveri.
Altro è stabilire come e quando essi
esistano e questo profilo sfugge al
potere disciplinare ed al suo oggetto,
né soccorre l’art. 7, primo comma, St.
lav., per la natura riepilogativa del codice e delle sue indicazioni.
In questa logica, non vi è alcuna distinzione strutturale fra le misure conservative ed il licenziamento; seppure
con diversa rilevanza, tutti tali atti
hanno quale premessa l’inadempimento, né sulla ricostruzione del potere si
riflette il meccanismo mediante il quale il prestatore di opere diventa titolare
del dovere e, cioè, se esso trova la sua
immediata ragione nel contratto od in
una successiva dichiarazione. Comunque, resta ferma la natura contrattuale
dell’inadempimento, il quale, se non
altro in via indiretta, rimanda all’accordo costitutivo del rapporto ed alla
legge, regolatrice degli effetti del negozio. La stessa natura contrattuale ha
il potere disciplinare, che è il riflesso
dell’inadempimento e ne condivide i
caratteri.
5. La proporzione, il potere del giudice ed i codici disciplinari.
A ragione, si osserva che l’art. 7 St.
lav. prosegue “nel solco già tracciato
dalla Carta del lavoro e dall’art. 2106
cod. civ. riconoscendo alla contrattazione collettiva quel ruolo di fonte di
definizione della normativa disciplinare, già tradizionalmente e diffusamente assunto nel settore privato”41.
In questa prospettiva si iscrive il dibattito sull’art. 2106 cod. civ., di pacifica
applicazione al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, poiché, comunque, al giudice
compete una valutazione di proporzione fra la sanzione e la reazione42.
A tale riguardo, non soccorre solo il
principio di buona fede, ma si manifesta l’elemento proprio del potere disciplinare, aspetto che vale sia per i provvedimenti conservativi, sia per quelli
espulsivi, vale a dire la natura dell’atto
di replica ad un inadempimento.
Se non vi è sanzione, perché manca
l’accertamento del giudice, tale componente di reazione spiega per quale
ragione essa debba seguire criteri di
proporzione, che costituiscono l’intrinseco limite sostanziale della prerogativa autoritaria attribuita all’impresa, soprattutto (ma non solo) se si
discute della fine del rapporto.
Altro è stabilire (e ciò compete all’analisi della giusta causa e del giustificato
motivo, non del licenziamento disciplinare) come debba trovare applicazione l’art. 2106 cod. civ. e, dunque,
secondo quali parametri debba avere
q
55
luogo il giudizio di proporzione43.
Peraltro, tale analisi rientra per sua
natura nei compiti del giudice44, al
punto che le indicazioni dei contratti
collettivi non hanno natura vincolante, perché, in questo modo, il conflitto
fra il datore di lavoro ed il prestatore
di opere trova la sua definizione nella
complessiva decisione giudiziale.
Anzi, proprio il principio di proporzione è il segno del fatto che le misure
conservative e quelle espulsive sono
oggetto del medesimo potere, poiché
fra le une e le altre prevalgono i momenti di continuità e non vi è un rigido
iato, nel comune afferire alle forme di
reazione all’altrui inadempimento.
La loro legittimità presuppone la loro
proporzione, con un diretto ed integrale sindacato del giudice45, il quale,
così, ripercorre tutto l’itinerario condotto dall’impresa nella valutazione
della condotta.
Anzi, il sindacato di proporzione implica il riferimento non a canoni di
razionalità, ma a principi assiologici,
come rileva la giurisprudenza, per la
quale, “per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di
grave negazione degli elementi essenziali del rapporto ed in particolare di
quello fiduciario, occorre valutare da
un lato la gravità dei fatti addebitati, in
relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze
nelle quali sono stati commessi ed
all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali
fatti e la sanzione inflitta, per stabilire
56
q
se la lesione dell’elemento fiduciario
su cui si basa la collaborazione del
prestatore di lavoro sia in concreto
tale da giustificare o meno la massima
sanzione disciplinare”46.
Quindi, lungi dal limitarsi ad un controllo esterno della coerenza delle decisioni dell’impresa e dal soffermarsi
sui suoi fini, di fatto il giudice si sostituisce al datore di lavoro e penetra
nell’intimo della determinazione, per
chiedersi se vi sia proporzione (e,
quindi, giustizia sostanziale) nel raccordo fra il comportamento e la misura
applicata.
A maggiore ragione, quella disciplinare non è una sanzione, poiché solo il
giudice punisce, decidendo sul provvedimento e verificandone fino nel
profondo la sua legittimità. Sul punto, spetta al giudice l’applicazione
della sanzione, previo accertamento
dell’inadempimento e della responsabilità, e ciò rende molto meno traumatica la dimensione di autorità insita
nell’art. 2106 cod. civ. e nell’art. 7 St.
lav.. In qualche modo, il potere disciplinare soddisfa esigenze di tempestività dell’iniziativa dell’impresa, in
grado di decidere subito, ma, per altro
verso, costretta a difendere la perspicuità e la giustizia delle sue determinazioni, che sono oggetto del definitivo
accertamento processuale.
Non a caso, si dice che “la valutazione del giudice di merito, che escluda
la sussistenza dei presupposti per una
legittima irrogazione di una sanzione estintiva nel caso di sottrazione di
merce di modesto valore da parte di
dipendente immune da precedenti rilievi e addetto a mansioni non fiduciarie in senso stretto (nella specie, compiti generici di addetto al magazzino di
un supermercato), è conforme a criteri
di logica e rappresenta una applicazione del principio di proporzionalità”47;
a prescindere dalla perspicuità della
soluzione sul punto specifico, che ha
causato un ricco e controverso dibattito48, simili orientamenti mostrano
che l’autorità manifestata dall’esercizio del potere disciplinare è in qualche
modo provvisoria, poiché il conflitto
trova il suo sbocco finale nel giudizio
e questo implica una revisione complessiva di ogni profilo rilevante ai fini
dell’esercizio del potere.
Anzi, è molto ridimensionata l’importanza del codice disciplinare e dell’art.
7, primo comma, St. lav., se si considera quanto sia ampio il sindacato
del giudice, alla stregua dell’art. 2106
cod. civ..
Non a caso, si riporta il problema della
proporzione alla dialettica fra l’art. 4
cost. e l’art. 41 cost.49, quindi fra le
ragioni dell’impresa ed i suoi interessi
organizzativi e quelle del lavoro, alla
continuazione del rapporto.
Su tale raccordo non domina un incondizionato potere autoritario del datore
di lavoro, ma la reazione disciplinare
crea una composizione provvisoria del
conflitto prodotto dall’inadempimento, in previsione dell’accertamento
giudiziale e della connessa decisione
sul comportamento, visto come fatto
e, al tempo stesso, come occasione di
un contrasto fra le aspettative dei la-
voratori e quelle aziendali, in cerca di
una sintesi offerta dall’imparziale applicazione della disciplina positiva ad
opera del giudice50.
Non a caso, coloro che riportano la
giusta causa ad una lesione della fiducia sottolineano come il giudice debba
valutare se, vista nelle sue componenti
oggettive o soggettive, la condotta illegittima possa ledere la fiducia stessa, ancora una volta con una piena
sovrapposizione della sentenza alle
determinazioni rese nell’esercizio del
potere51.
Quindi, se, talora, si afferma che il potere di determinazione della sanzione
“è rimasto affidato al datore di lavoro,
mentre al giudice è devoluto quello
di controllare la legittimità”52, si dovrebbe riconoscere quanto siano ampie le prerogative del giudice e fino a
che punto egli indaghi nel merito sulle
iniziative dell’impresa e sui loro presupposti.
In questo modo, il nesso fra autorità
e difesa delle ragioni del dipendente trova la sua sintesi nel processo e
ciò contribuisce a spiegare come il
contratto possa fondare il potere disciplinare, se questo rimette al datore
di lavoro una decisione suscettibile di
immediata esecuzione, ma anche di
esteso ed intenso sindacato.
Peraltro, questa situazione ha un diretto riflesso nella sostanziale e progressiva “giurisdizionalizzazione” del
potere disciplinare, non solo in ordine
alle forme di esercizio, ma soprattutto
alle modalità di specifica realizzazione
della disciplina, rimessa ad una costan-
q
57
te e penetrante analisi di proporzione.
Pertanto, se l’art. 7 St. lav. protegge
il dipendente nella sua dignità e gli
consente di conoscere in anticipo quali critiche gli stiano per essere rivolte, l’art. 2106 cod. civ. apre il potere
alla cognizione del giudice ed incide
sul versante sostanziale, non solo su
quello formale. Quindi, con l’accertamento giudiziale, quelle disciplinari
assumono una effettiva natura di sanzione, ma, al tempo stesso, il conflitto
trova una definizione compiuta, non
solo una composizione provvisoria, rimessa alle determinazioni dell’impresa. L’inadempimento provoca, in via
simultanea, un dialogo, spesso duro,
fra il datore di lavoro ed il prestatore
di opere ed uno non meno intenso fra
il primo ed il giudice, alla ricerca di
una sanzione applicata in modo legittimo, conforme a giustizia, coerente
con i fatti e proporzionata all’illecito.
In questi vari raccordi sta l’inevitabile
complessità del potere, nella delicata
mediazione di ragioni contrapposte e
di difficile conciliazione e nell’ambizione a proteggere l’interesse del datore di lavoro ad una rapida risposta
e quello del lavoratore ad una misura
conforme a giustizia. In questa logica,
il dialogo fra il giudice ed il datore di
lavoro non è mediato dal contratto collettivo o dal codice, che si limitano a
riepilogare illeciti comunque sottoposti ad una valutazione di proporzione.
NOTE
(1) V.: PERA, Il licenziamento come sanzione disciplinare, in Giust. civ., 1983,
I, 19 ss.; LAMBERTUCCI, Il licenziamento c. d. disciplinare al vaglio della
Corte costituzionale, in Giur. it., 1982, I, 1, 1040; AMOROSO, Commento
all’art. 7, in AMOROSO - DI CERBO - MARESCA, Il diritto del lavoro, II,
Statuto dei lavoratori e disciplina dei licenziamenti, Milano, 2001, 180 ss..
(2) V. Cass., sez. un., 1 giugno 1987, n. 4823, in Foro it., 1987, I, 2031, con nota
di DE LUCA, Il licenziamento disciplinare dalla Corte costituzionale alle
Sezioni unite: opzione per la tesi “ontologica”, chiara definizione dei ruoli,
coerente assetto delle fonti; Cass. 20 ottobre 2000, n. 13906, in Foro it. rep.,
2000, v. Lavoro (rapporto), n. 610; Cass. 20 luglio 1998, n. 7103, in Not.
giur. lav., 1998, 718.
(3) V. Corte costituzionale 29 novembre 1982, n. 204, in Giust. civ., 1983, I,
19; Corte costituzionale 18 luglio 1989, n. 429; Corte costituzionale 23 novembre 1994, n. 398, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 3, con nota di PERA, Il
licenziamento viziato nella forma da parte del piccolo datore di lavoro: una
sentenza contraddittoria.
(4) V. Cass., sez. un., 30 marzo 2007, n. 7880; v. già Cass. 2 marzo 2006, n. 4614.
In senso più attenuato, con riguardo all’applicazione del licenziamento del
58
q
dirigente del principio di necessaria tempestività, v. Cass. 22 settembre 2005,
n. 18620, in Guida dir., 2005, fasc. 42, 69; Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, in
Gius, 2003, 1852. In precedenza, sul fatto che l’art. 7 St. lav. sarebbe stato
inapplicabile al dirigente in posizione apicale, v. Cass. 13 maggio 2005, n.
10058, in Lav. giur., 2006, 290; Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, in Lav. giur.,
2003, 741, con nota di DUI; Cass. 15 novembre 2001, n. 14230, in Orient.
giur. lav., 2002, I, 61. In generale, nel passato, sulla pretesa inesistenza di
un licenziamento disciplinare in senso stretto nel caso dei dirigenti, v. Cass.
27 agosto 2003, n. 12652, in Gius, 2004, 531.
(5) V.: TREMOLADA, Il licenziamento disciplinare, Padova, 1993, 29 ss..
(6) MONTUSCHI, Il licenziamento disciplinare secondo il “diritto vivente”, in
Riv. it. dir. lav., 1996, I, 13 ss.; DE LUCA, La nuova disciplina dei licenziamenti individuali (legge 11 maggio 1990, n. 108), campo di applicazione
delle “tutele” e giustificazione dei licenziamenti, in Foro it., 1990, V, 337
ss..
(7) Invece, cfr. Cass. 7 settembre 1993, n. 9390, in Mass. giur. lav., 1993, 671;
Cass. 3 giugno 1992, n. 6741, in Giust. civ., 1993, I, 81; Cass. 4 marzo 1992,
n. 2596, in Dir. e prat. lav., 1992, 1148; Cass. 5 dicembre 1991, n. 13097,
in Giust. civ., 1992, I, 2403; Cass. 25 settembre 1991, n. 9993, in Not. giur.
lav., 1992, 254.
(8) Cfr. Cass. 22 gennaio 1991, n. 542, in Foro it., 1992, I, 1142, con nota di
DE LUCA; Cass., sez. un., 26 aprile 1994, n. 3965 e n. 3966, ibid., 1994, I,
1708, con nota di AMOROSO, Nuovo intervento delle Sezioni unite in tema
di licenziamento disciplinare; Cass. 18 maggio 1994, n. 4844, ibid., 1994, I,
2976, con nota di MAZZOTTA, “La terra è piatta?” “Forse ...” (A proposito di licenziamento disciplinare illegittimo e sanzioni conseguenti).
(9) V. Cass. 9 giugno 1993, n. 6410, in Mass. giur. lav., 1993, 467; Cass. 4 marzo
1993, n. 2596, in Dir. prat. lav., 1993, 1203; Cass. 24 febbraio 1993, n. 249,
in Foro it., 1993, I, 1848.
(10) Cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 1995, n. 6041, in Nuova giur. civ. comm.,
1996, I, 204, con nota di P. SCOGNAMIGLIO, Licenziamento disciplinare
del dirigente ed applicabilità delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7
St. lav., per cui “gli obblighi della preventiva contestazione e della attribuzione di un termine a difesa non riguardano il licenziamento del dirigente di
aziende industriali e, cioè, del prestatore di lavoro che, collocato al vertice
dell’organizzazione aziendale, svolge mansioni tali da caratterizzare la vita
dell’azienda con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro dal quale si limita a ricevere
direttive di carattere generale, per la cui realizzazione si avvale di ampia
autonomia, ed anzi esercita i poteri propri dell’imprenditore (del quale è un
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alter ego) assumendone, anche se non sempre, la rappresentanza esterna.
La suddetta esclusione non si estende anche al cosiddetto pseudo - dirigente
o dirigente convenzionale, relativamente al quale le mansioni attribuite ed
esercitate non hanno le caratteristiche tipiche del rapporto dirigenziale”.
In senso critico sulla contrapposizione fra dirigenti con responsabilità apicali e pseudo - dirigenti, ai fini della disciplina del recesso disciplinare, cfr.
PAPALEONI, La frontiera mobile del licenziamento del dirigente e la persistente incertezza del versante sanzionatorio, nota a Cass. 11 febbraio 1998,
n. 1434 ed altre, in Mass. giur. lav., 1998, 266 ss.. Sulle implicazioni di questa nota pronuncia, v. PERA, Non esiste il licenziamento c. d. disciplinare
del dirigente?, in Giust. civ., 1995, I, 1760 ss.; PILEGGI, Le Sezioni Unite
promuovono un contrasto di giurisprudenza sul licenziamento disciplinare
del dirigente, in Dir. lav., 1996, I, 156 ss.; AMOROSO, Le Sezioni Unite non
ammettono il licenziamento disciplinare del dirigente, in Dir. lav., 1995, II,
89 ss..
(11) Sull’alternativa teorica posta dalla giurisprudenza in ordine alla configurazione del recesso del dirigente, v. DE ANGELIS, Il licenziamento disciplinare del dirigente. Essere dell’ontologia o non essere del potere disciplinare?,
in Riv. giur. lav., 1997, I, 17 ss.. V. anche TREGLIA, Licenziamento del
dirigente: negata l’applicabilità dell’art. 7 St. lav., in Lav. giur., 1995, 1009
ss..
(12) V. Trib. Milano 10 settembre 1997, in Riv. crit. dir. lav., 1998, 190, per cui
non è “giustificato il licenziamento del dirigente che non sia sorretto da motivi di una certa consistenza e ragionevolezza, tenendo conto delle posizioni
e dei contrapposti interessi delle parti. In particolare, non può ritenersi contestabile il modo in cui il dirigente perviene a un risultato utile all’azienda,
a meno che non gli si imputi di avere agito o in modo scorretto od illecito;
nemmeno è censurabile l’avere posto all’azienda l’alternativa fra le proprie
dimissioni e la risoluzione del rapporto con un consulente, perché il dirigente può disporre del proprio rapporto di lavoro e può e deve esprimere i
propri giudizi e convinzioni nelle questioni sulle quali è chiamato a operare
e rispondere”.
(13) Cfr. Pret. Milano 15 aprile 1996, in Lav. giur., 1996, 761, per cui “non integra gli estremi della giusta causa e neppure del giustificato motivo di licenziamento una serie di azioni od omissioni continuate, non tempestivamente
contestate ad un dirigente ed indicate in modo molto generico, dispiegatesi
nell’arco di tempo di un anno prima del recesso, riassumibili nel non essersi
adoperato a sufficienza nell’impulso e controllo della nuova attività di penetrazione in un mercato estero intrapresa dalla società datrice di lavoro,
posto che gli scarsi risultati della nuova attività intrapresa dalla società
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hanno molto a che vedere col normale rischio imprenditoriale, piuttosto che
con una pretesa incapacità del dirigente al quale non sono stati contestati
comportamenti precisi e circostanziati con sicura efficacia concausale nella
verificazione del lamentato insuccesso”.
(14) V.: ROMAGNOLI, Per una rilettura dell’art. 2086 cod. civ., in Riv. trim.
dir. e proc. civ., 1978, 1059 ss..
(15) V. Cass. 21 luglio 2001, n. 9950, in Not. giur. lav., 2001, 675.
(16) Sulle varie posizioni della giurisprudenza, cfr. R. MAGNANI, Recenti
orientamenti della Corte di cassazione in materia di licenziamento del dirigente, in Dir. lav., 1997, I, 410 ss.; TOFFOLI, Il licenziamento disciplinare
dei dirigenti, ibid., 1995, I, 175 ss..
(17) V. Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, cit..
(18) V.: TOSI, La questione del licenziamento c. d. disciplinare del dirigente
d’azienda, in Questioni attuali di diritto del lavoro, Suppl. Not. giur. lav.,
1989, 187 ss..
(19) Cfr. Cass., sez. un., 26 aprile 1994, n. 3966, cit.; Cass., sez. un., 18 maggio
1994, n. 4844, cit.. In senso critico, v. PERA, Il licenziamento viziato nella
forma da parte del piccolo datore di lavoro: una sentenza contraddittoria, in
Riv. it. dir. lav., 1995, II, 4 ss..
(20) V. anche TIRABOSCHI, Area di libera recedibilità, licenziamento disciplinare e violazione di regole procedurali: un’importante pronuncia della
Cassazione a Sezioni Unite sulla struttura causale del negozio di recesso, in
Orient. giur. lav., 1994, 602 ss..
(21) V.: MONTUSCHI, Potere disciplinare e rapporto di lavoro privato, in
Quad. dir. lav. e rel. ind., 1991, 9 ss..
(22) Cfr. FERRANTE, Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento
disciplinare, in AA. VV., Il lavoro subordinato, a cura di F. CARINCI, tm.
III, Il rapporto individuale di lavoro: estinzione e garanzie dei diritti, a cura
di MAINARDI, Torino, 2007, 209 ss., che, in senso adesivo a questa tesi,
ripresa dalla giurisprudenza costituzionale, sottolinea che “l’esaltazione del
principio del contraddittorio come diritto fondamentale di rilievo primario,
del resto, è già contenuta nella storia normativa dell’art. 7, nel quale non
è difficile intravedere non solo la trasposizione in ambito privatistico del
diritto disciplinare, comune alla regolazione dell’impiego pubblico di tutta
la tradizione continentale, ma altresì una epifania di quel principio del giusto processo, che costituisce uno dei cardini dell’ordinamento statunitense,
quale emanazione del c. d. «due process clause»”.
(23) In senso critico sulle indicazioni della giurisprudenza, v. SUPPIEJ, La Corte
costituzionale legifera sui licenziamenti disciplinari?, nota a Corte costituzionale 20 novembre 1982, n. 204, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, 214 ss..
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(24) Invece, in senso opposto, v. Cass., sez. un., 28 marzo 1981, n. 1781, in Riv.
giur. lav., 1982, II, 132, con nota di FRATTINI, Il licenziamento disciplinare
come sanzione e l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori: alcune considerazioni.
(25) V.: PISANI, Licenziamento e fiducia, Milano, 2004, 37 ss..
(26) Sulla scorta della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, v. FERRANTE, Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento disciplinare, loc. cit., 211 ss., il quale, peraltro (v. pag. 213), riferisce l’art. 7 St. lav.
anche all’ipotesi del licenziamento per giusta causa dovuta a fatti estranei
all’esecuzione delle mansioni, mentre questa ultima affermazione non è persuasiva, perché in tale ipotesi non si discute di un “rimprovero”, ma di fatti
lesivi dell’interesse dell’impresa alla sua immagine sul mercato e della sua
fiducia sulla credibilità del prestatore di opere.
(27) Cfr. F. CARINCI, Diritto privato e diritto del lavoro: uno sguardo dal ponte, in AA. VV., Il lavoro subordinato, a cura di F. CARINCI, tm. I, Il diritto
sindacale, a cura di PROIA, Torino, 2007, LXXXVII ss..
(28) V.: NOGLER, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i “principi” costituzionali, testo provvisorio, 2007, 9 ss..
(29) V.: F. BENVENUTI, Le sanzioni amministrative come mezzo dell’azione
amministrativa, in AA. VV., Le sanzioni amministrative, Atti del XXVI
Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 1982, 42 ss..
(30) V.: BUONCRISTIANO, Profili della tutela civile contro i poteri privati, Padova, 1986, 282 ss., e, dello stesso A., I poteri del datore di lavoro, in Tratt.
dir. priv., diretto da P. RESCIGNO, ed. I, vol. XV, tm. I, Torino, 1986, 573
ss.; R. PESSI, Il potere direttivo dell’imprenditore e i suoi nuovi limiti dopo
la legge 20 maggio 1970, n. 300, in Dir. lav., 1973, I, 60 ss.; MAGRINI,
Lavoro (contratto individuale), in Enc. dir., vol. XXIII, 369 ss.; PERULLI,
Il potere direttivo dell’imprenditore, Milano, 1992, 110 ss.; ZOLI, Subordinazione e poteri dell’imprenditore tra organizzazione, contratto e contropotere, in Lav. dir., 1997, 240 ss..
(31) V.: MENGONI, Il contratto di lavoro nel diritto italiano, in AA. VV., Il
contratto di lavoro nel diritto dei Paesi membri della Ceca, Milano, 1965,
59 ss..
(32) Cfr. MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, in
Comm. cod. civ., a cura di SCHLESINGER - BUSNELLI, Milano, 2002,
16 ss..
(33) Invece, v. SUPPIEJ, La struttura del rapporto di lavoro, Padova, 1963, vol.
I, 79 ss..
(34) V.: BUONCRISTIANO, I poteri del datore di lavoro, loc. cit., 19 ss..
(35) Cfr. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966, 149
ss..
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(36) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 23
ss., con espresso rinvio a MENGONI, Le modificazioni del rapporto di lavoro alla luce dello Statuto dei lavoratori, in AA. VV., L’applicazione dello
Statuto dei lavoratori, Milano, 1974, 24 ss..
(37) Sulla distinzione fra la responsabilità disciplinare e quella per inadempimento, v. G. F. MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di
lavoro, Milano, 1957, 26 ss.; ZOLI, Inadempimento e responsabilità per colpa del prestatore di lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1983, 1269 ss..
(38) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit.,
36 ss..
(39) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit.,
36 ss..
(40) Cfr. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., 197; BUONCRISTIANO, I poteri del datore di lavoro, loc. cit., 575 ss.; MARAZZA, Saggio
sull’organizzazione del lavoro, Padova, 2001, 348 ss..
(41) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit.,
36 ss..
(42) Cfr. Cass. 7 agosto 2006, n. 17799; Cass. 13 aprile 2006, n. 8679; Cass. 21
aprile 2005, n. 8303, in Mass. giur. lav., 2005, 634.
(43) Ad esempio, v. Cass. 19 agosto 2004, n. 16260, in Lav. giur., 2005, 845, con
nota di BELLUMAT, per cui, “in caso di licenziamento per giusta causa, ai
fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso,
viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno
patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta
suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in
quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti”.
(44) Cfr. Cass. 7 aprile 2004, n. 6823, in Lav. giur., 2004, 1198.
(45) V. Cass. 11 marzo 2004, n. 5013, in Gius, 2004, 2996.
(46) V. Cass. 19 agosto 2003, n. 12161, in Gius, 2004, 364.
(47) Cfr. Cass. 15 febbraio 2003, n. 2336, in Mass. giur. lav., 2004, 110.
(48) Per sua natura, la soluzione del problema dipende dalla ricostruzione della
categoria della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo.
(49) Cfr. Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208, in Lav. giur., 2003, 344, con nota di
MANNACIO.
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Programma
Relatori
Temi trattati
Sintesi degli argomenti sviluppati
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I giornata - 19 gennaio 2007
Relatori:
Dott. Tommaso Colajacovo, Dott. Daniele Quadrelli,
Dott. Francesco Siniscalco, Dott. Valentino Cattani.
Temi trattati:
Introduzione e logiche di sistema.
Sintesi degli argomenti sviluppati
Introduzione: logiche, sistema e ruolo; il sistema di relazioni sindacali nel Credito Cooperativo; il ruolo di Federcasse e delle Federazioni locali; l'Area risorse umane della Federazione e i servizi diponibili per le Bcc: ruoli e responsabilità nella gestione del personale in Bcc; Consigli d'amministrazione, Direttori,
capi intermedi, Responsabili aree risorse umane.
Le strumentazioni di gestione delle risorse umane.
La valutazione delle competenze: rilevare il patrimonio di esperienze, capacità
e conoscenze di successo da riconoscere, remunerare e sviluppare per assicurare la crescita dell'organizzazione. L'ambito di rilevazione riguarda sia i
comportamenti ma anche tipologie di conoscenze tecniche.
Le stratificazioni retributive.
I sistemi incentivanti o premianti, il premio di risultato, la negoziazione collettiva tra nazionale, regionale e aziendale.
Le risposte organizzative.
Cambiamenti rapidi e ricorrenti. La flessibilità. La modificazione dei ruoli.
Carriere meno lineari, oblique, a scatti.
Il monitoraggio del patrimonio di competenze. L'orientamento dell'azione del
personale in senso strategico, la razionalizzazione dei costi. La mappa delle
risorse.
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II giornata - 5 febbraio 2007
Relatori:
Avv. Luca Zaccarelli
Temi trattati:
Le retribuzioni.
Sintesi degli argomenti sviluppati
Il prospetto di paga, visto che si trattano le tematiche relative all’amministrazione del personale, disciplinato dalla Legge 4/1953.
La busta paga: che cos’è, quando va consegnata e cosa deve contenere.
La retribuzione sotto il profilo civilistico, cioè come corrispettivo della prestazione di lavoro e quale obbligazione del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.
Le assenze come possibile deroga al principio di corrispettività della prestazione
conto/retribuzione.
Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali disciplinati per lo più da un
Testo Unico che è il D.P.R. 30 giugno 1965 n°1124.
Reddito da lavoro dipendente ai fini previdenziali e ai fini fiscali, è quel reddito
che deriva da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro con qualsiasi
qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione altrui.
I buoni pasto quale buono di lavoro e l’effettivo utilizzo ad essi correlato.
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III giornata - 12 febbraio 2007
Relatori:
Avv. Luca Zaccarelli
Temi trattati:
Le sanzioni
Le ispezioni
Sintesi degli argomenti sviluppati
Le sanzioni: sanzioni penali e sanzioni amministrative.
Hanno un carattere affittivo, intendono cioè affliggere, punire, sanzionare. La
stragrande maggioranza delle sanzioni amministrative, che trovano il loro riferimento nella Legge 689 del 1981, in materia di rapporti di lavoro è di carattere pecuniario. Le stesse, secondo il principio di legalità, si possono applicare soltanto
quando sono previste da una legge che sia entrata in vigore prima della commissione del fatto illecito, come avviene anche per le sanzioni penali. Hanno natura
strettamente personale e individuale. Le sanzioni penali: delitti e contravvenzioni. In materia di rapporti di lavoro la stragrande maggioranza dei reati sono
contravvenzioni. La distinzione dipende dal tipo di sanzione: se il reato è punito
con l’arresto o l’ammenda è una contravvenzione; se è punito con la multa, la
reclusione o l’ergastolo è un delitto. Le sanzioni penali vengono applicate da
un’Autorità Giudiziaria, quelle amministrative da un’Autorità Amministrativa.
Le ispezioni
Hanno l’obiettivo della lotta all’evasione e/o all’elusione contributiva. Possono
essere di 2 tipi: l’ispezione generale amministrativa e l’ispezione a “commessa limitata”. Possono essere svolte da funzionari di Enti diversi (INPS, INAIL,
Direzione Provinciale del Lavoro), ed essere “singole”, di due o più enti, coordinate o integrate. Il compito dell’ispettore del lavoro è quello di vigilare sull’osservanza delle leggi in materia di lavoro mentre quelli previdenziali vigilano
sull’osservanza degli obblighi previdenziali e contributivi di competenza. Potere
di fondamentale importanza degli Ispettori del Lavoro è quello di accesso, ovvero la possibilità di accedere nei luoghi di lavoro in qualsiasi ora del giorno e
della notte, quando vi sia fondato motivo di ritenere in essere una violazione di
legge.
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IV giornata - 20 febbraio 2007
Relatori:
Prof. Avv. Alberto Pizzoferrato
Temi trattati:
L'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato
Sintesi degli argomenti sviluppati
Aspetti di novità legati al tema del collocamento e agli adempimenti da attuare
in materia di assunzioni. Tema, quello della mediazione tra domanda e offerta di
lavoro, sul quale c’è stata un’evoluzione normativa importante. Fino agli anni
90’ era in vigore la Legge 264 del ‘49 che prevedeva il monopolio esclusivo del
collocamento da parte dei soggetti pubblici, nessun altro soggetto privato poteva
interferire nell’attività di mediazione e nel procedimento di avviamento al lavoro,
che aveva natura vincolistica prima di giungere alla vera e propria assunzione. In
sostanza solo passando attraverso l’ufficio di collocamento si poteva procedere
all’assunzione; era una gestione rigidamente ancorata nelle mani dello stato.
Sistema che viene smantellato dall’evoluzione normativa, ad opera della Legge
223 del ‘91, della 608 del ‘96, della 196 del ‘97, per passare al collocamento
come servizio pubblico, quindi attività che non richiede l’esercizio di pubblici
poteri autoritativi e può essere svolta anche da soggetti privati. Viene meno il
monopolio esclusivo nell’intermediazione e viene meno anche la gestione statale, perché viene decentrata secondo un modello amministrativo introdotto dalla
prima Legge Bassanini, cioè la 56 del ‘97, in base alle quale poi interverrà il
decreto legislativo 469 del ‘97. Attraverso tale decreto si realizza il passaggio
di funzione amministrativa del lavoro, dal versante ministeriale, statale, a quello
regionale.
Adempimenti necessari e connessi alla fase di assunzione: i testi normativi di
riferimento sono da un lato il Dlgs. 181 del 2000 e dall’altro il Dlgs. 297 del 2002
e da ultimo, prima del Decreto Bersani, la Legge 248 del 2006 e poi della Legge
Finanziaria per il 2007, la Legge 296 del 2006.
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V giornata - 27 febbraio 2007
Relatori:
Prof. Avv. Enrico Gragnoli
Temi trattati:
La risoluzione del rapporto di lavoro
Sintesi degli argomenti sviluppati
La disciplina del licenziamento rappresenta il tema più complesso dal punto di
vista pratico.
Si prenderanno poi in considerazione il problema delle dimissioni, il problema
del preavviso, che è comune alle dimissioni e al licenziamento, e i casi di licenziamento in cui si deroga al principio generale su cosiddetto principio di giustificazione, cioè sulla necessità per lo stesso di essere sorretto da un giustificato
motivo, l’art.3 della Legge 604 del ‘67. I principali casi che saranno presi in considerazione riguardano i rapporti di lavoro che si estinguono per licenziamenti
non dovuti a giustificato motivo soggettivo o oggettivo, ovvero i casi in cui il
datore di lavoro estingue un rapporto senza doverlo motivare: il licenziamento
del lavoratore anziano, del lavoratore in prova, del dirigente e dell’apprendista.
Il licenziamento dell’apprendista:durante il periodo di apprendistato, il rapporto
di lavoro è equiparato ad un qualsiasi rapporto di un qualunque lavoratore. Nel
momento in cui il periodo di apprendistato giunge al termine, il lavoratore diventa licenziabile, senza che il datore debba spiegare il perché e senza che il giudice
possa porre il problema di vedere se lo stesso è giustificato o ingiustificato.
Il licenziamento del lavoratore in prova: non deve essere motivato, o meglio non
succede niente se non è presente la motivazione. Se invece è presente è molto
più facile per il lavoratore poter attaccare il licenziamento stesso. L’unico caso
in cui si richiede la motivazione è quello della donna in stato interessante che
abbia preventivamente presentato il certificato. Le ipotesi che il lavoratore ha per
protestare tale forma di licenziamento sono sostanzialmente 3: il licenziamento
discriminatorio, il positivo superamento della prova (da dimostrare) e la troppo
breve durata del periodo di prova
Il licenziamento del lavoratore anziano: ad una determinata età, se il lavoratore
non si dimette, il datore acquista il potere di intimare un licenziamento libero. E
l’età sono i 65 anni, secondo la giurisprudenza dominante, sia per l’uomo che per
la donna, prorogabili a 67. questo perché si presume che tutti i lavoratori abbiano
acquisito il diritto alla pensione di vecchiaia.
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Il licenziamento del dirigente: ha 2 forme di tutela, un periodo di preavviso molto
lungo (intorno all’anno) e l’indennità supplementare a cui ha diritto il lavoratore
laddove si accerti che il licenziamento intimato dal datore è ingiustificato. A prescindere però che ci sia o non ci sia giustificato motivo soggettivo o oggettivo, il
rapporto di lavoro con il dirigente si estingue per la volontà del datore di intimare
il licenziamento.
Dimissioni: atto unilaterale con cui il lavoratore pone termine al rapporto. Si verificano in 2 casi: si estingue il rapporto senza addebitare alcun comportamento
illecito al datore di lavoro (dimissioni), oppure la scelta è provocata da un comportamento illecito del datore di lavoro (dimissioni per giusta causa).
Preavviso: si parla di preavviso in caso di dimissioni, perché in realtà, nei casi di
licenziamento, è rarissimo. O si raggiunge un accordo e in questo caso parliamo
di risoluzione consensuale differita, oppure il datore intima il licenziamento per
una giusta causa e allora il preavviso non è dovuto; altra situazione si verifica
laddove il datore paga l’indennità sostitutiva e manda fuori da subito il lavoratore.
La Giurisprudenza non rinuncia però alla teoria dell’efficacia reale del preavviso: il preavviso va fatto e va fatto in modo completo.
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VI giornata - 23 marzo 2007
Relatori:
Prof. Avv. Germano Dondi
Avv. Annalisa Nicoli
Dott.ssa Anna Montanari
Prof.ssa Susanna Palladini
Temi trattati:
La riforma del sistema pensionistico
Sintesi degli argomenti sviluppati
Prima fase: D.lsg n°503/1992 (cd. Riforma Amato). Obiettivo di stabilizzare il
rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo, garantendo trattamenti
pensionistici obbligatori omogenei. Si eleva l’età pensionabile da 55 a 60 anni
per le donne e da 60 a 65 per gli uomini (in modo graduale tra il ‘94 e il ‘99).
Viene elevata la contribuzione minima per la pensione di vecchiaia da 15 a 20
anni (tra il 1993 e il 2000). Il divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro,
prima in vigore solo per i redditi da lavoro dipendente, è esteso anche al lavoro
autonomo (eccetto che per i lavoratori pensionati al 31 Dicembre 1993).
Seconda fase: Legge n° 335/1995 (cd. Riforma Dini). Da un sistema di calcolo
delle pensioni di tipo retributivo (imperniato sulla media delle retribuzioni degli
ultimi 10 anni lavorativi), si passa, dopo un periodo transitorio, al sistema contributivo (basato sull’ammontare dei contributi versati in tutta la vita lavorativa).
L’età pensionabile varia ora in base all’anzianità contributiva posseduta, cioè al
numero di contributi accreditati. Le pensioni di anzianità sono destinate a scomparire con effetto dal 2009; nel periodo 1996-2008 si attua un regime transitorio
con la modifica dei requisiti già vigenti al 31 Dicembre 1995. Relativamente alla
previdenza complementare, viene garantito il decollo dei fondi pensione disciplinati dal D.lgs n°124 del 1993.
Terza fase: Legge n°449/1997 (cd. Riforma Prodi). Riforme giustificate dall’esigenza di mantenere i parametri per l’ingresso in Europa. Inasprimento dei requisiti di età per conseguire, nel periodo transitorio fino al 2008, la pensione
di anzianità. Aumento dell’onere contributivo a carico dei lavoratori autonomi.
Eliminazione, o comunque sensibile riduzione, della perequazione automatica
per le pensioni di importo elevato.
Quarta fase: Legge n° 243/2004. Ha l’obiettivo di assicurare la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico e di completare il processo di separazione tra
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assistenza e previdenza pubblica. I punti principali di tale riforma riguardano la
certificazione, da parte dell’ente previdenziale di appartenenza, del diritto alla
pensione di anzianità ed alla pensione nel sistema contributivo al raggiungimento, al 31 Dicembre 2007, dei requisiti previsti dalla normativa previdente. Si
potenzia la previdenza complementare, con il conferimento automatico, salva
diversa esplicita volontà espressa dal lavoratore, del trattamento di fine rapporto
maturando, alle forme pensionistiche complementari (delega attuata con D.lgs
n°252/2005). Incentivo al posticipo del pensionamento tra il 2004 e il 2007 (cd.
Bonus). Dal 1 Gennaio 2008 la pensione di vecchiaia sarà liquidata esclusivamente con il sistema contributivo e, fermo restando il requisito di anzianità contributiva di almeno 35 anni, si accederà alla pensione di anzianità con requisiti
anagrafici più elevati. Inoltre, ampliamento progressivo della possibilità di sommare periodi assicurativi presso enti diversi (D.lgs n°42/2006) ed eliminazione
dei divieti di cumulo ancora esistenti tra pensioni e redditi da lavoro.
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VII - VIII giornata - 28-29 marzo 2007
Relatore:
Dott. Angelo Contessa
Temi trattati:
La Programmazione Neuro Linguistica (PNL)
Sintesi degli argomenti sviluppati
La P.N.L è una neuroscienza nata negli anni ‘70 in California ad opera di due
studiosi: Richard Bandler (matematico e cibernetico) e John Grinder (professore
di semantica), i quali si chiesero come mai gli allievi di uomini di successo non
ottenevano gli stessi ottimi risultati. Bandler e Grinder decodificarono un metodo
che oggi consente a chiunque di ottenere ottimi risultati in molteplici campi di
applicazione. La P.N.L, infatti, è una metodologia che insegna alle persone il
come educare la propria mente, invece che sul cosa educarla.
Programmazione: perché durante la nostra esistenza ci programmiamo costruendo, dopo aver elaborato le informazioni. Se stabiliamo un’analogia con l’informatica, riteniamo che per tutta la vita il cervello, ossia l’hardware, rimanga
grosso modo uguale. Ciò che invece possono cambiare sono le programmazioni
subite o prodotte: cioè il nostro software.
Neuro: perché tale capacità di programmarci dipende dalla nostra attività neurologica; la P.N.L. agisce, quindi, direttamente sulla nostra organizzazione neurologica, analizzando il modo di pensare di ogni individuo, per ottenere informazioni
riguardanti il suo modo di costruire biologicamente le esperienze del mondo.
Linguistica: in quanto la programmazione si determina attraverso il linguaggio,
il quale struttura ed esplica il nostro modo di pensare.
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IX giornata - 16 aprile 2007
Relatori:
Prof. Avv. Enrico Gragnoli
Avv. Luca Zaccarelli
Temi trattati:
Obblighi e diritti dei lavoratori
Sintesi degli argomenti sviluppati
Obbligo di fedeltà: art. 2015 del Codice Civile. Ha contenuti molto specifici e
settoriali che sono essenzialmente tre: non fare concorrenza al datore di lavoro,
non divulgare informazioni del datore di lavoro, non usare le informazioni riservate del datore di lavoro. Molto importanti all’intesto del sistema bancario sono
il divieto di usare l’informazione acquisita durante lo svolgimento dell’attività
lavorativa e quello di divulgarla, trasferendo a terzi informazioni in cambio di
denaro o di altre utilità economiche. L’articolo non distingue tra comportamenti
dovuti a dolo o a colpa, tra comportamenti dovuti a trascuratezza o a desiderio di
arricchirsi, tra comportamenti fatti per diverse motivazioni, è di per se illegittimo
il divulgare o l’utilizzare le informazioni.
Trattamento dei dati personali
Posta elettronica. I messaggi di posta elettronica inviati ad una persona fisica anche all’interno dell’impresa sull’indirizzo che identifica una persona fisica, sono
corrispondenze e non possono essere aperti dal datore di lavoro.
Verifica impronte digitali. In nessun caso può essere sottoposto a verifica dei
dati biometrici il dipendente. E quindi in nessun caso e per nessuna ragione ci
possono essere dei meccanismi di controllo delle presenze, di ammissione agli
interni della banca, di registrazione che presuppongano un controllo dei dati biometrici.
I problemi di amministrazione del personale.
Il curriculum: presenta un solo vincolo,ed è l’unica cosa che conta, è che non si
può dare a terzi.
Dati sensibili dei lavoratori: il fatto di essere assente per malattia, senza che sia
specificata la diagnosi non rappresenta dato sensibile. Diversa è la situazione
in cu ci sia la diagnosi. Il caso più facile è quello di infortunio da malattia professionale e l’altro è quello in cui il lavoratore che è ammalato, dichiara la sua
malattia e per sue ragioni inserisce la diagnosi. In queste situazioni occorre che i
documenti siano custoditi con un livello più alto di riservatezza.
Note di qualifica: tutte le relazioni del capo ufficio, del capo servizio e dei supe-
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riori gerarchici preparatorie all’audizione del giudizio finale sulla nota di qualifica sono pubbliche. Il lavoratore ha diritto di averne copia, può esercitare il diritto
di accesso.
Il libro di matricola.
Art. 24 e seguenti del d.p.r. 1124 del 1965. In origine e cioè nel testo unico
dell’INAIL del 1965, quando fu concepito e approvato, lo scopo del libro di
matricola e del libro di paga, era prevalentemente uno scopo con finalità assicurative, cioè il controllo dei soggetti che erano assicurati all’INAIL. Il libro
di matricola è uno per il datore di lavoro dove vanno registrati tutti i dipendenti
e, da quando è stato previsto l’obbligo INAIL con l’entrata in vigore del D.Lgs
n°38/2000, anche tutti i collaboratori coordinati e continuativi.
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X giornata - 17 aprile 2007
Relatore:
Avv. Tommaso Tommesani
Temi trattati:
I poteri del datore di lavoro
Sintesi degli argomenti sviluppati
I poteri e limiti del datore nella gestione del rapporto. Il datore di lavoro è capo
dell’impresa e da lui dipendono i collaboratori che lui stesso organizza in una
scala gerarchica, in questo senso si parla del potere gerarchico che altro non è che
una faccia del potere direttivo o meglio, il potere di organizzare in una struttura
piramidale i dipendenti in modo da ottenere il risultato produttivo. Il lavoratore viene descritto come soggetto che collabora all’attività dell’impresa, inserito
all’interno di un’organizzazione altrui e lavora alle dipendenze (art. 2094 c.c.) e
sotto la direzione dell’imprenditore. La dottrina parla di poteri giuridici in senso
proprio, cioè di posizioni giuridiche di vantaggio esercitate discrezionalmente e
nell’interesse proprio del titolare, cioè funzionarie al raggiungimento degli obiettivi che il titolare si è prefisso: il raggiungimento degli scopi produttivi.
Ai poteri si contrappongono i limiti, dettati anch’essi dal codice civile. Anzitutto
la tutela della salute del lavoratore e dei lavoratori in generale, cioè la tutela delle
condizioni di lavoro, prevista dall’articolo 2087 del codice civile, come tutela
dell’integrità fisica e anche della personalità morale del lavoratore. La limitazione al potere di recesso, riguarda il tempo entro il quale il recesso stesso deve
avere efficacia salvo che non ci sia una giusta causa. Terzo limite essenziale previsto dal codice è la modifica definitiva delle condizioni del contratto di lavoro
subordinato per quello che concerne la mansione e il luogo di svolgimento della
prestazione. C’è però anche un limite di carattere generale, che si aggiunge a
questi che sono i più specifici ed è dato dai principi generali in tema di obbligazioni contratti, cioè i principi della correttezza e buona fede nell’esecuzione del
contratto. Principi inseriti in due norme del codice civile: art. 1175 e art. 1375.
Per quel che riguarda la discriminazione, la base testuale di tutta la normativa
è il motivo illecito. Mentre per motivo illecito che vede in particolare il caso di
licenziamento si parla di “unico e determinante”, nel caso dei divieti di discriminazione, invece, la normativa è riferita ad un aspetto oggettivo purchè ci sia la
violazione in sostanza.
Il potere direttivo è il primo e il fondamentale dei poteri del datore di lavoro.
Si manifesta attraverso una serie di atti: gli ordini di servizio che riguardano lo
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svolgimento dell’attività lavorativa, le note di qualifica che riguardano il sistema
di valutazione della prestazione professionale, il regolamento aziendale cioè la
regolamentazione del comportamento in azienda del lavoratore.
Il potere disciplinare. La regolamentazione sta in due norme: l’art. 2106 del c.c.
per quello che riguarda l’aspetto sostanziale e l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori
per quello che riguarda l’aspetto procedurale. L’articolo 2106 individua come
delazione sanzionabile l’inottemperanza agli obblighi previsti a carico del datore
di lavoro dai due articoli precedenti (artt. 2104-2105 c.c.) e fissa anche il principio di proporzionalità tra sanzione e violazione.
Il potere di vigilanza e di controllo. Il contratto di lavoro subordinato prevede
che ad una parte spetti il potere di dettare direttive e all’altra di eseguire queste
disposizioni, che hanno risvolti di carattere disciplinare e risarcitorio. Il datore
ha la possibilità di eseguire un controllo sia sull’adempimento dell’obbligo di
prestazione, sia sul comportamento che il lavoratore tiene in azienda. L’osservanza delle disposizioni costituisce l’oggetto del controllo esercitato dal datore
di lavoro.
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XI giornata - 23 aprile 2007
Relatore:
Prof. Avv. Enrico Gragnoli
Temi trattati:
Le sanzioni e il licenziamento disciplinare
Sintesi degli argomenti sviluppati
La predeterminazione nel codice disciplinare degli illeciti e delle sanzioni è riportata ad una logica di garanzia del prestatore di opere, nonostante si sia rilevata
la ampia sfera di discrezionalità dell’impresa. La previsione del codice ha la duplice funzione di cristallizzare il momento precettivo attinente alla disciplina e di
temperare la portata intimidatoria intrinseca ai contenuti del codice, con un criterio complessivo che trova una rilevante eccezione in tema di licenziamento.
L’onere di redazione e di affissione del codice disciplinare non si può estendere a
quei fatti il cui divieto risiede non già nelle fonti collettive o nelle determinazioni
del datore di lavoro, ma nella coscienza sociale, quale minimo etico. Dunque,
nell’ipotesi di violazione di doveri basilari, non occorre la pubblicità di alcun
testo di tipizzazione del comportamento illecito. La prova di avere dato adeguata
pubblicità al codice, risulta necessaria quando il recesso sia fondato anche sul
codice stesso.
La necessaria predisposizione del codice disciplinare, rientra nella disciplina sulla procedura, poiché l’obiettivo dell’art. 7, primo comma, St. lav. non è una sorte
di definizione dell’oggetto del contratto e degli obblighi relativi. La consolidata
giurisprudenza sul licenziamento smentisce la tesi di chi vede nella compilazione
e nella pubblicità del codice una sorta di requisito costitutivo dello stesso potere
disciplinare. Le indicazioni del codice non incidono sul ricorrere della condotta
illegittima, ma sul legittimo esercizio del potere, che, in tema di licenziamento,
può avere luogo a prescindere dall’osservanza dell’art. 7, primo comma, St. lav.
Il codice disciplinare si limita a collegare la sanzione corrispondente ad un fatto
di per sé illecito. Il collegamento tra condotta e sanzione è governato dal criterio
di proporzione voluto dall’art. 2106 cod. civ. Quindi, le implicazioni innovative
della dichiarazione del datore di lavoro sono contenute e sovrastate dalle indicazioni legali cogenti, in specie da quelle del citato art. 2106 c.c. Ne derivano due
conseguenze: per un verso l’art. 7, primo comma, St. lav. regola la procedura
e, cioè i modi di esercizio del potere, per altro verso, nel codice prevalgono le
componenti informative su quelle negoziali.
Il licenziamento è ritenuto un negozio unilaterale e recettizio, la dichiarazione
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si perfeziona nel momento nel quale giunge a conoscenza del destinatario , nel
rispetto dell’art.2 Legge n°604/1996. Non a caso, la comunicazione fa scattare
il termine di decadenza per l’impugnazione . Come ogni atto per il quale sia
prevista la forma scritta ad substantiam, il licenziamento deve essere firmato dal
titolare del potere e, quindi, da persona che possa impegnare la società e, comunque, il datore di lavoro.
La contestazione presuppone la sola descrizione, precisa, dei fatti addebitati, non
la loro qualificazione dal punto di vista giuridico. Il celere esercizio del potere
dell’art. 7 St. lav. è in sintonia con i principi di correttezza, poiché l’impresa
non può procrastinare le sue iniziative, in modo da rendere difficile la difesa
del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto. Il lavoratore,
da par suo, in nessun modo ha l’obbligo di difesa nell’ambito del procedimento
disciplinare, ne deve collaborare con informazioni od allegazioni all’esercizio
dell’iniziativa del datore di lavoro, in particolare dopo la contestazione, così che
la mancata risposta od una replica formale, senza affermazioni sul merito degli
addebiti, non possono comportare alcuna conseguenza pregiudizievole, ne possono assumere rilievo nel successivo giudizio, nell’ambito del quale il dipendente licenziato ha ogni possibilità di agire.
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XII giornata - 30 aprile 2007
Relatore:
Prof. Avv. Enrico Gragnoli
Temi trattati:
Licenziamento per giusta causa e conversione
L'impugnazione stragiudiziale e quella giudiziale
Sintesi degli argomenti sviluppati
Il favore della giurisprudenza per la conversione del licenziamento per giusta
causa in uno per giustificato motivo soggettivo si basa spesso su ragionevoli motivazioni equitative; la gravità delle conseguenze patrimoniali derivanti dall’illegittimità del recesso, induce il giudice a chiedersi se, esclusa l’esistenza di fati
riconducibili alla giusta causa, non si possa riconoscere al dipendente il diritto
all’indennità sostituiva del preavviso, senza l’applicazione di più incisive forme
di tutela. Si cerca un punto di equilibrio fra i differenti interessi sostanziali e
si ritiene possibile la conversione del licenziamento intimato per giusta causa
in uno per giustificato motivo soggettivo, salvo il rispetto della regola generale
dell’immutabilità della contestazione.
Il dibattito sulle motivazioni della conversione, evoca quello sulla natura della
giusta causa e sul suo raccordo con il giustificato motivo. Qualora sia applicabile l’art. 18 delle Legge n°300/1970, l’intensità della sanzione induce a trovare
nella conversione un equilibrato contemperamento di fronte ad inadempimenti
dei lavoratori di gravità non drammatica, non costitutivi di una giusta causa, ma
che non rendono neppure pretestuoso il recesso. La conversione dei recessi individuali non può essere paragonata all’eventuale conversione dei licenziamenti
collettivi in quelli per giustificato motivo oggettivo.
Se si nega che il licenziamento per giusta causa costituisca una fattispecie di
recesso straordinario e la giusta causa, lungi dal configurarsi come fattispecie
costitutiva del potere di recesso, nel rapporto a tempo indeterminato, influisce
sul diritto al preavviso e non sulla legittimità del recesso, non presenta particolari
difficoltà la spiegazione dell’istituto della conversione. Al lavoratore che non ha
eseguito le sue prestazioni per il periodo di preavviso e rivendica la corresponsione di tutti i diritti derivanti dall’inerenza reale della clausola di preavviso, il
datore oppone un’eccezione, sostenendo che il rapporto si è estinto all’atto della
dichiarazione di recesso per l’esistenza di una giusta causa idonea a paralizzare
l’efficacia differita del negozio di recesso.
Se la giusta causa è connessa al preavviso piuttosto che al recesso, non si pone un
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problema di conversione, ma si deve considerare in via prioritaria la legittimità
del licenziamento e, poi, in relazione al più limitato aspetto del preavviso, si deve
ricercare l’esistenza della giusta causa. Tuttavia, se si riconduce la giusta causa
a mera condizione del venir meno di ogni pretesa sul preavviso, il licenziamento
non necessita di alcuna conversione. La giusta causa ed il giustificato motivo di
licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’una con effetto
immediato, l’altra con preavviso.
L’atto di impugnazione stragiudiziale è recettizio; è un atto singolare idoneo ad
impedire la decadenza. Deve pervenire nel termine previsto e deve essere scritto.
Basta rendere nota la volontà di reagire, senza la necessità di esporre tutte le
censure.
Per l’impugnazione giudiziale, in linea di massima, per la giurisprudenza sarebbe insufficiente il deposito del ricorso in cancelleria, ma, nel termine fissato,
occorrerebbe la notificazione. Solo questa realizzerebbe la conoscenza del ricorso da parte del convenuto e l’impugnazione giudiziale dovrebbe avere le stesse
connotazioni di quella stragiudiziale, nel rispetto di una comune natura recettizia. È stata peraltro considerata sufficiente, la notificazione di un ricorso ai sensi
dell’art. 700 cod. proc. civ., recante a margine la procura del difensore.
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XIII giornata - 4 maggio 2007
Relatori:
Prof. Avv. Germano Dondi
Avv. Annalisa Nicoli
Dott.ssa Anna Montanari
Dott.ssa Augusta Alesse
Temi trattati:
La responsabilità del lavoratore e dell'azienda
• Obblighi fondamentali
• Obblighi per il personale di cassa
• Responsabilità civile verso terzi
• Comportamento negligente e comportamento omissivo
Il luogo della prestazione
• Il trasferimento del lavoratore
• Missioni e mobilità
• Le modalità di trasferimento della prestazione
• I motivi leciti ed illeciti
• I rimedi nei casi di trasferimento illegittimo
Sintesi degli argomenti sviluppati
Le modificazioni del luogo di adempimento dell’obbligazione di lavoro.
Il tema è disciplinato da norme risalenti nel tempo, in particolare norme dello
Statuto dei lavoratori, che ha avuto interventi anche recenti nel DLG. 276 del ‘93
con riguardo all’istituto cosiddetto del “comando”.
Gli argomenti che sono oggetto sono: lo spostamento del lavoratore nell’ambito
dell’unità produttiva, il trasferimento del lavoratore, il comando del lavoratore.
Lo spostamento del lavoratore all’interno della unità produttiva.
Il potere del datore di lavoro di effettuare questi spostamenti interni trova dei
limiti? La risposta la troviamo nell’art. 15, lett. b dello Statuto dei lavoratori. Lo
Statuto dei lavoratori ha avuto il compito di affermare l’applicabilità di principi
costituzionali all’interno dei luoghi di lavoro.
Le esigenze aziendali possono giustificare degli spostamenti, questi spostamenti
possono comportare la conservazione delle mansioni o mansioni equivalenti, ma
lo spostamento non deve essere basato su ragioni di discriminazione variamente
intese e non può essere contrario a principi di correttezza.
La nozione di trasferimento.
Non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra. Abbiamo la dif-
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ferenza concettuale tra trasferimento e spostamento. Il trasferimento è quello
esterno all’unità produttiva, da una unità produttiva a un’altra. Lo spostamento
è quello interno.
Differenza tra trasferta e trasferimento: la differenza sta nella temporaneità del
mutamento del luogo dell’adempimento dell’obbligazione di lavoro. C’è trasferta quando è previsto il rientro; viceversa il trasferimento è tendenzialmente duraturo, non è previsto un rientro; non necessariamente il trasferimento deve essere
definitivo, può esserlo potenzialmente.
In sostanza la differenza sta nella temporaneità secondo la dichiarazione che il
datore di lavoro decide di assumere.
Differenza tra trasferimento e comando. Il comando ha caratteristiche autonome.
Ha caratteristiche di temporaneità. Il comando comporta che il luogo di adempimento è di un terzo, quindi la prestazione viene resa a favore di un terzo.
Nel caso della trasferta, il vincolo organizzativo del lavoratore resta forte con il
datore di lavoro che l’ha mandato in trasferta presso terzi.
Il trasferimento collettivo.
Il trasferimento collettivo non esiste in sé come negozio unitario, esiste una serie
di trasferimenti individuali e una serie di licenziamenti. Il trasferimento collettivo che coincide con l’insieme dei lavoratori di una unità produttiva esula dall’art.
2103. Se il trasferimento riguarda più lavoratori ma non la totalità dell’unità
produttiva, l’art. 2103 si applica come se si trattasse di un trasferimento individuale.
Il trasferimento disciplinare.
Il trasferimento non può essere un provvedimento disciplinare.
Sanzioni per motivi illeciti.
Se le ragioni tecniche, organizzative, produttive non ci sono, o c’è un motivo illecito unico determinante, il trasferimento è illegittimo ed è nullo per violazione
di legge.
Norme relative al contratto collettivo.
Vengono trattate le specifiche normative agli argomenti in oggetto, con specifico
riferimento a quanto contenuto nel contratto collettivo del settore.
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XIV giornata - 7 maggio 2007
Relatore:
Prof. Avv. Enrico Gragnoli
Temi trattati:
Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro
Sintesi degli argomenti sviluppati
Controllo a distanza dei lavoratori.
L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, norma molto combattuta e problematica,
vieta l’introduzione di strumenti di videosorveglianza. La norma in questione si
riferisce agli impianti audiovisivi di controllo, quindi agli impianti che consentono a distanza di vedere e di sentire quello che fa il lavoratore, mentre in nessun
modo fa riferimento al computer. Ma come si applica la norma? È possibile installare impianti audiovisivi di controllo purchè essi abbiano finalità organizzative diverse dal controllo sui lavoratori.
Le telecamere devono essere comunque autorizzate e tale autorizzazione può
essere concessa in alternativa tra due soggetti: o dalla rappresentanza sindacale
aziendale, o dalla rappresentanza sindacale unitaria, oppure dai servizi ispettivi
della direzione provinciale del lavoro. Inoltre, così come previsto dal Decreto
Legislativo 196/2003, i lavoratori sottoposti devono essere preventivamente informati.
Tutela della sicurezza del lavoratore.
La norma di riferimento è l’art. 2087 del codice civile, secondo la quale il lavoratore ha diritto che sia tutelata la sua integrità fisica e la sua integrità morale, e per
converso il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere l’integrità fisica e il benessere morale del prestatore d’opera, adottando ogni misura volta a raggiungere
questo scopo. È responsabile anche per la colpa generica, cioè qualora non violi
alcuna norma specifica, ma abbia mancato di porre in essere una regola cautelare,
una regola di tutela del lavoratore, una regola di prudenza, che avrebbe dovuto
identificare sulla base della sua normale prudenza.
Molestie sessuali.
Tale aspetto sta a metà strada tra il danno fisico e il danno morale. Solitamente
risponde il datore di lavoro per le molestie sessuali commesse ai danni di una
dipendente; risponde ai sensi dell’art. 2049 del codice civile per il solo fatto che
il comportamento è stato tenuto da un suo dipendente (responsabilità per fatto
altrui). Naturalmente il datore avrà il diritto di rivalersi sul suo dipendente, in
prima battuta sul trattamento di fine rapporto e poi se il danno è molto grave e il
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trattamento di fine rapporto non sufficiente, potrà agire in via esecutiva.
Mobbing. Tipica forma di violazione al benessere morale che ciascun lavoratore
ha nel luogo di lavoro. L’art. 2087 del codice civile impone al datore di tutelare
l’integrità fisica ma anche l’integrità morale intesa come tutela di condizioni
di normale andamento relazionale dei rapporti in cui ciascun lavoratore possa
esprimere il suo saper fare, la sua personalità in modo sereno. La tipica forma
di trasgressione a questo dovere è il mobbing, l’antitesi del dovere di tutelare il
benessere morale del lavoratore. Costituisce una serie di comportamenti illeciti
in cui vi è un dolo di rendere danno al lavoratore.
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XV giornata - 9 maggio 2007
Relatore:
Prof. Avv. Alberto Pizzoferrato
Temi trattati:
I contratti di lavoro
Sintesi degli argomenti sviluppati
I contratti di somministrazione.
Contratti commerciali con cui l’impresa si assicura la disponibilità di uno o più
lavoratori per una certa attività a tempo indeterminato o determinato. Un profilo fondamentale in tema di somministrazione è quello comune dell’indicazione
specifica dei motivi tecnico, organizzativi, produttivi e sostitutivi che legittimano
il ricorso alla somministrazione a tempo determinato. Non basta che nella sostanza ricorra una tale ragione per essere legittimo il contratto, è necessario che
questa ragione sia all’inizio del rapporto di lavoro, specificatamente indicata ed
individuata nel contratto di somministrazione, che lega l’impresa utilizzatrice
con l’agenzia di lavoro somministrato. Ci deve essere questa specificazione dei
motivi, deve essere contestualizzata rispetto alla situazione interna aziendale,
quindi, nel momento in cui si sigla un contratto di somministrazione a tempo
determinato, bisogna specificare quali di queste ragioni produttive ricorrono nel
caso concreto. Ragioni che devono essere di carattere temporaneo eccezionale,
limitate ad un determinato progetto temporalmente pre-definibile. Non esistono
limiti quantitativi previsti dalla legge al ricorso alla somministrazione a tempo
determinato, tali limiti sono rinviati dal legislatore alla contrattazione collettiva.
Nell’ambito della somministrazione a tempo indeterminato invece ci sono delle
restrizioni che non sono di tipo soggettivo, cioè che riguardano i singoli rapporti,
ma si tratta di restrizioni di tipo oggettivo, cioè che riguardano l’attività somministrata. C’è la possibilità di recedere dal rapporto da parte dell’impresa utilizzatrice, il problema è che tale facoltà solitamente è soggetta da un lato ad una
penale, dall’altro ad un preavviso minimo che le imprese fornitrici ovviamente
tendono ad estendere.
Appalto di servizi.
Non si può ricorrere per il lavoro somministrato a soggetti non autorizzati, ma
se ragioniamo in termini di servizio autonomo reso da un soggetto imprenditoriale, è evidente che nessun vincolo sussiste. In alcuni settori poi, tali soggetti
rivestono la duplice veste di fornitori di lavoro somministrato e di appaltatori
di servizio: classico caso sono le cooperative sociali che sono contestualmente
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anche accreditate per la somministrazione.
L’apprendistato.
Ridisciplinato dalla Legge Biagi, prevede tre tipologie: a) quello per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (praticamente assente nel
nostro panorama applicativo), b) l’apprendistato professionalizzante, c) quello
per il conseguimento di un diploma di formazione superiore. Essendo un contratto a termine, scade alla scadenza del termine stesso, non in maniera automatica,
ma solo in forza di un atto di recesso esplicito, anteriore alla scadenza. Relativamente al concorso delle fonti sulla disciplina c’è stato prima un rinvio alla sola
legge regionale, cioè si è detto che per gli aspetti legati alla formazione, esterna
o interna all’azienda, spetta la definizione di questi elementi, cioè la durata, l’articolazione, le modalità di svolgimento, alla stessa legge regionale, perché la formazione professionale ricade in materia esclusiva di competenza delle Regioni.
Quindi lo Stato, attraverso gli artt. 47 e seguenti del Decreto Legislativo 276,
pone la normativa di cornice sulla disciplina del contratto e le Regioni quella più
specifica in dettaglio, sugli aspetti legati alla formazione.
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XVI giornata - 28 maggio 2007
Relatore:
Dott. Angelo Contessa
Temi trattati:
Il concetto di persona nell'analisi transazionale,
la comunicazione e le relazioni interpersonali,
le transazioni e le regole della comunicazione,
l'evoluzione umana tra adattamento e attaccamento.
Sintesi degli argomenti sviluppati
Teorie della personalità e psicoterapie sistematiche per la crescita e il cambiamento della persona.
L’Analisi transazionale come potente strumento nell’addestramento alla direzione e all’analisi delle organizzazioni per comprendere le persone, i rapporti e
la comunicazione.
Il modello degli stati dell’Io: il genitore, il Genitore normativo, il Genitore affettivo, il Bambino adattato, il Bambino libero, l’Adulto.
Le transazioni: semplici, parallele, incrociate, ulteriori.
La svalutazione come incapacità di considerare informazioni che permetterebbero di risolvere un problema.
Anatomia come insieme di tre capacità: la consapevolezza, la spontaneità e l’intimità.
Come stimolare l’autonomia nostra e altrui attraverso i nostri comportamenti.
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XVII giornata - 29 maggio 2007
Relatore:
Dott. Angelo Contessa
Temi trattati:
Il Copione, Il Sistema Ricatto, I Giochi, Il Sentimento
e i Sentimenti Ricatto, La Tratto-Tipologia
Analitico Transazionale.
Sintesi degli argomenti sviluppati
L’emozione come fenomeno complesso che riguarda l’uomo e che avviene su
diversi piani: attivazione fisiologica, vissuto esperienziale e modelli comportamentali.
Le quattro emozioni: paura, rabbia, tristezza e gioia.
La competenza emotiva. Emozioni funzionali o disfunzionali.
Il bisogno di stimoli quale meccanismo di sviluppo umano.
Il bisogno di carezze: verbali/non verbali, positive/negative, condizionate/incondizionate, autentiche/di plastica.
Le emozioni parassite e il racket, quale insieme di comportamenti messi in atto
al di fuori di uno stato adulto di consapevolezza.
I giochi psicologici, il triangolo drammatico tra salvatore, persecutore e vittima.
Esseri umani quali vittime e beneficiari dei condizionamenti socio-culturali.
Ingiunzioni, divieti che stabiliscono dei limiti sull’essere, sull’evolversi, sul fare
e sul socializzare.
Gli stati imposti dell’essere:non esistere, non essere se stessi, non star bene, non
essere dei bambini, non crescere, non sentire, non pensare.
Gli stati del fare: non, non riuscire, non essere importante.
Gli stati del socializzare: non entrare in intimità, non far parte. Autoanalisi.
La “Matrice di copione”.
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XVIII giornata - 5 luglio 2007
Relatore:
Avv. Luca Zaccarelli
Temi trattati:
L'orario di lavoro (Decreto Legislativo n. 66 del 2003
in vigore dal 1° settembre 2004 - Circolare del
Ministero del Lavoro n. 8 del 2005).
Sintesi degli argomenti sviluppati
La nuova definizione di orario di lavoro, i tempi di viaggio, l’orario “normale”
di lavoro, straordinari e deroghe alla durata settimanale, i contratti collettivi di
lavoro (validità e limiti), periodi di ferie, di malattia, le assenze legate allo stato
invalidante (infortuni, gravidanze ecc.),l’organizzazione del lavoro per i contratti
di formazione/lavoro, per gli apprendisti,i tirocinanti, i cococo, i lavoratori a
domicilio, il personale viaggiante.
Il riposo giornaliero, riposi e frazionamenti d’orario, riposo compensativo, protezione “adeguata”, le compensazioni economiche, gli obblighi di comunicazione,
indennità per ferie non godute in caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
Il lavoro notturno.
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XIX giornata - 18 settembre 2007
Relatore:
Dott.ssa Maria Rosa Gheido
Temi trattati:
Valutazione di adeguatezza patrimoniale delle banche:
primi commenti alle nuove disposizioni; budget del
personale; contratto di inserimento lavorativo.
Sintesi degli argomenti sviluppati
Le caratteristiche essenziali del Secondo pilastro di Basilea 2 e le norme di attuazione contenute nelle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche
(titolo terzo) emanate dalla Vigilanza, con commenti alle possibili interpretazioni; la progressiva maturazione della percezione dei rischi all’interno delle banche
italiane.
La determinazione del costo del personale: rilevazione e controllo dei costi; tipologie contrattuali, fringe benefits. Il budget: scostamenti e correttivi. La retribuzione: aspetti fiscali e contributivi; retribuzioni in natura e fringe benefit;
la forfetizzazione, i buoni pasto, i viaggi, l’alloggio in uso ai dipendenti; l’uso
personale dell’auto aziendale, prestiti ai dipendenti, i contributi alla presidenza
complementare; i premi per polizze assicurative e contributi per l’assistenza sanitaria, le tipologie contrattuali.
Il contratto di inserimento lavorativo.
Definizione delle aree per gli incentivi. Contratto di apprendistato. Lavoratori disoccupati o sospesi, collocati in Cassa Integrazione Guadagni Straordinari,
iscritti nelle liste di mobilità, contratto di solidarietà, ricollocazione incentivata
dei dirigenti, la sicurezza e gli sgravi per la formazione. Riduzione del costo del
lavoro e bonus assunzione, la fidelizzazione del lavoratore, le clausole retributive
nelle lettere di assunzione, le politiche incentivanti.
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XX giornata - 27 settembre 2007
Relatore:
Dott.ssa Maria Rosa Gheido
Temi trattati:
La determinazione del costo del personale: profili
retributivi e assicurativi.
Sintesi degli argomenti sviluppati
Le maggiori e più significative voci di retribuzione. Obblighi contributivi.
L’IRAP con le novità per l’alleggerimento del costo del lavoro per la maggiore
deducibilità dalla base imponibile delle voci relative al personale.
I contratti di inserimento lavorativo. La valutazione del datore di lavoro sulle
capacità tecnico-organizzative e produttive.
I contratti a termine tra vincoli e flessibilità. I presupposti per le cause di licenziamento. Organizzazione aziendale e esigenze del lavoratore.
Maternità, malattia e calcolo delle indennità. Lavoro a progetto. Collaborazione
coordinata e continuativa.
La flessibilità. Luogo e orario di lavoro. L’ufficio paghe e la gestione dei collaboratori.
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XXI - XXII giornata - 2 - 3 ottobre 2007
Relatori:
Dott. Silvio De Tommaso
Dott. Domenico Ruggeri
Temi trattati:
La contrattazione di categoria
La contrattazione di II° livello
Gli accordi aziendali: opportunità e rischi
La costituzione delle RSA
La struttura delle OO:SS. regionale e nazionale
Le agibilità sindacali
Costituzione e diritti delle RSA
CCNL BCC
• Specificità del CCNL BCC
• Accordo del 27.09.2005 e nuove ipotesi di rinnovo
contrattuale
• Accordo Regionale Emilia Romagna, sviluppo
ed evoluzione
CCNL BCC - parte speciale
• Declaratoria generale
• Quadri direttivi - profili, fungibilità,sostituzioni
• Quadri direttivi - trattamento economico ed altre
provvidenze, art. 98
• Aree Professionali - preposti a succursale,
inquadramento minimo
• Aree Professionali - assegnazione a mansioni superiori
Sintesi degli argomenti sviluppati
Si tratta degli aspetti relativi alla parte sindacale lavoristica e della contrattazione
di secondo livello, della contrattazione di primo livello, ma anche di tutte quelle
parti relative appunto a tutte le libertà sindacali, quindi una disamina piuttosto
diffusa e profonda di quello che sono le norme relative appunto alle libertà sindacali della legge 300 del ‘70, il famoso Statuto dei Lavoratori.
I nostri referenti normalmente sono le Federazioni Regionali, ma lo sono anche
al tempo stesso le Banche di Credito Cooperativo, che normalmente dovrebbero
però rivolgersi alla propria Federazione ove sono associate, per poi, in termini di
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assoluta sussidiarietà, intervenire noi come Federcasse.
Oggi come oggi si parla esclusivamente di una disciplina contrattuale per i dirigenti con un unico livello di riferimento e auspichiamo che nel tempo questi
livelli di riferimento per i dirigenti rimanga tale, cioè rimanga soltanto un livello
e che quindi a livello aziendale non si realizzino distribuzioni articolate di livelli
di dirigenza, come pure per quanto riguarda l’altra disciplina contrattuale si ha
appunto il contratto collettivo nazionale di lavoro per quadri direttivi ed aree
professionali.
Attualmente sono in vigore due discipline contrattuali: quella per quadri direttivi
ed aree professionali e quella del 27 settembre del 2005, quella disciplina contrattuale è scaduta il 31 dicembre del 2005. L’altro contratto collettivo nazionale
di lavoro è quello per il personale dirigente ed è quello stipulato in data 19 febbraio 2002. Anch’esso scaduto il 31 dicembre del 2005. Ciò significa che i nostri
trattamenti da un punto di vista economico e normativo sono fermi a quella data,
31 dicembre del 2005, per tutte le categorie di personale all’interno del sistema
del credito cooperativo.
È la prima volta nella storia del nostro sistema che assistiamo ad un tavolo sindacale assolutamente ricomposto, omogeneo ed unificato, che vede la presenza
di tutte le organizzazioni sindacali dei lavoratori presenti nell’ambito del Credito
Cooperativo.
Per quanto riguarda invece il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale dirigente, ancorché sia scaduto al 31 dicembre 2005, non è stata presentata
da parte delle organizzazioni sindacali alcuna piattaforma rivendicativa per il
rinnovo dello stesso.
Per quadri direttivi ripeto ed aree professionali abbiamo cercato di mettere insieme delle linee guida all’interno delle quali potrà muoversi questo rinnovo
del contratto collettivo nazionale di lavoro, nell’assoluta consapevolezza, quanto
meno la parte normativa del C.C.N.L. del 27 settembre del 2005 non abbia bisogno di una grandissima manutenzione.
Non ci saranno molti spazi da parte nostra da un punto di vista di modifiche
normative, anche perché con estrema sincerità e trasparenza, noi non potremmo
peraltro alle organizzazioni sindacali chiedere ulteriori sensibili flessibilità da
un punto di vista contrattuale, perché di flessibilità la nostra attuale disciplina
contrattuale né ha tantissime.
Alcune considerazioni sulla contrattazione di secondo livello.
Questa contrattazione di secondo livello è una tornata contrattuale assolutamente
atipica, si innesta su un rinnovo di contratto nazionale dove tiene in considerazione tutta una serie di richieste che troviamo già nelle piattaforme rivendicative dei contratti di secondo livello, in modo assolutamente omogeneo su tutto il
territorio di riferimento, leggasi: mercato del lavoro, diarie, trasferte, indennità
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di abbandono, stanno sul contratto nazionale, stanno nei contratti di secondo
livello. Quindi assolutamente fuori dal tempo.
Siamo in una situazione assolutamente atipica, ci accingiamo a rinnovare un contratto nazionale con grande anticipo nella sua complessità e ci accingiamo a rinnovare dei contratti di secondo livello che scadono il 31 dicembre 2007. L’uno,
primo livello nazionale, con grandissimo anticipo, l’altro, secondo livello, tavolo
locale, con grandissimo ritardo.
I nostri assetti contrattuali, per quanto riguarda il Credito Cooperativo, non fanno
altro che riprodurre il modello del protocollo del 23 luglio del 93 in fin dei conti,
e tengono in considerazione un primo livello di contrattazione a livello nazionale
e un secondo livello di contrattazione radicato a livello regionale.
Poi esiste anche in alternativa al livello regionale una contrattazione radicata a
livello aziendale per quelle destinatarie della contrattazione di secondo livello
quali: Iccrea Banca S.p.A., Iccrea Holding, Aureo Gestioni, Agrileasing, Iside,
e quindi aziende per le quali sia prevista la contrattazione di secondo livello
radicata a livello aziendale, però normalmente per noi il secondo livello di contrattazione è a livello regionale. Quindi come si diceva per tutti gli ambiti di
applicazione in questo contesto ovviamente la Federazione regionale di concerto
con le organizzazioni sindacali locali, dovrà pervenire ad un equilibrio complessivo affinché il risultato prodotto possa essere fruibile da tutte le BCC associate a
questo territorio di riferimento, dalla più piccola alla più grande.
Le libertà sindacali. La fonte normativa principe di riferimento che è la legge
20 maggio del 1970 n. 300, cosiddetta Statuto dei lavoratori. All’articolo 19 del
titolo terzo della legge 300 si parla di costituzione delle rappresentanze sindacali
aziendali.
Nell’ambito del Credito Cooperativo l’unica norma di riferimento per la costituzione della rappresentanza sindacale aziendale è appunto costituita dalla legge
300.
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XXIII giornata - 23 ottobre 2007
Relatori:
Dott. Oliviero Bernardi
Dott. Tommaso Colajacovo
Dott.ssa Isabella Covili Faggioli
Prof. Enrico Gragnoli
Dott. Daniele Quadrelli
Dott. Giuseppe Alai
Temi trattati: Gestione e sviluppo delle risorse umane nel rapporto
di lavoro subordinato in BCC
Sintesi degli argomenti sviluppati
La gestione del personale nei contesti aziendali: esperienze e testimonianze. Modelli di gestione e sviluppo delle risorse umane nel settore bancario cooperativo:
esperienze e testimonianze. Federcasse, Federazioni Regionali, BCC: sinergie,
competenze e responsabilità nella gestione del personale.
Il sistema delle relazioni sindacali nel Credito Cooperativo: analisi e competenza.
L’associarsi alla Federazione regionale da parte delle BCC e alla Federazione
Italiana da parte delle Federazioni locali e degli altri organismi di sistema comporta, nell’ambito di quelle che sono le regole del diritto sindacale,il conferimento di un mandato di rappresentanza sindacale. Ciò fa sì che quello che si decide
in questi ambiti diventa efficace direttamente sulle Associate.
Se oggi il Contratto Collettivo Nazionale per talune realtà finisce per calarsi in
una regolamentazione che molto spesso è di dettaglio mentre invece la tendenza
è quella di andare a realizzare una contrattazione di cornice o “leggera” che serva
a definire gli istituti fondamentali che devono essere regolati in maniera uniforme per tutti gli appartenenti a quella categoria lasciando alla contrattazione di
secondo livello gli ambiti, gli spazi che meglio riescono a definire una disciplina
secondo le esigenze locali, aziendali e territoriali, in vicinanza a dove si produce
il bene, il servizio, a dove si svolge l’attività lavorativa.
La funzione Risorse Umane nel gruppo bancario Iccrea.
I temi affrontati riguardano l’integrazione, le modalità operative delle società, i
contratti integrativi, il sistema incentivante. L’integrazione è logistica, normativa
e culturale.
Il ruolo della Funzione Risorse Umane è impegnato a favorire i processi di inte-
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grazione, ad armonizzare i comportamenti normativi e regolamentari nelle diverse aziende, a creare consenso su un comune sistema di valori. Dall’unificazione
logistica i processi di integrazione si allargano alla formazione e allo sviluppo
avviando progetti di alta formazione, individuando le “risorse chiave” attraverso
indagini sul capitale manageriale, unificando i sistemi di incentivazione.
La gestione e lo sviluppo del personale in azienda.
I valori sono importanti perché, se c’è aderenza tra i valori dell’individuo e i valori dell’azienda, il matrimonio lavorativo funziona meglio. Bisogna considerare
ogni persona come un cliente interno perché normalmente il lavoro che si porta
avanti arriva da qualcuno e va a qualcun altro. Bisogna far lavorare bene le persone, senza troppe difficoltà. Stiamo parlando di integrazione e quindi di come
trattenere le persone chiave, i talenti.
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IN CONCLUSIONE
Giuseppe Alai
Presidente Commissione Formazione Federazione BCC Emilia Romagna
L’iniziativa che abbiamo riassunto in questo “Quaderno” è di grande rilievo sia
dal punto di vista della ricerca di soluzioni nuove sia nelle ottiche imprenditoriale e motivazionale.
In qualità di Vice Presidente della Federazione, delegato a coordinare questo settore, ho potuto acquisire notevoli esperienze sulle dinamiche che ruotano intorno
al mondo della formazione.
Spesse volte la formazione viene sbandierata in termini di numeri e in termini di
importi; è la cosa che serve di meno, nel senso che la formazione, il saper fare
non è sufficiente in sé, lo abbiamo già detto tante volte; conta anche il voler fare
e conta nel mondo imprenditoriale mettere nelle condizioni di poter fare chi sa
fare e può fare le cose che ha appreso. Oggi, a fronte di una realtà che pone nel
mondo del lavoro una quantità enorme di persone, siamo nell’era del sapere perché chi lavora alla produzione è inferiore numericamente a chi lavora nei servizi
o negli uffici. Oggi nel mondo della nostra scuola un diploma di ragioniere o di
geometra o di perito non si nega a nessuno. Dobbiamo essere molto chiari; oggi,
con un po’ di impegno, si consegue anche una laurea. Però noi sappiamo che nel
mondo del lavoro i valori che si vanno ad esprimere, le motivazioni, la capacità
di espressione delle proprie aspettative di vita, sono altra cosa. Credo che, dopo
il saper fare, il poter fare, il voler fare, debba essere valutata anche la volontà di
essere, nel proprio ambiente. E questo non è secondario, perché oggi la cooperazione viene attaccata sul fronte fiscale, con alcune denunce presso la Comunità
Economica Europea che stiamo affrontando con grande difficoltà. Io penso che,
dopo il libro “Falce e carrello”, uscirà anche il libro “Falce e sportello”, perché
le agevolazioni fiscali che stanno ricevendo le cooperative sono presentate in
modo ambiguo e la risposta migliore è quella di dotarci di quelle responsabilità
e di quelle capacità critiche capaci di tradursi in comportamenti che facciano
percepire una cultura adeguata nel nostro modo di lavorare. Lavorare in cooperazione è difficile, occorre più senso del dovere, occorre più senso del capire, ma
soprattutto occorre più autonomia propositiva.
Questa è la grande differenza, questo è il paradosso cooperativo; nella stessa
impresa c’è il cliente, il socio, l’azionista, il lavoratore.
Troppi ruoli, dice qualcuno. La conciliazione di questi ruoli è difficile, poiché
siamo dentro ad un’ampia complessità, lo sappiamo, sono stressanti da un lato
ma appassionanti , avvincenti dall’altro. Per noi non è soltanto una questione di
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prezzo stare sul mercato, ma è questione di servizio, di far percepire l’utilità di
esistere; se no siamo una banca come tutte le altre.
Alla fine credo che la cosa più importante sia la spiegazione che ogni persona dà
a se stesso quando ha finito una propria giornata di lavoro. E’ la forza attraverso
la quale nello stesso ambiente di lavoro, a parità di condizioni, c’è chi si dà da
fare come un dannato e c’è qualcuno invece che cerca di non fare un tubo. E’ lo
stesso ambiente, sono gli stessi dirigenti, si vive la stessa situazione e c’è qualcuno che ha dentro di sé una forza spaventosa per dare il doppio, il triplo di un altro.
Da cosa salta fuori questa forza? Qual è il meccanismo interiore che fa scattare
queste volontà? Io credo che sia prima di tutto la soddisfazione di se stessi, la
ricerca di dare una spiegazione a se stessi del proprio lavoro, una ragione della
propria condizione che spesse volte non è tanto nel fatto di arrivare allo stipendio
a fine mese oppure nel vedersi collocati dal punto di vista gerarchico, ma sta
nella capacità di dare valore a se stessi del proprio lavoro, della capacità di essere
obiettivi con se stessi, di essere critici con se stessi. Queste opportunità credo
che in una Banca di Credito Cooperativo siano maggiori rispetto a qualsiasi altra
realtà. Ed è dunque, in conclusione, nella possibilità di individuare un metodo di
formazione, di cultura del saper essere collaboratori in un Banca di Credito Cooperativo, che si traduce tutto lo sforzo che stiamo compiendo in questi anni.
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Finito di stampare nel mese di novembre 2008
Idea grafica: Marco Bugamelli
Redazione: Roberto Zalambani, Alessandro Trombetti
Realizzazione editoriale e stampa: Edistudio di G. Forlani - Molinella (Bo)
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