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Associazione per lo Sviluppo degli Studi
di Banca e Borsa
“ALLA RICERCA DELLE RADICI DELLA
NOSTRA CULTURA”
ALBERTO MARIO BANTI
ALESSANDRO GHISALBERTI
MARISA VERNA
PIPPO RANCI
FRANCO GIULIO BRAMBILLA
n. 5
GAZZADA, VILLA CAGNOLA 12-13 MAGGIO 2011
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Associazione per lo Sviluppo degli Studi
di Banca e Borsa
“ALLA RICERCA DELLE RADICI DELLA
NOSTRA CULTURA”
ALBERTO MARIO BANTI
ALESSANDRO GHISALBERTI
MARISA VERNA
PIPPO RANCI
FRANCO GIULIO BRAMBILLA
n. 5
Sede:
Segreteria:
Cassiere:
Presso Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano, Largo A. Gemelli, n. 1
Presso Banca Popolare Commercio e Industria - Milano, Via Moscova, 33 - Tel. 62.755.1
Presso Banca Popolare di Milano - Milano, Piazza Meda n. 2/4 - c/c n. 40625
Per ogni informazione circa le pubblicazioni ci si può rivolgere alla Segreteria
dell’Associazione - tel. 02/62.755.252 - E-mail: [email protected]
sito web: www.assbb.it
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Solo chi è pronto a dar battaglia per i propri
ideali ha diritto alla felicità e alla libertà.
Goethe
Non basta sopravvivere. Bisogna anche avere
una ragione per vivere.
Hubeuve-Meri
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Rinnovando l’esperienza degli scorsi anni si è aggiunto un ulteriore tassello a quel mosaico che stiamo
costruendo di volta in volta, fidando alla fine di completarne nel tempo il disegno attraverso il quale leggere,
forse sotto traccia, il fondamento di quelle radici che
stanno all’origine della nostra cultura.
Percorso difficile, multiforme, ma necessario per illuminare le nostre scelte. Scelte per il nostro ruolo di
operatori professionali, ma scelte che traggano ispirazione da valori e principi nei quali riconoscere il senso
della nostra storia, dei nostri comportamenti, delle
nostre coscienze.
In un mondo in cui crolla ogni mito e che nulla concede all’utopia, pare utile non tanto “raccontare”,
attraverso emblematiche testimonianze, una cultura,
quanto riscoprirne le sue radici storiche e veraci al fine
di ritrovare in quelle la nostra identità.
Le “lanterne cieche” del nostro tempo non sanno illuminare il nostro cammino né all’indietro nella memoria,
né al presente nella riflessione, né in avanti nella fiduciosa attesa, nella speranza, nella consolante certezza di
un domani per il quale valga la pena di vivere.
Perché guardare al futuro non basta. Quale futuro
infatti si può costruire senza avere cura del proprio passato?
Il passato è la nostra memoria, la memoria è la nostra
Storia, la Storia è la nostra identità.
Non esiste una Storia lontana e senza più importanza.
La Storia torna sempre.
giuseppe vigorelli
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Biografia
Giuseppe Vigorelli
Presidente Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa
Laureato in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano.
Dall’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana entra in un
industria milanese con responsabilità di produzione.
Quindi, entra nel sistema bancario, presso la Banca per il Commercio Serico.
Dopo un periodo a Londra, collabora alla trasformazione della Banca
dal settore serico a quello tessile e quindi alla diversificazione dell’attività in tutti i settori dell’industria e del commercio, cambiando denominazione in Banca Commercio e Industria.
Da Vice Direttore Aggiunto diventa Vice Direttore Generale nel
1968, fino al 1975 anno in cui viene nominato Direttore Generale,
posizione che mantiene fino al 1993. In quell’anno assume la carica di
Vice Presidente e di Amministratore Delegato della Banca Popolare Commercio e Industria e nel 1997 ne diventa Presidente.
Nel corso degli anni ‘70 e ‘80 realizza cinque acquisizioni bancarie e
tre succursali estere in Lombardia, negli anni ‘90 una sesta acquisizione nonché il ramo commerciale italiano di una banca estera e l’acquisizione di una rete di sportelli in dismissione di una banca nazionale.
Nel 1995 assume il controllo della Banca Popolare di Luino e di
Varese S.p.A., nella quale ricopre la carica di Vice Presidente Vicario fino al febbraio 2003, e costituisce il Gruppo Bancario Banca
Popolare Commercio e Industria.
Nell’ambito del Gruppo nel 1998 crea una delle prime banche virtuali
italiane ed apre una affiliata in Lussemburgo.
Nel corso degli anni ‘80 realizza un complesso di società del settore
parabancario, ABF Leasing e ABF Factoring, e partecipa alla fondazione del Gruppo ARCA (fondi, merchant, SIM, trading, assicurazioni), composto dalle prime 12 banche popolari del Nord Est. Nel 1995
diviene Vice Presidente del Gruppo.
Da oltre 20 anni è membro del Consiglio dell’Associazione Bancaria
Italiana e dal 1995 anche del suo Comitato Esecutivo, avendo altresì ricoperto la Presidenza della Commissione per la Riforma dell’Associazione.
Nel 1972 fonda l’Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca
e Borsa, assumendone la Presidenza, con l’adesione delle prime 12
banche, che poi crescono fino alle attuali 150, del più ampio arco del
sistema bancario italiano: dalle Casse di Risparmio alle Banche Popo-
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lari, dalle Ordinarie a quelle di interesse nazionale e diritto pubblico,
agli Istituti speciali a medio termine. Sponsor accademico della Facoltà di Economia e Commercio della Università Cattolica di Milano.
Dal 1976 è consigliere della Associazione “Luzzatti” delle Banche
Popolari, fino alla sua unificazione con la Tecnica. Quindi è entrato a
far parte del Consiglio d’Amministrazione e del Comitato Direttivo
della nuova Associazione Nazionale fra le Banche Popolari.
Nel 1978 per meriti bancari gli viene conferita la Commenda su istanza dell’Associazione Bancaria Italiana.
Dal 1982 al 1998 fa parte del Consiglio d’Amministrazione della Centrobanca, istituto di credito a medio termine della categoria.
Dal 1982 al 2001 è membro del Consiglio d’Amministrazione dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane, e dal 1995 al 2001
anche del suo Comitato Esecutivo.
Nel 1983 è chiamato a far parte della Giuria dell’Oscar di Bilancio, e
dal 1993 al 2000 ricopre la carica di Presidente.
Dal 1987 al 1996 fa parte del Consiglio di Amministrazione della
Istinform, società interbancaria di consulenza informatica, assumendone per cinque anni la Presidenza e saldando l’area privata del sistema bancario, con l’accoppiamento del mondo delle Banche Ordinarie
a quello delle Banche Popolari.
Dal 1988 al 1998 fa parte del Consiglio d’Amministrazione della
Unione Fiduciaria.
Dal 1990 al 1996 fa parte del Consiglio di Amministrazione della Multitel, società interbancaria di software con la carica di Vice Presidente.
Dalla fondazione è Consigliere e membro del Comitato Esecutivo
della Centrosim spa, società di categoria delle Banche Popolari, di cui
è stato Presidente dal 1995 al 1998.
Nel 1998 la Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie ed Assicurative
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, alla cui nascita, contribuì la
stessa Associazione, gli conferisce la Laurea honoris causa in Economia Bancaria.
Sempre nel 1998 l’American Biographical Institute lo nomina “Man
of the Year” e la Provincia di Milano gli conferisce la Medaglia
d’Oro della Riconoscenza e alla Cultura.
Il 18 maggio 1998 viene costituita BPCI International in Lussemburgo, di cui diviene Consigliere.
Il 27 maggio 1998, nell’ambito del Gruppo, crea On Banca, la prima
vera banca virtuale italiana e ne diviene Consigliere, fino al febbraio
2002 quotandola alla Borsa di Milano.
Da oltre 16 anni partecipa al Fondo Monetario Internazionale di Washington e alle riunione del Forex Club Italiano: l’associazione nazionale dei cambisti che nel 1998 lo nomina Socio d’onore.
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Il 2 giugno 1999 è nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente della
Repubblica.
Il 7 dicembre 1999 il Comune di Milano gli ha conferito l’Ambrogino d’oro (medaglia d’oro di Benemerenza Civica).
Il 1 dicembre 2000 acquisisce la Banca Carime S.p.A. e ne diviene
Vice Presidente Vicario.
Il 30 gennaio 2001 viene costituita la BPCI Fin e ne diviene Presidente.
In data 23 marzo 2001 viene nominato Consigliere del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi ed entra a far parte del Comitato di
Gestione.
In data 2 settembre 2003 viene nominato consigliere del Consiglio di
Amministrazione del Fondo Interbancario di Garanzia.
In data 27 marzo 2003 viene costituita la BPCI Fin Seconda S.p.A. e
ne diviene Presidente.
Il 1° Luglio 2003 promuove l’aggregazione con il Gruppo della Banca
Popolare di Bergamo per la costituzione della nuova Società a responsabilità limitata Banche Popolari Unite di cui diventa Vice Presidente Vicario.
Nel giugno 2005 gli è conferita l’onorificenza dal Presidente Ciampi
di Grande Ufficiale della Repubblica italiana.
Nell’aprile 2006 é proclamato Presidente Onorario di UBI Banca.
Dal 1968 al 1980 è stato Amministratore dell’Ospedale dei Bambini
“Vittore Buzzi” di Milano.
E’ inoltre Consigliere di diversi organismi e fondazioni a scopo culturale e sociale.
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Prof. Alberto Mario BANTI
Professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Pisa
“Il nazionalismo e la formazione dello Stato
unitario italiano”.
Lo Stato unitario è uno Stato-nazione, il che significa
che è uno Stato che si differenzia profondamente dagli
Stati dinastico-territoriali esistiti sul territorio della penisola sino al 1859-60. Ciò che caratterizza essenzialmente questa tipologia di Stato è l’idea della pre-esistenza di
una nazione – in questo caso della nazione italiana – che,
secondo i suoi sostenitori, ha un diritto etico e politico a
esprimersi attraverso assetti istituzionali che ne sanciscano l’esistenza. In questa concezione, dunque, il concetto di nazione ha una centralità assoluta. Ma da dove
viene?
«Nazione» è una parola che deriva dal latino ed è largamente utilizzata anche in epoca medievale e moderna.
Allora, però, non ha uno specifico significato politico;
piuttosto, indica genericamente dei gruppi di individui
che hanno qualche tratto comune (lingua, cultura, provenienza). Oltre a non avere una precisa connotazione
politica, il termine «nazione» si riferisce a comunità territorialmente non ben definite: vi sono molti e vari esempi di intellettuali, scrittori o politici che parlano indifferentemente di nazione italiana, o napoletana, o veneziana, e via dicendo. Il quadro cambia radicalmente nel
corso del XVIII secolo, e cambia in particolare grazie
alle innovazioni istituzionali e linguistiche promosse dai
protagonisti della Rivoluzione francese. In cerca di un
termine che indichi il soggetto collettivo che deve sostituirsi al re come depositario esclusivo della sovranità
politica, i rivoluzionari lo trovano nel termine «nazio9
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ne». Il processo che fa sì che il termine «nazione» entri
per la prima volta nel vocabolario politico viene sancito
da un articolo fondamentale della Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789), il n. 3,
che dice: «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani
espressamente».
Questo enunciato sconvolge l’intero lessico politico.
Da allora, in Francia e fuori di Francia, chi vuole fondare le istituzioni pubbliche sulla volontà di tutti coloro
che vivono in un dato territorio, si riferisce a questo soggetto collettivo designandolo col termine di «nazione»
(e poi anche con quello di «popolo», che diventa immediatamente un sinonimo di «nazione»).
È ciò che accade anche nella Penisola italiana: sono i
simpatizzanti della Rivoluzione francese che per la
prima volta negli ultimi anni del XVIII secolo lanciano
il progetto di uno Stato per la nazione italiana: cioè asseriscono che esiste una nazione italiana e che, in nome di
questo «fatto», è giusto adoperarsi perché venga creato
uno Stato nazionale italiano. E questa è una dinamica
imitativa. Poco più tardi, a questa prima dinamica se ne
aggiunge un’altra, reattiva, sollecitata dalle occupazioni
napoleoniche. Compiute in nome della superiorità etica
della nazione francese, sollecitano risposte «simmetriche e contrarie»: in Spagna, in Olanda, in Germania, e
anche in Italia, molti di coloro che si oppongono alle
occupazioni napoleoniche cominciano a farlo in nome
dei diritti della propria «nazione».
Tutta questa dinamica comporta un passaggio delicato
che scaturisce da due interrogativi fondamentali: «quali
sono le nazioni?»; e «chi ne fa parte?».
In Italia, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, chi parla il linguaggio della nazione oscilla molto
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nell’identificazione della comunità di riferimento; e così
capita di sentir parlare di nazione cispadana, o napoletana, o veneziana, o siciliana, e così via. E tuttavia entro il
primo decennio del XIX secolo i portavoce nelle nuove
istanze nazionali optano per la nazione italiana. Perché?
Perché nella prima metà del XIX secolo i primi
influenti movimenti nazionali sono promossi da intellettuali o da leader politici con un’ottima formazione intellettuale, che identificano le nazioni sulla base di un
primo criterio essenziale, ovvero la lingua. L’esistenza
di una lunga tradizione letteraria scritta in italiano induce facilmente i promotori del movimento risorgimentale
(da Cuoco a Foscolo, da Manzoni a Mazzini, ecc.) a considerare che la nazione di riferimento per un movimento
politico che voglia rinnovare integralmente le istituzioni
esistenti sulla Penisola sia, appunto, la nazione italiana.
Tuttavia c’è un grado di forzatura pazzesco in questo
tipo di operazione. All’inizio del XIX secolo l’italiano
letterario è usato (ed è conosciuto) solo da una percentuale minima di coloro che vivono nella Penisola, poiché
tutti gli altri parlano dialetti che si differenziano molto
l’uno dall’altro per strutture lessicali e sintattiche. Si
stima che nel 1861 gli «italofoni» fossero tra il 2.5% e il
9.5% del totale degli abitanti della Penisola.
E questa è una prima difficoltà. A ciò si aggiunga che
il movimento risorgimentale (come altri movimenti
nazional-patriottici di inizio Ottocento) vuole costruire
uno Stato-nazione unificando o smembrando Stati preesistenti; in un simile contesto i promotori del movimento nazionale devono convincere i potenziali militanti che
la «nazione» esiste, anche contro ogni evidenza, e che
vale la pena di fare qualcosa per essa, nonostante questa
sia un’impresa estremamente pericolosa perché ha contro di sé tutte le istituzioni ufficiali di quasi tutti gli Stati
che sono usciti dal riassetto geopolitico del Congresso di
Vienna.
Sembra quasi una missione impossibile. E invece,
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malgrado le enormi difficoltà comportate da questo programma, il movimento risorgimentale, nelle sue varie e
spesso contrastanti articolazioni, riesce a riscuotere uno
straordinario successo, tanto da raccogliere intorno a sé
una militanza «di massa», e ottenere l’obiettivo che si
prefiggeva, cioè la costruzione di uno Stato nazionale
unitario.
Come fa ad avere questo successo? Se ciò avviene è
perché i leader intellettuali e politici del nazionalismo
sanno presentare questa ideologia con le seducenti vesti
di una «nuova politica». La proposta politica nazionalista è nuova perché vuole coinvolgere le masse; ed è
nuova perché vuole farlo non tanto facendo appello alla
ragione degli illuministi, alla solida cultura, all’indagine
lucida e distaccata, ma facendo appello all’universo prerazionale delle emozioni.
E ci sono ottimi motivi perché sia così: come potrebbe essere altrimenti, se si vogliono coinvolgere nel discorso politico anche persone analfabete o semi-analfabete? E come potrebbe essere altrimenti, se si vuole diffondere un discorso politico altamente innovativo e –
almeno nelle sue formulazioni iniziali – radicalmente
eversivo degli assetti politici dominanti?
La realizzazione di una «nuova politica», cioè di una
politica che sappia parlare al cuore del «popolo», passa
attraverso la formazione di una «estetica della politica».
Con questo termine si indica una modalità della comunicazione politica che certo non è ignota in epoca
moderna, ma che ora prende dimensioni prima sconosciute; una modalità sollecitata dalla constatazione
secondo la quale strumenti che normalmente servono
per divertirsi e rilassarsi (romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e opere liriche) possono anche riempirsi di messaggi politici, senza per questo perdere niente del loro fascino.
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Per la formazione di una nuova «estetica della politica» è essenziale lo stretto rapporto che il nazionalismo
intreccia con l’esperienza intellettuale comunemente
nota col termine di «romanticismo». Dei molti aspetti
che connotano l’elaborazione romantica, uno merita di
essere particolarmente sottolineato: gli intellettuali che
vi si avvicinano mettono ben presto a fuoco l’idea di
«un’arte per il popolo», termine che in questo caso non
vuol dire altro che «un’arte per il più largo numero possibile di persone».
Si tratta di un programma estetico che è certamente
sollecitato anche dal nuovo statuto socio-professionale
del letterato o dell’artista della Restaurazione: non più
sostenuto da un mecenate, non più assunto stabilmente
da una famiglia nobile, deve essere capace di vendere le
sue opere sul mercato se vuole procacciarsi di che vivere. Ma ciò che è importante osservare, è che diversi
intellettuali e artisti romantici danno a questo chiaro programma professionale una declinazione nettamente
nazionalista.
Perché lo fanno? Da un lato, perché capiscono che la
nazione è un tema politico «caldo», reso estremamente
«popolare» dalle vicende della Rivoluzione francese, e
soprattutto dalle reazioni suscitate dalle occupazioni
napoleoniche; cosicché raccontare storie di ispirazione
nazionalista significa raccontare storie che trovano già
un pubblico sensibile, e quindi un «mercato» a cui vendere i propri lavori. Dall’altro lato lo fanno anche per
intima convinzione, che si traduce talora in una militanza che a qualcuno costa la vita, la prigione o l’esilio.
È ad opera di persone di questo tipo, che talora sono
anche dei veri e propri geni creativi, come Giovanni
Berchet, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Francesco Hayez, Giuseppe Verdi e molti altri con loro, che
il nazionalismo risorgimentale può avvalersi di
un’«estetica della politica», che si traduce in una vasta
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costellazione di romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica. Sono questi gli strumenti comunicativi che riescono a fare del nazionalismo un discorso mitico di grande
impatto. La mitografia che ne deriva è efficace perché
riesce a proporre delle nuove, potenti, suggestioni: e
sono proprio queste che danno al discorso nazionale un
grande impatto emotivo.
Quale definizione di «nazione» sorregge questa
straordinaria vicenda politico-culturale? È una definizione articolata in tre parti fondamentali:
la nazione viene considerata come una comunità di
parentela, ovvero come una «comunità di discendenza»
dotata di una sua genealogia e di una sua specifica storicità. In questa concezione il nesso biologico tra le generazioni e gli individui diventa un dato fondamentale: da
qui il ricorso frequente a termini come «sangue» o anche
«razza», per connotare i nessi che legano le persone alla
comunità. Da questa concezione deriva anche un suggestivo sistema linguistico fatto di «madre-patria», di
«padri della patria», di «fratelli d’Italia», mentre la
«famiglia» diventa costantemente un sinonimo della
comunità nazionale nel suo complesso, o un termine che
ne indica il suo nucleo fondativo minimale;
la nazione viene descritta anche nelle sue componenti
di genere, attraverso un’operazione che attribuisce agli
uomini della nazione il compito di difenderla armi alla
mano, ed alle donne della nazione il compito di riprodurre – in forma casta e virtuosa – le linee genealogiche
che strutturano la nazione come comunità di parentela;
infine, la nazione è descritta come una comunità i cui
membri devono essere entusiasticamente disposti al
sacrificio della propria vita. Il richiamo alla necessità del
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sacrificio è un’operazione che consente di presentare il
discorso nazionale come un discorso politico para-religioso: i militanti morti per la causa diventano subito dei
«martiri», cioè in senso proprio dei soggetti che hanno
«testimoniato» con la morte la propria «fede» politica;
in tal modo le guerre nazionali si trasformano in «guerre sante» o «crociate»; l’azione di propaganda diventa
«apostolato»; e la rinascita della nazione diventa «resurrezione» (questo il senso etimologico originario del termine «Risorgimento»).
Descrivere in questo modo la comunità nazionale, e
l’azione politica che è necessario fare per essa, significa
presentare il tutto con tratti di plausibilità molto forti,
poiché su una proposta politica enormemente innovativa
si proiettano valori e simboli molto ben radicati nella
mentalità diffusa all’inizio del XIX secolo: chiunque
capisce subito di cosa si parla se si dice che la nazione è
una «famiglia» e che perciò i suoi membri sono «fratelli», legati dal «sangue» e dal «cor»; inoltre proiettare
nello spazio della nazione il valore dell’onore (gli uomini combattono e difendono la rispettabilità delle proprie
donne) è ricorrere a una passione che all’epoca è profondamente radicata, una passione per la quale non si
esista a combattere dei duelli; e infine associare l’ideologia nazionale a specifici simboli della tradizione cristiana significa presentare la nazione con i caratteri di un
linguaggio che tutti conoscono e quasi tutti apprezzano.
Ed è proprio in queste dinamiche che occorre vedere sia
le ragioni del grande impatto del discorso nazionale nel
Risorgimento, sia le ragioni della sua duratura presenza
nella successiva storia d’Italia.
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Biografia
Alberto Mario Banti
Ha studiato all’Università di Pisa, alla Scuola Normale di Pisa e all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, dove ha conseguito il suo
PhD. Attualmente è Professore ordinario di Storia Contemporanea
all’Università di Pisa. Si è occupato di storia sociale dell’Italia contemporanea, di storia del Risorgimento italiano e di storia del nazionalismo europeo ottocentesco.
Principali pubblicazioni dell’Autore:
Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli Editore, Roma 1996.
La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle
origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.
Il Risorgimento italiano, Laterza, Roma-Bari 2004.
L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra,
Einaudi, Torino 2005.
Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento
al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011.
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Prof. Alessandro GHISALBERTI
Ordinario di Filosofia Teoretica nell’Università Cattolica del S.Cuore di
Milano
“L’universalismo di Dante nella formazione
dell’identità europea”.
Parlare di Europa ai tempi di Dante significa assumere una consapevolezza preliminare, dovuta anche quando si parla di Italia nell’età di Dante, ossia si deve essere consapevoli del rischio di caricare i due termini, Europa e Italia, di una valenza geopolitica che in quel tempo
non possedevano; eppure Dante è certamente tra i formatori dei valori che nel tempo l’Europa delle nazioni
farà propri, così come fondamentale è stato il contributo
del poeta fiorentino nel corso dei cinque secoli successivi alla sua morte alla formazione dello stato italiano unitario, della cui nascita ricorre quest’anno il 150° anniversario. In particolare la lingua toscana e la poesia di
Dante sono stati riferimenti decisivi nei secoli a forgiare
la storia della letteratura e cultura d’Italia, anche quando
l’Italia unita non c’era ancora, ma si parlava l’italiano e
nel mondo si diffondevano l’arte, la musica, i costumi
italiani.
Senza cadere in antistorici anacronismi, intendiamo
ripercorre un itinerario non alla ricerca di un precursore,
ma meglio si direbbe di un “formatore”, volto cioè a far
emergere elementi forti calati nel pensiero e nelle azioni
di Dante veicolanti la coscienza di una comune patria
ideale transnazionale.
1. Dante, Firenze e l’Europa
La maggior parte delle lettere pervenuteci iniziano
con “Dantes de Florentia”, o “Florentinus exul immeri17
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tus” , sino al celebre incipit della lettera a Cangrande:
“Dantes Alagherii florentinus natione non moribus”,
dove la deplorazione della decadenza morale di Firenze
veicola nel poeta un oltrepassamento etico-politico della
città natia, per acquistare altrove, nell’Italia o nel potere
del sacro romano impero, la dignità di fiorentino autentico, negatagli dalla sua terra d’origine. Se Firenze,
destinandolo ad un esilio perpetuo, è risultata matrigna,
Dante non cessa di dichiararsi suo figlio, e anche nell’età matura, nel canto XXV del Paradiso, auspicherà come
proprio futuro di giustizia ed insieme di gloria quello di
essere incoronato “poeta sacro” nel battistero di San
Giovanni della sua Firenze:
Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano cielo e terra
sì che m’ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li dànno guerra;
con altra voce ormai, con altro vello
ritornerò poeta; ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello”
(Pd XXV, 1-9).
Assumiamo qui due degli elementi portanti della
nostra lettura su Dante e l’Europa: anzitutto la fiorentinità di Dante e la narrazione che egli fa nelle diverse
Cantiche della Commedia della storia di Firenze; in
secondo luogo la cifra forte che è all’origine di questa
storia e la sorregge anche in tempi di avversità, è rinchiusa nel connubio destinale di romanesimo e germanesimo, che a partire da Carlo Magno ha segnato la
nuova traiettoria fondativa dell’Occidente cristiano,
coesteso in senso geografico con quello che ai tempi di
Dante si chiamava Europa.
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Come è stato osservato1, la storia di Firenze è narrata
da Cacciaguida nel cielo di Marte, all’interno dei tre
canti centrali del Paradiso (XV-XVI-XVII): lo sfondo
del cielo di Marte è rosseggiante, segno riconducibile
all’età guerriera e trionfale della Roma imperiale, ma già
al suo arrivo (Pd XIV, 85 ss) su Marte, che accoglie Cacciaguida e la grande schiera dei martiri per la fede,
Dante vede dominare il rosso, il colore del sangue, e le
luci splendenti dei martiri si dispongono a forma di
croce:
Sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo.
Qui vince la memoria mia lo ‘ngegno;
ché ‘n quella croce lampeggiava Cristo
(Pd XIV, 100-104)
Marte era il protettore (pagano) di Firenze, mentre Giovanni battista era il protettore della Firenze cristiana, come
ricorda Cacciaguida parlando dei Fiorentini del suo
tempo come dei cittadini atti a portare le armi e risiedevano “tra Marte e ‘l Batista” (Pd XVI, 47), ossia la statua di
Marte sul Ponte Vecchio e il Battistero di san Giovanni
battista, i due segni dei limiti della città di allora.
Del resto, nel canto VI del Paradiso, l’inizio della storia ideale di Firenze, con la fondazione delle antiche
mura, è fatta coincidere con la novità operata da Carlo
Magno, quando l’impero romano rinasce nel segno di
Cristo, sancendo il già menzionato connubio decisivo di
romanità e di cristianesimo e dà inizio alla Firenze della
“cerchia antica”, le cui mura furono costruite, secondo le
attestazioni documentarie oggi acquisite dagli studiosi,
proprio nell’Ottocento carolingio: una città piccola ma
1
Cfr, E. Travi, Dante tra Firenze e il paese sincero, Milano 1984, pp. 88-96
19
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pura nei suoi sentimenti e nei suoi costumi. Pace, sobrietà e pudicizia erano le sue bandiere, su cui rintoccavano
le campane che invitano alla preghiera:
Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva nascendo, ancor paura
la figlia al padre; ché ‘l tempo e la dote
non fuggien quinci, e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vote;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che ‘n camera si pote
(Pd XV, 97-108).
Queste celebri terzine rivelano senza bisogno di
aggiunte quali erano i valori su cui per Dante era sorta la
Firenze erede dell’universalismo di Roma e rinnovata
per sempre dall’inserzione dell’anima cristiana. La
Firenze degli anni del primo Trecento, anni in cui il
poeta è viaggiatore nei tre regni ultraterreni, ha tralignato, allontanandosi da quei valori che soli le consentirebbero di recuperare la dignità naturale e ridiventare in
terra modello specchiante la perfezione della “vera città”
( Pg XVI, 96). Chiamata a essere protagonista della pacificazione del mondo, ossia dell’Europa cristiana del
tempo, Firenze nella Monarchia è indicata da Dante
come affidataria del mandato dalla provvidenza divina
della missione di guida dell’umanità, e per questo deve
salvaguardare i due tratti fondamentali dell’universalismo sopra ricordati, in cui convergono gli ideali religiosi e politici, di Chiesa e Impero.
Firenze è pertanto il simbolo stesso della civitas, dei
valori che devono appartenere a qualunque città del20
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l’Europa cristiana, e, secondando l’impegno dell’autore
della Monarchia, di ogni cittadino, di ogni persona in cui
è attivo l’intelletto possibile. E ciò nonostante l’amata
lingua volgare fiorentina, che, nella percezione lungimirante che Dante mostra di avere circa la variazione delle
lingue nel corso della storia, lungi dall’ostacolare, consente alla patria universale di accogliere al suo interno la
pluralità linguistica e le identità storiche particolari.
Ricordiamo che al tempo di Dante la lingua comune
delle istituzioni e degli intellettuali restava il latino, lingua in cui egli stesso scrisse significativamente, ma in
un certo senso anche contraddittoriamente, un trattato a
difesa del volgare nobile (De vulgari eloquentia).
2. Romanesimo e cristianesimo nelle opere di Dante
È nota la dichiarazione che Dante fa all’inizio del
secondo libro della Monarchia, a proposito dell’avvenuto cambiamento circa una valutazione politica: un tempo
si era convinto che il popolo romano avesse conquistato
il mondo con la forza delle armi, mentre in seguito cambiò opinione, perché capì che tutto era avvenuto per un
preciso disegno della Provvidenza2.
Gli elementi più significativi della nuova prospettiva
assunta da Dante nei confronti dell’impero romano possono essere ricondotti all’oltrepassamento della convinzione circa l’origine violenta dell’impero romano stesso:
l’idea era che, senza alcun fondamento giuridico, i
“Admirabar equidem aliquando romanum populum in orbe terrarum sine ulla
resistentia fuisse prefectum, cum, tantum superficialiter intuens, illum nullo
iure sed armorum tantummodo violentia obtinuisse arbitrabar. Sed postquam
medullitus oculos mentis infixi et per efficacissima signa divinam providentiam hoc effecisse cognovi, admiratione cedente, derisiva quasi supervenit
despectio, cum gentes noverim contra romani populi preheminentiam fremuisse” (DANTE, Monarchia, IV, 1).
2
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Romani avrebbero sottomesso al loro comando tutti i
popoli ricorrendo alla violenza della guerra e all’imposizione delle proprie leggi con la forza delle armi. Nel
libro XIX del De civitate Dei Agostino aveva visto come
già inscritto in questa prevaricazione, insieme con la
ingiustizia di fondo che portò i Romani a “servire demoni malvagi e impuri”, il destino di decadenza e di dissoluzione, compiutasi negli anni del suo episcopato anni,
dell’impero di Roma3.
Sollecitato dagli spazi che la scienza della politica
andava aprendo nell’Occidente latino, a partire dall’innovativo Commento di Tommaso d’Aquino alla Politica
di Aristotele, Dante accede ad una lettura incentrata sulla
naturalità delle istituzioni politiche; il percorso naturale
è a sua volta segnato dalla provvidenzialità, ossia l’impero romano si è costituito secondando un disegno di
Dio, creatore della natura e principale artefice di ogni
bene, ed in particolare artefice primo di quel bene che è
il diritto (“ius in rebus nichil est aliud quam similitudo
divine voluntatis”4).
Il popolo romano si è attribuito di diritto, e non usurpandolo, l’ufficio di Monarca universale, anzitutto perché al più nobile dei popoli spetta l’egemonia su tutti gli
altri. Dante sostiene questa affermazione dichiarando,
con Aristotele, l’equivalenza di nobiltà e virtù, e rivendicando una duplice nobiltà per gli antichi Romani: la
nobiltà propria, e quella ereditata dagli antenati. Gli attestati di questa duplice nobiltà sono desunti tutti dall’Eneide di Virgilio, che parla di Enea come del più virtuoso e del più valoroso personaggio dell’antichità, e come
di un nobile per stirpe, relativamente sia agli antenati, sia
3
AGOSTINO, De civitate Dei, XIX, 21, 2; tr. it. a cura di L. Alici, Milano
1984 , p. 977.
4
DANTE, Monarchia, II, 2.
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alle mogli (va notato tuttavia che Dante non parla mai
della madre di Enea, Venere).
L’origine naturale dell’impero romano è connessa al
suo essere costruito sul diritto: il diritto è un rapporto
corretto tra le persone, e perciò è finalizzato al bene
comune; il fine del diritto è il bene dello stato. I romani
si sono mossi in vista del bene dello stato, bandendo
ogni cupidigia ed amando la pace universale, per cui
Dante parla della sottomissione delle genti come di
un’opera di salvezza: “Populus ille sanctus, pius et gloriosus propria commoda neglexisse videtur, ut publica
pro salute humani generis procuraret. Unde recte illud
scriptum est: “Romanum imperium de Fonte nascitur
pietatis”5. L’impero romano scaturisce dalla fonte della
pietà: è un’affermazione attribuita a Costantino e ricavata dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine, a conferma del prevalere della lettura provvidenzialista dell’impero di Roma, sul quale si doveva innestare la vicenda
della salvezza spirituale dell’umanità, attraverso la chiesa di Cristo.
Che il popolo romano ed il luogo della città di Roma
siano stati ordinati dalla natura all’impero è parimenti
attestato da Virgilio, in primo luogo nel celebre verso
dell’Eneide (VI, 852): “Tu regere imperio populos,
Romane, memento”.
Gli ultimi due paragrafi del secondo libro della
Monarchia sono invece caratterizzati per la giustificazione della legittimità dell’impero romano sulla base
della Sacra Scrittura. Il Vangelo di Luca introduce l’editto di Augusto per presentare la nascita di Cristo: “Ma
Cristo, come testimonia il suo scriba Luca, ha voluto
nascere dalla Vergine madre sotto l’editto dell’autorità
3
Ibi, II, 5.
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romana, affinché il figlio di Dio fatto uomo venisse
iscritto come uomo in quel singolare censimento del
genere umano: ciò ha significato il suo attenersi all’editto. Ma forse è più santo credere che quell’editto sia stato
emanato da Dio per mezzo di Cesare, affinché l’atteso
da tanti secoli nella società dagli uomini, potesse registrare se stesso fra gli uomini. Dunque con la sua azione
ha attestato che l’editto di Augusto, detentore dell’autorità dei Romani, doveva essere giusto”6.
Dante annota poi come sempre il Vangelo attesti che
la condanna a morte di Gesù è stata pronunziata da Pilato, procuratore del popolo romano in Palestina e rileva
che, se l’impero romano non fosse esistito di diritto, né
Pilato, né Tiberio Cesare, di cui Pilato era vicario, avrebbero avuto giurisdizione sull’intero genere umano; perciò la sofferenza di Cristo non sarebbe stata un castigo,
perché non sarebbe stata conseguenza della sentenza di
un giudice legittimo, avente cioè giurisdizione su tutto il
genere umano7.
Il disegno provvidenziale su Roma è anticipato da
Dante nel libro IV del Convivio, dove vengono sintetizzati i punti precedentemente esaminati, ma dove troviamo anche un dato ulteriore, assai interessante, riguardante la contemporaneità tra l’inizio della stirpe di Gesù,
con Davide, da cui discendeva Maria, e l’inizio della
stirpe italica con Enea: “E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea
venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade
romana, si come testimoniano le scritture. Per che assai
è manifesto la divina elezione del romano imperio per lo
nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la
radice de la progenie di Maria”8.
6
7
8
Ibi, II, 10.
Cfr. ibi, 11.
DANTE, Convivio, IV, 5.
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Due richiami di questo passo ci consentono di esplicitare alcune riflessioni sull’atteggiamento di Dante nei
confronti di Roma e del suo destino di essere la generatrice dell’Europa cristiana: anzitutto la città è chiamata
santa già alle sue origini; la santità della Roma sede della
cattedra di Pietro non rompe una tradizione, bensì la
riprende e la continua. Anche perché l’antico impero dei
romani deve continuare con il grande “Monarca romano”, di diritto “Monarca universale”, ideale cui Dante
resta fortemente vincolato, nonostante l’insorgere delle
forti nuove sensibilità particolariste negli anni in cui il
poeta scrive9.
Un dato che va registrato con attenzione, nella riflessione sull’universalismo di Dante, è costituito dal fatto
che egli non parla mai di due imperi, d’Occidente e d’Oriente, ma li considera unitariamente. Nella narrazione
fatta da Giustiniano, nel canto VI del Paradiso, del volo
dell’aquila imperiale si dice che, dopo che Costantino
rivolse l’aquila di Roma a Oriente, dove fondò la
“seconda Roma”, Costantinopoli,
cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscio;
e sotto l’ombra de le sacre penne
governò il mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Cesare fui e son Iustiniano
(Pd VI, 4-10)
Nella rassegna storica che svolge, dopo aver parlato
dell’imperatore Tito, Giustiniano passa a Carlo Magno,
con un salto cronologico non valutato, perché a Dante
9
Cfr. DANTE, Monarchia, III, 1.
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importa solo far dire a Giustiniano che l’aquila ha trovato in Carlo Magno il degno successore degli imperatori
romani, il quale, riunificando l’Europa sotto la sua corona e sconfiggendo il “dente longobardo”, che aveva
attaccato il papa, inaugurò il sacro romano impero, in
cui l’universalismo politico si amalgamò con l’universalismo cristiano. Ora, lamenta Dante per bocca di Giustiniano, l’universalismo è offeso in modo vergognoso sia
dai Guelfi, che sostengono un sovrano nazionale, nemico del governo dell’Impero mondiale, sia dai Ghibellini
che si vantano di essere seguaci dell’aquila, ma di fatto
perseguono interessi e fini particolaristici. Queste terzine (Pd VI, 100-111) attestano la consapevolezza di
Dante circa il venir meno degli ideali di cui si è fatto e
si sta facendo difensore nei suoi scritti: la realtà è cambiata a livello dei massimi esponenti politici, in chiave
nazionalista; già abbiamo visto come Dante stigmatizzi
la decadenza contestuale della sua Firenze dalla vocazione universalistica. Ciononostante, con una sofferta
lacerazione interiore, alla realtà fattuale contrappone il
progetto ideale, quasi in uno stremo lancinante di “ in
spe contra spem”. Ne è fedele trascrizione quanto scrive
nella Epistola VII, il 17 aprile 1311, a Enrico imperatore, Arrigo VII, che dopo aver destato speranze di recupero dell’unità imperiale, in realtà si è arrestato, al punto
che Dante gli rivolge la domanda di Giovanni il battista:
Scrive infatti: “siamo indotti dall’incertezza a dubitare e
a prorompere così nelle parole del Precursore: “Sei tu
che devi venire o aspettiamo un altro?” E benché la
lunga sete, come suole, furiosa pieghi nel dubbio ciò
che, per essere vicino, è certo non di meno in te crediamo e speriamo, affermando che tu sei il ministro di Dio
e il figlio della Chiesa e il promotore della gloria di
Roma”10. Dunque “in spe, contra spem”: sfiancati dal
DANTE, Epistole, VII,7-9. In Opere minori, tomo II, Milano-Napoli 1979,
p. 565.
10
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dubbio, ma ostinati nel credere e nello sperare! Più avanti, ribadisce che “il glorioso potere dei Romani né dai
limiti dell’Italia né dal termine della tricorne Europa è
ristretto” (VII, 11-12). L’aspetto politico e l’aspetto teologico convergono nel progetto dantesco della diarchia,
della ricostituzione della duplice autorità somma, sovrana e indipendente, il cui assetto è stato minato sia dalle
istanze ierocratiche di Bonifacio VIII, sia dalla lotta
antiromana di imperatori e di sovrani. Dante vede nell’armonica, pacifica e ordinata coesistenza delle due
autorità universali, l’unica via possibile per salvaguardare le istanze finalistiche, difese sia dalla filosofia politica, sia dal credo cristiano. In questa direzione vano letti
i passi, soprattutto della Commedia, in cui Dante si riferisce a Roma antica, per celebrare i monumenti e le gesta
della sua storia provvidenziale, come pure quelli in cui
passa in rassegna la Roma basilicale e cimiteriale, la
città santa dei pellegrini e il maestoso complesso del
Laterano, che testimonia l’ineguagliabilità del punto di
arrivo di una città da sempre predestinata:
“Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond’ella è vaga,
veggendo Roma e l’ardüa sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra”11.
Volendo sintetizzare le conclusioni di Dante circa la
genesi e la natura dell’impero di Roma antica, non possiamo che evidenziare il mutamento di prospettiva compiuto in rapporto agli autori che l’hanno preceduto.
Superata del tutto la visione propria dell’agostinismo
politico, in ultima analisi antiromana, e riproponendo i
11
DANTE, Paradiso, XXXI, 31-36.
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valori forti della diarchia medievale, poggiante sull’universalità della chiesa e su quella della monarchia, Dante
vede per le due un’unica città capace di esserne il simbolo e la rispettiva capitale ideale: Roma, l’“alma Roma
antica”, “che fè i romani al mondo reverendi” (Par.
XIX, 102), e la Roma cristiana “che si murò di segni e
di martiri” (Par. XVIII, 123). Con una vertiginosa sintesi Dante parla di Roma celeste, di Roma come Paradiso,
così come tante volte nella letteratura patristico–cristiana si era parlato di Gerusalemme, della “Gerusalemme
celeste” come del Paradiso. Nel canto XXXII del Purgatorio per tutti i giusti Dante preconizza una cittadinanza in Roma–Paradiso, alla consumazione di tempi:
“Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano”12.
Nella parte finale del trattato sulla Monarchia, Dante
osserva che l’uomo, essendo provvisto di una duplice
natura, fisica e spirituale, ha pure un duplice fine da realizzare, ossia la felicità terrena e la felicità eterna. L’autonomia del potere temporale da quello spirituale non
toglie che sia necessario un coordinamento: l’imperatore deve usare verso il pontefice quella riverenza che il
figlio primogenito deve al padre, e ciò in virtù del fatto
che la felicità terrena è per molti aspetti ordinata al conseguimento di quella eterna13. Viene così ribadita la
gerarchia medievale dei fini, non per una comoda correzione di rotta, quasi a voler rimediare l’eccessiva divari-
DANTE, Purgatorio, XXXII, 100-102. Per una sintesi prospettica dell'immagine di Roma dopo Dante sino all'umanesimo, cfr. A. GHISALBERTI,
Roma antica tra Medioevo e Umanesimo, in “Studi Umanistici Piceni”, 19
(1999), pp. 129-137.
13
“Cum mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur” ( DANTE, Monarchia, III, 15, 17-18).
12
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cazione proiettata verso il dualismo, bensì per sollecitare una modalità giusta di intendere sul piano operativo le
conclusioni raggiunte a livello speculativo.
3. Dante traccia i confini ideali dell’Europa
Ricordavamo prima che, nell’epistola VII, Dante scrive ad Arrigo VII “che il glorioso potere dei Romani né
dai limiti dell’Italia né dal termine della tricorne Europa
è ristretto”14: tricorne, ossia approssimativamente triangolare, dalla linea del Don alle colonne d’Ercole, alle
isole britanniche.
Il termine orientale dell’Europa è costituito dai monti
della Troade (“lo stremo d’Europa”), da cui mosse l’aquila imperiale, seguendo il viaggio di Enea, che da Ilio
approdò ai lidi del Lazio; l’occidente è dato dalle coste
atlantiche della Castiglia, in cui si situa Calaruega, la
città natale di San Domenico:
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire”
(Pd XII, 56-48)
La Spagna è l’Occidente dell’Europa, dove il dolce
vento di ponente, Zefiro, soffia nella stagione primaverile, quando gli alberi mettono le fronde. Ma le coordinate geografiche acquistano un forte significato simbolico, quello per cui Francesco nascendo ad Assisi, e sorgendo come un sole splendente, fa sì che “chi d’esso
loco fa parole/ non dica Ascesi, che direbbe corto/ ma
Oriente, se proprio dir vuole” (Pd XI, 52-54). E Cala-
Dante, Epistole, VII, 11. In Opere minori, tomo II, Milano-Napoli 1979, p.
565.
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ruega, la città di Domenico, non lontana dal golfo di
Guascogna, aperto sull’oceano Atlantico, situa l’Occidente “non molto lungi al percuoter de l’onde/ dietro a le
quali, per la lunga foga,/ lo sol tal volta ad ogni uom si
nasconde” (Pd XII, 49-51). E’ passato quasi un secolo
rispetto agli anni della stesura del poema, da quando la
geografia d’Europa è stata rinnovata nei suoi confini
simbolici da due grandi campioni dello Spirito: dall’Oriente di Francesco, tutto serafico nell’ardore della carità, e dall’Occidente di Domenico, maestro di sana dottrina, che “in picciol tempo gran dottor si feo” (Pd XII,
85). In questa Europa contrassegnata da confini simbolici, ma suscitati dalla carica dello Spirito, costruiscono la
propria cittadinanza civile e religiosa gli uomini e le
donne del secolo di Dante. Nel cielo del sole sono accolti i personaggi che in un arco cronologico assai vasto,
dal V al XIII secolo, hanno costruito la “sapienza” dell’Europa cristiana. Si tratta grandi maestri delle cattedre
universitarie o di umili frati, di giuristi o di mistici, di
diversa patria di origine, provenienti da diversi paesi
d’Europa: da Severino Boezio al venerabile Beda, da
Alberto Magno o di Colonia a Tommaso d’Aquino, dal
novarese Pietro Lombardo e dal viterbese Bonaventura
da Bagnoregio, divenuti entrambi maestri a Parigi, al
fiammingo Ugo di San Vittore e allo scozzese Riccardo
di San Vittore; ancora inclusi nelle due corone di dodici più dodici sapienti che appaiono nel cielo del Sole
sono Sigieri di Brabante, maestro alla Sorbona (“nel
Vico de li strami”) e Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese “di spirito profetico dotato”: dalla settentrionale
Parigi all’estremo lembo meridionale di San Giovanni in
Fiore, sulla Sila calabra, Dante indica con altri nomi gli
estremi di un tracciato della geografia culturale dell’Europa, sempre in una prospettiva intensamente e variegatamente unitaria.
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Un bilancio del percorso che abbiamo sviluppato, con
l’intenzione di volere essere il più possibile fedele e corretto interprete del pensiero di Dante circa il tema dell’Europa, ci fa constatare come Dante sia un autore
estremamente difficile, a causa della straordinaria ricchezza ed insieme della enorme complessità delle sue
opere. Gettando uno sguardo a ritroso su ciò che abbiamo fatto emergere, si nota subito come tutti i problemi
che abbiamo enucleato contengano una forte marcatura
autobiografica, un intreccio forte tra biografia e opera.
La sua esaltazione dei valori universali di un Impero che
storicamente aveva perso molto terreno, la celebrazione
della missione di Firenze, che nel presente storico era
invece segnata da grandi corruzioni, la difesa dei valori
nobili della tradizione in un momento in cui dominavano i mercanti, i banchieri, i costumi immorali su ogni
fronte, ci fanno cogliere un Dante carico di una dimensione profetica, nel senso di un portatore di valori
straordinari, superiori alla percezione ordinaria, della
diffusione dei quali egli si sente investito in seguito a
una visione, a un mandato dall’alto, lo stesso che l’ha
autorizzato a compiere l’audace viaggio nei tre regni
ultraterreni nella Commedia. Nel caso del pensiero politico universalistico, transnazionale, Dante appare quasi
“profeta di sé stesso”, ossia autorizzato a ciò dalla propria storia famigliare (vedi i Canti di Cacciaguida), dalla
personale vicenda di esule per troppo amore degli ideali
puri della politica, dall’autopercezione delle proprie
capacità intellettuali che lo fanno sentire un diverso, con
una marca di eccezionalità che lo inquieta ed insieme lo
carica di responsabilità.
Può, questo percorso dantesco, essere di aiuto nel
ripensare l’unità europea di oggi? Certamente, se fissiamo lo sguardo sulla sua visione delle radici comuni della
civiltà europea, che affondano nell’Europa medievale.
Ricordiamo che la novità di questa, la destinale sintesi di
romanesimo e cristianesimo, aveva comportato un cam31
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biamento nella stessa geografia, modificata nei suoi tracciati rispetto a quelli dell’impero romano: questo comprendeva il Nord Africa e grosse porzioni di Asia, dunque non era l’Europa. Determinanti per Dante sono le
affinità che accomunano le nazioni europee, le stesse
affinità che ancora oggi uniscono gli spiriti nella tensione verso valori ideali condivisi (libertà, giustizia, solidarietà) dalla umanità europea, più di quanto non li separino i confini nazionali, le identità linguistiche o i particolarismi geopolitici.
All’Europa delle nazioni affiancherei un valore
aggiuntivo, quello dell’Europa dello Spirito, termine
con cui voglio esprimere le coordinate identitarie, identificative dell’appartenenza all’Europa, o anche quella
che si potrebbe dire l’anima dell’Europa. Dante ha abitato tre luoghi: Firenze, le città d’Italia che lo hanno
ospitato esule, l’universalismo europeo inteso come
l’Impero, nel quale dimorò con indomita tensione ideale. Ecco i tre luoghi dell’Europa di Dante, cui appartenne senza essere proprietà esclusiva di nessuno, perché
egli fu un europeo che ha abitato quella terra che è la vita
interiore, quella dimensione vitale che chiamiamo
anima, la quale fa pulsare fortemente, accanto alla vita
del corpo, la vita dell’uomo interiore, la vita dello Spirito, fonte della comunione tra i popoli e capace di suscitare identità forti e durature.
Fuori testo
[Un riferimento che aiuta la memoria di operatori di
Banca a tenere i collegamenti con questa lezione: sulla
moneta di 2 Euro, conio italiano, compare l’effigie di
Dante, mentre nel caso di diverse altre nazioni europee
compaiono teste coronate del presente o del passato.
Dante pertanto è stato assunto come figura altamente
rappresentativa della cultura e della storia del popolo italiano, nel contesto della moneta unica europea].
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Biografia
Alessandro Ghisalberti
Professore ordinario di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere
e Filosofia della Università Cattolica del Sacro Cuore. Già docente di
Storia della filosofia medievale, è' direttore della "Rivista di Filosofia
neo-Scolastica".
Socio della Società filosofica italiana, membro della Siepm (Société
internationale pour l’étude de la philosophie médiévale), membro della
SISPM (Società italiana per lo studio del pensiero medievale), membro del Consiglio direttivo dell’Istituto internazionale di Studi Piceni,
dell’Istituto di Studi umanistici F. Petrarca, del Comitato direttivo del
Centro per le ricerche di Ontologia, Metafisica ed Ermeneutica
(CROME) dell’Università Cattolica di Milano, del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, dell’Istituto “Veritatis Splendor” di Bologna, della Rivista “Medioevo”, dell'Anuario de Historia de la Iglesia.
È socio corrispondente dell’Istituto Lombardo, Accademia di Scienze
e Lettere.
Principali pubblicazioni dell’Autore:
-Guglielmo di Ockham, Milano, 1972 (con quattro ristampe successive; traduzione in portoghese, Porto Alegre 1997).
-Giovanni Buridano dalla metafisica alla fisica, Milano,
1975 (due ristampe).
-Introduzione a Ockham, Roma-Bari, 1976 (tre ristampe).
-Le “Quaestiones de anima” attribuite a Matteo da Gubbio. Edizione del testo, Milano, 1981.
-Medioevo teologico. Categorie della teologia razionale
nel Medioevo, Roma – Bari, 1990; ristampa 2005.
-Giovanni Duns Scoto: filosofia e teologia, Milano, 1995
(Raccolta di saggi di Autori vari).
-Invito alla lettura di Tommaso d’Aquino, Cinisello Balsamo 1999.
-Traduzione italiana e commento di: Tommaso d’Aquino,
Trattato sull’unità dell’intelletto, Milano 2000.
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-Dalla prima alla seconda Scolastica, Bologna 2000 (Raccolta di saggi di Autori vari).
-As raizes medievais do pensamento moderno, Porto Alegre 2001.
-Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, Milano 2001 (Raccolta di saggi di Autori vari).
-La filosofia medievale, Firenze 2006.
-Dante e il pensiero scolastico medievale, Milano 2008.
-Mondo, Uomo, Dio. Le ragioni della metafisica nel dibattito filosofico contemporaneo, Milano 2010 (Studio sulla
metafisica contemporanea, in una miscellanea di saggi di
Autori vari).
-Pensare per figure. Diagrammi e simboli in Gioacchino
da Fiore, Roma 2010 (Raccolta di saggi di Autori vari).
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Prof.ssa Marisa VERNA
Direttrice Dipartimento Scienze Linguistiche di Letteratura Straniera nell’Università Cattolica del S.Cuore di Milano
“il contributo della letteratura francese alla
cultura europea”.
Il tema qui proposto è evidentemente immenso: non
tenterò di coprire nemmeno in parte lo spazio che si aprirebbe davanti a noi, se volessimo prenderlo sul serio. Da
Carlomagno in poi, infatti, la Francia ha edificato un
paesaggio culturale incommensurabile all’interno dei
confini labili e sempre ridiscussi dell’Europa. Dentro
questo paesaggio, potremmo del resto scegliere diverse
prospettive: quella linguistica (il francese come lingua
della diplomazia europea, e della cultura in generale);
quella spirituale (l’apporto della filosofia e della teologia francesi alla costruzione dell’idea stessa del continente); quella politica (evidentemente cruciali sono le
tante opere teoriche e letterarie che hanno posto uno sull’altro i mattoni che compongono l’edificio politico-istituzionale dell’attuale Unione); ultima, ma non meno
rilevante, quella più strettamente estetica, che vede la
Francia in prima linea nella fondazione di correnti, tendenze e stili letterari e artistici, che dal XI° secolo a
buona parte del XX° hanno inciso sulle culture nazionali europee.
Se dovessi fare qualche nome, potrei partire dal
Medioevo e scegliere una manciata di personalità nella
gran messe che mi si offrirebbe davanti: la poesia trobadorica con Guglielmo IX d’Aquitania; ancora, Chrétien
de Troyes, Christine de Pisan, François Villon; potrei
proseguire con il Rinascimento (Ronsard, Rabelais,
Montaigne), per poi passare al Grand Siècle, in cui
giganti come Molière, Racine, La Fontaine e Pascal
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offuscano un quadro fin troppo ricco e complesso per
essere anche solo avvicinato. Il gioco sarebbe molto proficuo se non fosse impossibile: e non è per ignavia se
rinuncio a proporvelo. Taccio quindi di autori che da soli
basterebbero ad occupare diversi volumi: Baudelaire,
Rimbaud, Proust.
L’educazione sentimentale di Flaubert
Parlerò in questa sede di un romanzo soltanto, e di un
tema specifico che mi pare adeguato per sollecitare la
riflessione nei lettori di oggi: tratterò dell’Educazione
sentimentale di Flaubert, e della centralità del problema
economico-politico nella sua struttura. La questione del
denaro appare in quest’opera “persistente in maniera
ossessiva”, e tale da marcare il “tessuto di un’intera
società”.1 Non che il tema ossessionasse Flaubert, il
quale è narratore ‘impassibile’, distaccato dalle vicende
di cui racconta: ma esso ossessionava il mondo che nel
testo è rappresentato, e che finirà stritolato nella terribile macina dell’ironia flaubertiana. Ricordo brevemente
la storia del romanzo e la vicenda ivi narrata.
La genesi del romanzo risale molto in alto nella vita di
Flaubert. Ne esiste infatti una prima versione, del 1845
(l’autore aveva ventiquattro anni), che fu messa da parte
e ripresa molti anni dopo, nel 1864, e terminata nel
1869, quando fu pubblicata da Michel Lévy. Da una giovanile adesione all’ideale romantico, Flaubert aveva percorso molta strada, e la sua estetica era ormai perfetta-
1
Stefano Agosti, Introduzione a Gustave Flaubert, L’Educazione sentimentale, traduzione di Marina Balatti, Universale Economica Feltrinelli, “I Classici”, 1992, p. vii. Tutte le citazioni dall’opera saranno tratte da questa traduzione e saranno indicate fra parentesi nel corpo del testo. Per una conoscenza
approfondita dell’estetica di Flaubert, si veda Sergio Cigada, (Il pensiero estetico di Gustave Flaubert), in Contributi dell’Istituto di Filologia moderna.
Serie francese, vol. III, Milano, Vita e Pensiero, 1961, p. 184-456.
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mente matura: il romanzo è considerato oggi il primo
esempio di narrazione moderna, il cardine dal quale
prenderà il via la svolta che subirà il genere stesso della
narrazione. I giudizi di Joyce, Proust, Kafka, basterebbero a farne una pietra miliare.
Al momento della sua pubblicazione le reazioni furono invece perlopiù negative: le accuse di volgarità (Barbey d’Aurevilly, in una recensione uscita nel “Constitutionnel” del 29 novembre 1869, definisce il romanzo la
storia volgare di un giovane volgare), di faziosità rivoluzionaria (accusa fra le più ridicole, come tenteremo di
dimostrare più avanti), di immoralità, bassezza e simili
amareggiavano Flaubert, ma non lo interessavano: “(…)
tutto ciò non mi smuove. Ma mi domando: a che scopo
pubblicare?”2. Le critiche specificamente estetiche lo
toccavano più da vicino, ma paradossalmente esse sono
la testimonianza più certa dell’innovazione proposta dal
romanzo: tutte biasimano essenzialmente la mancanza di
‘composizione’, l’apparente sconnessione degli eventi
narrati, che paiono sommati senza veramente succedersi
in una progressione logica. Non c’è insomma una vera
storia, e il racconto gira a vuoto. I rari giudizi favorevoli mettevano in luce i medesimi tratti, ma in positivo. Il
commento di Emile Zola vale una citazione:
Flaubert rifiutava ogni affabulazione romanzesca e
centralizzante. Voleva la vita giorno per giorno, come si
presenta, col suo succedersi continuo di piccoli incidenti volgari, che finiscono per farne un dramma complicato e temibile. Niente episodi preparati di lunga mano, ma
l’apparente sconnessione dei fatti: il trantran ordinario
degli avvenimenti, i personaggi che si incontrano, si perdono e si incontrano di nuovo (…); nient’altro che figu-
Lettera a George Sand del 3 dicembre 1869. Consultabili in Correspondance
Flaubert-Sand, Flammarion, Paris 1981.
2
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re di passanti che si urtano su un marciapiede. Si trattava, qui, di una delle concezioni più originali, più audaci
e più difficili da realizzare che abbia mai tentato la
nostra letteratura, che non difetta certo di ardimento.3
Ora, cosa racconta l’Educazione sentimentale? In una
lettera del 1864 a M.lle Leroyer de Chantepie l’autore
descriveva il suo progetto in questi termini: “Voglio fare
la storia morale degli uomini della mia generazione;
‘sentimentale’ sarebbe più vero. È un libro d’amore, di
passione; ma di passione quale può esistere oggi, e cioè
inattiva”. L’apparente ambiguità del titolo, che i contemporanei non mancarono di rilevare (educazione del
sentimento, educazione al sentimento, educazione attraverso il sentimento?) contiene una delle chiavi dell’opera. In una pagina di brogliaccio Flaubert aveva scritto:
“mostrare che il sentimentalismo (il suo sviluppo a partire dal 1830) segue la Politica e ne riproduce le fasi”4.
Sentimentalismo sta qui per Romanticismo, quella visione del mondo e quella cultura di cui Flaubert aveva già
descritto il fallimento in Madame Bovary, e che dall’individuo Emma si estende a tutta una società. L’amore e
la storia, visti uno di fronte all’altra, si erodono a vicenda, in uno specchio che è “una corrispondenza fra due
ambiguità”5.
La vicenda, in breve: il romanzo si apre il 15 settembre 1840 sul battello che da Parigi conduce il giovane
Frédéric Moreau a Nogent e si chiude, sempre a Nogent,
nell’inverno del 1869. Frédéric e Deslauriers, nati e cre-
3
L’articolo fu pubblicato sul “Messager de l’Europe” nel 1875. Il corsivo _
nostro.
4
Gustave Flaubert, Carnets de travail, P.-M. de Biasi (a cura di), Balland,
Paris 1988, p. 296. Salvo diversa indicazione, tutte le traduzioni sono nostre.
5
Stefano Agosti, Introduzione a Gustave Flaubert, L’Educazione sentimentale, p. XXI.
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sciuti nella stessa cittadina di provincia, si incontrano a
Parigi nel 1841. Frédéric, il ricco idealista, studia diritto
senza enusiasmo, Deslauries, nato povero, mira al successo e tenta, fra le altre, la via della politica. Frédéric ha
incontrato sul battello Marie Arnoux, moglie del proprietario de L’Art Industriel, innamorandosene perdutamente (la donna è per lui “un’apparizione”, p. 6). A Parigi si annoia, e perde tempo. Fallisce agli esami, e fallisce in tutto ciò che tenta: la pittura, la politica, l’amore.
È un velleitario. Otterrà comunque la laurea in giurisprudenza, ma darà pessime prove della sua abilità
durante un breve periodo di apprendistato nel paese
natale. Deslauriers, a sua volta, non farà che barcamenarsi fra politica, affari poco puliti e progetti di matrimonio, nell’ansia di ottenere infine il ‘successo’. Torneranno entrambi a Nogent, dove Deslauries sposerà Louise Roque, figlia dell’amministratore del ricco banchiere
Dambreuse, per anni ‘promessa’ a Frédéric. I due amici
si incontrano e rievocano i ricordi di giovinezza, in ultimo il tentativo fallito di entrare in un postribolo (“dalla
Turca”), durante la loro adolescenza. Nel commentare il
ricordo, i due amici pronunciano quello che pare l’epitaffio di tutta una generazione:
“È la cosa migliore che abbiamo avuto”, disse Frédéric.
“Già, forse hai ragione: è la cosa migliore che abbiamo avuto”, disse Deslauriers (p. 420).
In questo breve riassunto ho volutamente ignorato i
numerosi e gravi fatti storici che attraversano il romanzo, cui assistono, quasi da spettatori involontari e
comunque sempre passivi, Frédéric e Deslauriers: la
prima sommossa degli studenti del Quartiere Latino nel
dicembre 1841; la rivoluzione del 22 febbraio 1848, che
porterà alla proclamazione della Seconda Repubblica; la
repressione violentissima della rivolta operaia del giu39
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gno 1848; il colpo di Stato di Napoleone III, che porterà
all’instaurarsi del Secondo Impero. La Storia non è
assente dal romanzo, ne occupa anzi centinaia di pagine,
ma si sbriciola nei minuti fatti, nella casualità, nella
vigliaccheria dei protagonisti. Pure, nessun volume di
storia saprebbe ricostruire con altrettanta profondità il
fluire denso degli eventi, nei quali ci troviamo immersi
come accade nella realtà, ovvero senza la bussola di una
teoria o di un’ideologia.
Parigi nell’Ottocento
L’Educazione sentimentale non è per caso il “romanzo parigino”6 di Flaubert: solo lo spazio narrativo della
capitale era adeguato ad ampliare la rappresentazione
del reale inaugurata in Madame Bovary. In Francia la
Storia si fa notoriamente a Parigi, fulcro di ogni cambiamento e dei sogni di intere generazioni: il dito di Emma
scorreva già sulle cartine della metropoli, nel tentativo di
sfuggire alla noia della provincia normanna.
Parigi è un mito fin dagli anni Trenta dell’Ottocento:
mito letterario e culturale, luogo simbolico della modernità, come testimoniano le centinaia di Guide di Parigi
pubblicate nel corso del secolo, in Francia e nel mondo.
La Bibliographie parisienne pubblicata nel 1887 da
quello che allora si chiamava Museo Storico della città
di Parigi conta 1287 titoli, molti dei quali pubblicati in
Italia, Inghilterra, Germania, Stati Uniti, Sudamerica,
Svizzera, Belgio. Nella Prefazione di Jules Cousin si
legge:
Non si poteva comprendere la storia di Parigi come
quella di ogni alta grande città di Francia (...). Là dove
batte il cuore della Francia, là dove vive l’effervescenza
del suo cervello, là dove si sprigiona il suo genio, la sto6
Flaubert parla appunto di un romanzo parigino nel Carnet 2, in una pagina
datata 12 dicembre 1862, normalmente assunta come data d’inizio della rielaborazione del romanzo giovanile (Carnets de travail, p. 243).
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ria locale prende necessariamente grandi proporzioni e i
fasti della nostra storia letteraria, scientifica, teatrale,
ecc., non possono essere separati dai gloriosi annali
della ‘cité’ (...). Era quindi necessario ampliare il quadro
di conseguenza, fare la biblioteca di Parigi-Capitale,
costituire un fondo che permettesse di studiare in tutte le
sue sfaccettature questo meraviglioso modello ondeggiante e variegato, assemblaggio di tutte le grandezze e
di tutte le debolezze, di tutte le virtù e di tutti i vizi, di
tutti gli splendori e di tutte le ignominie [della] moderna
Babilonia7.
Questa somma di luoghi comuni (l’energia, la varietà,
il carattere antinomico della città, la “moderna Babilonia”) si distribuisce nell’Educazione sentimentale, nei
suoi personaggi, nei fatti raccontati e nei discorsi riportati, fino a generare quel movimento a vortice che inevitabilmente conduce le trottole alla stasi. Nulla, infatti, lo
sostiene: nessun valore, nessuna speranza.
Se Balzac aveva completamente aderito al mito della
nuova Parigi, non così Flaubert, che dal centro dell’occhio del ciclone guarda frantumarsi un mondo del quale
pure sa di fare parte. Al centro del mito della capitale
stanno i Boulevards, denominati da Balzac la nuova
“Senna asciutta” della città8. Luogo simbolico, crogiuolo della dinamica stessa del mito, le recenti grandi vie di
comunicazione attorniano il nuovo centro - economico,
sociale, culturale, politico -, della Parigi moderna: la
7
Bibliographie parisienne. Tableaux de moeurs (1600-1800). Par Paul Lacombe, Parisien, Chez P. Rouquette, Libraire, Paris 1887, pp. 249 ; ed. reprint
LACF Editions, Paris 2008, coll. Ç Histoire du Livre È, n. 1. Oggi la Bibliothèque Historique de la Ville de Paris - separata dal museo della capitale, il
Carnavalet.
8
Balzac dà questa definizione dei Boulevardss in un articolo (Histoire et
physiologie des Boulevardss de Paris), pubblicato per la prima volta a San Pietroburgo, oggi in Îuvres diverses, Conard, 1940, III, p. 611.
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Borsa, i quartieri dei nuovi ricchi attorno alla rue de la
Chaussée d’Antin.
La trasformazione della città, inaugurata da Napoleone I, non ha praticamente conosciuto soste da allora (si
può dire che Parigi sia ancora oggi una delle città al
mondo più frequentemente ridisegnate da piani urbanistici di ammodernamento globale); le modifiche apportate al tessuto urbano diventano particolarmente importanti a partire dagli anni Trenta del XIX° secolo, con i
Prefetti Chabrol e Rambuteau, e subiranno un’accelerazione senza precedenti con il Secondo Impero e la prefettura del Barone Haussmann (a partire dal 1853). La
costruzione di numerosi “passaggi coperti” (fra il 1822 e
il 1837) permette uno sviluppo rapido del commercio al
dettaglio, specie dei cosiddetti “magasins de nouveauté”, antesignani dei grandi magazzini, in cui il consumo
genera desiderio e il desiderio consumo. Ma sono
soprattutto i Boulevards a cambiare il volto e la struttura sociale di Parigi: 110 nuove vie di comunicazione
sono inaugurate già sotto la prefettura Rambuteau,
secondo un programma monumentale e grandioso evidente. L’evoluzione della città medievale e barocca in
città delle prospettive, delle rette e dei tracciati razionali è cominciata prima di Haussmann, sconvolgendo nel
profondo il tessuto sociale ed economico della capitale:
le speculazioni edilizie che si accompagnano alle campagne di demolizione e ricostruzione lanciate dai due
prefetti spostano non solo enormi capitali, ma anche
migliaia di persone, respinte al di fuori del nuovo cuore
della città, verso le cinture popolari, o verso i quartieri
medievali considerati immodificabili (il Quartiere Latino e il Marais).
Ora, la metafora usata da Balzac (la Senna asciutta)
per definire i Boulevards indica chiaramente lo spostamento del baricentro dalla ‘vecchia’ Parigi, che si raccoglieva attorno a Notre-Dame e al Palais Royal, centri
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simbolici del potere trascendentale (emanato per diritto
divino), alla Parigi moderna in cui si manifesta la nuova
Francia egualitaria nata dalla Rivoluzione: essi sono lo
spazio simbolico della mescolanza sociale, in cui i vari
‘ordini’ un tempo separati s’incontrano e si confondono.
Come la città dell’Ancien Régime si era organizzata
attorno al suo fiume, così la nuova città si organizza
attorno al ‘fiume’ delle vie tracciate dalla società dell’industrializzazione e dal nuovo potere finanziario. Da
uno spazio pubblico altamente simbolico quale era la
Cité dominata dalla Cattedrale si è passati ad uno spazio
pubblico dedicato unicamente al culto delle merci che vi
si espongono, del prodotto sempre nuovo, del passaggio
rapido. Il flâneur è infatti un personaggio tipico del
romanzo balzacchiano, che bighellona nei Boulevards
per vedere ed essere visto, per avere l’occasione di
incontrare i protagonisti dei nuovi poteri.
I Boulevards di Flaubert
Adottando il punto di vista variabile e lo spostamento
di focalizzazione nella tecnica narrativa, Flaubert crea
un’impressione di sbriciolamento, delle immagini insolite della città, e un’idea di movimento incessante che
invece di rispondere ai clichés delle Guide di Parigi
assume il carattere vano e risibile in cui si trova immersa la realtà sociale che l’autore è impegnato a descrivere. Anche nel romanzo flaubertiano i Boulevards sono
l’unico punto di riferimento stabile: ma la descrizione
flaubertiana rovescia il bagaglio di immagini esaltanti
normalmente associate alla città (il “meraviglioso
modello ondeggiante e variegato” menzionato dalla
Bibliographie parisienne) e immerge il negativo della
rappresentazione nel reagente biancastro della banalità.
Luogo di cristallizzazione e della produzione del desiderio (vi si vendono degli oggetti sempre nuovi, che si è
obbligati a possedere se si vuole far parte del ‘gran
mondo’), il Boulevards diventa per Flaubert la vetrina
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della città-spettacolo in cui i processi di identificazione
sono diventati risibili e derisori.
Immersi in un mondo segnato dalla venalità e dall’artificialità, i personaggi del romanzo sono votati alla
‘riproduzione’ dei comportamenti o delle idee di altri. Il
banchiere Dambreuse è un esempio fra gli altri: pur
essendo nato nobile (conte D’Ambreuse), ha mutato
nome quando il vento ha girato verso la borghesia, si
rivolge all’industria di cui ha colto il prossimo sviluppo,
e “con l’orecchio in ogni ufficio, la mano in ogni impresa, spiando le buone occasioni, sottile come un greco e
laborioso come un alverniate, aveva accumulato una
fortuna a detta di tutti considerevole” (p. 20; i corsivi
sono nostri). Le locuzioni scelte dall’autore per definire
Dambreuse rientrano nella grande palude del luogo
comune, in cui sono invischiati tutti i personaggi: il banchiere è astuto come un greco, (il Trésor de la langue
française menziona “greco” fra i sinonimi di “ladro”,
“scroccone”), e laborioso come un alverniate, affermazione che per la sua stoltezza merita certo di essere attribuita a quella doxa che trasforma in verità ogni diceria.
Flaubert è avvezzo a questo gioco: fra le sue pubblicazioni postume c’è un esilarante Dictionnaire des idées
reçues9, in cui preconcetti, detti, sentenze e sciocchezze
di ogni tipo sono riportate secondo l’ordine sistematico
del dizionario, in una doppia volontà di parodia e di
‘vendetta’ sulla stupidità umana.
Il celebre discorso indiretto libero inaugurato in
Madame Bovary è diventato nell’Educazione sentimentale talmente fluido da rendere quasi impossibile distinguere nettamente la variazione del punto di vista: chi sta
9
Si veda ad esempio l’edizione diplomatica dei tre manoscritti ritrovati con
questo titolo: Liguori, Napoli, 1966 e Nizet, Parigi 1966, a cura di Lea Caminiti.
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descrivendo il ricco Dambreuse? Il Narratore, Frédéric,
o il soggetto informe rappresentato dalla Vox populi?
Nell’epigrafe a uno dei manoscritti del Dizionario dei
preconcetti si legge infatti: “Vox populi, vox Dei. Sagesse des Nations”. Segue una citazione dalle Massime di
Chamfort, che definisce idiozia qualunque idea comunemente accolta, in quanto essa “è piaciuta alla massa”.
Qui sta il paradosso quasi miracoloso dell’Educazione
sentimentale: la volontà di “fare arte, scrivere la più
bella prosa che sia mai esistita”, a partire dalla “mediocrità atroce del mondo”10. E atroce è la dissoluzione del
reale che si realizza in queste pagine in un costante
rimando di banalità e clichés, cui contribuisce in buona
misura anche il ruolo inedito assunto dal giornalismo in
questi anni dell’Ottocento. Flaubert insite infatti sulla
messa in scena di un nuovo potere: la stampa. Portaparola di una cultura edonista e di un’arte commerciale
(che comincia a essere riprodotta, venduta, imitata), la
stampa costituisce una nuova potenza la cui vacuità non
sfugge al cinismo di Flaubert. Non a caso il signor
Arnoux è proprietario di un “negozio” in cui si vendono
riproduzioni di manufatti artistici e una rivista dal titolo
rivelatore: L’Arte industriale.
Subito dopo essere stato presentato al signor Dambreuse, Frédéric s’imbatte nella vetrina del commercio
di Arnoux, vero e proprio simulacro in miniatura del
mondo rappresentato nella narrazione:
Le alte vetrate trasparenti offrivano allo sguardo, abilmente disposti, disegni, statuette, stampe, cataloghi,
alcuni numeri dell’Art Industriel; i prezzi dell’abbonamento erano ripetuti sulla porta, decorata al centro dalle
10
Stefano Agosti, Introduzione a Gustave Flaubert, L’Educazione sentimentale, p. XI.
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iniziali dell’editore. Appoggiati ai muri si scorgevano
grandi quadri dalla vernice lucente, e verso i fondo due
cassapanche cariche di porcellane, di bronzi, di oggetti
curiosi e allettanti; tra di esse stava una scaletta chiusa in
alto da una tenda di panno. Un antico lampadario di Sassonia, un tappeto verde sul pavimento e un tavolo intarsiato davano all’ambiente più l’aspetto di un salotto che
di un negozio (p. 22).
Le alte vetrate, il bric-à-brac di oggetti dal dubbio
gusto, le “curiosità”, la rivista stessa: la città esaltata da
Balzac nei suoi romanzi è qui descritta senza l’adesione
del Narratore, e tuttavia non è descritta dall’alto. Gli
“interminabili muri di vetro”, una sequela di vetrine e di
merci che occupavano ormai una buona parte dello spazio dei Boulevards, e di cui ci si lamentava già nella
Parigi della metà del secolo, sono qui descritti come
l’oggetto del desiderio di Frédéric, doppio e maschera
dell’autore stesso. La gioia esaltante che il protagonista
si attendeva di trovare nella capitale non arriva, e anche
i corsi di diritto lo annoiano: frequenta le lezioni per
quindici giorni, e abbandona le Istituzioni di diritto
romano alla Summa divisio personarum, che non a caso
concerne il diritto della persona. La prima Summa divisio del giurista romano Gaio recita infatti:
E certamente la maggiore differenza nel diritto delle
persone è questa, che tutti gli uomini o sono liberi o sono
schiavi (G. I, 9-12).
La Storia
Come ho annunciato nella prima parte di questa
comunicazione, la Storia, con il suo tragico fardello di
violenza e morte, è presente in modo massivo nel
romanzo. Essa è tuttavia disciolta nel fluire informe
degli eventi, e tutti i personaggi paiono subirla senza
comprenderla. Il disprezzo di Flaubert per la politica è
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noto, e attestato da numerose lettere o testimonianze di
amici e artisti dell’epoca. Maxime du Camp, fra gli
amici più cari di Flaubert, pubblicò nel 1876 un volume
di ricordi sulla Rivoluzione del 1848: si tratta di una
serie di appunti annotati giorno per giorno, in cui racconta le esperienze vissute insieme a Flaubert e a Bouilhet
fra il 1847 e il 1848. Un confronto fra i ricordi di Du
Camp e la corrispondenza di Flaubert è interessante per
valutare la differenza nella percezione degli eventi da
parte dei due amici, specie in relazione al risultato artistico rappresentato dal romanzo stesso. Nel 1847 i tre
amici avevano assistito a un Banchetto Riformista a
Rouen, per “vedere come si agitano le folle”. Nei banchetti riformisti si riunivano politici dell’area repubblicana o moderata per promuovere riforme al regime di
Luigi Filippo. Sarà proprio il divieto di indire uno di
questi banchetti, il 22 febbraio 1848, a scatenare la
prima ondata rivoluzionaria.
I ricordi di Du Camp:
Mai una simile valanga di luoghi comuni peggiorati
da frasi fatte e da cacofonie d’immagini si era rovesciata su di noi. Noi eravamo dei letterati che vivevano nell’opera di Omero, di Goethe, di Shakespeare, di Hugo,
in Musset, di Ronsard, preparavamo i nostri viaggi e mai
aprivamo un giornale politico11.
Flaubert in una lettera a Louise Colet, dicembre 1847:
Ho tuttavia visto ultimamente qualcosa di bello e sono
ancora dominato dall’impressione grottesca e pietosa a
un tempo che questo spettacolo mi ha lasciato. Ho assistito a un Banchetto Riformista!
Maxime du Camp, Souvenirs de l’Année 1848, Hachette, Paris 1876, pp. 4043.citato in Lorenza Maranini, Il ’48 nell’Education sentimentale, in Il ’48
nella struttura dell’Education sentimentale e altri studi francesi, Nitri-Lischi,
Pisa 1963, pp. 11.117.
11
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Lo scetticismo è il medesimo, così come l’ideale dell’Arte pura, ma la concisione di Flaubert si distingue
nettamente dall’atteggiamento di orgogliosa superiorità
assunto da Du Camp. Gli esempi di luoghi comuni uditi
in quell’occasione (l’oratore era Odilon Barrot, un candidato legisstimista moderato), ne sono una prova:
Du Camp:
“il carro dello Stato”, “la coppa deludente della popolarità”, “L’Idra dell’Anarchia”, “la fatale cecità del potere”, “la sterile ambizione che semina le torce della discordia”, “la moralizzazione dei poveri”.
Flaubert:
“il timone dello Stato”, “l’abisso verso il quale corriamo”, “l’onore del nostro stendardo”, “la fraternità dei
popoli”.
Flaubert riporta un minor numero di esempi e di episodi, e soprattutto riporta unicamente quelli che gli paiono espressivi, ossia corrispondenti al sentimento delle
cose, oltre che al suo proprio, di nausea, disgusto, amarezza. Nella stessa lettera lo scrittore parla infatti dell’
“impressione di disgusto” lasciatagli da quell’esperienza, delle “triste opinione sugli uomini”, dice di sentirsi
“gelare fin nelle viscere”, e che “l’amarezza [vi] entra
nel cuore di fronte a delle sciocchezze così deliranti, a
delle stupidità così scatenate”. Se Du Camp si limita a
giudicare un mondo la cui stoltezza lo fa ridere, Flaubert
si giudica di fronte a quello stesso mondo, di cui è a un
tempo osservatore e protagonista. In questo senso può
essere assunta l’analogia Flaubert/Frédéric; in una lettera a Du Camp, l’autore del romanzo si descrive così:
Sai bene che io sono l’uomo degli ardori e degli sfinimenti. Se tu sapessi tutte le invisibili reti d’inedia che
circondano il mio corpo e tutte le nebbie che mi fluttua48
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no nel cervello! Provo sovente una fatica da far morir di
noia ogni volta che si tratta di fare qualsiasi cosa, ed è
grazie a immensi sforzi che finisco per cogliere l’idea
più chiara. La mia giovinezza mi ha immerso in non so
quale oppio d’istupidimento per il resto dei miei giorni.
Ho la vita in odio. La parola è partita, che resti! Sì, la
vita, e tutto ciò che mi ricorda che bisogna subirla. È un
supplizio mangiare, vestirmi, stare in piedi. Mi sono portato questo sentimento dovunque, al liceo, a Parigi, sul
Nilo, nel nostro viaggio12.
Nel capitolo I della III parte dell’Educazione sentimentale, dove si descrivono le giornate culminanti della
rivolta del febbraio 1848, Flaubert distribuisce molte
delle banalità ascoltate, molti degli episodi riportati
anche da Du Camp, ma tutto è come appiattito in una
desolante insignificanza, cui Frédéric assiste, travolto
come un sughero dall’acqua di un fiume. Nell’attacco
inutile al Palais-Royal — il re è già fuggito —, si susseguono alcuni degli fatti più crudi del racconto: il saccheggio del popolo ormai esaltato dalla vittoria, la furia
delle masse assetate di vendetta. Queste scene alternano
tuttavia con episodi che Flaubert aveva già definito nella
sua lettera a Louise Colet “sciocchezze deliranti”, “stupidità scatenate”. Frédéric è in compagnia di Hussonnet,
che lavora come autore di réclames per i giornali di
moda e per l’Art Industriel, il commercio degli Arnoux.
Come Frédéric è un fallito, il simulacro di un autore,
(scrive per denaro, compone per vendere oggetti). A differenza di lui però, lo fa con il cinismo consapevole di
chi ha compreso come va il mondo, e nell’osservare i
fatti del 24 febbraio non risparmia il sarcasmo. Nell’ondata di folla che li ha travolti nel Palazzo Reale, Hus-
12
Lettera del 21 ottobre 1851. Citata in Il ’48 nell’Education sentimentale, p.
23.
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sonnet è colui che osserva lucidamente, divertendosi a
commentare i fatti con lo scherno di Du Camp. Cito dal
romanzo:
All’improvviso risuonarono le note della Marsigliese.
Hussonnet e Frédéric si affacciarono sulle scale: era il
popolo. Si rovesciò su per lo scalone un’ondata tumultuosa di teste scoperte, di elmetti, di berretti rossi, di
baionette e di spalle, con una violenza tale che alcuni
erano come inghiottiti in quella massa brulicante che
saliva, saliva sempre come un fiume risospinto dall’alta
marea, con un vasto muggito e un impeto irresistibile. In
cima, la folla si disperse, e il canto cadde.
Si sentiva soltanto il calpestio di tutte quelle scarpe e
il mormorio uniforme di tutte quelle voci. Ogni tanto,
però, un gomito troppo compresso sfondava una vetrina;
da una console un vaso o una statuetta rotolavano a terra.
I rivestimenti di legno, premuti dalla folla, scricchiolavano. I visi erano arrossati, e il sudore colava a larghi
rivoli. Hussonnet se ne venne fuori con questa osservazione:
“Non si può dire che gli eroi abbiano buon odore!”
“Sapete essere terribilmente irritante”, disse Frédéric.
(pp. 284-285. I corsivi sono miei).
Le metafore usate per descrivere il popolo in rivolta
sono le medesime che costellavano i quotidiani dell’epoca, e che molta pubblicistica tardo-romantica non
esitò ad assumere come tratti valorizzanti (il fiume, il
muggito, l’impeto). La scrittura di Flaubert assorbe le
stesse analogie dall’esterno, e l’ironia del Narratore è
punteggiata dai commenti feroci di Hussonnet. Nell’episodio che segue questo delicato gioco di rimandi diventa ancora più evidente. Costretti dal fluire della folla, i
due amici si trovano nella sala del trono, sul quale “era
seduto un popolano con la barba nera, con la camicia
aperta e l’aria ilare e stupida di un fantoccio” (p. 285).
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La battuta di Hussonnet ricorda da vicino i commenti
sprezzanti di Du Camp, e nello stesso tempo impasta e
rifonde nella scrittura narrativa il ‘rumore di fondo’ dei
discorsi pubblici, degli articoli di giornale, della vox
poluli:
“Che mito! disse Hussonnet. “Eccolo, il popolo sovrano!”
Il trono, sollevato sopra le teste, attraversò ondeggiando tutta la sala.
“Accidenti come beccheggia! Il vascello dello Stato è
sballottato da un mare in tempesta! Che danza selvaggia!” (p. 285. Il corsivo è mio).
Ora, se le metafore pronunciate da Hussonnet sono del
medesimo tipo di quelle annotate sia da Flaubert che da
Du Camp dopo il banchetto riformista (vascello dello
Stato, mare in tempesta, danza selvaggia), è il Narratore
che attribuisce una colorazione tragica all’evento, con
quel verbo “ondeggiare”, realistico e piano, ma così pregno del pericolo che incombe sullo ‘stupido fantoccio’
seduto sul trono. La furia che segue è descritta con una
successione di dettagli minuti (gli oggetti fatti a pezzi
dalla folla, elencati uno a uno) e al contempo atroci,
come quello della prostituta drappeggiata in Statua della
Libertà:
In anticamera, in piedi su un mucchio di panni, stava
una puttana, nella posa della Statua della Libertà: immobile, con gli occhi sbarrati, faceva paura (p. 286).
In un passo di poche righe Flaubert riporta poi un fatto
presente nei Ricordi di Du Camp. Anche in questo caso
il confronto è utile per comprendere l’atteggiamento dell’autore nei riguardi della Storia.
Du Camp:
In piedi sullo stilobate di una delle colonne del porti51
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co, guardavo attentamente un gruppo di uomini che marciavano con regolarità militare e che si dirigevano verso
di noi. Il gruppo di avvicinò, e riconobbi dei soldati della
Guardia Municipale a cavallo, senz’arma alcuna e in
bassa uniforme. Arrivati a dieci passi da noi, quegli
uomini si tolsero il berretto della divisa, e, con un sorriso
forzato, salutarono. Uno di essi pronunciò una breve
frase e io distinsi le parole “Popolo e sacra causa”. Dietro di me, udii armare dei fucili. Flaubert e io ci scambiammo un’occhiata e ci comprendemmo. Con slancio,
fummo presso le guardie, abbracciandole, stringendo
loro la mano e chiamandole “nostri fratelli perduti”13.
Flaubert:
Fuori avevano appena fatto tre passi che incrociarono
un plotone di guardie municipali in bassa uniforme, le
quali, togliendosi il berretto, e scoprendo con quel gesto
le teste un po’ calve, salutarono il popolo con un profondo inchino. A tale attestazione di rispetto i vincitori
coperti di stracci si ringalluzzirono. Anche Hussonnet e
Frédéric non poterono fare a meno di provare un certo
piacere (p. 286).
L’espressione “vestiti di stracci”, posta tra “vincitori”
(termine molto forte, quasi definitivo), e “si ringalluzzirono”, indebolisce il valore del sostantivo e lo carica di
significati ironici, quasi grotteschi. Tutto è rimesso in
discussione: il senso della vittoria e la sincerità del saluto delle guardie. Ma soprattutto è rimesso in discussione
il coraggio dei due amici, che provano anch’essi “una
certa soddisfazione”. Frédéric, che non sa mai dove collocarsi, si pone qui tra i “vincitori coperti di stracci”. Nei
commenti divergenti dei due amici si annulla tuttavia la
13
Maxime du Camp, Souvenirs de l’Anée 1848, Hachette, Paris 1876, pp. 9798.
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possibilità di un senso, in un contrappunto musicale e
funebre a un tempo:
“Andiamo via”, disse Hussonnet, “questo popolo mi
dà il voltastomaco” (p. 286)
(…)
“Che cosa conta?” replicò Frédéric, “per me il popolo
è sublime” (p. 287).
Frédéric è l’uomo di “tutte le debolezze” e si lascia
“travolgere dalla pazzia universale” (p. 295); parlando di
sé con Du Camp, Flaubert si era definito “l’uomo di tutti
gli ardori e tutti gli sfinimenti”. Frédéric è dunque Flaubert, con la differenza che l’autore sa guardare se stesso
dentro il flusso degli eventi. Come aveva già fatto con
Emma Bovary, Flaubert realizza nel personaggio di Frédéric quello che Sergio Cigada ha definito il “triangolo
logico”: il Narratore guarda se stesso guardare, e riesce
in questo modo ad attribuire un valore alle cose, nella
lucida bellezza dell’arte14.
L’occhio dell’artista non è più, come in Balzac, un
fascio di luce che rischiara una certa zona del reale, ma
un faro che gira costantemente attorno a se stesso, che
vede tutto ciò che accade, comprese le reti che legano e
oppongono cosa a cosa, nell’infinito rimbalzo della vita.
La Storia è dunque presente nell’Educazione sentimentale, ma è presente come critica di se stessa e dei suoi
protagonisti, le cui ragioni si compongono e si annullano a vicenda. Più di Frédéric, Parigi è la vera protagonista del romanzo: centro di una nuova dialettica della Storia, vortice nel quale essa si azzera.
Dopo aver assistito agli orrori delle giornate di giugno
– in cui i borghesi si sono vendicati degli operai, con
14
Così Sergio Cigada in Gustave Flaubert, in (Genesi e struttura tematica di
Emma Bovary), in Contributi del seminario di Filologia moderna. Serie francese, vol. I, Milano, Vita e Pensiero, 1960, p. 185-277.
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uguale ferocia — Frédéric non ha altro pensiero al di
fuori del suo amore per Madame Arnoux:
La mattina provò un senso di gioia, di riconquistata
indipendenza; era fiero di aver vendicato la signora
Arnoux sacrificandole una fortuna [il protagonista ha
appena rinunciato a un ricco matrimonio per rispettare il
ricordo del suo antico amore per Marie].Poi fu preso da
una specie di stupore per suo gesto; si sentiva come
spezzato da una stanchezza infinita. La mattina del giorno dopo, seppe dal suo domestico le ultime notizie: era
stato decretato lo stato d’assedio, l’Assemblea era stata
sciolta e una parte dei rappresentanti del popolo si trovava a Mazas. Frédéric era talmente preoccupato per sue
faccende che quelle del paese lo lasciarono indifferente
(p. 409).
L’indifferenza del protagonista al colpo di Stato dice
l’inanità del suo interesse per la Rivoluzione, il cui fallimento incarna in ogni modo la rovina di tutta la gioventù cresciuta negli ideali romantici: come Flaubert aveva
annunciato, il romanzo può essere definito la “storia
morale degli uomini della [sua] generazione”. Alla fine
del capitolo quinto della III parte ogni illusione sarà perduta: nel vedere il repubblicano Sénécal uccidere l’operaio Dussardier, Frédéric non ha altre reazioni se non l’atarassia (“e Frédéric, inpietrito, riconobbe Sénécal”, p.
411).
Sénécal gli era stato presentato nel 1841 come un
futuro Saint-Just, che per dieci anni aveva cavalcato
l’onda rivoluzionaria: il suo passaggio nelle fila di
Napoleone lascia il protagonista semplicemente
“béant”15: l’efficacia del gerundio francese si estende a
quel grande ‘bianco’ temporale che separa il capitolo V
15
Cito dall’edizione francese Folio Pocket, 1998, p. 507.
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dal VI, sedici anni “entro cui precipitano e si dissolvono,
dal punto di vista della rappresentazione, gli eventi dell’Educazione sentimentale”16. L’ultimo incontro con il
gande amore della sua vita, Marie, sarà un grottesco fallimento, e sappiamo come si concluderà, nel 1869, il
romanzo: con la rievocazione nostalgica di un’avventura mancata in un postribolo.
Conclusioni
Vale la pena a questo punto domandarsi: in che misura questo romanzo contribuisce alla costruzione di una
coscienza europea? Vale la pena di attardarsi su un nichilismo così desolato, un così amaro bilancio di una generazione e di una cultura? Flaubert non riteneva che un’opera d’arte dovesse essere portatrice di valori etici, riteneva anzi indegno dell’arte quell’autore che avesse infuso le proprie convinzioni in un testo letterario. Unico
valore dell’artista è l’arte stessa, “la più bella prosa che
sia mai esistita”.
Ma quella stessa prosa ha per finalità la resa del vero,
il sentimento delle cose nella loro più profonda necessità. Come aveva già osservato la Maranini
Flaubert è passato, senza possibile discussione, dalla
cognizione particolare dei fatti, alla ‘visione’ di essi in
un collegamento di ‘necessità’, e, quindi, alla ‘conoscenza’ di essi. Al loro senso metastorico, vale a dire,
poetico (…) dalla cronaca dispersiva si passa allo stile
espressivo (…) dalla cronaca alla quale il giudizio si
sovrappone come qualche cosa di estraneo o di aggiunto, si arriva a una narrazione che è già in se stessa, oltre
che ‘stile’ (o, in altri termini, espressione che si realizza
attraverso un ritmo nuovo imposto alle parole), anche
16
Stefano Agosti, Introduzione, p. XV.
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lucido esame delle sequenze dei fatti, e, quindi, critica
storica17.
Ora, non si esce indenni dall’Educazione sentimentale: se lo si legge con attenzione, riconoscersi in questo
romanzo è inevitabile, così come inevitabile è ritrovare
fra le sue pagine le questioni e i dibattiti che il nostro
tempo crede di aver inventato. Guardando se stesso
guardare, Flaubert può ancora insegnarci a vedere: a
comprendere noi stessi e la storia che ci precede, ma
anche quella che ci sta di fronte. Non certo per proporre
un insegnamento (egli ne avrebbe avuto orrore), ma per
offrirci una prospettiva di lucidità, un interrogativo che
l’arte, quando è tale, lascia sempre aperto.
17
Lorenza Maranini, Il ’48 nell’Education sentimentale pp. 53 e 60.
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Biografia
Marisa Verna
1995 : ottiene di dottorato in Scienze Linguistiche, filologiche e Letterarie con una tesi sull’Opera teatrale di Joséphin Péladan.
1995-2000: collaboratrice ed esperta linguistica di lingua francese
Ottobre 2000: ricercatrice universitaria di Letteratura francese
Ottobre 2002 Professore Associato di Letteratura francese.
Novembre 2004 Professore Ordinario di Letteratura Francese.
Novembre 2010 Direttore del Dipartimento di Scienze Linguistiche e
Letterature Straniere
Curriculum Accademico.
Membro della scuola dottorale in scienze linguistiche, filologiche e
letterarie. Collabora con le Università di Paris VII Paris III per co-tutele dottorali (tre dottorati attualmente in corso).
Partecipante ai seguenti progetti di ricerca: Simbolismo e Naturalismo
fra lingua e testo, diretto da Sergio Cigada (PRIN 2001) ; la Sinonimia
fra langue e parole, diretta da Sergio Cigada, Co-finanziamento ministeriale (PRIN 2005); Il canone drammatico europeo, diretto da Annamaria Cascetta;. Tiene corsi di letteratura francese per la Facoltà di
Scienze Linguistiche e Letterature Straniere, di Drammaturgia francese per la Facoltà di lettere e ha tenuto corsi di lingua francese per la
filosofia; ha tenuto il corso di Lingua e Civiltà dei paesi francofoni per
la Scuola di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario dell'Università Cattolica di Milano. E’ membro del C.I.T. (Centro d’Iniziativa
teatrale) diretto da Annamaria Cascetta.
Eletta Direttore del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterature Straniere a decorrere dal 1 novembre 2010.
Eletta nel direttivo della Società Universitaria di Studi di Lingua e Letteratura Francese il 19 novembre 2010. Il nuovo direttivo è entrato in
funzione a partire dal gennaio 2011.
Nominata nella direzione della rivista Analisi Linguistica e Letteraria
a partire dal 2011.
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Principali pubblicazioni dell’Autore:
1991 Un esempio di teatro simbolista: la “Sémiramis” di
Péladan
“Aevum”, Rassegna di scienze Storiche linguistiche e filologiche, 3, Anno LXV, settembre-dicembre
1991, pp. 579-607.
1992 Strutture simboliste a teatro: l’esempio di Péladan, in
Il SimbolismoFrancese, la poetica le strutture tematiche, i
fondamenti storici, Atti del Convegno tenutosi all’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano dal 28 febbraio al 2
marzo 1992, Carnago (Varese), SugarCo ed., 1992, pp. 187209.
1994 Teorie estetiche teatrali: Péladan “L’Analisi Linguistica e Letteraria”, 2, Anno II, 1994, pp. 499-554.
1996 “Cœur en peine” di Joséphin Péladan: storia di
un’anima “L’Analisi Linguistica e Letteraria”, 2, Anno IV,
1996, pp. 463-80.
1997 Il teatro inedito di Joséphin Péladan “Studi Francesi”, 123, settembre-dicembre 1997, pp. 495-509.
1999 Dal “Petit Théâtre des Marionnettes”a Ubu roi”:
verso l’avanguardia “Il castello di Elsinore”, quadrimestrale
di teatro, 35, anno XII, 1999, pp. 17-36.
2000 L’opera teatrale di Josephin Peladan. Esoterismo e
Magia nel Dramma simbolista, Vita e Pensiero, Milano 2000,
435.
2002 Raccontare il viaggio: descrizione o invenzione? Il
viaggio nella scrittura francofona di fine Ottocento, in Tipologie di testi e tecniche espressive, a cura di C.M. Giovanni
Gobber, Vita e Pensiero, Milano 2002, 109-109.
2003 Colore e parola. Le Livre d’Art. Il sogno della fusione delle arti in una rivista fin de siècle, in Lingua cultura e
testo. Miscellanea di studi francesi in onore di Sergio Cigada, a cura di Bernardelli Giuseppe Galazzi Enrica, Vita e Pensiero, Milano 2003, 12.
2005 Vers un art total. Synesthésie théâtrale et dramaturgie symboliste, «Revue histoire du théâtre», 2005, ottobre,
307-332.
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2005 La Pantomime, une structure poétique et dramatique,
«L’Analisi Linguistica e Letteraria», 1-2005, 93-93.
2006 “La Révolte” di Villiers de l’Isle-Adam: storia di un
malinteso, in Atti del Congresso «Simbolismo e Naturalismo:
un confronto» (Milano, 8-11 marzo 2000), Vita e Pensiero,
Milano 2006, 463-490.
2006 La synesthésie comme véhicule d’extase dans le
“Côté de chez Swann” de Marcel Proust,, in Atti del Congresso CD ROM Université de la Savoie, Chambéry 2006,
vol 2, Dominique Lagorgette éd. , pp. 510-24.
2006 Simbolismo e Naturalismo: un confronto, Vita e Pensiero, Milano 2006, 560 (a cura di).
2006 La Pantomime entre Symbolisme et Naturalisme,
«L’Analisi Linguistica e Letteraria», 2006, 2-2006, 325-346.
2007 Baudelaire e Faust: storia di Una (falsa) incomprensione, «Humanitas», 2007, 62, 969-988.
2008 Jouir des aubépines: sur quelques pages de Proust et
la synesthésie, in Correspondance des sens et perception
esthétique: aspects intermédiaux dans l’oeuvre de Marcel
Proust, in Die Korrespondenz der Sinne. Wahrnehmungsästetische und intermediale Aspekte im Werk von Proust, a cura di
U. Felten, Wilhelm Fink, Leipzig 2008, 269-283.
2008 La signora delle Camelie. Drammi in cinque Atti di
Alessandro Dumas figlio. Traduzione e note di Marisa Verna,
DSU Diritto allo studio Università Cattolica, Milano 2008,
184 (a cura di).
2008 Proust et l’art de la langue. La synonymie comme idolâtrie linguistique, in La Sinonimia tra langue e parole nei
codici italiano e francese, a cura di M. Verna - S. Cigada Vita
e Pensiero, Milano 2008, 231-254.
2008 La Sinonimia tra langue e parole nei codici italiano
e francese, a cura di M. Verna - S. Cigada Vita e Pensiero, pp.
630.
2009 Proust e lo spazio Marisa Verna e Alberto Frigerio (a
cura di), Atti della giornata di studi, 15 ottobre 2009, Cives
Universi e EduCatt, Milano 2009, pp. 99, ISBN 978-888311-717-6.
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2009 Finestre, serre, telescopi, acquari: lo sguardo dall’esterno nella descrizione proustiana, in Proust e lo spazio
Marisa Verna e Alberto Frigerio (a cura di), Atti della giornata di studi, 15 ottobre 2009, Cives Universi e EduCatt, Milano 2009, pp. 39-54.
2010 Simbolismo e Naturalismo tra lingua e testo, Vita e
Pensiero, Milanno 2010, Sergio Cigada e Marisa Verna (a
cura di), pp. 522.
2010 Ce “lac inconnu où vivent ces expressions sans rapport avec la pensée et qui par cela même la révèlent”: le rôle
du registre linguistique dans la « Recherche du Temps Perdu
» : l’Affaire Dreyfus, comunicazione, in Atti del Congresso «I
registri linguistici come strategia comunicativa e come struttura letteraria» (Milano, 6-8 novembre 2008), Marco Modenesi, Marisa Verna e Gian Luigi Di Bernardini (a cura di),
EduCatt, Milano, Milano 2010, pp. Marco Modenesi, Marisa Verna, Gian Luigi di Bernardini (a cura di).
2010 D’une chevelure odorante au temps de l’extase: sur
des synesthésies proustiennes, in Simbolismo e Naturalismo
tra lingua e testo, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 477-494.
2011 (in stampa) Alexandre Dumas figlio, La signora delle
Camelie, (a cura di) Marisa Verna, Edizioni ETS, Pisa.
2011 (in stampa). Pour une langue sensible : l’héritage
symboliste dans l’écriture proustienne, in La Littérature
symboliste et la langue, dirigé par Olivier Bivort, Paris,
Classiques Garnier, coll. Rencontres, 2011.
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Prof. Pippo RANCI
Docente nell’Università Cattolica del S.Cuore di Milano
“La responsabilità delle banche tra povertà e
ricchezza”.
Questa conversazione trae origine dal lavoro che sto
conducendo per dare forma e contenuto ad un breve
corso universitario dal titolo “Etica dell’economia e
della finanza” che mi è stato affidato in dalla Facoltà di
Scienze bancarie in Università Cattolica. L’incarico è
insolito per un economista e mi ha posto in una condizione mista di imbarazzo, timore, curiosità e interesse.
Mi era ben chiaro che l’etica la possono insegnare i filosofi e i teologi, non gli economisti. Ho cercato di sviluppare lo studio dei condizionamenti sull’agire umano
che vengono dal sistema economico, trovando qui, mi
pare, il ruolo dello scienziato sociale, categoria alla
quale appartiene l’economista, nel fornire alla valutazione etica del comportamento individuale un’integrazione
indispensabile.1
Ho cercato di estrarre dalle riflessioni oggetto del
corso quelle che hanno attinenza con la banca.
1. La responsabilità sociale dell’impresa in generale
Il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa,
almeno per quanto riguarda gli studiosi di economia,
non può prescindere dalla posizione nettamente negativa
espressa da Milton Friedman (1912-2006), premio
1
Ne ho scritto in “L’esperienza di un economista che insegna etica” nella rivista Impresa progetto, n.1, 2010
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Nobel per l’economia 1976, definito dall’Economist
“l’economista più influente della seconda metà del XX
secolo, se non di tutto il secolo”. La posizione è chiaramente espressa in un testo breve, il suo articolo sul New
York Times Magazine del 13 settembre 1970, che condensa gli argomenti del suo libro “Capitalism and Freedom” del 1962. Il titolo dell’articolo è “La responsabilità sociale delle imprese è di accrescere i profitti”.
Si cominciava allora a parlare di responsabilità sociale d’impresa (Corporate Social Responsibility).2 Dice
Friedman:
“Le discussioni sulla “responsabilità sociale delle
imprese” sono degne di nota per la loro imprecisione
analitica e mancanza di rigore. Cosa significa affermare che gli “affari” (business) abbiano delle responsabilità? Solo le persone possono avere responsabilità...
Nell’esaminare la dottrina della responsabilità sociale
dell’impresa, il primo passo verso il chiarimento è quello di chiedere precisamente che cosa essa comporta e
per chi.... In un sistema di libera impresa libera e di proprietà privata, il manager è un dipendente della proprietà dell’impresa. Ha una responsabilità diretta nei
confronti dei suoi datori di lavoro. Tale responsabilità
consiste nel condurre gli affari secondo i desideri dei
proprietari, che generalmente consisteranno nel fare più
soldi possibile...” (traduzione mia)
In molte trattazioni odierne sulla responsabilità sociale dell’impresa si cita Friedman come un avversario,
anzi l’avversario. A me pare che Friedman, pur esprimendo veemente condanna di pratiche che normalmente
2
Userò anch’io l’acronimo CSR perché l’omologo italiano RSI mi disturba,
non riesco a considerare abbastanza lontani nel tempo la Repubblica Sociale
Italiana e gli orrori della guerra mondiale.
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consideriamo buone, svolga un discorso centrato sul
chiarimento delle responsabilità e quindi, tutto sommato, autenticamente etico. L’amministratore d’impresa
rende conto ai suoi proprietari, che normalmente sono
azionisti e, possiamo oggi aggiungere, forse gestori di
fondi pensione che amministrano il piccolo patrimonio
di sopravvivenza di tanta gente di modesta situazione
economica. Qui non è questione di altruismo o egoismo:
ciascuno può decidere di spendere per il bene sociale,
ma lo faccia usando i soldi suoi, che sia azionista o
manager; non lo deve fare il manager nell’esercizio della
sua funzione, con i soldi altrui. Se lo fa, imponendo le
sue scelte circa ciò che è bene per la società, egli viola il
patto che lo lega a chi gli ha affidato l’impresa; noi
diremmo che compie appropriazione indebita, Friedman
gli rivolge un’accusa che a noi oggi appare curiosa, ma
che negli Stati Uniti degli anni ’60 doveva apparire
ancor più cocente, dice che è un socialista, ancorché
inconsapevole.
Va posta attenzione, secondo me, al seguito della frase:
“...Tale responsabilità consiste nel condurre gli affari
secondo i desideri dei proprietari, che generalmente
consisteranno nel fare più soldi possibile osservando le
regole basilari della società, sia quelle contenute nelle
leggi sia quelle incorporate nei costumi etici...”
Friedman esprime una posizione di grande attualità. Il
capitalismo non è la legge del profitto ad ogni costo, è
un sistema rispettabile se (poiché) si basa sul rispetto
delle leggi: l’illegalità diffusa in molte parti del mondo e
del nostro Paese non trova posto nella visione del più
radicale tra i sostenitori del capitalismo. Non solo, ma il
richiamo ad un altro punto di riferimento, costituito dai
“costumi etici” che non stanno nella legge ma pur sempre incorporano “regole basilari della società” evoca la
condanna del formalismo, l’importanza di interpretare e
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seguire lo spirito delle leggi, compresi i comportamenti
ovviamente positivi per la società che il legislatore non
ha, o non ha ancora, fissato in norme.
Da noi viene da pensare alla tutela degli interessi delle
minoranze azionarie, al rifiuto delle posizioni di potere
economico puntellate dagli incroci azionari. In paesi ad
uno stato meno avanzato di sviluppo economico non si
può non pensare alla tutela dei lavoratori (quanto lavoro
minorile e quanta sostanziale schiavitù sono ancora presenti), alla tutela dell’ambiente (quanti disastri ambientali protetti dalla mancanza di leggi adeguate, anzi provocati proprio dall’attrazione delle pratiche nocive in
paesi ancora privi di una normativa ambientale), al
rispetto delle minoranze etniche o religiose.
L’odierno sviluppo della CSR ha le sue motivazioni in
termini di interesse dell’impresa al buon rapporto con i
suoi stakeholders (lavoratori, consumatori, fornitori,
comunità locale e nazionale) e alla reputazione, fattori
che concorrono alla profittabilità nel lungo periodo.
Friedman parla di
“... un modo per le imprese di conquistarsi benevolenza come sottoprodotto di spese che sono interamente
giustificate dal tornaconto...”
sottolineando ironicamente la dose di ipocrisia che è
insita in queste operazioni. Friedman non le condanna,
visto che procurano utili, ma il suo appello alla schiettezza è apprezzabile:
“... da parte mia, se facessi appello ai manager affinché si astengano da questo ipocrita comportamento di
facciata per il motivo che esso indebolisce i fondamenti
di una società libera, sarei incoerente. Sarebbe un
richiamo ad esercitare una “responsabilità sociale”! Se
le istituzioni e l’atteggiamento del pubblico rendono
conveniente per loro rivestire in questo modo le loro
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azioni, io non posso esprimere indignazione e denunciarli. Allo stesso tempo, posso esprimere ammirazione
per quegli imprenditori individuali o ... azionisti ... che
disdegnano queste tattiche come affini alla frode...”
Duro e probabilmente eccessivo. Ma ricordiamo il
bilancio sociale, pieno di opere buone, pubblicato dalla
Enron ogni anno, fino alla vigilia della bancarotta fraudolenta! La CSR non dovrebbe mai porsi in contrasto
con l’etica della responsabilità.
A questo fine qualche raccomandazione può essere
utile. La CSR esige una rendicontazione adeguata. I
bilanci “sociali” o “di responsabilità” dovrebbero essere
documenti veramente informativi, redatti in modo da
consentire all’osservatore esterno, allo studioso, i confronti tra imprese e la costruzione di indicatori sintetici
che mostrino se le azioni esposte sono significative (o
trascurabili) quanto a dimensione e carattere innovativo,
se sono in crescita o in calo nel tempo. È nell’interesse
di quelle imprese che sono sinceramente impegnate nell’esercizio di responsabilità sociale collaborare alla creazione di un qualche “marchio di qualità” che potrebbe
ridurre lo spazio dei comportamenti strumentali e ipocriti, forse meglio di quanto potrebbe fare un’improbabile normativa pubblica.
Quanto al perseguimento del profitto, resta comunque
essenziale l’orizzonte temporale di riferimento. Ai miei
studenti propongo una rilettura dell’esperienza di Adriano Olivetti, imprenditore che vide lo sviluppo dell’impresa strettamente congiunto con quello della comunità
locale e con l’elevazione culturale dei dipendenti, condizione per creare un terreno fertile in cui le innovazione
possano attecchire e talvolta anche essere generate. Le
sue intuizioni non mi sembrano smentite dalla storia
successiva alla sua morte prematura nel 1962. La crisi
dell’Olivetti, comune a tutte le vecchie imprese di macchine da ufficio elettromeccaniche e in parte spiegata da
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alcune note debolezze del contesto industriale e finanziario italiano, non ha impedito che proprio in ambito
Olivetti sorgesse una dinamicissima impresa di telefonia
mobile e crescessero managers migrati con successo in
molti settori, che Ivrea e il Canavese restassero un esempio di qualità urbanistica, architettonica e culturale resistenti al tempo. Il confine tra la lungimiranza e la sensibilità sociale dell’imprenditore è davvero sfumato.
Tutto ciò detto per le imprese in generale, è necessario dire qualcosa di diverso per le imprese bancarie?
2. La banca è speciale, e questo comporta onori e
oneri
Sappiamo che la banca è un’impresa speciale. La sua
specialità ha costituito a lungo un ostacolo allo stesso
riconoscimento del suo carattere d’impresa. Ora questo
aspetto è stato chiarito, con una trasformazione radicale
avvenuta negli ultimi vent’anni. Nessuno rimpiange la
banca ente pubblico, o la commistione tra attività bancaria e beneficenza.
La banca è impresa, ma in modo speciale, e questa
specialità, spesso invocata, resta mal definita. Per lo
scopo di questa conversazione può servire una drastica
semplificazione che individua due grandi tipi di banche,
diversissime per origine, entrambe speciali rispetto alla
nozione d’impresa, ma in modo diverso.
Un primo tipo è quello che trae origine dalle esigenze
delle società locali e che ha assunto nella sua evoluzione storica aspetti marcati di servizio pubblico. Sono
esemplari in questo senso le Casse di risparmio e istituzioni affini; ma altrettanto esemplari le banche di credito cooperativo e analogamente, per lungo tempo, le
popolari. La specialità in questo modello è ben individuata nella responsabilità verso lo sviluppo dell’economia locale, le esigenze della comunità locale e partico66
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larmente dei suoi strati più deboli.
L’altro tipo è la banca dei banchieri fiorentini e genovesi, dei precursori di Lombard Street, finanziatori dei
sovrani e delle loro guerre sempre ispirate da un preteso
interesse pubblico, ma anche di grandi intraprese economiche che con il pubblico interesse forse avevano maggiore attinenza come il canale di Suez. La specie si è
evoluta nella moderna categoria delle banche d’investimento, costruttrici di grandi gruppi industriali, soggetti
di una politica industriale forse più efficace di quelle
conclamate nelle sedi politiche.
In entrambi i casi e in modo assai diverso, la banca è
un’istituzione “di sistema” come si dice oggi, con il pro
e il contro di questa espressione; un’istituzione quindi
che nella sua funzione “di sistema” ha trovato per secoli la legittimazione per il suo profitto, per il grado di protezione e di potere di mercato di cui ha goduto, per la sua
stessa esistenza.
La trasformazione dell’ultimo trentennio ha molto
attenuato queste caratteristiche, tendendo ad una ripartizione dei compiti: alle autorità di regolazione l’emanazione di norme che salvaguardino l’interesse generale e
la sorveglianza sulla loro applicazione, all’impresa bancaria il perseguimento del profitto all’interno di quelle
norme.
L’attuazione non è così semplice, un po’ per la resistenza della vecchia mentalità e un po’ perché lo schema
non riesce a cogliere la complessità del sistema. L’attenzione alla comunità (locale o più ampia) rimane essenziale, se non altro come strumento per l’espansione dell’attività e quindi la produzione di profitti a lungo termine; ma la motivazione del profitto non sempre conduce,
di per sé, alle scelte migliori. È possibile che l’utilizzazione della raccolta per impieghi puramente finanziari
sia più profittevole del finanziamento accordato alle
imprese, che richiede l’uso di capacità valutativa e collaborazione consulenziale. Anche qui la lungimiranza
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nella ricerca di un profitto durevole e l’attenzione solidale alle esigenze della comunità locale conducono su sentieri per lungo tratto coincidenti, anche se restano virtù
distinte e capaci, a volte, di entrare in conflitto tra loro.
3. La degenerazione della finanza e i rischi della
corsa al profitto
La finanza, da quando il termine è venuto a indicare
un’attività sviluppata e un settore importante nell’economia, ha sempre posto sul tappeto quesiti etici di grande rilievo. La dimensione di questi problemi è emersa e
divenuta palese nelle occasioni delle grandi crisi finanziarie, di cui quella dell’ultimo decennio è solo la più
recente in una lunga serie.
Ogni volta, nel formarsi delle bolle che conducono alla
crisi finanziaria, si manifestano errori di previsione che si
generalizzano, distorsioni strutturali che tendono ad
accentuarsi con circoli viziosi, carenze nell’apparato di
sorveglianza e regolazione: problemi tutti che possono
essere analizzati con un freddo approccio tecnico e per i
quali si indicano di volta in volta soluzioni di miglioramento degli strumenti previsivi, di rafforzamento dell’informazione che consenta comportamenti più ragionati e
meno imitativi, do correzione strutturale che riduca l’area
dei conflitti d’interesse, di rafforzamento delle istituzioni dedicate alla vigilanza e alla regolazione.
Accanto a tutto ciò e in modo apparentemente indipendente si scatena puntualmente l’esecrazione dell’eccessiva avidità e della smodata ricerca del profitto nelle
singole operazioni, nonché, in complesso, dell’arricchimento personale come fine dominante dell’attività professionale e d’impresa.
In genere l’analisi tecnica e lo sdegno sono poco comunicanti. Molti lavorano all’analisi e alla costruzione dei
rimedi, all’interno delle comunità accademiche, finanzia68
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rie, politiche. La grandissima parte dei cittadini, osservatori o vittime, esprime sdegno e nutre una crescente sfiducia nei confronti dell’intero mondo finanziario.
Il nesso tra l’analisi tecnica e la denuncia etica sembra
affiorare in una frase pronunciata da uno dei massimi
responsabili della grande liberalizzazione e dei suoi
eccessi, Alan Greenspan. In una testimonianza davanti
al Senate Banking Committee il 16 luglio 2002 il potente presidente della Federal Reserve disse:
“un’avidità contagiosa è sembrata investire gran
parte della nostra comunità economica.... Non è che gli
uomini siano diventati più avidi che nelle generazioni
passate. È che le vie per esprimere l’avidità si sono
ingrandite in misura così enorme”3
Ecco il punto: le vie (anzi i viali, “avenues”) per esprimere l’avidità. L’avidità non è inizialmente maggiore
che in passato, ma certo lo diventa se il contesto è favorevole e addirittura incentivante. Robert Shiller ha usato
il termine “contagio”4 e l’analogia con le grandi epidemie della storia.
Ho provato a chiedere ad un amico italiano, per anni
operatore finanziario di medio livello a Londra, testimone e nel suo piccolo attore della grande bolla di titoli tossici, come abbia potuto partecipare ad un’operazione
così riprovevole. Potevo prevedere la risposta: certo che
ho venduto titoli rischiosi, il cui grado di rischio non era
3
“An infectious greed seemed to grip much of our business community ... It
is not that humans have become any more greedy than in generations past. It
is that the avenues to express greed have grown so enormously”. La citazione
viene riportata da Frank Partnoy, operatore finanziario, avvocato e professore
di diritto all’Università di San Diego nel suo libro intitolato appunto: Infectious Greed. How Deceit and Risk Corrupted the Financial Markets, Holt,
New York, 2003.
4
Nel suo Irrational Exuberance e poi in Finanza shock. Come uscire dalla
crisi dei mutui subprime, Egea, 2008.
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ben misurabile, ma le avvertenze erano scritte nel contratto, l’acquirente poteva leggerle, e per parte mia questo era il gioco su cui poggiava il mio stipendio (essenziale per la rata del mio mutuo) e la mia carriera. Non
potevo, io solo, fare diversamente.
Il singolo ha le sue giustificazioni ad ogni livello,
compreso quello del responsabile di vertice di una società finanziaria impegnata in una lotta competitiva senza
quartiere nel mercato globale. Ma tutti assieme i singoli
hanno non solo creato le premesse di una crisi gravissima, ma anche alimentato una sistematica distruzione di
virtù fondamentali nella vita civile: la moderazione, il
rispetto, la fiducia.
Come si è creata una situazione simile? Quali passi
iniziali, apparentemente innocui, hanno avviato il contagio? La responsabilità etica non può essere cercata solo
nell’ultimo anello di una lunga catena; e andando indietro agli anelli precedenti possiamo incontrare una sincera sorpresa in persone convinte di aver compiuto solo il
bene, ignare di aver posto i semi di una pericolosa degenerazione.
4. Una grande responsabilità odierna: contrastare
l’illegalità e la criminalità
A costo di scandalizzare qualcuno, propongo ai miei
studenti una sia pur tenue somiglianza tra la situazione
dell’amico impegolato nella finanza londinese e il
ragazzo di Casal di Principe descritto da Roberto Saviano nelle pagine di Gomorra, al quale hanno insegnato
che se non impari a sparare non sei un uomo; il ragazzo
che si arruola nella malavita perché là dove vive non gli
si offre occupazione alternativa. Situazioni per diverse,
ma accomunate dalla collocazione dell’individuo in una
posizione soggetta all’influenza di un contesto forte e, in
differente misura, spietato.
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L’affacciarsi della criminalità organizzata al nostro itinerario non è solo per fornire un’analogia che qualcuno
può trovare discutibile. La criminalità organizzata è
poderosamente presente nel sistema economico nazionale e locale in cui viviamo e nell’economia globale in cui
il nostro sistema è inserito. Costituisce una minaccia
autentica, in molti contesti crescente, che nessun discorso sull’etica economica può ignorare.
Non può ignorarla un discorso sull’etica nel sistema
bancario e finanziario, che si trova collocato proprio nel
punto critico dello sviluppo dell’economia criminale,
dove il riciclaggio del danaro sporco facilita l’infiltrazione mafiosa nell’economia legale per la via dell’acquisizione di imprese troppo indebitate e della concorrenza sleale in alcuni settori dove le imprese sane vengono comprese ed espulse.
Spesso il ruolo dell’istituzione finanziaria è laterale, si
può considerare irrilevante rispetto all’aspetto condannabile. Anche qui l’episodio grave e condannabile sta
spesso alla fine di una catena di scelte, contratti e legami, omissioni: passi che comportano, ciascuno, solo
qualche “piccola” illegalità o mancanza di trasparenza.
È tempo di rigore su questo punto, se non altro per il
doveroso rispetto di tante vittime delle mafie.
Per il sistema bancario c’è stato un lungo periodo in
cui l’obiettivo della crescita per la singola banca e quello della stabilità per il sistema sono stati considerati prevalenti rispetto all’esigenza di trasparenza e persino di
legalità (almeno in campo fiscale, come i più anziani
certamente ricordano, ma forse non solo loro). Oggi
sappiamo abbastanza della pericolosità e del carattere
epidemico della criminalità organizzata, troppo per
poterci concedere distrazioni o debolezze. Sappiamo
con maggior certezza che per il passato, che l’epidemia
si diffonde molto meglio in ambienti meno rigorosi e
meno trasparenti, cosicché la mancanza lieve contribuisce significativamente a creare le condizioni per il fatto
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grave. La diffusione delle epidemie di origine batterica è
stata arrestata non solo dagli antibiotici ma soprattutto
dalla diffusione dell’abitudine a lavarsi spesso le mani.
5. Ricchezza e povertà
E così arriviamo infine al nostro tema: la responsabilità delle banche tra povertà e ricchezza, cioè nel far crescere o ridurre le differenze di reddito e di ricchezza, che
comportano distanze sociali e divari di opportunità per i
giovani. Bene, non credo che il tema possa essere separato da quelli cui ho fatto cenno sopra.
I divari sono ancora grandi, e occorre fare attenzione
alle tendenze.
In Italia come nella maggior parte dei paesi industrializzati i divari sono cresciuti nettamente negli ultimi
trent’anni: lo mostrano bene le statistiche disponibili,
come questo grafico di fonte OCSE che mostra per la
grandissima parte dei paesi membri di questa organizzazione una tendenza all’aumento della disuguaglianza
(misurata con il coefficiente di Gini applicato ai redditi)
nel periodo 1985-2008.
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La più recente rilevazione della Banca d’Italia (dicembre 2010) mostra che in Italia il 10% delle famiglie più
ricche ha il 44,7% della ricchezza; il 50% delle più
povere ha il 9,8%: c’è un 3,2% di famiglie che ha ricchezza negativa.
L’Istat ha definito una soglia di povertà assoluta definita come la spesa minima per un’esistenza dignitosa,
tenuto conto della dimensione della famiglia, della sua
composizione per età, della localizzazione geografica.
Risulta che nel 2007 vivevano sotto questa soglia circa 1
milione di famiglie (che comprendono circa 2,5 milioni
di persone), pari al 4,1 % della popolazione.
I divari nel mondo sono molto più gravi. Su ormai
quasi 7 miliardi di abitanti del pianeta si stima che la
popolazione che vive con meno di un dollaro USA (al
cambio che definisce la parità di potere d’acquisto) al
giorno ammonti a oltre un miliardo, e a 2,5 miliardi la
popolazione sotto i 2 dollari al giorno: queste due soglie
misurano due gradi di una povertà comunque grave che
affligge poco meno di metà dell’umanità, e il 20% dell’umanità in forma estrema.
L’impetuoso sviluppo di alcuni paesi tra cui i grandi
che stanno nella sigla BRICS (Brasile Russia India Cina
Sudafrica) sta facendo uscire grandi masse dalla povertà
estrema e creando vasti strati di nuovi ricchi: così si
accorciano le distanze tra paesi e si allargano quelle
interne ai paesi stessi.
La ricerca delle ricette per la lotta alla povertà sta alimentando un vasto dibattito. Che investe la politica del
commercio mondiale, il trattamento della proprietà intellettuale, la politica degli aiuti e della cooperazione internazionale. Il settore finanziario partecipa alla ricerca di
nuove vie con innovazioni a volte geniali, come l’espansione della microfinanza.
A tutti i livelli c’è spazio per un impegno. Significativo il tema dell’inclusione finanziaria: uno sforzo per
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conquistare all’impiego di elementari servizi bancari
persone e ceti finora esclusi per opera sia di una radicata diffidenza, sia di una scarsa capacità delle offerte loro
rivolte. L’inclusione fornisce maggiore sicurezza e
migliori strumenti di promozione sociale e contrasta l’emarginazione; merita quindi un impegno che vada un
poco al di là dell’interesse dell’impresa bancaria, anche
di quello a lungo termine. Un poco al di là, ma non
necessariamente fino a contraddire la massima friedmaniana dell’impresa che ha per missione il profitto, senza
doversi spingere in un’area radicalmente diversa dall’economia capitalistica, verso quella che è stata chiamata
l’economia del dono. Che naturalmente ha non solo
diritto a esistere ma una sua nobile funzione e potrebbe
anche estendersi un poco oltre la nicchia in cui oggi si
trova.
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Biografia
Pippo Ranci
Professore fuori ruolo di Politica economica nell'Università Cattolica
del Sacro Cuore in Milano; vi insegna economia dell’energia ed etica
dell’economia e della finanza.
È stato Presidente dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas dal 1996
al 2003 e vicepresidente del Council of European Energy Regulators
dal 2000 al 2004.
Ha fondato e diretto dal 2004 al 2008 la Florence School of Regulation
presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, di cui è advisor.
È professore part-time della Barcelona Graduate School of Economics.
Ha insegnato anche all’Università di Bergamo. Tra i fondatori dell'IRS
(Istituto per la Ricerca Sociale) di Milano, ne è stato presidente nel
periodo 1973-82 e vi ha diretto le ricerche di economia industriale Ha
svolto incarichi di consulenza presso vari ministeri tra cui il Ministero
dell'Industria, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Commissione Europea.
È laureato in economia all’Università Cattolica e ha conseguito un
M.A. alla University of Michigan.
Principali pubblicazioni dell’Autore:
Brandolini A. e C.Saraceno, Povertà e benessere. Una geografia delle disuguaglianze in Italia, il Mulino, 2007.
Friedman M., Capitalism and Freedom, 1962 (edizione italiana: Capitalismo e libertà, Studio Tesi 1995, IBL libri
2010).
OECD (OCSE), Growing Income Inequality in OECD Countries: What Drives It and How Can Policy Tackle It?, OECD
Forum on Tackling Inequality, Parigi, 2 Maggio 2011.
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Partnoy F., Infectious Greed. How Deceit and Risk Corrupted
the Financial Markets, Holt, New York, 2003
Onado M., I nodi al pettine, Laterza, 2009.
Ranci P., “L’esperienza di un economista che insegna etica”
in Impresa progetto, n.1, 2010.
Sua Santità Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Sollicitudo
Rei Socialis”, 1988.
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Mons. Franco Giulio BRAMBILLA
Preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano
“La sfida dell’educazione: la questione dell’identità”.
Il ventennio che è appena terminato sembra un tempo
che ha visto spegnersi lo slancio educativo. L’intervento
sociale a favore di terzi si è spostato sul versante della
risposta ai bisogni sia materiali che spirituali. La stessa
Chiesa è sembrata dirigersi verso altri approdi, molto
sporgente sul sociale e sui temi della carità e del volontariato. Sul palcoscenico della comunicazione pubblica
le figure apprezzate del ministero e dei laici sono prevalentemente quelle che sottolineano la funzione terapeutica o solidarista del cristianesimo. Occorre riprendere
con forza la fiducia nella funzione educativa, la necessità della promozione culturale, la sua urgenza per un’efficace ripresa dell’evangelizzazione. Questo soprattutto
di fronte alle nuove generazioni, ai ragazzi, agli adolescenti e giovani, i quali si attendono un rinnovato slancio educativo, una nuova stagione a cui, come è noto, la
Chiesa italiana dedicherà il prossimo decennio. Oso sperare che questa concentrazione sul tema prospetti nuove
vie e frutti inediti per il futuro prossimo.
Allora provo a fornirvi una traccia per leggere il testo
programmatico dei Vescovi per il decennio, Educare
alla vita buona del vangelo. Potremmo dire in sintesi:
l’educazione è quel rapporto che aiuta ciascuno a
costruire la propria identità come vocazione e a scegliere la vocazione come volto della propria identità. Suggerisco un percorso in cinque tappe: l’educazione 1/
deve pensarsi in rapporto alle attuali difficoltà dell’educazione; 2/ trovare nella “generazione” il suo modello
paradigmatico; 3/ distendersi nel tempo in modo trans77
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itivo e drammatico; 4/ dirsi in racconti di Vangelo che
fanno accedere a Gesù; 5/ far attenzione ai livelli antropologici dell’intervento educativo. Ecco i cinque passi
del nostro percorso.
1. “In un mondo che cambia”: la questione attuale.
Il Documento dei Vescovi prende avvio da una declinazione diventata quasi di moda anche nel linguaggio
comune: “Educare in un mondo che cambia”. Si preoccupa, però, subito di precisare: «Il “mondo che cambia”
è ben più di uno scenario in cui la comunità cristiana si
muove: con le sue urgenze e le sue opportunità, provoca
la fede e la responsabilità dei credenti. È il Signore che,
domandandoci di valutare il tempo, ci chiede di interpretare ciò che avviene in profondità nel mondo d’oggi,
di cogliere le domande e i desideri dell’uomo» (n. 7).
Assumendo questa istanza il testo trova nel lucidissimo
intervento del Papa all’Assemblea dei Vescovi del maggio 2010 lo spunto per dedicare il prossimo decennio
alla questione attuale dell’educazione, dentro un “orizzonte temporale proporzionato alla radicalità e all’ampiezza della domanda educativa”. Di questa domanda
Benedetto XVI si è fatto acuto interprete andando “fino
alle radici più profonde di questa emergenza” educativa.
Egli ha indicato due radici dell’odierna sfida educativa,
che interessano tutti e non prima di tutto l’educazione
cristiana, ma che riflettono soprattutto su questa i loro
effetti negativi. La prima radice è una concezione e una
pratica dell’educazione come “autosviluppo”, fondata su
un concetto di autonomia dell’uomo che non sarebbe in
debito con nessuno per il suo essere e divenire persona;
la seconda è il “naturalismo” antropologico (il Papa usa
l’espressione scetticismo e relativismo) a cui corrisponde una concezione dell’educazione carente di ogni
dimensione etica: educare significherebbe e-ducere,
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tirar-fuori le virtualità iscritte nell’uomo concepito come
natura meccanicamente intesa. La natura umana non è
vista come una grammatica che contiene una promessa e
un appello a decidere e a costruire la propria identità, ma
è una “cosa di natura” che si può trasformare a proprio
piacimento. Le nuove biotecnologie dettano inesorabilmente la strada del percorso educativo e trovano il loro
alleato nelle scienze della vita concepite in modo empirico e funzionale. Educare diventa, allora, abilitare a
conoscere i meccanismi naturali e i funzionamenti sociali. In tal modo ciascuno può diventare un self made man.
Queste due concezioni dell’attuale concezione educativa diffusa (autonomismo moderno e naturalismo scientifico) si saldano perfettamente nell’escludere due caratteristiche essenziali dell’educazione: il suo carattere
relazionale e la sua dimensione etica. Ad esse bisognerebbe aggiungere come terza, la distensione temporale
del processo educativo, situato tra una promessa e un
compimento. Si noti: tre componenti che appartengono
alla dimensione antropologica dell’educare, la cui negazione rende impossibile ogni determinazione della differenza cristiana dell’opera educativa. Senza questo
discernimento attuale ogni discorso sull’educazione
rimane rinchiuso nel limbo delle dichiarazioni generiche. Bisogna essere grati al Papa che con assoluta semplicità – come è nel suo stile – e con un tratto intellettualmente disarmante ci ha portato a vederne le radici. In
tal modo il primo capitolo del Documento ha qui la sua
punta critica: tutti gli altri aspetti emergenziali dell’educazione oggi (n. 9) come il pluralismo valoriale (n 10),
la frattura generazionale (n. 12), le separazioni tra le
dimensioni costitutive della persona (n. 13), la chiusura
all’integrazione sociale (n. 14) hanno la propria radice
malata in una visione autonomistica e naturalistica dell’uomo.
Forse si potrebbe aggiungere un punto decisivo, che
deriva direttamente da queste due radici e che rende oggi
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l’opera educativa particolarmente “liquida”, incapace di
dare forma cristiana alla vita umana. Se educare significa autosviluppo, autoeducazione, e se comporta semplicemente vivere secondo una natura “plasmabile” a piacere, tutto il percorso educativo resta abbandonato a se
stesso: in realtà è soggiogato dal flusso inarrestabile
delle emozioni, degli affetti, del sentire, del prova e
riprova, dello sperimentalismo, ma non raggiunge mai la
forma matura dell’esperienza. Ne soffrono soprattutto le
esperienze umane fondamentali: il rapporto uomo e
donna, la relazione genitori e figli, le pratiche dell’amicizia e della fraternità, il senso del convivere civile, le
forme della solidarietà sociale. Esse sono affidate alla
sensazione e al sentimento, ma domani ci potrebbe essere un’emozione nuova che cancella la traccia della
prima: viene qui minata sino alla radice ogni possibilità
di scelta di vita e ogni vocazione stabile. Oggi molti
vivono tanti esperimenti, tutti provano tutto, spesso si
fatica a scegliere tra infinite possibilità, ma è difficile
fare un’esperienza affidabile a cui consegnare la propria
vita.
2. “Identità, generazione, cammino”: il paradigma
educativo.
A partire dal discernimento storico delle attuali difficoltà dell’educazione, occorre trovare un paradigma
educativo che ne corregga dall’interno le radici malate e
le conseguenze. Ora, per trovare questo “paradigma”
non bisogna troppo precipitosamente cercare una risposta cristiana a un problema antropologico. Ciò, tra l’altro, ci escluderebbe dal confronto culturale. Esiste un
paradigma educativo che è iscritto nella vita stessa dell’uomo, leggendo il quale possiamo giungere a comprendere le dinamiche dell’intera opera pedagogica.
Esso dimora da sempre nella carne dell’uomo, si annun80
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cia nella sua nascita, esprime il debito originario alla
vita: è l’evento della generazione, il senso e il modo con
cui la vita viene trasmessa e ricevuta. Purtroppo, ha
sconsigliato la ripresa di questa paradigma la sua versione autoritaria o maternalista, che ha avuto il suo momento acuto nell’Ottocento e che ha generato una reazione
antiautoritaria e puerocentrica nel Novecento. Con tutte
le varianti del caso.
Questo modello di educazione intesa come sviluppo
delle virtualità naturali del ragazzo/giovane è aggravata
dal diffuso scetticismo circa la trasmissibilità degli ideali civili e religiosi (si sente spesso dire, anche da genitori cristiani: “quando sarà grande deciderà lui stesso”).
Inoltre il modello antiautoritario corrisponde alla crisi di
autorità nella tradizione civile, morale e religiosa della
società moderna. Viene a mancare il riferimento autorevole nel discorso educativo, mentre la formazione della
coscienza è divenuta ormai questione privata. L’universo civile non riesce più a mediare i codici, i valori e comportamenti che strutturano la libertà.
Che rapporto c’è, allora, tra autorità ed educazione?
Qual’è il senso e la necessità della buona autorità nell’educare. Il rapporto educativo rimanda originariamente alla generazione, al rapporto padre/madre - figlio,
anche se la forma paternalista di questo modello sconsiglia a molti di riprenderlo. Allora è necessario ritrovare
una concezione non paternalista del “paradigma generativo”: i genitori trasmettono la vita con tutto il suo corredo in dotazione (si pensi solo alla lingua, con cui essi
trasmettono il “senso” del mondo), e devono lasciare lo
spazio e soprattutto il tempo perché la vita trasmessa sia
ricevuta come un dono e non solo come una cosa di
natura. Questo spazio e tempo sono l’atmosfera della
libertà, e diventar grandi non è nient’altro che il cammino – oggi spesso avventuroso e interminabile – con cui
riconoscere in modo grato il debito alla vita che ci è stata
trasmessa. Per sceglierla come cosa buona per sé.
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Il paradigma generativo gode oggi di cattiva fama, ma
non si può buttare con l’acqua sporca della sua versione
autoritaria, anche il bambino della buona relazione educativa. Così si perde proprio il “figlio”: esso non viene
più “generato” alla vita, anche se oggi questo è un atto
che comporta le doglie del parto fino al suo approdo alla
vita adulta. La mancanza di riferimenti condanna il
figlio a navigare sotto un cielo senza stelle e a desertificare la sua coscienza, lasciata come una tabula rasa su
cui scrivere continuamente sensazioni passeggere. O,
come è stato detto recentemente, lo abbandona a essere
il “figlio del desiderio” che deve esaudire le attese dei
suoi genitori, che lo hanno scelto e voluto controllando
la sua nascita. La nascita “sotto controllo” esprime oggi
più l’esaudimento del desiderio dei genitori che un servizio alla vita e al mondo. Il percorso dell’identità da
parte del figlio diventa così interminabile, aggravato
anche da fattori socioeconomici che rinviano sempre più
per il giovane la data di assunzione delle responsabilità.
Il cammino dell’esistenza diventa un’impresa che non
ha più il sapore della sfida alla vita, ma deve corrispondere al desiderio di chi ci ha voluti, con tutti gli alti e
bassi del caso. Generare però significa “dare alla luce”,
ma non si può farlo se non “dando una luce” per vivere.
Non è un gioco a due genitori-figli, ma un’avventura a
tre: il padre e la madre sono dispensatori della vita per
conto di un Terzo, ne trasmettono il dono e il senso, perché il mistero dell’esistenza sia promessa e appello e ciascuno scelga non i genitori, ma ascolti la chiamata della
vita che essi trasmettono.
Allora, l’autorità del padre e della madre, e rispettivamente l’autorità dell’educatore, si esercita non per forza
propria, ma diventa dal di dentro testimonianza alla vita
buona, alle infinite forme con cui si presenta nella storia
della cultura e dell’oggi, perché in queste forme si rende
presente qualcosa del mistero e della verità dell’esistenza. Se educare è «tirar fuori», ciò comporta che si indi82
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rizzi verso un qualche modello in cui il giovane può e
deve riconoscersi e che deve scegliere come buono per
sé. Vi sono nel Documento dei Vescovi questi temi,
apparentemente disseminati, ma che ne formano come
l’ossatura e che vanno letti in profonda unità: la questione dell’identità debole e la sua formazione che è oggi
l’impresa più difficile caratterizzata da una molteplicità
inestricabile di riferimenti valoriali (n. 10); il nesso stretto che si instaura tra educare e generare (si legga il decisivo n. 27), la tematica del cammino dove la vita ricevuta in dono genera sempre di nuovo la propria identità alla
prova del tempo disteso (n. 28). Identità, generazione e
cammino costituiscono, dunque, un unico processo
drammatico, con cui la vita generata e donata (l’identità
psichica e sociale ricevuta) apre il cammino per diventare una vita voluta (l’identità personale e vocazionale
scelta).
3. “Educare alla vita buona”: l’identità transitiva,
drammatica e narrativa.
In questo scarto si pone il processo educativo: solo
riconoscendo in modo grato ciò che si è ricevuto e si
continua ad accogliere (la promessa) è possibile rispondere alla vita che chiama e alla sua verità (la vocazione);
solo rimanendo in una buona relazione con coloro che
continuano a trasmetterci vita è possibile rispondere alla
vita e rispondere di noi stessi in prima persona (qui sta
la dimensione etica e religiosa dell’educare, mediazione
necessaria per la vocazione cristiana); solo lasciando lo
spazio e il tempo come cammino per decidersi si può
mettere in gioco il proprio futuro (la metafora del cammino, anzi dell’esodo, è decisiva per entrare nella terra
promessa). La sfida dell’identità sta tutta qui: non è un’identità già data, o una sconosciuta da cercare e sospesa
alla improbabilità del desiderio di chi ci ha voluto, ma è
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un’identità che si snoda tra promessa e ricerca della terra
in cui entrare. È un’identità transitiva (passa attraverso
il tu dei genitori, degli educatori, del noi sociale), drammatica (deve decidere di sé di fronte alla vita e alle
forme con cui è stata trasmessa) e narrativa (deve portare alla parola per sé il senso trasmesso cercandone la
verità).
Ha sorpreso non poco gli ascoltatori il breve ed efficace sviluppo con cui il Papa ha declinato in modo quasi
colloquiale il senso transitivo della ricerca dell’identità
e dell’educare. Gli Orientamenti lo riportano per intero
al n. 9: «In realtà, è essenziale per la persona umana il
fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’“io” diventa
se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo
l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è
educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene
dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè
questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’“io” a se stesso».
Ecco la prima correzione decisiva della concezione
attuale dell’educazione: educare è un fatto di relazione,
l’io trova se stesso passando attraverso l’altro, ma l’incontro con l’altro apre l’io alla propria interiorità, dischiude in essa una promessa e un appello perché l’uomo
si avventuri nel cammino della vita.
Dal di dentro il paradigma generativo si apre alla sua
dimensione drammatica (da drama, azione), in cui la
“relazione” educativa (io-tu-noi) si assoggetta alla prova
del tempo disteso e la promessa dell’inizio deve passare
attraverso il prezzo della fedeltà. Di qui la metafora del
cammino, anzi dell’esodo, ricordata in modo strategico
al n. 19 degli Orientamenti: Dio educa il suo popolo:
«L’esodo dall’Egitto è il tempo della formazione d’Israele perché, accogliendo e mettendo in pratica i
comandamenti di Dio, diventi il popolo dell’alleanza
(cfr Dt 8,1). Il cammino nel deserto ha un carattere
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esemplare: le crisi, la fame e la sete, sono descritte come
atti educativi, “per sapere quello che avevi nel cuore…
per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma
che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”
(Dt 8,2-3). L’esortazione divina crea la consapevolezza
interiore: “Riconosci in cuor tuo che, come un uomo
corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te”
(Dt 8,5, cfr Os 2,16-25)». Ora entrano in scena tutti i
grandi temi dell’educare: il tema della libertà e della
legge (“ti ha messo alla prova per saggiare ciò che avevi
nel cuore e se avessi obbedito ai suoi comandi…”), della
privazione dei beni essenziali per vivere e del nutrimento che viene dall’alto (“ti ha fatto provare la fame e ti ha
nutrito di manna…”), della decisione di nutrirsi di un
cibo/senso (Man-hu, che cos’è?) sconosciuto a sé e alla
tradizione dei padri (“che tu non conoscevi né i tuoi
padri avevano conosciuto…”), del credito da prestare (la
fede!) alla promessa a cui quel cibo rimanda (“per farti
capire che non di solo pane…”) e che la Parola di Dio
viva e zampillante interpreta come verità del cammino
(“ma da quanto esce dalla bocca del Signore!”). Il carattere “drammatico” dell’educazione mette in gioco la
libertà di tutti, anzi crea lo spazio perché il giovane giochi la sua libertà. Diventare liberi non è solo un fatto di
relazione, ma esige un’inevitabile determinazione eticoreligiosa, implica una scelta e una capacità di rispondere. Non solo nei confronti dell’educatore (genitore, insegnante, sacerdote, amico, ecc.) ma, attraverso di lui, alla
vita, imparando a rispondere di sé. La libertà deve decidere e decidersi per diventare libera, se resta sospesa a
far zapping tra le infinite possibilità dell’esistenza, rimane anche inchiodata al punto di partenza, non riesce a
darsi un volto e lascia l’uomo “senza qualità”. L’uomo
prende il volto della sua vocazione, della sua scelta di
vita. Perciò il vangelo mette sulla bocca del giovane
ricco la domanda delle domande: Maestro, che cosa
devo fare per avere la vita eterna?
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Infine, l’identità ha una dimensione narrativa: per scegliere e decidersi bisogna interpretare il senso contenuto
nelle forme della vita trasmesse, perché in modo critico e
creativo ciascuno si disponga dinanzi alla verità dell’esistenza, possa costruire il suo percorso di vita buona.
Basterà qui citare lo stupendo passo del discorso ai
Vescovi riportato al n. 13, dove Benedetto XVI dice con
estrema limpidità tutto questo: «Educare è formare le
nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto
con il mondo, forti di una memoria significativa che non
è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio
che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio». Semplicemente perfetto.
4. Racconti di vangelo: come venire a Gesù.
Siamo approdati a comprendere a che condizioni il
mistero dell’uomo vere clarescit incontrando il mistero
di Cristo. Non si tratta solo di illuminazione, ma d’incontro, di un avvenimento disteso nel tempo, in cui
uomini e donne “vanno da” Gesù. Il Vangelo è il racconto sorprendente di questi incontri dove, andando da
Gesù, le donne e gli uomini ritrovano se stessi. Ma possono incontrare veramente Lui, e non solo la risposta ai
loro bisogni, se entrano nel campo gravitazionale del
Padre suo (“nessuno viene a me se il Padre non lo attira”). Gesù è la vita dell’uomo perché è il rivelatore del
Padre, perchè è in persona la vita di Dio donata. Ma
Gesù è la Parola del Dio invisibile – e troppo poco riflettiamo su questo – in quanto “Figlio”: per un verso, ciò si
riferisce alla universale esperienza dell’essere figli, dell’essere generati, per l’altro verso, Gesù è il Figlio unico
generato (Unigenito). La sua singolarità filiale è la verità dell’universale esperienza dei figli di Adamo, ne gua86
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risce le distorsioni e le malattie, ne alimenta la promessa e la chiamata. Dice la lettera agli Ebrei: “pur essendo
Figlio, imparò l’obbedienza delle cose che patí”. Il vangelo è la storia narrata di questo cammino “filiale”, che
impara – Lui che è il Figlio Unigenito – dalle cose che
patisce. Gesù apre i linguaggi imparati a Nazaret e in
Galilea in trenta interminabili anni di silenzio e umiltà
(da humus, cioè di immersione nella vita degli uomini),
perché in soli tre anni esplodano a dire il mistero di Dio
(“il Regno dei cieli è simile a…”). Già fin dall’inizio del
suo ministero, Gesù richiama come antidoto a ogni tentazione il passo del Deuteronomio citato sopra: «non di
solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla
bocca del Signore»: l’uomo non vive solo di bisogni, ma
ha fame di parola e di senso. Per andare da Gesù occorre nutrire i propri bisogni, alimentandoli con la parola
viva che zampilla dalla bocca di Dio. Tutti cercano Gesù
per essere guariti, saziati, dissetati, risanati, liberati dal
male ma, mentre li guarisce, Gesù suggerisce la fame e
la sete di un altro pane e di un’altra acqua che sfama e
disseta l’uomo come essere capace di relazione e di vita
buona. L’uomo non può vivere solo di una vita soddisfatta, egli cerca di raggiungere una vita buona condivisa. Una vita piena di cose, ma povera di legami e di
significati, è come una casa affollata di beni, che però
non ha il calore dell’amicizia e dell’amore.
L’educazione trova così nei racconti del Vangelo una
costellazione di segni di vita buona che assume, purifica
e trasforma la vita ferita e divisa. Alla scuola del Vangelo, Gesù educa i suoi discepoli e come il Pastore buono
li conduce attraverso la porta della vita. La narrazione
evangelica contiene la trama di infiniti incontri con
Gesù, di molte porte d’accesso a Lui, di identità negate
e ritrovate, ferite e risanate, malate e trasformate, marginalizzate e riaccolte, perdute e ritrovate. Lasciamoci
condurre dal vangelo, per incontrare Gesù maestro,
medico, amico, redentore.
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Nel testo del secondo capitolo degli Orientamenti per
il prossimo decennio troviamo un percorso esemplare
per l’incontro con Cristo, un incontro che nutre la fame
di vita del suo popolo (nn. 17-18), che porta a compimento la pedagogia esemplare di Dio dell’AT (n. 19) e
che si rinnova nella Chiesa discepola, madre e maestra
(nn. 20-21). L’incontro con Cristo ha un carattere “spirituale”, cioè plasma un’esistenza nello Spirito, che fa
della vita umana un “culto spirituale” gradito a Dio (n.
22). La punta dell’educare disegna una esperienza vocazionale della vita (n. 23), in un tempo, come dicevamo
sopra, dove la costruzione dell’identità si è sfuocata e
viene continuamente rinviata. Della vocazione vengono
indicate anche le armoniche (n. 24), perché essa assuma
fin dall’inizio una tonalità ecclesiale, missionaria e
sociale. Come si vede, il capitolo centrale degli Orientamenti, disegna quasi un canovaccio a disposizione delle
comunità cristiane, degli educatori e di tutte le persone
di buona volontà, perché si realizzi nel processo educativo il sorprendente scambio con cui il mistero di Cristo
fa percorre a tutti il cammino filiale e spirituale. Perché
la scommessa dell’educazione sta qui tutta: costruire
credenti cristiani con un forte tratto spirituale e con una
tenace responsabilità sociale. Credenti che, come testimonia la storia dell’Occidente, hanno cambiato il volto
della storia, donne e uomini che non hanno temuto di
aprire le porte a Cristo, perché il suo modo di essere
verità dell’uomo e vita del mondo è quello di liberarne il
cuore e la mente, le mani e il gesto.
5. Livelli antropologici dell’intervento educativo.
Concludo sulle attenzioni educative da coltivare
a partire dall’attuale situazione della popolazione giovanile che questo tempo ci presenta: mi sembra un aspetto
che esigerebbe una riflessione sulla condizione giovani88
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le attuale e sulla sue caratteristiche emergenti. In altri
luoghi ho tentato questo tipo di lettura1, ma qui mi sembra più fruttuoso fare un piccolo cenno sintetico ai livelli antropologici dell’intervento educativo.
– livello psicologico: riguarda la prima modalità della
coscienza del “sentirsi” del soggetto, la modalità propriamente affettiva. E’ abbastanza chiaro come questo
livello influisca su quello che chiamiamo l’interesse e
conseguentemente la volontà nel rapporto educativo.
Qui bisogna evitare – a mio giudizio – almeno gli estremi: quello di chi si lascia irretire nella relazione immediata e affettivamente calda, senza uscire dal circolo
vizioso che essa tende a creare, quando non viene purificata, elaborata, fatta crescere e maturare; e quello di
chi la censura, pensando così di sottoporre il minore a
una specie di intervento-shock, per fargli comprendere
subito fin dall’inizio che la bontà della proposta non
dipende dalla intensità del canale di comunicazione. La
relazione matura consiste in un andirivieni tra il punto di
partenza del soggetto e la proposta obbiettiva offerta; il
suo criterio più certo è quello di far convergere su un
disegno/progetto, che consiste nella trasmissione delle
forme della vita buona (cristiana).
– livello culturale: è quello che introduce al sistema
delle rappresentazioni oggettive con cui il soggetto articola la sua posizione nel mondo, nel gruppo e nella
società civile e si abilita a una crescente capacità di
esprimersi consapevolmente e liberamente con quella
strumentazione. È il livello specifico di intervento dell’insegnante. La vera difficoltà di questo livello dell’intervento educativo consiste nel superare un’interpreta-
F.G. BRAMBILLA, “Linee teologiche per la pastorale giovanile”, Educare i
giovani alla fede, Milano, Ancora, 1990, 99-141.
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zione esclusivamente materiale della trasmissione del
sapere. Il sapere in ogni sua forma è un linguaggio che
serve per comunicare e per decidersi per un progetto
comune, nel quale ciascuno alla fine decide di sé. Il
sapere non ha a che fare solo con la scienza, ma anche
con la coscienza di sé: ma questo non è qualcosa che fa
meno scientifico il sapere, ma lo colloca dentro un’esperienza sapienziale della conoscenza. L’uomo colto non è
quello che sa di più, ma è quello che ha imparato molti
linguaggi per comprendere la vita e per dirsi di fronte al
mistero dell’esistenza.
– livello etico-religioso: è il livello dove avviene la
disposizione libera del soggetto di fronte alle istanze
supreme della vita, dove esso si determina come risposta
al bene, cioè come vocazione. La trasmissione del sapere non è solo trasmissione di cose da conoscere, ma è
abilitazione a una capacità a comunicare e a comunicarsi e quindi a scegliere e a donarsi. Per questo anche l’insegnante e l’educatore partecipano all’affascinante
avventura con cui ciascuno risponde di sì al carattere
buono e promettente della vita. E questi molti la chiamano scelta di vita, il codice religioso la chiama vocazione, in ogni caso significa identità personale e sociale
della persona, il bene più grande che possiamo trasmettere!
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Biografia
Franco Giulio Brambilla
Nato a Missaglia (LC) il 30.06.1949, è prete della diocesi di Milano.
Ordinato sacerdote il 07.06.1975, ha perfezionato i suoi studi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, prima ottenendo la Licenza
(1977) e poi conseguendo nel 1985 la Laurea con un lavoro su La cristologia di Schillebeeckx.
È professore ordinario presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e da settembre 2006 è stato nominato Preside della stessa
Facoltà Teologica.
Il 23 settembre 2007 è stato ordinato Vescovo Ausiliare della Arcidiocesi di Milano e ricopre l’incarico di Vicario Episcopale per il Settore
Cultura.
Principali pubblicazioni dell’Autore:
La cristologia di E. Schillebeeckx, La singolarità di Gesù
come problema di ermeneutica teologica (1989).
Cristo Pasqua del cristiano (1991); Il Crocifisso risorto.
Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli (1998).
Esercizi di cristianesimo (2000); Alla ricerca di Gesù (2001).
E. Schillebeeckx (2001); La parrocchia oggi e domani
(2003); Chi è Gesù? Alla ricerca del Volto (2004).
Antropologia teologica. Chi è l’uomo perché te ne curi?
(2005); Cinque dialoghi su matrimonio e famiglia (2006).
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ADERENTI ALLA ASSOCIAZIONE
PER LO SVILUPPO DEGLI STUDI DI BANCA E DI BORSA
Alba Leasing S.p.A.
Allianz Bank Financial Advisors, S.p.A.
Asset Banca S.p.A.
Associazione Nazionale per le Banche Popolari
Banca Agricola Commerciale della Repubblica di San Marino
Banca Agricola Popolare di Ragusa
Banca Aletti & C. S.p.A.
Banca di Bologna
Banca della Campania S.p.A.
Banca Carige S.p.A.
Banca Carime S.p.A.
Banca Cassa di Risparmio di Asti S.p.A.
Banca CR Firenze S.p.A.
Banca Fideuram S.p.A.
Banca del Fucino
Banca di Imola S.p.A.
Banca per il Leasing - Italease S.p.A.
Banca di Legnano S.p.A.
Banca delle Marche S.p.A.
Banca Mediolanum S.p.A.
Banca del Monte di Parma S.p.A.
Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A.
Banca Nazionale del Lavoro S.p.A.
Banca della Nuova Terra S.p.A.
Banca di Piacenza
Banca del Piemonte S.p.A.
Banca Popolare dell’Alto Adige
Banca Popolare di Ancona S.p.A.
Banca Popolare di Bari
Banca Popolare di Bergamo S.p.A.
Banca Popolare di Cividale
Banca Popolare Commercio e Industria S.p.A.
Banca Popolare dell’Emilia Romagna
Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio
Banca Popolare di Lodi S.p.A.
Banca Popolare di Marostica
Banca Popolare del Mezzogiorno S.p.A.
Banca Popolare di Milano
Banca Popolare di Novara S.p.A.
Banca Popolare di Puglia e Basilicata
Banca Popolare Pugliese
Banca Popolare di Ravenna S.p.A.
Banca Popolare di Sondrio
Banca Popolare di Spoleto S.p.A.
Banca Popolare Valconca S.p.A
Banca Popolare di Verona - S. Geminiano e S. Prospero S.p.A.
Banca Popolare di Vicenza
Banca Regionale Europea S.p.A.
Banca di San Marino
Banca di Sassari S.p.A.
Banca Sella S.p.A.
Banco di Brescia S.p.A.
Banco di Desio e della Brianza
Banco di Napoli S.p.A.
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Banco Popolare Scpa
Banco di San Giorgio S.p.A.
Banco di Sardegna S.p.A.
Barclays Bank Plc
Carichieti S.p.A.
Carifermo S.p.A.
Cariromagna S.p.A.
Cassa Lombarda S.p.A.
Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno S.p.A.
Cassa di Risparmio in Bologna S.p.A.
Cassa di Risparmio di Cento S.p.A.
Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana S.p.A.
Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A.
Cassa di Risparmio di Foligno S.p.A.
Cassa di Risparmio Friuli Venezia Giulia S.p.A.
Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A.
Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia S.p.A.
Cassa di Risparmio di Ravenna S.p.A.
Cassa di Risparmio della Repubblica di S. Marino
Cassa di Risparmio di Rimini S.p.A.
Cassa di Risparmio di San Miniato S.p.A.
Cassa di Risparmio di Savona S.p.A.
Cassa di Risparmio della Spezia S.p.A.
Cassa di Risparmio del Veneto S.p.A.
Cassa di Risparmio di Venezia S.p.A.
Cassa di Risparmio di Volterra S.p.A.
Cedacri S.p.A.
Centrobanca S.p.A.
Cerved Group S.p.A
Credito Artigiano S.p.A.
Credito Bergamasco S.p.A.
Credito Emiliano S.p.A.
Credito del Lazio S.p.A.
Credito Siciliano S.p.A.
Credito Valtellinese
CSE - Consorzio Servizi Bancari
Deutsche Bank S.p.A.
Eticredito Banca Etica Adriatica
Euro Commercial Bank S.p.A.
Federazione Lombarda Banche di Credito Cooperativo
Federcasse
Intesa SanPaolo S.p.A.
Istituto Centrale Banche Popolari Italiane
Mediocredito Trentino Alto Adige S.p.A.
Pravex Bank PJSCCB
SEC Servizi Scpa
SIA-SSB S.p.A.
UBI Banca Scpa
UBI Banca Private Investment S.p.A.
UBI Pramerica SGR S.p.A.
UGF Banca S.p.A.
Unicredit Banca S.p.A.
Unicredit Credit Management Bank S.p.A.
Unicredito Italiano S.p.A.
Unione Fiduciaria S.p.A.
Veneto Banca Holding Scpa
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Amici dell’Associazione
Arca SGR S.p.A.
Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno
Centro Factoring S.p.A.
Finsibi S.p.A.
Fondazione Cassa di Risparmio di Biella S.p.A.
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Per ogni informazione circa le pubblicazioni ci si può rivolgere alla Segreteria
dell’Associazione - tel. 02/62.755.252 - E-mail: [email protected] - sito web: www.assbb.it
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