P. Colzani: Reazione ai lavori dei gruppi

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Secondo intervento di don Colzani
Reazione ai lavori dei gruppi continentali
Giovedì pomeriggio – 6 febbraio
Per prima cosa devo ringraziarvi: per avermi voluto qui e per la cordialità con cui mi
avete accolto. Grazie. Entrando nel merito penso che sarebbe imperdonabile che uno
che, come me, non conosce p. Dehon ed i suoi scritti si permettesse di sindacare
elaborati stesi da chi ha lungamente studiato la tematica ed ha impegnato la sua vita
nella direzione indicata dal carisma. Ma, poiché la vostra gentilezza si spinge a voler
sapere che cosa un “esterno” sente e comprende del vostro carisma e della vostra
spiritualità, provo a stendere alcune considerazioni che quanto ho ascoltato in questi
giorni ha suscitato in me.
1. Analisi linguistiche dei lemmi “cuore”, “antropologia”, “antropologia del cuore”
Ci sono state diverse osservazioni linguistiche su questi temi, in particolare sulla loro
precisa formulazione nel mondo africano. È però mancata ogni analisi biblica. Nella
bibbia i lemmi leb/lebab sono temi importanti: ritornano otto/novecento volte. Lo studio
di riferimento, in parte datato ma tuttora valido, resta il lavoro di Hans Walter Wolff,
Antropologia dell’Antico Testamento che risale al lontano 1973..
Il termine “cuore” indica nelle scritture l’intera personalità umana e non la sede degli
affetti: questo luogo sono biblicamente le viscere, il luogo per eccellenza di ogni
commozione. Sullo sfondo della identificazione del sangue come “sede” della energia
vitale della persona, il cuore è visto come l’intero della personalità umana, la sede delle
sue scelte, l’icona della persona nella sua progettualità.
Il punto decisivo, però, non è tanto l’uso di queste categorie che le Scritture ebraiche
condividono con le culture circostanti ma il senso che viene loro dato: questo senso è il
loro impiego per sviluppare la tematica della storia della salvezza. In questo impiego
assumono una connotazione religiosa: basta pensare al “cuore ci carne”, al “cuore di
pietra”, al “cuore nuovo” ed a Dio è attribuita la conoscenza dei cuori: At 1,24;At 15,8.
Ovviamente un posto particolare ha in questa visione il racconto di Gv 19,31-37.
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2. Importanza del cristocentrismo e della incarnazione
Nell’analisi della spiritualità dehoniana e della Regola di vita è emerso spesso una
sottolineatura del cristocentrismo e, assieme alle tematiche della “oblazione” e della
“riparazione”, la prospettiva propria della incarnazione come “ecce venio”. Ne è seguito
una valorizzazione della personalità divina come amore, una sottolineatura forte della
figura trinitaria di questo amore ed, insieme, una deprecazione del carattere metafisico
che la presentazione di Dio ha di fatto assunto negli ultimi secoli. Lasciando a parte le
persone divine, si è imposto una sorta di monoteismo cristiano.
Di questo la teologia si è largamente interessata. Mi preme però notare che questa
trasformazione è il risultato della sostituzione del linguaggio personalistico ed
esistenziale delle scritture con un linguaggio ontologico ed ha avuto come conseguenza
una certa impermeabilità della presentazione di Dio rispetto alle dinamiche culturali. In
particolare l’immagine di Dio si è fissata nella “onnipotenza e onniscienza creatrice”
dietro cui è scomparsa la benevolenza del Padre e nella redenzione/risurrezione di
Cristo venuto a salvare un mondo peccatore. Creazione e redenzione fanno parte di
un’unica storia salvifica ma non hanno molti punti in comune: la redenzione è
conseguenza del peccato e la creazione origina un disegno sciupato dal peccato umano.
In termini di “anthropologia cordis” chi esce peggio è la creazione: non ha nulla a che
fare con l’amore ed ha perso il contatto con i testi di Paolo e di Giovanni che, invece,
sottolineano chiaramente che è opera del Verbo e con la visione religiosa che Gesù ha
del mondo. Perché questo è avvenuto? Io vi colgo un effetto, non voluto, ma obiettivo
della crisi ariana. Il timore che affermare che il mondo è stato creato in Cristo
comportasse una inclinazione alle tesi ariane di un Verbo “déuteros theos”, demiurgo,
lontano dalla omousía, spiega questo risultato. Certo occorrerà del tempo – secoli – ma
il risultato sarà una lettura del mondo e dell’uomo priva di rapporto con l’amore di Dio
che interviene solo in ordine al peccato. Boezio presenterà la persona umana come
rationalis naturae individua substantia: natura razionale e soggetto a se stante ma dov’è
rimasto Cristo? E siamo all’inizio del grande periodo cristiano del Medioevo! Il tema
dell’amore ritornerà con i Vittorini: Ugo e Riccardo di S. Vittore ma sarà poi
lungamente assente.
Mi preme notare che la dimenticanza delle persone trinitarie, dello Spirito in particolare,
e quella dell’amore procedono insieme; non si arriverà a valorizzare realmente una
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anthropologia cordis se non attraverso una valorizzazione della realtà trinitaria e,
coerentemente, della presenza delle persone divine nella storia salvifica dell’umanità.
3. Collocare la concezione dehoniana nel quadro più ampio della spiritualità cristiana
Mi sembra importante collocare la visione dehoniana in un quadro più vasto dove si
possono notare legami, sviluppi, originalità: solo questo insieme può restituire
profondità al cammino di un gruppo preciso come il vostro: in una ecclesiologia di
comunione, non si definisce l’originalità di un carisma come esclusione di altre
influenza ma come sintesi originale di una reta di influenza. A me pare di poter notare
almeno tre influenze.
3.1. Il debito agostiniano
La critica all’ontologia scolastica e la forte riproposizione dell’amore, obbliga a risalire
ad Agostino per il quale l’uomo è compreso alla luce di quello che ama: in effetti di due
amori di cui Agostino parla – amor Dei e amor sui o ripiegamento su stesso o
concupiscentia – presentano una antropologia esistenziale e storica. Vorrei però far
notare una cosa; per Agostino, l’amore non è una “facoltà” della persona ma una
“qualità dell’anima”: non è un atto che scaturisce dal soggetto ma è una dinamica di
attrazione per cui l’anima è attratta da ciò che è bene ed è quindi attratta da quel Bene
sommo che è Dio. L’amore è più ricevuto che scaturente dalla persona; è sete d’amore,
è essere attratti da Dio più che slancio del soggetto stesso. Questa visione non è più la
nostra; quanto e come possiamo utilizzare questa prospettiva che raccoglie ogni realtà
esistente attorno a quel Dio che non solo è la sua causa ma è il vertice a cui,
consciamente o inconsciamente, tende?
Ma soprattutto vi è una seconda cosa. Nel suo lavoro Eros e agape, pubblicato in due
volumi nel 1930.1936, il teologo luterano svedese Anders Nygren analizza le due facce
dell’amore: l’eros platonico, cioè l’amore per quanto è bello, buono e merita amore, e
l’agape biblica, cioè l’amore per ciò che non lo merita. Il primo segue una logica umana
mentre il secondo esprime la gratuità totale e assoluta dell’amore divino. Bernardo lo
renderà così: Dio non ci ama perché siamo amabili ma, amandoci, ci trasforma in
amabili. Il punto su cui Nygren attira l’attenzione è che, con la charitas, Agostino non
sceglie tra i due amori ma ne offre una sintesi.: la charitas è amore gratuito di Dio ma è
anche la risposta amante della persona. Troviamo qui la denuncia di Nygren che
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Agostino stia alla base di quanto segue: Lutero vi troverà ispirazione per la sua visione
di un Dio salvatore a cui aderisco nella nuda fede, senza opere di bene, mentre il
cattolicesimo costruirà una antropologia della charitas che comprende le opere umane.
Lasciando ora da parte le tesi di Nygren, resta il problema: è legittimo tenere insieme
l’amore che da Dio scende all’uomo e la risposta che dall’uomo sale a Dio? inserire
l’amore umano sull’amore che viene da Dio non è declassarlo? la mistica cattolica non
nasconde sotto la sua pietas una pretesa di auto-salvezza? Vi è qui un punto che ha
opposto lungamente cattolici e protestanti; la soluzione di una charitas nella quale
l’amore umano è sublimato è legittima? quale antropologia sta dietro la categoria di
sublimazione? Nella enciclica Deus caritas est, Benendetto XVI opera una sintesi tra
amore divino e risposta umana: l’uso pastorale è consapevole di questi problemi o
nasconde confusioni?
3.2. Il debito francescano
La tesi di una anthropologia cordis non può saltare il rapporto con Francesco e la sua
visione; tra i diversi aspetti di questa spiritualità, richiamerei qui la volontà di amare il
mondo sulla base dell’amore di Dio. Nella svolta che segnava il passaggio dalla civiltà
feudale alla rinascita delle città, alla volontà di contare che i cittadini esprimono nei
comuni, all’imporsi dei commerci, la Chiesa rimane sconcertata; sarà il francescanesimo
a tracciare la strada del futuro riconoscendo l’importanza del mondo e della fraternità
umana, mettendovi alla base non la proprietà e il denaro ma la povertà e l’abbandono
della vita nelle amni di Dio. Sono temi noti.
Qui vorrei fermarmi sull’amore cristiano per il mondo fondato sull’amore divino: mi
sembra che vi siano echi simili nelle tesi di Dehon che ho ascoltato e nel fatto che
Dehon era terziario francescano. Troviamo qui una svolta dalla fuga mundi all’amore
per il mondo, abbandonando così la teologia e la letteratura de contemptu mundi. Basta
pensare allo Itinerarium mentis in Deum con cui Bonaventura traccia la possibilità di un
cammino spirituale dal mondo a Dio: la perfezione cristiana non passa necessariamente
dal tirarsi fuori dal mondo e non coltiva necessariamente una visione pessimista del
mondo.
Questa prospettiva è certamente coinvolgente ma è lontana dall’essere la forma
culturale del nostro mondo. Come si è scritto, della visione francescana è rimasto
l’amore per il mondo ma senza il suo fondamento spirituale e teologico: sulla base
dell’amore di Dio. Lo stesso mondo francescano, come il dibattito sull’usus pauper, ha
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vissuto una fatica nel mantenere questa fedeltà alle origini. Oggi, il senso della
Provvidenza è stato sostituito dal ricorso alla scienza e alla tecnica e la dottrina della
grazia divina è stata offuscata dall’impetuosa emergenza della soggettività umana.
Ma anche in un mondo diverso come il nostro, l’amore per il mondo deve fare i conti
con due problematiche che la storia francescana ha illustrato meglio di ogni altra.
Innanzitutto il fatto che ogni vita cristiana, anche quella spesa per amore del mondo,
comincia con una conversione personale, con una conversione ai valori evangelici.
Quale valore e quale sviluppo diamo oggi, personalmente e pastoralmente alla
conversione? mantiene il suo ruolo di registrazione della centralità di Cristo e del suo
regno nella nostra vita? in che modo l’amore pienezza di vita si concilia con una
conversione perenne della vita per non omologarsi alla svelta al comune modo di
pensare? Ed inoltre proprio il francescanesimo ha mostrato la capacità di chinarsi
amorosamente sugli ultimi. Oggi, a mio parere, oscilliamo tra una fiducia nella scienza,
scossa non poco dall’ecologismo, una visione estetizzante del reale ed una rimozione
del male e del tragico da un ruolo pubblico; non spetta al cristiano richiamare la difficile
realtà di milioni di fratelli e tenere alta la fiaccola di una fraternità universale attraverso
scelte attente a tutti? L’amore per il mondo non può nascondere né la necessità di una
perenne conversione né la drammaticità del male.
3.3. Il debito ignaziano
Gli Esercizi spirituali di Ignazio mirano a disporre la persona a liberarsi da ogni
affezione disordinata così da aderire realmente alla volontà di Dio organizzando la
propria vita in base ad essa. Qui mi rifaccio alla lettura che ne dà K. Rahner; per lui, vi è
qui il primo incontro della proposta cristiana con la soggettività moderna; questa lettura
è particolarmente importante per chi – al seguito di Fischer, Weger, Sanna, Delgado –
legge Rahner a partire da una esperienza spirituale più che da una ottica filosofica
trascendentale, di stampo heideggeriano.
Secondo Rahner, gli Esercizi sono un accesso alla fede partendo dal soggetto, da ciò che
una persona è nella sua situazione storica per giungere ad una decisione di se stessi di
fronte a Dio ed in dialogo con Lui. Al centro di questo incontro tra il soggetto umano e
Dio sta Gesù, l’Uomo-Dio, sta l’incarnazione. Occorre comprenderla non solo come
strumento ma in modo profondo: Dio, il Trascendente, non solo non si oppone
all’umano ma lo assume e lo fa proprio, rendendolo cosa sua. Gesù è Dio nell’altro-dasé e l’uomo è il possibile esito dell’amore di quel Dio che esce da sé. Qui non interessa
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la questione filosofica dell’anticipazione di una apertura infinita all’opera in ogni
conoscenza concreta, la cosiddetta questione del Vorgriff, qui interessa l’identità umana
come identità di un soggetto aperto. Rahner l’afferma riprendendo in Hörer des Wortes
i temi scolastici del naturale desiderium videndi Deum e della potentia oboedientialis; il
risultato è la presentazione del soggetto non come auto-possesso ma come apertura a
quella possibilità che, da fuori, lo costituisce nella sua profondità. A contatto con la
libertà divina manifestata in Cristo, il soggetto che è geist in der welt, si sente rimandato
oltre se stesso e dalla possibilità di ascoltare Dio deve giungere alla discepolanza di
Gesù.
In Gesù che – nella sua soggettività – è la forma storica dell’amore divino, si incontrano
l’amore divino e la libertà umana rivelandosi l’una spazio di possibilità per l’altra; per
questo Rahner è convinto che l’incontro tra vangelo e soggetto moderno sa stato già
posto e risolto con gli Esercizi di Ignazio. Rahner riprenderà questo movimento
all’interno di una teologia della grazia sviluppata in un quadro di dialogo interculturale
e di pluralismo religioso: la grazia, quale forma di auto-comunicazione divina
all’umanità, è nella Chiesa ma ava pure oltre i suoi confini visibili ed, in questo modo,
mette in moto la libertà e la impegna in una libera e obbediente risposta d’amore.
In questa visione l’antropologia rimanda ad una cristologia e l’uomo, eccedente il suo
mondo, appare nel suo mistero ultimo come aperto, rivolto a qualcosa/qualcuno che non
può pretendere di avere a disposizione ma può incontrare nella libertà dell’amore. La
centralità dell’incarnazione è qui evidente e spiega la reazione di Balthasar nel suo
lavoro Cordula ovverossia il caso serio: il caso serio è il crocifisso. Quale spazio resta
alla croce e al crocifisso in questo incontro moderno – nell’amore e nella libertà – tra
Gesù ed il soggetto umano? Più tardi, O.H. Pesch osserverà che la libertà del soggetto
umano di cui Rahner parla è la libertà moderna intesa come auto-decisione e autorealizzazione; quando il pensiero moderno è assunto in modo totale e illimitato, quale
senso resta all’incontro con Dio se non quello di una dinamica strumentale? in concreto
Dio non finisce per essere una realtà di cui il soggetto dispone a piacimento? basta la
dialettica tra trascendentale e categoriale per mantenere a Dio il suo spazio nella vita di
ogni persona?
Queste domande rivolte a Rahner dovrebbero aiutare a modellare in modo pieno e
profondo il rapporto tra Dio e il soggetto moderno. Quale tipo di modernità suppone il
pensiero di Dehon e come si confronta con essa: quali percorsi e quali attenzioni occorre
avere perché l’incontro tra amore divino e soggetto moderno sia fecondo?
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4. Sulla proposta dell’amore come dono
Sulla proposta dell’amore come dono vorrei precisare alcune cose in aggiunta a quanto
già detto. Il dono, espressione simbolica ricca di gratuità e affettività, si può precisare
attraverso tre dinamiche: colui che dona, colui che riceve il dono e la relazione che il
dono instaura.
Colui che dona o donatore va inteso non semplicemente come colui che, tra le altre
cose, fa anche dei doni; in senso rigoroso, è piuttosto colui che nella sua struttura
soggettiva è definito e chiarito dal dono. In altre parole, il dono non è qualcosa di
estraneo alla persona del donatore ma è la sua vita e la sua personalità: il donatore stesso
“è dono” nel senso più forte del termine. Questo non appartiene alla nostra capacità
umana se non in modo parziale a appartiene a Dio; nel suo amore, Dio è dono e
donatore.
Colui che riceve il dono o destinatario è colui che, accogliendo il dono, contrae un
impegno, un obbligo che non può assolvere “sdebitandosi” con un altro dono più o
meno equivalente; può entrare nella logica dell’obbligo assunto con l’accoglienza del
dono, solo attraverso un comportamento altrettanto gratuito e libero, instaurando così un
circuito virtuoso di doni, attenzioni e solidarietà vicendevoli non per sdebitarsi ma per
la gioia di realizzarsi a sua volta con il dono.
La relazione tra donatore e destinatario instaura una forma di relazione sociale che non è
fondata su quanto ho e scambio ma sulla gioia del crescere insieme. L’economia e la
politica del dono non si fonda sul valore commerciale e mercantile del dono né
sull’umiliazione di essere considerati “oggetto” delle attenzioni altrui sia pure di tipo
compassionevole ma su una trasformazione delle relazioni interpersonali; si veda Deus
caritas est 34: «l’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro,
diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umili l’altro, devo dargli non
soltanto qualcosa di mio, ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona».
Questo supera lo scambio ed è l’inizio di una nuova società aperta all’amore.
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