Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana
Dipartimento scienze aziendali e sociali
Centro di competenze tributarie
Novità fiscali
L’attualità del diritto tributario
svizzero e internazionale
n° 12 - Dicembre 2011
Indice
Politica fiscale
La Svizzera prenderà due piccioni con una fava? ............................................... 2
Diritto tributario svizzero
Averi clienti e cash pooling ................................................................................................ 10
Diritto tributario italiano
Regime “Pex” retroattivo anche per le ritenute sui dividendi in uscita ........... 14
Quali sono gli effetti dell’interpello disapplicativo della disciplina CFC? ......... 18
Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario svizzero
L’imposta cantonale sulla sostanza
e la valutazione di titoli non quotati ........................................................................... 21
Rassegna di giurisprudenza di diritto dell’UE
Il regime fiscale italiano sui dividendi “in uscita”
è discriminatorio in ambito UE ma non in ambito SEE? ................................. 24
Offerta formativa
Seminari e corsi di diritto tributario .................................................................................. 28
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Politica fiscale
La Svizzera prenderà due piccioni con una fava?
L’abolizione della tassa di negoziazione svizzera e l’introduzione
di una Financial Transaction Tax europea
fallimenti bancari a catena, i maggiori Stati occidentali
si sono impegnati in questi ultimi quattro anni in ingenti
misure di sostegno finanziario aumentando parecchio
il proprio indebitamento. Inoltre, il sistema Euro ha
permesso una marcata espansione del debito pubblico di
molti Stati europei, grazie all’emissione di nuovi titoli di
Stato utilizzabili dalle banche commerciali come garanzia
per crediti lombard presso la Banca Centrale Europea.
Come spiega Bagus (2010), senza questo meccanismo,
unito alla convergenza verso il basso dei tassi d’interesse,
non sarebbe possibile comprendere il finanziamento
dell’ulteriore indebitamento greco, italiano, portoghese,
spagnolo o irlandese negli ultimi dieci anni.
Riassunto
Proprio mentre il dibattito europeo sull’introduzione
di una tassa sulle transazioni finanziarie (Financial
Transaction Tax, di seguito FTT) si fa sempre più acceso,
la Confederazione svizzera muove un passo dietro
l’altro in vista dell’abolizione delle tasse di bollo. Le contingenze storiche di medio e lungo periodo rendono
molto credibili entrambe queste due parallele dinamiche,
che potrebbero doppiamente avvantaggiare la piazza
finanziaria svizzera. È proprio del 1. dicembre 2011 la
notizia che il Consiglio federale intende abolire la tassa di
emissione sia sul capitale di terzi sia sul capitale proprio.
Questo articolo presenta brevemente il progetto di FTT
europea, riassume la situazione attuale in materia di tasse
sulle transazioni finanziarie nei Paesi europei, scorre la
letteratura sugli effetti delle tasse di bollo finanziarie,
contestualizza la tassa svizzera di negoziazione e riassume i ragionamenti che mirano ad una sua abolizione.
1.
Introduzione
La crisi finanziaria internazionale manifestatasi con i
primi crolli dei mutui subprime americani nel 2007 ed i
successivi fallimenti bancari, primi fra tutti l’acquisto
nel 2008 di The Bear Stearns Companies Inc. da parte di
JPMorgan Chase & Co ed il fallimento nel mese di
settembre 2008 di Lehman Brothers Holdings Inc., hanno
in questi ultimi anni accelerato il peggioramento delle
finanze pubbliche dei Paesi occidentali. Per evitare
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Anche se integrazioni monetarie più solide sono già
avvenute nel passato, come nel periodo d’oro
dell’Europa della seconda metà dell’800 (Einaudi 2001),
la storia stessa ben mostra che non esiste costante più
chiara dei fallimenti sovrani o perlomeno delle ristrutturazioni del debito pubblico. Waibel (2011) parla della
prossima ondata di fallimenti sovrani internazionali e
spiega le pratiche degli ultimi 150 anni, mentre Reinhart
e Rogoff (2009) forniscono un’incredibile quantità di dati
e un’ottima visione d’insieme su 800 anni di fallimenti
sovrani.
L’esperienza storica insegna che al momento di un
external default (ovvero un fallimento nei confronti degli
investitori esteri) il rapporto tra debito pubblico di uno
Stato e le sue entrate fiscali complessive si aggira tra il
3.5 ed il 4.5 (Reinhart e Rogoff 2009, pagina 121). Oggi
in Occidente ci sono già casi oltre questa soglia. Rueff
(1971), al momento del crollo di Bretton Woods, spiegò
l’intrinseca instabilità di un sistema monetario con
floating currencies e la naturale tendenza a generare un
sistematico indebitamento non coperto da risparmi
privati. Poiché i disequilibri di un eccessivo indebitamento
vanno necessariamente in qualche modo corretti,
in queste situazioni ci si può aspettare inflazione
(Schuettinger e Butler 1979) o anni futuri di generale
deleveraging deflazionistico (McKinsey Global Institute
2010), anche chiamata balance-sheet recession (Koo 2009)
come avvenuto nelle imprese giapponesi in questi ultimi
20 anni.
La terza possibilità rimane ovviamente l’aumento del
prelievo fiscale e l’introduzione di nuove tasse. Alla luce
di questo contesto macroeconomico, l’introduzione di
una FTT europea non dovrebbe stupire affatto. Per lo
stesso motivo, viste le ben più solide finanze pubbliche
elvetiche, un’abolizione delle tasse di bollo non pare per
nulla azzardata.
2.
La Financial Transaction Tax europea
Una tassa europea sulle transazioni finanziarie è da
ormai un anno più di una semplice ipotesi. Le ragioni
addotte a sostegno della FTT sono essenzialmente due.
Innanzitutto la tassa vuole assicurare che il settore
finanziario, che ha svolto un ruolo chiave nella crisi
finanziaria, contribuisca adeguatamente al risanamento
delle finanze degli Stati membri. In secondo luogo,
la Commissione europea ritiene che la nuova tassa
europea avrà quale effetto un’armonizzazione e
quindi un rafforzamento del mercato unico dell’UE.
Attualmente infatti già una decina di Stati membri hanno
adottato, secondo modelli più o meno simili, una
tassazione delle transazioni finanziarie, generando
(nella mentalità della Commissione europea) possibili
distorsioni della concorrenza.
Il 7 ottobre 2010 la Commissione europea (2010)
pubblicò nella comunicazione COM/2010/549 possibili
idee per una tassazione del settore finanziario. A questa
comunicazione seguì il 22 febbraio 2011 il lancio della
consultazione
pubblica
(Commissione
europea
2011a). Dopo alcuni mesi di lavoro, il 29 giugno 2011 la
Commissione europea (2011b) annunciò in occasione del
multiannual financial framework l’intenzione di istituire la
FTT quale fonte propria di risorse per il budget dell’UE.
Per maggiori dettagli si veda la Commissione europea
(2011c). Nel contempo la Commissione europea intende
continuare a fare pressione per l’introduzione di una
FTT a livello globale, come già menzionò ai suoi partner
internazionali nel 2009 in occasione del G-20 a
Pittsburgh e Toronto (Commissione europea 2011a).
Tutto ciò è sfociato il 28 settembre 2011 nella presentazione di una proposta concreta per una tassa sulle
transazioni finanziarie nei 27 Stati membri (Commissione
europea 2011g). Secondo la proposta della Commissione europea, la nuova tassa dovrebbe essere implementata dal 2014 e sarebbe prelevata su tutte le transazio-
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ni tra istituti finanziari portanti su strumenti finanziari,
quando almeno una delle parti è situata nell’UE.
L’aliquota d’imposta sarebbe fissata da ogni singolo Stato
membro dell’UE, ritenuto che gli scambi di azioni e
obbligazioni sarebbero imposti ad un’aliquota minima
dello 0.1%, mentre ai contratti derivati si applicherebbe
un’aliquota minima dello 0.01%. Per maggiori informazioni si vedano il Citizens’ Summary della Commissione
europea (2011e) e la presentazione della Commissione
europea (2011f). Il gettito generato dalla tassa sulle
transazioni finanziarie verrebbe diviso tra l’UE e gli
Stati membri; un documento della Commissione
europea (2011d) riassume la stima dell’impatto della FTT.
La nuova tassa potrà interessare anche gli istituti
finanziari svizzeri nella misura in cui questi effettuassero
delle transazioni con controparti europee. Poiché il
cantiere della FTT è tuttora aperto, per la nostra piazza
finanziaria sarà importante monitorare l’evoluzione di
questa nuova regolamentazione europea.
3.
Le Security Transfer Taxes in Europa
Si è visto sopra che la Commissione europea critica
l’attuale poliedricità delle tasse sulle transazioni
finanziarie nei Paesi europei. Senza bisogno di esprimersi in questa sede sulla presunta dannosità di una
competizione dei sistemi fiscali, è utile avere sott’occhio
la visione d’insieme della situazione europea e di quanto
accaduto negli ultimi anni.
Secondo una nostra ricerca interna, nel 2011 i seguenti
Paesi europei tassano in forme varie il trasferimento
oneroso di titoli finanziari: Belgio, Cipro, Finlandia,
Irlanda, Malta, Polonia, Portogallo, Regno Unito e
Spagna. Ancor più interessanti sono le dinamiche degli
ultimi anni, con l’Austria che ha abolito una tassa sulle
transazioni finanziarie nel 2010, l’Italia che ne ha abolita
una nel 2008, la Germania e la Svezia nel 1991 (per il caso
svedese si veda in particolare la sezione seguente) ed i
Paesi Bassi nel 1990.
Tali tasse finanziarie variano in larga misura per quanto
attiene modalità ed aliquote, basti pensare che in
Portogallo si può arrivare al 4%, a Malta al 2% ed in
Finlandia all’1.6%.
In merito all’introduzione di una FTT europea, non
tutti i governi nazionali sono d’accordo. Tra questi, si
sono dichiarati contrari per esempio la Cechia, l’Irlanda,
il Portogallo e parzialmente il Regno Unito. La proposta
viene invece sostenuta o perlomeno attivamente
discussa in Danimarca e Germania.
4.
L’esperienza storica delle Financial Transaction Taxes
Un termine oggi molto comune per indicare una tassa
sulle transazioni finanziarie è la cosiddetta Tobin Tax, che
regolarmente riemerge come panacea per molti mali
(Rocca 2011). Nel corso degli anni molti argomenti sono
stati addotti in suo sostegno, e come esplicitamente
affermato dalla Commissione europea (2011g) nel
contesto attuale gli argomenti per la FTT sono
rallentare la speculazione (mettere sabbia negli
ingranaggi) e finanziare gli Stati membri.
La Tobin Tax prende il nome dall’economista Premio
Nobel James Tobin (1918-2002), che originariamente
propose nei primi anni ’70 una tassa sulle transazioni valutarie per stabilizzare i mercati dei cambi
(Wikipedia 2011). Dopo la fine, nel 1971, del gold exchange
standard lanciato a Bretton Woods subito dopo la seconda
guerra mondiale, il rischio di maggiore instabilità
dovuto a monete liberamente fluttuanti era infatti cosa
riconosciuta da molti economisti (Rueff 1971) e in
questi ultimi 40 anni effettivamente manifestatasi. In
realtà James Tobin si lasciò ispirare da Keynes (1936),
che nel capitolo XII della sua General Theory propose
l’introduzione di una sostanziale tassa sui trasferimenti
in tutte le transazioni finanziarie che avrebbe contribuito
a mitigare la predominanza della speculazione sopra
l’impresa negli Stati Uniti d’America; in altre parole,
la sabbia buttata negli ingranaggi della speculazione
finanziaria. Negli ultimi 40 anni, il termine di Tobin
Tax è stato esteso anche al di là della tassazione delle
transazioni valutarie.
La letteratura scientifica si è preoccupata di studiare gli
effetti empirici dell’introduzione di tasse sulle transazioni
di titoli finanziari. Statisticamente non è dimostrato che
delle tasse di bollo davvero diminuiscano la volatilità dei
corsi finanziari, mentre è vero che per esempio l’aumento
nel 1974 della stamp duty inglese dell’1% causò un crollo
del volume di transazioni ed una riduzione del 3.3%
del rendimento del FTSE All Share Index (Baldwin 2011).
L’esempio più eclatante e ampiamente documentato
rimane tuttavia la Svezia dei primissimi anni ‘90, che
decise di introdurre una vera e propria Tobin Tax. Campbell
e Froot (1994) spiegano nei dettagli l’evoluzione delle
transazioni finanziarie in Svezia tra il 1. gennaio 1989 e il
1. dicembre 1991, il breve periodo di durata dell’imposta di
bollo che nel 1990 aveva fatto migrare a Londra il 60% del
volume delle 11 aziende più trattate ed il 50% del volume
azionario svedese complessivo (Baldwin 2011). Campbell
e Froot (1994) mostrano che gli investitori tipicamente
reagiscono all’introduzione di una tassa di bollo migrando
il luogo di transazione fuori dal mercato regolato o
all’estero, sostituendo i titoli tassati con titoli dai profili
reddituali simili non tassati, oppure semplicemente
decidendo di commerciare meno ed accettare una
riduzione dei rendimenti pur di ridurre la propria esposizione alla tassa di bollo, il che è coerente con la generale
osservazione di un calo del volume di mercato (ma non
della volatilità nei prezzi).
Schwert e Sequin (1993), che pure tirano un bilancio
delle esperienze empiriche sulle Security Transfer Taxes
in vari Stati nel mondo, giungono alla conclusione che
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non si possa dire se i vantaggi delle imposte di bollo
siano maggiori dei danni creati. Va notato che in nessuna
proposta storica di Security Transfer Tax negli Stati
Uniti d’America si volle applicarla al mercato primario e
secondario dei buoni del tesoro, a dimostrazione che
lo Stato americano stesso ben era cosciente degli
effetti negativi sulla liquidità causati da una tale tassa e
del conseguente aumento dei costi di finanziamento per
l’emittente, soprattutto nel caso di titoli a corto termine.
Sempre secondo Schwert e Sequin (1993), la liquidità dei
mercati primari è essenziale per permettere una liquidità
nel mercato dei derivati, che necessitano di un continuo
hedging attraverso i primi.
In conclusione, l’esperienza in materia di tasse sulle
transazioni finanziarie mostra che i mercati finanziari si
spostano verso altri Paesi o spariscono del tutto e che
il volume borsistico, gli spread tra bid e ask e la volatilità
vengono toccati in modo considerevole (Schwert e
Sequin 1993).
5.
La tassa svizzera di negoziazione
La Svizzera possiede una Security Transfer Tax, la tassa
di negoziazione, che accanto alla tassa di emissione e
alla tassa sui premi di assicurazione è una delle tasse di
bollo regolate dalla Legge federale sulle tasse di bollo
del 27 giugno 1973 (di seguito LTB). Secondo l’articolo 13
capoverso 1 LTB, la tassa di negoziazione è dovuta
quando avviene il trasferimento a titolo oneroso
(secondo il capoverso 2 lettera a) di diritti di partecipazione svizzeri (azioni, quote sociali, eccetera), di
obbligazioni, o di quote di investimenti collettivi di
capitale ai sensi della Legge federale del 23 giugno 2006
sugli investimenti collettivi di capitale. Sono parimenti
imponibili (secondo il capoverso 2 lettera b) i titoli
emessi da una persona domiciliata all’estero equiparabili
nella loro funzione economica a quelli di cui sopra.
L’articolo 13 capoversi 3, 4 e 5 identifica, tra i tanti generi di negoziatori tenuti a pagare la tassa di negoziazio-
ne, in particolar modo le banche e le società finanziarie
affini, i negoziatori o i mediatori del commercio o della
compravendita di documenti imponibili, nonché
ulteriori negoziatori finora non menzionati (per esempio
istituzioni pubbliche, istituti svizzeri di previdenza
professionale, società di capitale, eccetera), i cui attivi
sono composti per oltre 10 milioni di franchi dai suddetti
documenti imponibili.
La base di calcolo è il controvalore e la tassa di
negoziazione corrisponde a 15 punti base (0.15%) per i
titoli emessi da persone domiciliate in Svizzera e a 30
punti base (0.3%) per i titoli esteri. La tassa incombe al
negoziatore di titoli, che se in qualità di mediatore deve
metà tassa per ogni contraente non registrato come
negoziatore o non esentato dalla tassa, così come se in
qualità di contraente deve metà tassa per sé stesso e la
controparte non registrata o non esentata dalla tassa.
Per quanto la tassa di bollo possa sembrare onnicomprensiva, questa conosce già oggi molte eccezioni
riportate nell’articolo 14 LTB. Ci sono per esempio molte
transazioni esenti, come l’emissione di diritti di partecipazione, di obbligazioni, di titoli del mercato monetario
o di quote di investimenti collettivi di capitale svizzeri.
È pure esente l’emissione di diritti di partecipazione
stranieri e di obbligazioni straniere, ma non l’emissione di
quote di investimenti collettivi di capitale straniere (una
misura atta a privilegiare il mercato svizzero dei fondi
d’investimento). Transazioni parimenti esenti dalla tassa
di negoziazione sono la mediazione o l’acquisto e la
vendita di obbligazioni straniere fintanto che il compratore o il venditore è un contraente straniero; si tratta di
un’importante eccezione volta ad aumentare l’attrattività
del mercato svizzero per investitori stranieri, originariamente introdotta nel 1999 come misura urgente
nel campo della tassa di bollo, estesa come misura
urgente fino al 31 dicembre 2005 e da lì in poi ripresa
come diritto ordinario. Con l’introduzione della Legge
federale sulle fusioni, dal 1. luglio 2004 anche le ristrutturazioni (fusione, scissione, trasformazione) rientrano tra
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le importanti transazioni esenti dalla tassa di bollo. Come
ultimo esempio di transazioni esentate dalla tassa di
bollo si pensi alle transazioni legate allo stock commerciale (posizioni per trading) di negoziatori professionali
quali banche o negoziatori di titoli.
L’attuale esenzione dalla tassa di bollo riguarda pure
alcuni generi di prodotto, sempre elencati all’articolo 14
LTB, come il commercio di titoli del mercato monetario
svizzeri ed esteri (purché abbiano una durata sotto i 12
mesi) o il commercio di diritti d’opzione (Bezugsrechte).
Da ultimo non si dimentichi che pure determinati
generi di investitori sono esentati dalla tassa di bollo.
Fondamentalmente se ne trova una lista all’articolo
17a LTB e nella fattispecie pensiamo a Stati e a banche
centrali straniere, a banche ed agenti di borsa stranieri
(articolo 19 LTB), agli investimenti collettivi di capitale
svizzeri ed esteri, agli istituti esteri delle assicurazioni
sociali e di previdenza professionale, alle società
d’assicurazione sulla vita estere soggette a un disciplinamento equivalente a quello svizzero, alle società estere le
cui azioni sono quotate a una borsa riconosciuta, nonché
alle loro società estere consolidate.
Oltre alle esenzioni fondamentali previste dalla Legge
federale sulle tasse di bollo e qui brevemente ricordate,
non si dimentichi che in sede di ruling fiscale con le
autorità federali è possibile negoziare l’esenzione dalla
tassa di negoziazione per una serie di casistiche molto
particolari, la cui presentazione oltrepassa lo scopo del
presente articolo.
6.
La proposta di abolizione delle tasse di bollo in
Svizzera
Nel 2011 i lavori in vista di un’abolizione delle tasse di
bollo in Svizzera sono notevolmente avanzati ed
intendiamo riassumerne in questa sezione la situazione
attuale. Va innanzitutto ricordato che già nel passato
le molte esenzioni di cui sopra sono state incluse nella
Legge federale sulle tasse di bollo allo scopo di migliorare
l’attrattività della piazza finanziaria svizzera. In effetti,
il trend di lungo corso della Svizzera è esattamente
opposto a quello osservabile nell’UE presentato all’inizio
del presente articolo che sta portando all’introduzione
della FTT europea.
Dal 1990 sono in atto a livello federale varie riforme e
tentativi di riforma della tassazione aziendale; Rohner,
Schönenberger e Flückiger (2005) ne danno un’ottima
visione d’insieme. Per quel che ci riguarda in questa sede,
nell’aprile 1993 vi fu un’importante riforma delle tasse
di bollo che aveva lo scopo di rendere nuovamente
attrattiva la piazza finanziaria svizzera. In quell’occasione
venne abolita la tassa di negoziazione su molte attività
finanziarie e parimenti la tassa di emissione sulle quote di
fondi d’investimento svizzeri, nei casi di ristrutturazione
di aziende svizzere e qualora società estere venissero
ridomiciliate in Svizzera. Come misura compensatoria
venne reintrodotta la tassa di emissione sulle
obbligazioni svizzere e sui titoli svizzeri del mercato
monetario, nonché venne estesa la definizione di
negoziatore a tutti gli investitori istituzionali. Malgrado
tali misure compensatorie, la riforma di aprile 1993
comportò una minore pressione fiscale nell’ordine di
420-425 milioni di franchi annui.
Nel 1999 entrarono in vigore ulteriori misure contro
la tassa di negoziazione. Il decreto urgente del 1999
(già menzionato nella sezione precedente) intendeva
mantenere la competitività del settore finanziario e
riconquistare le attività legate agli eurobond. Come
ricordato da Rohner, Schönenberger e Flückiger (2005),
i negoziatori svizzeri ed esteri vennero equiparati e
l’esenzione della tassa di negoziazione si estese ai clienti
esteri nonché ai commerci effettuati sulla borsa dei
derivati Eurex. Secondo alcune stime le minori entrate
dovrebbero esser state compensate dall’aumento dei
volumi.
La tendenza al progressivo contenimento dell’impatto
delle tasse di bollo svizzere è diventata chiara con
un rapporto del 5 aprile 2011 di un gruppo di lavoro
dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (di
seguito AFC [AFC 2011]) sulla soppressione graduale
delle tasse di bollo. In effetti, nel passato molti atti
parlamentari hanno cercato di promuovere un radicale
cambiamento in tal senso; l’ultimo, a titolo di esempio,
fu la mozione n. 09.4108 “Soppressione graduale della
tassa di bollo e creazione di posti di lavoro” del 9
dicembre 2009 da parte del Consigliere agli Stati Rolf
Schweiger, che chiedeva entro il 2011 la soppressione
delle tasse di emissione su titoli di capitale proprio e di
terzi, e della tassa di bollo sui premi di assicurazione, e poi
la soppressione della tassa di negoziazione entro il 2016.
Le 157 pagine del rapporto dell’AFC (2011), disponibile
solo in tedesco con un riassunto anche in francese,
descrivono in modo estremamente dettagliato
motivazioni, tempi ed impatti finanziari di un’abolizione
delle tasse di bollo. L’AFC (2011) si orienta essenzialmente ai due criteri di giudizio legati all’efficienza e
all’attrattività internazionale. Con efficienza si intende
che il sistema di tassazione non crei particolari distorsioni
negli incentivi degli attori economici e, a tale proposito, il
rapporto è molto esaustivo. Secondo l’AFC (2011) stessa,
la tassa di negoziazione distorce da un punto di vista
nazionale l’offerta di titoli finanziari in due modi: (i) aumentando i costi di finanziamento degli emittenti (poiché,
essendo poi le transazioni tassate, gli investitori richiedono
una maggiore rendita compensatoria) e (ii) distorcendo
la scelta delle modalità di finanziamento, dato che sono
tassati titoli di capitale proprio ed obbligazioni ma non
i crediti bancari o i titoli di mercato monetario. Per
quanto riguarda la domanda di titoli finanziari, l’AFC
(2011) nota tre generi di distorsione: (i) la tassa di negoziazione aumenta il carico fiscale sui guadagni da risparmi,
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(ii) distorce la scelta tra gli strumenti di investimento, ed
(iii) induce un effetto lock-in secondo cui gli investitori
ribilanciano i propri portafogli meno spesso di quanto
sarebbe per loro corretto fare. Anche sul piano
dell’attrattività internazionale non mancano secondo
l’AFC (2011) distorsioni, che colpiscono soprattutto i
mediatori finanziari (un effetto tuttavia contenuto alla
luce di quanti investitori stranieri generano volume
attraverso banche svizzere). Il vero problema è che la
tassa di negoziazione riduce il volume di transazione e
così la liquidità del mercato finanziario svizzero.
I summenzionati criteri, unitamente a considerazioni
legate alla liquidità dei singoli mercati finanziari (obbligazioni, azioni sul mercato secondario, eccetera) portano
l’AFC (2011) a proporre una precisa sequenza di categorie
finanziarie progressivamente esentate dalla tassa di
negoziazione (una prioritizzazione simile, qui non
riportata, riguarda la tassa di emissione).
Un approccio graduale presenta l’abolizione della tassa
di negoziazione nel 2016 sulle obbligazioni svizzere, nel
2017 sui titoli svizzeri per investitori svizzeri e stranieri,
e nel 2018 sui titoli stranieri per investitori svizzeri e
stranieri. Un secondo approccio più radicale prevede
invece l’abolizione della tassa di negoziazione sulle
obbligazioni svizzere già nel 2014 e sulle rimanenti
categorie di titoli nel 2015.
Il rapporto di lavoro dell’AFC (2011) si preoccupa
parimenti delle misure accompagnatorie atte a
compensare le minori entrate fiscali causate dall’abolizione delle tasse di bollo. Nel caso dell’approccio
graduale si propone di prolungare anche dopo il 2017
la maggiorazione dell’IVA attualmente introdotta a
vantaggio del risanamento dell’assicurazione invalidità,
nonché di rendere soggette ad IVA dal 2017 anche
le commissioni per i servizi finanziari. Qualora si
intendesse premere l’acceleratore con l’approccio
radicale di un’abolizione delle tasse di bollo entro il 2015,
l’AFC (2011) propone di introdurre dal 2014 una tassa sul
CO2 sui carburanti, di 30 centesimi al litro di carburante,
oppure un innalzamento generalizzato dello 0.4% dei
tassi IVA dal 2014, oppure l’introduzione di un’imposta
federale di successione e di donazione, oppure l’introduzione di un’imposta federale sulla sostanza, o ancora di
aumentare del 20% l’attuale carico dell’imposta federale
diretta.
Tutte queste informazioni mostrano che, oltre alle
favorevoli contingenze storiche delle finanze pubbliche
svizzere (al contrario di quelle dei Paesi europei), le
intenzioni di muoversi verso un’abolizione della “Tobin
Tax svizzera” sono più che serie e le alternative possibili
riflettute nei minimi dettagli.
In merito al rapporto dell’AFC (2011), il Consiglio federale
(2011) si è espresso il 1. dicembre 2011 confermando la
volontà di abolire la tassa di emissione anche sul capitale
proprio (in seno alla riforma della tassazione delle
imprese III già si prevede l’abolizione della tassa di
emissione sul capitale di terzi), pur tuttavia intendendo
mantenere la tassa sui premi di assicurazione e la
tassa di negoziazione mancando, secondo il Consiglio
federale (2011), proposte di controfinanziamento che siano
sostenibili da un punto di vista delle finanze pubbliche.
Per quanto a prima vista possa sembrare chiaro, il
comunicato del Consiglio federale (2011) è con tutta
probabilità volutamente ambivalente, considerando
l’attuale contesto politico. Da una parte, alla luce delle
pressioni che la Commissione europea sta da qualche
mese esercitando sulla Svizzera in materia di fiscalità del
risparmio, il Consiglio federale non ha nessun interesse
a profilarsi in modo aggressivo. D’altra parte non va
dimenticato che tale comunicato stampa è uscito solo
due settimane prima delle elezioni del nuovo Consiglio
federale (che si sono tenute il 14 dicembre 2011) nelle quali
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gli equilibri politici era appunto in discussione. In realtà,
benché il Consiglio federale (2011) abbia affermato di
non voler (ancora) abolire la tassa di negoziazione, la
sua mossa è perfettamente coerente con la proposta
formulata dall’AFC (2011), che prevedeva dapprima
l’abolizione della tassa di emissione.
7.
Conclusioni
In un loro recente libro, Breiding e Schwarz (2011) hanno
enucleato gli elementi fondamentali del successo
economico svizzero, tra i quali è risaputo il ruolo giocato
dal settore finanziario. Non è cosa nuova che le autorità
politiche e fiscali svizzere abbiano un occhio di riguardo
per questo importante, ma pure molto sensibile, settore
economico. Da più di 20 anni le imposte di bollo sono
state progressivamente smussate per non danneggiare
troppo l’attrattività della piazza finanziaria elvetica, e
chiari segnali lasciano presagire che ancora entro questo
decennio la Svizzera potrebbe abolire completamente le
tasse di bollo (tassa di emissione, tassa di negoziazione e
tassa sui premi di assicurazione).
Tale dinamica si innesta sulle contingenze storiche
europee che vanno esattamente nella direzione opposta e che lasciano presagire l’introduzione di una FTT
continentale, attivamente promossa dalla Commissione
europea con l’argomento di far pagare il conto delle
spese pubbliche della crisi finanziaria al settore finanziario, di finirla con la concorrenza (“armonizzazione”)
in materia di tasse di bollo nei Paesi europei, di gettare
sabbia negli ingranaggi della speculazione finanziaria
(l’idea alla base della Tobin Tax) e, forse la motivazione
principale, introdurre finalmente un finanziamento
diretto per il budget della Commissione europea.
Le tensioni all’interno dell’UE sicuramente non mancano
e non si sa se e quando la FTT verrà introdotta. Se
tuttavia la Svizzera procederà imperterrita sulla strada
finora tracciata, tra qualche anno la piazza finanziaria
svizzera potrebbe godere di un’attrattività internazionale
molto interessante. In modo non diverso da quanto
generalmente accaduto nei suoi 700 anni di storia
(Steinberg 1996), anche questa volta la Svizzera si
sarebbe adeguata al contesto circostante pur mantenendo saldamente nelle proprie mani quel Swiss finishing
che le permette di meglio calibrare le proprie strutture. In un comunicato stampa del 1. dicembre 2011, il
Consiglio federale (2011) ha già mosso il primo passo
ufficiale annunciando la volontà di abolire integralmente la tassa di emissione. Rimane ora aperta la domanda
se e quando anche la tassa di negoziazione verrà in
futuro soppressa. Determinanti saranno gli sviluppi
europei e la linea politica che il Consiglio federale
eletto dall’Assemblea federale lo scorso 14 dicembre 2011
deciderà di intraprendere. Al di là di queste contingenze,
il quadro complessivo descritto in questo articolo sembra
dare interessanti spunti di riflessione.
Per maggiori informazioni:
AFC; Schrittweise Abschaffung der Stempelabgaben,
Studie der Arbeitsgruppe, 2011, in:
http://www.estv.admin.ch/dokumentation/00075/
00803/index.html
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Baldwin Adam; The Tobin Tax, Reason or treason? Adam
Smith Institute Briefing Paper, 2011, in:
http://www.adamsmith.org/files/ASI_Tobin_Tax_2011.pdf
[21.12.2011]
Breiding James/Schwarz Gerhard; Wirtschaftswunder
Schweiz, Ursprung und Zukunft eines Erfolgsmodells, in:
Verlag Neue Zürcher Zeitung, 2011
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with Securities Transaction Taxes, in: Frankel Jeffrey (a
cura di); The internationalization of equity markets, University of Chicago Press, 1994, in:
http://www.nber.org/books/fran94-1
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big to fail, Die Kommission genehmigt weitgehend die
Vorlage des Ständerates. Medienmitteilung WAK-N n.
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http://www.parlament.ch/d/mm/2011/seiten/mm-wakn-2001-08-31.aspx
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sector, COM/2010/549, 2010, in:
http://ec.europa.eu/taxation_customs/resources/documents/
taxation/com_2010_0549_en.pdf
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growth tomorrow, Press release IP/11/1085, 2011, in:
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=IP/11/799&format=HTML&aged=0&language=en&gui
Language=en
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8
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Commissione europea – 2011f; The Commission proposal
for a Council Directive on a common system of FTT, 2011, in:
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Commissione europea – 2011g; Proposal for a Council
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Tax and amending Directive 2008/7/EC, COM/2011/594,
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documents/taxation/other_taxes/financial_sector/
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la tassa di emissione e mantenere le altre tasse di bollo,
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http://statik.nanopress.it/625X0/www/politica24/it/img/
Ue-accordo-tobin-tax.jpg
[21.12.2011]
http://www.aargauerzeitung.ch/schweiz/schweiz-waereohne-stempelsteuer-attraktiverer-standort-110208033/
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[21.12.2011]
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Caroline House Publishers, 1979
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[21.12.2011]
Dr. Paolo Pamini
Docente in Law & Finance,
ETH Zurigo
Assistant Consultant, Tax
and Legal Services, PwC Lugano
[email protected]
[email protected]
Luca Poggioli
Esperto fiscale diplomato
Direttore, Tax and Legal
Services, PwC Lugano
[email protected]
Diritto tributario svizzero
Averi clienti e cash pooling
Recente evoluzione in materia di imposta preventiva
Nello specifico, l’inizio dell’assoggettamento è dato in
due casistiche:
a. per le banche e casse di risparmio che, secondo la
legislazione bancaria, offrono pubblicamente di
accettare denari dietro interesse, l’obbligazione
fiscale inizia con l’assunzione dell’attività; in questo
contesto nulla è cambiato rispetto al “Promemoria
averi clienti (aprile 1999) S-02.122.2”;
b. per le banche e casse di risparmio ai sensi dell’articolo
9 capoverso 2 LIP, che accettano in modo continuo
denari dietro interesse, l’obbligo fiscale inizia invece
non appena la consistenza dei creditori supera il
numero di 100 e, cumulativamente, l’ammontare del
debito è di almeno 5 milioni di franchi svizzeri.
Nel numero di creditori non vanno considerate le
banche svizzere ed estere ai sensi della legislazione
in materia di banche vigente alla loro sede.
1.
Introduzione
Lo scorso 26 luglio 2011, l’AFC ha pubblicato la nuova
Circolare n. 34 in materia di imposta preventiva, che ha lo
scopo di definire le regole applicabili ai cosiddetti “averi
di clienti”.
Eccezion fatta per due aspetti, che saranno approfonditi
in seguito, questa Circolare è assolutamente identica al
“Promemoria averi clienti (aprile 1999) S-02.122.2” che
viene appunto sostituito, con effetto immediato, dalla
nuova Circolare n. 34.
L’articolo 4 capoverso 1 lettera d della Legge federale
sull’imposta preventiva (di seguito LIP) stabilisce che
i redditi da averi di clienti sono soggetti all’imposta
preventiva. Ai sensi della LIP, vengono considerati averi
di clienti i crediti generati da depositi presso banche o
casse di risparmio svizzere, come averi da risparmi,
depositi, conti correnti, conti vincolati, conti a chiamata,
conti stipendi, prestiti di azionisti, eccetera.
Le condizioni d’inizio dell’assoggettamento sono però,
in questo contesto, subordinate alla qualifica di banca
e cassa di risparmio ai sensi della LIP, ed è proprio in
questo ambito che la nuova Circolare n. 34 ha portato dei
cambiamenti significativi.
Innanzitutto, il diritto dell’imposta preventiva conosce un
proprio concetto di banca, che viene definito all’articolo 9
capoverso 2 LIP, secondo cui “si considera banca o cassa di
risparmio chiunque si offre pubblicamente di accettare denari
fruttiferi o accetta in modo continuo denari dietro interesse”.
10 | n° 12 - Dicembre 2011 |
Le modifiche introdotte dalla nuova Circolare si
riconducono proprio all’estensione delle condizioni
formali relative all’inizio dell’assoggettamento di una
banca o cassa di risparmio ai sensi della LIP (punto 4
della Circolare).
Queste condizioni formali si sono nel tempo viepiù
allargate, infatti, secondo il vecchio “Promemoria averi
clienti (aprile 1999) S-02.122.2”, che poneva condizioni
più restrittive rispetto a quelle attuali, la qualifica di
banca e cassa di risparmio era data al superamento del
numero di 20 creditori ed un ammontare del debito pari
ad almeno mezzo milione di franchi.
2.
Il cash pooling
2.1. Introduzione
Dal punto di vista della pianificazione finanziaria una
delle importanti possibilità concesse dall’introduzione
della nuova Circolare è legata all’impiego in Svizzera, da
parte di grossi gruppi di società anche multinazionali, del
cash pooling per gestire la tesoreria di Gruppo; opportunità che in precedenza era purtroppo penalizzata da un
elevato carico fiscale.
In generale, la coordinazione della tesoreria di un gruppo
aziendale risulta essere parecchio onerosa. In effetti da
una parte le eccedenze passive che possono interessare
alcune entità di un gruppo sono colpite da alti interessi
debitori, mentre eventuali eccedenze di liquidità sono
remunerate da esigui interessi attivi.
Nella pratica il cash pooling viene attuato principalmente
con tre diversi sistemi:
a. Notional Cash Pooling,
b. Zero Balance System e
c. Account Sweeping.
In ogni caso, qualunque sistema venga scelto, il cash
pooling permette di realizzare risparmi non indifferenti
nella gestione della liquidità, ed è quindi un metodo
particolarmente conveniente quando si tratta di coordinare rapporti di conto corrente all’interno di un gruppo.
2.2. L’evoluzione delle normative fiscali e le relative conseguenze
A livello internazionale spesso sorgono problemi
nell’ambito della gestione della tesoreria legati a sistemi
bancari diversi, costi di trasferimento elevati e, non da
ultimo, rischi sul cambio della valuta; a maggior ragione
in questi periodi d’incertezza.
Il cash pooling rappresenta una valida risposta nell’ambito della gestione della tesoreria, permette infatti
di “condensare” i saldi di conto corrente attivi e
passivi di ogni singola società facente parte di un gruppo
economico in unico soggetto giuridico, con una
conseguente gestione centralizzata e meno dispendiosa
della liquidità.
Questa pratica permette di evitare possibili squilibri
finanziari riconducibili ad ogni singola entità facente
parte del gruppo. Infatti, la compensazione consente di
conseguire un considerevole risparmio di interessi passivi
e di finanziare indirettamente le realtà che presentano
una posizione passiva nei confronti delle banche, evitando
di ricorrere a capitali estranei al gruppo.
In aggiunta, la gestione di tutta la liquidità mediante
un’unica entità giuridica ed un unico istituto finanziario
permette, tra le altre cose, un considerevole risparmio
di costi di trasferimento dei capitali e permette altresì di
poter negoziare con eventuali istituti finanziari terzi delle
condizioni più favorevoli, dettate dall’entità totale della
liquidità (economia di scala).
Il contratto di cash pooling è strutturato come segue:
•
la società che si occupa della gestione della tesoreria
di tutto il gruppo stipula, su mandato delle altre
società del gruppo, un accordo con un istituto
finanziario per aprire un conto corrente dove saranno
trasferiti, virtualmente o fisicamente, i saldi, positivi
e negativi, dei conti di ogni società;
•
da notare che, comunque, ogni società mantiene la
sua posizione debitoria o creditoria personale. Tutti
questi passaggi sono regolati contrattualmente.
11
| n° 12 - Dicembre 2011 |
Prima dell’introduzione della nuova Circolare questa
pratica non era particolarmente interessante in Svizzera.
Infatti il cash pool leader elvetico, superata la (esigua)
cifra di 20 creditori, era qualificato quale banca e cassa di
risparmio ai sensi della LIP e, di conseguenza, gli interessi
legati a questa attività erano assoggettati all’imposta
preventiva, con tutte le conseguenze tributarie del caso.
I gruppi svizzeri, a causa di questa prassi fiscale, erano
quindi costretti a concentrare le funzioni di cash pool
leader all’estero per non dover sopportare i costi derivanti
dall’assoggettamento degli interessi all’imposta preventiva.
L’articolo 15 dell’Accordo del 26 ottobre 2004 tra la
Confederazione Svizzera e la Comunità europea che
stabilisce misure equivalenti a quelle definite nella
Direttiva del Consiglio n. 2003/48/CE, del 3 giugno 2003,
in materia di tassazione dei redditi da risparmio (Accordo
sulla fiscalità del risparmio, di seguito AfisR), ha portato
modifiche rilevanti in relazione al pagamento di dividendi,
interessi e canoni tra società, introducendo uno “sgravio
fiscale” interessante anche nell’ottica del cash pooling.
In particolare l’articolo 15 capoverso 2 AfisR prevede che
i pagamenti di interessi e di canoni effettuati tra società
consociate o le loro stabili organizzazioni non siano soggetti a imposizione fiscale nello Stato d’origine quando:
a. tali società sono collegate da una partecipazione
diretta minima pari al 25% per almeno due anni o
sono entrambe detenute da una terza società che
detiene direttamente almeno il 25% del capitale,
tanto della prima, quanto della seconda società, per
un periodo minimo di due anni; e
b. una delle società ha la residenza fiscale, o una stabile
organizzazione è situata, in uno Stato membro e
l’altra società ha la residenza fiscale, o l’altra stabile
organizzazione è situata, in Svizzera; e
c. nessuna delle due società ha la residenza fiscale, o
nessuna delle stabili organizzazioni è situata, in uno
Stato terzo sulla base di un accordo in materia di
doppia imposizione con tale Stato terzo; e
d. tutte le società sono assoggettate all’imposta diretta
sugli utili delle società senza beneficiare di esenzioni,
in particolare con riguardo ai pagamenti di interessi
e di canoni, e adottando la forma di una società di
capitali senza beneficiare di esenzioni.
Nel caso di un gruppo strutturato in maniera che vi sia
una sola holding che detenga più società consociate quindi, alle condizioni dettate dall’articolo 15 AfisR, gli interessi pagati all’interno del gruppo non sono assoggettati
all’imposta preventiva.
Questa norma è valida unicamente nel contesto di una
detenzione diretta o in caso di società consociate detenute dalla medesima società madre.
In determinate realtà multinazionali, con organizzazioni
particolarmente complesse, è però possibile che questa
norma non risulti applicabile al cash pool leader svizzero,
dato che i pagamenti di interessi fra società dello stesso
gruppo detenute da due sub-holding diverse non sono
contemplati dall’articolo 15 AfisR. È quindi possibile che
l’imposta preventiva rappresenti un forte ostacolo per
l’implementazione di uno strumento di gestione della
liquidità di questo genere in Svizzera.
Il 18 giugno 2010 il Consiglio federale ha introdotto delle
modifiche all’Ordinanza sull’imposta preventiva (di
seguito OIPrev) con l’adozione dell’articolo 14a OIPrev.
Va altresì notato come tale disposizione preveda che gli
averi all’interno di una società di un gruppo non siano
considerati come averi di clienti e che quindi gli interessi
ad essi collegati non siano assoggettati all’imposta preventiva (articolo 14a capoverso 1 OIPrev), introducendo
così un ulteriore passo per rendere appetibile l’utilizzo del
cash pooling e l’insediamento di cash pool leader anche sul
territorio elvetico.
L’articolo 14a capoverso 2 OIPrev specifica che sono
considerate società di un gruppo, ai sensi del capoverso 1,
le società i cui conti annuali sono integralmente consolidati; quindi gruppi di società che non consolidano i conti
o eventuali società che fanno parte di un gruppo ma
che non appaiono nel conto annuale consolidato dello
stesso, non rientrano nella casistica descritta all’articolo
14a capoverso 1 OIPrev.
L’articolo 14a capoverso 3 OIPrev stabilisce che qualora una
società svizzera di un gruppo garantisca un’obbligazione
di una società estera dello stesso gruppo, la norma di cui
all’articolo 14a capoverso 1 OIPrev non risulta applicabile.
12
| n° 12 - Dicembre 2011 |
Anche questa disposizione pone quindi dei limiti, infatti se
una società estera, la cui liquidità è gestita (e garantita)
da un cash pool leader svizzero, emette un’obbligazione,
la stessa è considerata svizzera ai sensi dell’articolo 14a
capoverso 3 OIPrev, con tutti gli oneri derivanti da tale
assoggettamento.
3.
Conclusioni
Con l’introduzione della nuova Circolare ed il relativo
“alleggerimento” delle condizioni formali per determinare
la qualifica quale banca o cassa di risparmio ai sensi
dell’imposta preventiva, l’utilizzo del cash pooling e l’insediamento di società cash pool leader di gruppi svizzeri o esteri in
Svizzera diventa un’ipotesi molto più praticabile rispetto al
passato, almeno nel contesto degli averi di clienti.
Infatti la Circolare n. 34, nonostante le possibilità previste
agli articoli 15 capoverso 2 AfisR e 14a OIPrev, estende le
condizioni formali per divenire banca ai sensi della LIP, nel
contesto degli averi clienti, a un numero di creditori che
difficilmente può essere considerato un limite se si opera
una pianificazione strategica adeguata.
I cambiamenti di prassi introdotti risultano quindi finalmente importanti e rinforzano di fatto la Svizzera nel
contesto della concorrenza fiscale internazionale offrendo una buona opportunità di razionalizzazione dei costi
legati alla gestione della tesoreria in seno ai gruppi.
Per maggiori informazioni:
AFC; Circolare n. 34, Averi di clienti, del 26 luglio 2011, in:
http://www.estv.admin.ch/bundessteuer/dokumentation/
00242/00380/index.html?lang=it
[21.12.2011]
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.finanz-duell.de/bilder/fotolia/schweiz_
fahne_schnee_berge.jpg
[21.12.2011]
http://www.schweizer-bankenportal.com/Aktienkurs_.jpg
[21.12.2011]
http://www.swissinfo.ch/media/cms/images/reuters/
2011/02/geldwaesche-29422378.jpg
[21.12.2011]
Costante Ghielmetti
Esperto fiscale diplomato
Vicedirettore INTERFIDA SA,
Chiasso
Roberto Pizzino
Consulente fiscale
INTERFIDA SA, Chiasso
Diritto tributario italiano
Regime “Pex” retroattivo
anche per le ritenute sui dividendi in uscita
La nuova Circolare n. 32/E dell’Agenzia delle Entrate disciplina
le istanze di rimborso sulla ritenuta in uscita
1.
L’adeguamento alla giurisprudenza comunitaria
La Corte di giustizia delle Comunità europee (di seguito
Corte) nella sentenza C-540/07 del 19 novembre 2009[1]
ha condannato la disciplina fiscale italiana in materia di
tassazione dei dividendi domestici corrisposti a società
ed enti non residenti in Italia (cosiddetta “ritenuta in
uscita”) poiché considerata discriminatoria nei confronti
della disciplina fiscale applicata ai dividendi corrisposti a
società ed enti residenti.
Lo scorso 8 luglio, tramite l’emanazione della Circolare
n. 32/E, l’Agenzia delle Entrate si è adeguata alla citata
sentenza, concedendo il rimborso del differenziale in
eccesso, ritenuto discriminatorio, tra la ritenuta in uscita,
pari al 27% e quella ridotta applicata al percettore
residente in Italia, pari all’1.65%.
2.
La normativa
Il regime italiano della cosiddetta partecipation exemption
(di seguito Pex) relativo all’esenzione fiscale dei dividendi
domestici versati a società ed enti commerciali residenti
e assoggettati all’imposta sul reddito delle società (di
seguito IRES) è entrato in vigore il 1. gennaio 2004. A
seguito della riforma, tali dividendi sono imponibili
soltanto nella misura del 5% del loro ammontare[2].
Siccome la relativa aliquota IRES era pari al 33%[3], il
tasso di imposizione effettivo ammontava all’1.65%
(33% del 5%).
Per i dividendi in uscita invece si applica generalmente
una ritenuta alla fonte del 27%[4].
A partire dal 1. gennaio 2008 (con la Legge del 24
dicembre 2007, n. 244, cosiddetta “finanziaria 2008”),
è stata introdotta la Pex anche per i dividendi in uscita
verso Stati membri dell’UE e aderenti l’Accordo sullo Spazio
economico europeo (di seguito SEE) del 2 maggio 1992[5],
14
| n° 12 - Dicembre 2011 |
riforma necessaria per rendere la norma compatibile con
i principi comunitari relativi al principio di non discriminazione e alle libertà di circolazione e di stabilimento.
Tuttavia la nuova disciplina è applicabile solamente ai
dividendi in uscita corrisposti a decorrere dal 1. gennaio
2008 mentre la Pex “domestica” era applicabile già a
partire dal 1. gennaio 2004.
3.
Il rimborso
A seguito della sentenza della Corte del 2009, sono state
proposte numerose istanze di rimborso delle ritenute
in eccesso sui dividendi in uscita ante 2008, per i quali
è stata applicata un’aliquota del 27% contro un’aliquota
dell’1.65% applicata ai dividendi percepiti da società
residenti in Italia, nel medesimo periodo.
Con la Circolare n. 32/E, l’Agenzia delle Entrate ha quindi
invitato gli uffici locali ad ammettere il rimborso delle
ritenute in eccesso effettuate sui dividendi maturati
prima del 2008 e ad abbandonare gli eventuali contenziosi pendenti.
Sempre secondo la Circolare, l’abbandono tout court del
contenzioso scaturito a seguito dell’istanza di rimborso
può però avvenire solamente al ricorrere di determinate
condizioni soggettive e oggettive da verificare, secondo
la normativa interna ordinaria.
Le condizioni oggetto di verifica da parte del fisco sono
sostanzialmente sette; la prima condizione è che il
campo di applicazione del nuovo regime fiscale non
si estende alle partecipazioni cosiddette “qualificate”
per le quali si applica la Direttiva europea del Consiglio
del 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE (cosiddetta “Direttiva
madre-figlia”). In tal caso l’esame sul diritto al rimborso
va effettuato esclusivamente alla stregua delle disposizioni di tale Direttiva. La seconda e la terza condizione
escludono la presa in considerazione delle istanze di
rimborso presentate da soggetti residenti in Stati aderenti
all’Accordo SEE, poiché esclusi dalla sentenza, nonché le
istanze presentate per le ritenute sui dividendi corrisposti
prima del 1. gennaio 2004, ovvero prima dell’entrata
in vigore del regime fiscale Pex, disciplina fiscale che
ha scaturito l’effetto discriminatorio e reso legittima la
richiesta di rimborso.
La Circolare n. 32/E precisa altresì che l’istanza di rimborso
deve essere stata presentata entro quarantotto mesi
dall’effettuazione della ritenuta[6]. Inoltre il percettore
estero che chiede il rimborso deve essere assoggettato
a imposte societarie nello Stato di residenza. Tale requisito deriva dal fatto che, secondo la sentenza della Corte,
la maggior tassazione dei dividendi in uscita rispetto a
quella dei dividendi versati a contribuenti residenti in Italia
costituisce un disincentivo per le società comunitarie
ad investire nel territorio italiano. Pertanto, se la società
residente in uno Stato membro dell’UE e percettrice del
dividendo italiano non dovesse essere assoggettata ad
imposta nel suo Stato di residenza, la ritenuta applicata
dall’Italia sul dividendo non costituirebbe un disincentivo
ad effettuare investimenti in Italia, anzi porterebbe
questa società ad una situazione di vantaggio rispetto
alla società italiana, in quanto la società estera fruirebbe
del rimborso della ritenuta italiana pur non pagando
imposte nel Paese di residenza. Si produrrebbe una
discriminazione in senso inverso, altrettanto vietata dal
diritto comunitario.
Si precisa inoltre che l’onere di provare il diritto al
rimborso è a carico di chi lo richiede. In particolare dovrà
quindi essere la società richiedente a dimostrare, tramite
un certificato emesso dallo Stato di residenza (Stato con
il quale è attuabile uno scambio di informazioni ai sensi
di una convenzione contro le doppie imposizioni in
vigore con l’Italia o con il quale è possibile avvalersi delle
regole di collaborazione fiscale transfrontaliera previste
dalla Direttiva n. 77/799/CEE[7]), di essere assoggettata
ad imposta in questo Stato, nonché di dimostrare che
tale Stato non dà diritto ad un credito di imposta pieno
sulla trattenuta subìta in Italia (infatti in tal caso non vi
sarebbe discriminazione contraria al diritto comunitario,
considerato che grazie alla piena imputazione la ritenuta
ha un effetto neutro per il contribuente).
L’ultima condizione dettata dalla Circolare, avente come
obiettivo il contrasto alle frodi fiscali, è che la società
richiedente non sia una società conduit o che l’istanza
non sia l’esito di operazioni conduit. In altre parole la
società richiedente, residente in uno Stato membro
dell’UE, non deve consistere in una mera “costruzione
di puro artificio”, senza un’effettiva attività economica e
senza una reale struttura. Tipicamente la società conduit
funge unicamente da interposizione tra la società distributrice del dividendo e il percettore finale, quest’ultimo
residente in uno Stato extra UE e che non avrebbe quindi
diritto al rimborso.
Un’operazione conduit è caratterizzata dall’assenza di
ragioni commerciali che la determinano. Si pensi ad
esempio quando un soggetto non avente diritto al
15
| n° 12 - Dicembre 2011 |
rimborso, trasferisce temporaneamente la partecipazione italiana ad un soggetto avente tale diritto, che poi
successivamente retrocede la partecipazione, compreso,
direttamente o indirettamente, il dividendo che ha
beneficiato illecitamente del regime fiscale in esame.
In questo caso l’onere della prova dell’abuso fiscale
è però a carico dell’Agenzia delle Entrate, che potrà
comunque avvalersi della collaborazione del fisco
straniero, per il tramite della relativa convenzione contro
la doppia imposizione o della Direttiva n. 77/799/CEE.
La Circolare elenca poi una serie di criteri, stabiliti a livello
comunitario, volti a determinare sia l’artificiosità della
società, sia delle operazioni:
•
la prevalenza o meno della sostanza sulla forma;
•
il solo obiettivo del risparmio fiscale non costituisce
di per sé un insediamento o un’operazione artificiosa,
qualora la società dimostri di non essere una struttura
“vuota” (carente cioè di un’adeguata struttura patrimoniale) e presenti un’attività economica effettiva;
•
la società holding non va considerata come abusiva
a prescindere, poiché questo tipo di società, la cui
attività consiste nel detenere partecipazioni, non
necessita di una particolare struttura patrimoniale.
In generale occorre distinguere tra la società che
semplicemente possiede le partecipazioni, considerata abusiva, e la società che invece esercita
effettivamente un controllo attivo sulle sue partecipazioni, attraverso una gestione diretta o indiretta
della società partecipata, considerata non abusiva,
avente un’effettiva attività economica e quindi
legittimata a richiedere il rimborso;
•
le presunzioni e le norme antielusive sulle quali si
basa l’autorità fiscale per considerare artificiosa la
società o l’operazione, non devono avere carattere
assoluto, il contribuente deve quindi avere in ogni
caso la possibilità di provare il contrario e gli oneri
probatori messi a suo carico devono essere a lui
proporzionati;
•
con riferimento alle operazioni, l’amministrazione
fiscale potrà richiedere al contribuente dati e notizie
necessari al fine di accertarne la conformità.
La Circolare osserva infine che, con riguardo alle società
residenti in Stati inclusi nella black-list, vale la presunzione
di carattere elusivo dell’insediamento o dell’operazione,
purché tale presunzione sia ragionevole, vale a dire
fondata su un rischio reale di comportamento elusivo.
Tale presunzione resta comunque a carattere relativo,
in altre parole il contribuente ha sempre la possibilità di
provare il contrario, senza oneri probatori eccessivamente
dispendiosi oppure troppo difficili da dimostrare.
nella normativa fiscale in esame (non toccati dalla
citata sentenza) rimangono validi, in particolare l’essere
assoggettati ad imposta nello Stato di residenza, nonché
dimostrare la non artificiosità del proprio insediamento
e/o dell’operazione.
Per maggiori informazioni:
Agenzia delle Entrate; Circolare n. 32/E, 8 luglio 2011, in:
http://def.finanze.it/DocTribFrontend/getPrassiDetail.
do?id={242FB8F8-0ED8-485A-877F-6C21518297F8}
[21.12.2011]
Committeri Gian Marco; Nessun rimborso Pex alle società “interposte” Ue, in: Il Sole24ore, 14 luglio 2011,
http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/
2011-07-14/nessun-rimborso-societa-interposte064305.shtml?uuid=AacC5wnD
[21.12.2011]
Fisco Oggi; Ritenute su dividendi in uscita. Griglia di
controllo per i rimborsi, 8 luglio 2011, in:
http://www.fiscooggi.it/normativa-e-prassi/articolo
/ritenute-su-dividenti-uscita-griglia-di-controllo-irimborsi
[21.12.2011]
4.
Considerazioni conclusive
Il divario temporale tra l’entrata in vigore del regime Pex
per i contribuenti residenti in Italia, avvenuta il 1. gennaio
2004, e per i contribuenti residenti in altri Stati membri
dell’UE, avvenuta il 1. gennaio 2008, ha determinato una
disparità di trattamento non conforme al diritto comunitario. L’8 luglio 2011, l’Italia ha deciso – adeguandosi
in questo modo alla giurisprudenza comunitaria – di
concedere il rimborso della ritenuta in uscita (pari al 27%)
applicata in eccesso rispetto alla ritenuta prevista per i
percettori residenti in Italia (pari all’1.65%).
Attraverso la Circolare n. 32/E, l’Agenzia delle Entrate ha
altresì precisato che tale diritto spetta solamente alle
società residenti in uno Stato membro dell’UE e che si
sono viste rifiutare il rimborso unicamente perché hanno
percepito il dividendo prima del 1. gennaio 2008. Tutti
gli altri requisiti legittimanti il rimborso presenti
16
| n° 12 - Dicembre 2011 |
Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, Seconda sezione; causa C-540/07, del 19 novembre
2009, in:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.
do?uri=CELEX:62007J0540:IT:HTML
[21.12.2011]
Elenco delle fonti fotografiche:
http://rivista.ssef.it/file/public/immagini/2007/10-12/
pex600.jpg
[21.12.2011]
http://www.nuovofiscooggi.it/files/imagecache/img_
major_story/immagini_articoli/u27/plusvalenze.jpg
[21.12.2011]
http://cdn2.digitaltrends.com/wp-content/uploads/
2011/11/eu-court-of-justice.jpg
[21.12.2011]
Sabina Rigozzi
Assistente SUPSI
Note: 1) Per un esame della sentenza si veda, in
questo stesso numero, la Rassegna di giurisprudenza
di diritto dell’UE. 2) Cfr. articolo 89 comma 2 del
Testo unico delle imposte sui redditi del 22
dicembre 1986, n. 917 (di seguito TUIR). 3) Dal 1.
gennaio 2008, l’aliquota IRES è scesa al 27.5%. 4)
Cfr. articolo 27 comma 3 del Decreto del Presidente
della Repubblica del 29 settembre 1973, n. 600 (di
seguito DPR n. 600/1973). 5) Cfr. articolo 27
comma 3-ter DPR n. 600/1973. 6) Cfr. articolo 38
DPR n. 600/1973. 7) Direttiva del Consiglio del
19 dicembre 1977, n. 77/799/CEE, relativa alla
reciproca assistenza fra le autorità competenti
degli Stati membri nel settore delle imposte dirette
e indirette.
Quali sono gli effetti dell’interpello disapplicativo
della disciplina CFC?
L’Amministrazione finanziaria torna sul tema della necessità della presentazione
dell’interpello disapplicativo della disciplina CFC, da considerarsi anche quale presupposto
della successiva impugnazione del diniego amministrativo
Ai sensi dell’articolo 167, comma 5, lettera b, del TUIR, il
contribuente italiano che voglia sottrarsi all’applicazione
della disciplina in materia di Controlled Foreign Companies
(di seguito CFC) deve preventivamente presentare un
interpello disapplicativo ai sensi dell’articolo 11 della
Legge del 27 luglio 2000, n. 212 (cosiddetto “Statuto
del Contribuente”). Questo richiamo fa sì che, sebbene
obbligatorio dal punto di vista procedimentale, lo stesso
interpello non sia cogente per il contribuente nel suo
risultato, vincolando solo la pubblica amministrazione, in
caso di risposta affermativa alla disapplicazione, e sempre
che, in sede di accertamento, non emerga una situazione
diversa da quella descritta dal contribuente medesimo.
Recentemente, sul tema della presentazione dell’interpello disapplicativo della disciplina CFC era intervenuta
l’Agenzia delle Entrate nella Circolare del 14 giugno
2010, n. 32, con cui, pur ribadendosi l’obbligatorietà della
presentazione in discorso, in applicazione dei principi
costituzionali e comunitari essa puntualizzava che la
mancata presentazione dell’interpello avrebbe tuttavia
inciso sulla graduazione della sanzione applicabile per
l’omissione delle comunicazioni previste per legge (sul
punto si veda anche la Circolare del 6 ottobre 2010, n.
51), qualora in fase di accertamento e sulla base della
documentazione in possesso del contribuente fosse
stata rilevata l’insussistenza delle condizioni che
avrebbero legittimato la disapplicazione della disciplina
antielusiva in sede di interpello obbligatorio.
Questa posizione costituiva un superamento di quella
precedentemente espressa dalla medesima Agenzia
18
| n° 12 - Dicembre 2011 |
delle Entrate nella Circolare del 3 marzo 2009, n. 7, con
specifico riferimento alle istanze di interpello disapplicativo della disciplina delle società non operative, secondo
cui, in assenza di presentazione dell’istanza, il ricorso
doveva essere ritenuto inammissibile, in quanto il legislatore subordinava la disapplicazione della norma antielusiva a tale condizione, con la conseguenza che l’esistenza
di esimenti non poteva essere proposta per la prima volta
in sede contenziosa nel ricorso avverso l’avviso di accertamento e di irrogazione delle sanzioni amministrative.
Sulla base dell’indirizzo recentemente espresso nel 2010
sembrava quindi che, pur in assenza della presentazione
dell’interpello preventivo in materia di CFC, il contribuente potesse comunque dimostrare in giudizio
l’esistenza di una delle esimenti previste dalla legge
per la disapplicazione della disciplina in discorso, salva
comunque l’irrogazione delle sanzioni per omessa
presentazione dell’interpello.
Tuttavia, oggi, il tema qui trattato sembra essere
nuovamente inciso da ulteriori interventi sia della
giurisprudenza che della prassi.
Infatti, nel pronunciarsi sull’interpello disapplicativo ai
sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del DPR n. 600/1973,
con sentenza del 15 aprile 2011, n. 8663, la Suprema
Corte di Cassazione sottolinea la possibilità di impugnare
ai sensi dell’articolo 19, comma 1, lettera h, del decreto
legislativo del 31 dicembre 1992, n. 546, l’eventuale diniego
amministrativo di disapplicazione della norma antielusiva (contra: Consiglio di Stato, sentenza del 26 gennaio
2009, n. 414), poiché, in difetto di impugnazione, lo
stesso contribuente non potrebbe poi invocare la
natura non elusiva dell’operazione e, conseguentemente,
contrastare – anche giudizialmente – gli atti impositivi
successivamente emanati dall’Amministrazione finanziaria. Infatti, secondo la Corte di Cassazione, il contribuente sarebbe portatore non già di un mero interesse
legittimo ad ottenere una risposta, bensì, trattandosi di
misura agevolativa, di un vero e proprio diritto soggettivo
alla non applicazione della legge limitativa, che pertanto:
1. da un lato obbliga l’Agenzia delle Entrate a non
opporsi all’operazione, una volta appurato che
quest’ultima non ha natura elusiva, senza che in tale
giudizio l’Amministrazione finanziaria possa calare
alcuna valutazione discrezionale;
2. dall’altro, il giudice tributario, investito del ricorso
contro il diniego, non deve limitarsi ad appurare
la legittimità dell’atto, ma deve altresì entrare nel
merito della pretesa ed eventualmente sancire la
natura non elusiva dell’operazione.
Sebbene questa sentenza sia intervenuta in riferimento
ad una diversa norma di legge, la sua applicazione
analogica al caso di specie non sembra essere in
discussione, poiché anche in materia di CFC la natura
disapplicativa dell’interpello preventivo prevale sulla
forma ordinaria della sua struttura formale, dettata dal
richiamo all’interpello ordinario di cui all’articolo 11 dello
Statuto del Contribuente.
Questo implica anche che non si sia di fronte ad un mero
atto di indirizzo, come sosteneva il Consiglio di Stato
nella sentenza sopra citata, bensì ad un atto
provvedimentale, ritenendosi quindi necessaria la sua
presentazione all’Amministrazione finanziaria, anche ai
fini di una successiva impugnazione in sede contenziosa.
Su questo tema, infine, sembra oggi nuovamente
intervenire anche l’Agenzia delle Entrate nella Circolare del 26 maggio 2011, n. 23, laddove afferma che,
qualora, nel rinunciare alla presentazione dell’interpello
19
| n° 12 - Dicembre 2011 |
disapplicativo in discorso, il contribuente decida di
sottoporre il reddito della CFC alla tassazione per
trasparenza, lo stesso contribuente è obbligato a
mantenere tale comportamento fino a quando non
dimostri, sempre in sede di interpello, la non artificiosità
della struttura estera.
Proprio quest’obbligo di dovere dimostrare in sede di
interpello l’intervenuto cambiamento delle condizioni
che hanno indotto il contribuente a non presentare
l’istanza di disapplicazione induce ad interpretare la
Circolare nel senso che la presentazione dell’interpello
disapplicativo sia ritenuta obbligatoria, al fine non solo
di non incorrere nelle sanzioni per la sua omessa presentazione, ma anche, come già detto, di potere successivamente impugnare l’atto di diniego in sede contenziosa.
Anche alla luce della recente giurisprudenza, questa
interpretazione è certamente prudenziale per il contribuente e quindi è consigliabile. È certo però che essa non
risulta in linea con i principi costituzionali e comunitari,
poiché, di fatto, lede il diritto di difesa del singolo: e
questo, sicuramente, genererà ulteriore contenzioso
davanti al giudice tributario.
Per maggiori informazioni:
Elenco delle fonti fotografiche:
Agenzia delle Entrate; Circolare n. 7 del 3 marzo 2009, in:
http://www.fiscooggi.it/files/immagini_articoli/u12/
Mondo20Export.jpg
[21.12.2011]
h t t p : // w w w . a g e n z i a e n t r a t e . g o v . i t / w p s / w c m /
co n n e c t / 3 b 8 8 3 d 8 0 4 2 6 e 0 3 f 6 b 8 f b b b c 0 6 5 ce f 0 e 8 /
circ+n+7E+del+3+marzo+2009.pdf?MOD=AJPERES&
CACHEID=3b883d80426e03f6b8fbbbc065cef0e8
[21.12.2011]
Agenzia delle Entrate; Circolare n. 32 del 14 giugno 2010, in:
http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/
e0a4b40042d8abf3967df7ea6c963f8c/circ32Edel14giugno
2010.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=e0a4b40042d8
abf3967df7ea6c963f8c
[21.12.2011]
Agenzia delle Entrate; Circolare n. 51 del 6 ottobre 2010, in:
http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/9da441
004437913ca6d8e6b96f40ac5a/circolare+51e.pdf?MOD=AJPE
RES&CACHEID=9da441004437913ca6d8e6b96f40ac5a
[21.12.2011]
Agenzia delle Entrate; Circolare n. 23 del 26 maggio 2011, in:
http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/8526d88
046ffaf598a55aeca43cb6f54/Circ23e+del+26.05.11.pdf?MOD=A
JPERES&CACHEID=8526d88046ffaf598a55aeca43cb6f54
[21.12.2011]
Bertone Gianmarco; Commentario al TUIR per i soggetti
non residenti, Milano, 2011, in:
http://www4.ti.ch/dfe/de/spe/usml/lavorare-in-italia/
fiscalita/tassazione-dei-redditi/generale
[21.12.2011]
Gianmarco Bertone
Avvocato in Milano e Lugano
Membro del Pool of Experts
dell’OSEC
http://innovationconsulting.co.za/wp-content/uploads/
2010/01/World-puzzle-j0433123.jpg
[21.12.2011]
http://www.solofinanza.it/wp-content/uploads/
2009/09/agenziaentrate.jpg
[21.12.2011]
Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario svizzero
L’imposta cantonale sulla sostanza
e la valutazione di titoli non quotati
un onere complementare, destinato a integrare
l’imposta sul reddito, che permette ai Cantoni, grazie
alla (leggera) progressività dell’aliquota, di prendere
in considerazione anche l’aumento della sostanza,
che risulta tra l’altro dall’aumento della capitalizzazione in borsa (cfr. Messaggio sull’iniziativa popolare
“per un’imposta sugli utili da capitale” del 25 ottobre
2000, in: FF 2000 pagine 5241-5270, pagina 5263);
Sentenza della Camera di diritto tributario, del 6 dicembre
2010, numero d’incarto 80.2008.54, in:
RtiD I-2011 n. 11t, e in:
http://www.sentenze.ti.ch
[21.12.2011]
Articoli 40, 41 e 45 capoverso 2 LT – Imposta sulla sostanza:
valutazione titoli non quotati, successiva cessione di quote
fra terzi indipendenti, valore di mercato
2. in secondo luogo, consente alle autorità di tassazione
di esercitare un controllo, attraverso il confronto
della sua evoluzione con i redditi dichiarati dal
contribuente.
Nel Cantone Ticino, l’imposizione della sostanza è
regolata dagli articoli 40 e seguenti della Legge tributaria
(di seguito LT). Oggetto dell’imposta è la sostanza netta
totale (articolo 40 capoverso 1 LT), da valutare generalmente al suo valore venale, riservate le disposizioni
che prevedono espressamente altri criteri (articolo 41
capoverso 2 LT).
1.
Considerazioni introduttive
Tutti i Cantoni, non però la Confederazione, riscuotono
un’imposta generale sulla sostanza, che ha per oggetto
la totalità degli attivi mobiliari e immobiliari.
Tale obbligo è prescritto dall’articolo 2 capoverso 1
lettera a della Legge federale sull’armonizzazione
delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni (di
seguito LAID), secondo cui i Cantoni devono prelevare un’imposta sul reddito e un’imposta sussidiaria sulla
sostanza delle persone fisiche.
Il prelievo di un’imposta cantonale sulla sostanza si
giustifica dai due seguenti motivi:
1. in primo luogo, con particolare riferimento alla
sostanza mobiliare, l’imposta sulla sostanza
rappresenta una sorta di “compensazione” nei
confronti della scelta politica di esentare gli utili
in capitale (i cosiddetti “capital gains”), per contro
tassati nella maggior parte dei Paesi dell’OCSE.
Come ammesso dallo stesso Consiglio federale, l’imposta sulla sostanza costituisce in linea di principio
21
| n° 12 - Dicembre 2011 |
Fra queste, l’articolo 45 LT dispone che i titoli che sono
regolarmente oggetto di transazione vanno valutati in
base alla loro quotazione alla fine del periodo fiscale o
dell’assoggettamento (capoverso 1), mentre le azioni,
partecipazioni a società cooperative ed altri diritti di
partecipazione non regolarmente oggetto di transazione,
sono valutati tenendo conto del loro valore di reddito e
del loro valore intrinseco (capoverso 2).
In una recente sentenza del 6 dicembre 2010, la Camera
di diritto tributario del Tribunale d’appello (di seguito
CDT) ha avuto modo di approfondire la valutazione dei
titoli non quotati ufficialmente in borsa, distinguendo
fondamentalmente due casi: se, di principio, l’imposizione
di simili titoli si fonda sul valore intrinseco delle azioni,
cioè sulla relativa quota del valore dell’impresa, qualora
poco prima o poco dopo il giorno determinante per la
valutazione vi sia stata una cessione di quote fra terzi
indipendenti, ci si deve tuttavia basare sul relativo valore
di acquisto.
2.
La fattispecie sotto esame
Il 13 aprile 2006, i soci X e Y vendevano a una società
italiana tutte le 6’000 azioni della Z SA, al prezzo di 16
milioni di franchi. Nel contratto di compravendita veniva
in particolare precisato che tale prezzo era stato concordato in funzione del bilancio preliminare della società al
31 dicembre 2005.
Nella dichiarazione fiscale 2005, il contribuente X
attribuiva alla sua partecipazione (di 5’400 azioni, pari al
90% del pacchetto azionario) un valore di soli 540’000
franchi. Notificandogli la tassazione per l’imposta cantonale 2005, con decisione del 6 febbraio 2008, l’Ufficio di
tassazione commisurava invece il valore delle azioni della
società in 16 milioni di franchi, spiegando nella motivazione allegata che il loro valore venale era “pari al prezzo
di alienazione dell’aprile 2006”. Nella successiva decisione
su reclamo, l’autorità sottolineava che era lo stesso
contratto di compravendita a fare riferimento al bilancio
della società chiuso al 31 dicembre 2005, per cui nulla
si opponeva ad una commisurazione delle azioni in
funzione del loro prezzo di vendita.
Il contribuente presentava ricorso alla CDT, lamentando
nuovamente il valore attribuito dall’autorità fiscale alle
azioni vendute nel corso del 2006. Nelle argomentazioni,
il ricorrente sosteneva in particolare che non era
ammissibile “far dipendere la valutazione da un fatto
e dalla volontà delle parti espressi ed avvenuti dopo la
data determinante del 31 dicembre 2005”, poiché in
chiaro contrasto con i principi dell’irretroattività e della
sicurezza del diritto.
3.
In tempi più recenti, la valutazione dei titoli non
quotati è stata assegnata direttamente ai singoli
Cantoni, che fanno capo ad una banca dati centralizzata
e a criteri armonizzati tali da garantire la parità di
trattamento con un modello unico a livello svizzero (il
cosiddetto progetto CST, “Controllo dello stato dei titoli”).
A tale scopo, la Conferenza fiscale svizzera ha elaborato
un’apposita circolare (la Circolare n. 28 del 21 agosto
2006, poi sostituita dall’edizione del 28 agosto 2008)
e recentemente pubblicato un commentario alle
“Istruzioni relative alla valutazione dei titoli senza corso
ai fini dell’imposta sulla sostanza”.
4.
Per rispondere a questa esigenza, l’AFC aveva in passato
emanato delle precise “Istruzioni relative alla valutazione
dei titoli senza corso ai fini dell’imposta sulla sostanza”
(edizione 1982, sostituita dall’edizione 1995), con lo scopo
di ottenere una stima del prezzo delle azioni non quotate
in borsa uniforme in tutta la Svizzera. Le Istruzioni della
Confederazione erano state fatte proprie anche dalla
Divisione delle contribuzioni del Canton Ticino, con il
| n° 12 - Dicembre 2011 |
Valore intrinseco oppure valore venale?
Nella sentenza del 6 dicembre 2010, la CDT ha avuto
modo di occuparsi da vicino della valutazione di titoli
non quotati, sottolineando in particolare che non solo
le vecchie Istruzioni dell’AFC, applicabili alla fattispecie
sotto esame, ma anche le nuove Istruzioni della Conferenza fiscale svizzera distinguono fondamentalmente
due situazioni ben distinte:
•
di principio, l’imposizione dei titoli non quotati
si fonda sul loro valore intrinseco. La stima delle
azioni non viene cioè intrapresa dall’esterno (sul
mercato), ma viene fatta corrispondere, tramite
parametri schematici più o meno affinati, alla
rispettiva quota del valore totale dell’impresa;
•
nei rari casi in cui poco prima o poco dopo il giorno
determinante vi è stata una cessione tra terzi
indipendenti, l’imposizione si fonda invece sul valore
venale delle azioni, a condizione tuttavia che il valore
della transazione corrisponda effettivamente al
valore di mercato e che la libera formazione del
prezzo non sia stata influenzata da altre circostanze,
segnatamente dai rapporti fra le parti contraenti.
Le Istruzioni della Conferenza fiscale svizzera delle
imposte
Se la valutazione dei titoli quotati non pone particolari
problemi (il valore di quotazione risponde al valore di
mercato), altro discorso vale invece per i titoli che non
sono regolarmente oggetto di transazione. In questi casi,
il valore commerciale deve essere di principio stimato
sulla base di parametri schematici più o meno affinati,
in modo tale da avvicinarsi il più possibile alla realtà
economica.
22
dichiarato intento di armonizzare le valutazioni sull’intero
territorio della Confederazione.
In definitiva, il ricorso al valore intrinseco, stabilito
secondo le Istruzioni della Conferenza fiscale svizzera,
rappresenta una soluzione sussidiaria rispetto a quella
consistente nell’applicare il vero e proprio valore venale.
È allora evidente che, non appena si disponga di un prezzo
determinato dalle parti nell’ambito di un “trasferimento
significativo tra terzi indipendenti”, venga meno la
giustificazione del ricorso alla stima del “valore intrinseco”,
perlomeno fintantoché la situazione economica della
società non muti in maniera rilevante (cfr. Circolare n. 28,
edizione 26 agosto 2008, cifra 2.5.).
5.
Le conclusioni della CDT
Nel caso in esame, come detto, il contratto di compravendita di azioni, concluso dalle parti il 13 aprile 2006,
prevedeva espressamente, circa la determinazione
del relativo prezzo, che lo stesso era stato stabilito in
funzione del bilancio preliminare della società Z SA al 31
dicembre 2005.
stata tassata prima della sottoscrizione del contratto di
compravendita di azioni, si scontra infatti con la stessa
procedura di accertamento, che per sua natura, deve
necessariamente avvenire dopo la fine del periodo fiscale.
Una tale clausola contrattuale permetteva quindi di
concludere che, per gli stessi contraenti, la situazione
economica della società non era “cambiata in modo
rilevante” fra il momento determinante per il calcolo
dell’imposta sulla sostanza (31 dicembre 2005) e quello
della stipulazione del contratto di compravendita.
D’altra parte, il ricorrente non aveva neppure tentato di
sostenere che il prezzo pagato a metà aprile del 2006
fosse stato condizionato da elementi sopravvenuti
dopo il 31 dicembre 2005. Nulla si opponeva allora alla
determinazione del valore delle azioni alla fine del 2005
proprio prendendo come riferimento il prezzo pagato
dagli acquirenti tre mesi e mezzo dopo il momento
determinante.
In simili circostanze, la CDT non ha pertanto potuto fare
altro che respingere le censure contenute nel gravame e
confermare la decisione dell’autorità di tassazione.
Come osservato dalla CDT, la semplice circostanza che
la legge tributaria, all’articolo 52 capoverso 1 LT, consideri
determinante, per il calcolo dell’imposta sulla sostanza,
il suo valore “alla fine del periodo fiscale”, non imponeva
una diversa conclusione. Infatti, nel caso di titoli che non
hanno una quotazione ufficiale, il problema è proprio
quello di stabilire nel modo più affidabile possibile il
“valore venale” al momento determinante, senza dimenticare inoltre che il principio di irretroattività invocato
a sproposito dal ricorrente si riferisce ai soli effetti di
una legge e non certo ai criteri utilizzati per valutare la
sostanza imponibile.
Una diversa conclusione non si imponeva nemmeno con
riguardo al principio della sicurezza del diritto. L’argomentazione del ricorrente, secondo cui la valutazione
sarebbe verosimilmente cambiata se la sostanza fosse
Rocco Filippini
Avvocato
Vicecancelliere della Camera
di diritto tributario
del Tribunale d’appello
Elenco delle fonti fotografiche:
http://us.123rf.com/400wm/400/400/funix/funix1012/
funix101200019/8419485-un-portafoglio-con-franchisvizzeri-in-esso-in-piedi-su-un-pavimento-con-altrebanconote-franchi-svi.jpg
[21.12.2011]
http://www.incarichifiduciari.it/img/aste-immobiliari.jpg
[21.12.2011]
http://2.bp.blogspot.com/-1T8bRsopWWs/TiAJd_T_nyI/
AAAAAAAAJ6Q/yZDhIxs66Cw/s1600/tagliato_rating.jpg
[21.12.2011]
Rassegna di giurisprudenza di diritto dell’UE
Il regime fiscale italiano sui dividendi “in uscita”
è discriminatorio in ambito UE ma non in ambito SEE?
Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee
(Seconda Sezione), procedimento C-540/07, del 19
novembre 2009, in:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.
do?uri=CELEX:62007J0540:IT:HTML
[21.12.2011]
Inadempimento di uno Stato – Libera circolazione dei
capitali – Articolo 56 CE – Articoli 31 e 40 Accordo SEE –
Fiscalità diretta – Ritenuta alla fonte sui dividendi in uscita
– Imputazione presso la sede del beneficiario del dividendo,
in forza di una convenzione contro la doppia imposizione
1.
Contesto normativo e
fattispecie
Il regime fiscale italiano dei
dividendi domestici versati a
società ed enti commerciali
soggetti in Italia all’imposta
sul reddito delle società
è disciplinato dall’articolo
89, intitolato “Dividendi ed
interessi”, comma 2, del TUIR, che così recita: “Gli utili
distribuiti, in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione,
dalle società ed enti di cui all’articolo 73, comma l, lettere a)
e b), non concorrono a formare il reddito dell’esercizio in cui
sono percepiti in quanto esclusi dalla formazione del reddito
della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro
ammontare”.
Il regime fiscale italiano dei dividendi “in uscita”, vale a
dire versati a soggetti non residenti in Italia, è invece
disciplinato dall’articolo 27, intitolato “Ritenuta sui
dividendi”, comma 3, del DPR n. 600/1973, che così
dispone: “La ritenuta è operata a titolo d’imposta e con
l’aliquota del 27 per cento sugli utili corrisposti a soggetti non
residenti nel territorio dello Stato. L’aliquota della ritenuta è
ridotta al 12,50 per cento per gli utili pagati ad azionisti di
risparmio. I soggetti non residenti, diversi dagli azionisti di
risparmio, hanno diritto al rimborso, fino a concorrenza dei
quattro noni della ritenuta, dell’imposta che dimostrino di aver
pagato all’estero in via definitiva sugli stessi utili mediante
certificazione del competente ufficio fiscale dello Stato estero”.
L’articolo 27-bis di tale decreto prevede il rimborso o, a
determinate condizioni, la disapplicazione della ritenuta
prevista dall’articolo 27 nel caso di società residenti in
uno degli Stati membri dell’UE che posseggano i requisiti
relativi al livello di partecipazione nel capitale della
società distributrice e di durata della partecipazione
stessa previsti dalla Direttiva del Consiglio del 23 luglio
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1990, n. 90/435/CEE (di seguito Direttiva madre-figlia).
La Commissione europea, considerando il regime fiscale
dei dividendi di provenienza italiana distribuiti a società
stabilite in un altro Stato membro dell’UE o in uno Stato
aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo
del 2 maggio 1992 (di seguito Accordo SEE) incompatibile con la libera circolazione dei capitali, ha diffidato la
Repubblica italiana con lettera del 18 ottobre 2005.
Non convinta dagli argomenti esposti dalla Repubblica
italiana nella sua lettera del 9 febbraio 2006, la
Commissione europea, con lettera datata 4 luglio 2006,
ha trasmesso a tale Stato membro un parere motivato,
invitandolo ad adottare le misure necessarie per
adeguarsi a tale parere entro il termine di due mesi dal
ricevimento del medesimo.
La Repubblica italiana ha risposto al parere motivato con
lettera del 30 gennaio 2007. La Commissione europea,
ritenendo che tale Stato membro non avesse posto fine
all’infrazione addebitatagli, ha deciso di proporre ricorso
dinnanzi alla Corte di giustizia.
2.
Il ricorso
2.1. Gli argomenti delle parti
Con il ricorso, la Commissione europea ha chiesto alla
Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo
mantenuto in vigore un regime fiscale più oneroso per
i dividendi distribuiti a società stabilite negli altri Stati
membri dell’UE e negli Stati aderenti all’Accordo SEE
rispetto a quello applicato ai dividendi distribuiti alle
società residenti, è venuta meno agli obblighi impostile
dagli articoli 56 del Trattato sulla Comunità europea
(di seguito TCE, ora articolo 63 del Trattato sull’Unione
europea) e 40 dell’Accordo SEE per quanto riguarda la
libera circolazione dei capitali tra gli Stati membri e tra
gli Stati aderenti all’Accordo in questione.
La Repubblica italiana sostiene che l’incompatibilità con
il diritto comunitario potrebbe essere dichiarata solo
nella situazione concreta in cui, a seguito dell’applicazione
delle disposizioni della convenzione bilaterale contro le
doppie imposizioni (di seguito CDI), la società dell’altro
Stato membro che percepisce i dividendi non fosse in
grado di eliminare nello Stato membro in cui si trova la
sua sede la doppia imposizione, per esempio imputando
sul proprio reddito imponibile a livello nazionale la
ritenuta applicata nello Stato membro della società
che ha distribuito i dividendi, nella fattispecie l’Italia.
Nell’ipotesi in cui la CDI preveda tale imputazione, la
Repubblica italiana ritiene che non possa esservi
discriminazione contraria all’articolo 56 TCE.
Inoltre la Commissione europea non fornirebbe la prova
del fatto che nessuna delle CDI concluse dalla Repubblica
italiana consenta di eliminare l’impatto della ritenuta
applicata in tale Stato membro.
La Repubblica italiana sostiene inoltre che la distribuzione
di un dividendo ad un azionista persona fisica, residente
in Italia, è assoggettata ad un’imposta. L’esenzione del
95% dei dividendi percepiti dai contribuenti costituirebbe
semplicemente uno stadio preparatorio alla tassazione
degli azionisti persone fisiche. Nell’ipotesi in cui l’azionista sia una società non residente, che distribuirà di
norma i dividendi a persone fisiche non residenti, non vi
sarebbe tassazione delle persone fisiche. La società non
residente verrebbe quindi maggiormente tassata per
tener conto del fatto che il livello di imposizione sui
profitti delle società deve essere coerente con quello
previsto per le persone fisiche. In tal modo, il livello di
tassazione tra l’azionista persona fisica residente e
l’azionista non residente sarebbe equivalente.
La Repubblica italiana conclude che la disparità di
trattamento sarebbe comunque giustificata dalla differenza di situazioni, che consiste nel fatto che le società
non residenti non hanno alcun obbligo di comunicare al
fisco italiano la presenza, nel capitale di tali società, di
persone fisiche residenti in Italia e anche supponendo
che le situazioni non siano diverse, la discriminazione
sarebbe giustificata dalle esigenze di coerenza del sistema
tributario nonché dalla necessità di prevenire la frode o
l’evasione fiscale.
2.2. Il giudizio della Corte sulla violazione dell’articolo 56, n. 1, TCE
La Corte ha rammentato preliminarmente che, se è pur
vero che la materia delle imposte dirette, rientra nella
competenza degli Stati membri dell’UE, questi ultimi
devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto
del diritto comunitario.
Per partecipazioni non rientranti nella Direttiva madrefiglia spetta dunque agli Stati membri determinare se, ed
in quale misura, la doppia imposizione economica degli
utili distribuiti debba essere evitata e introdurre, a tale
scopo, in modo unilaterale o mediante CDI concluse con
altri Stati membri, procedure che mirino a prevenire o ad
attenuare tale doppia imposizione economica. Tuttavia
tale unico fatto non consente loro di applicare misure
contrarie alle libertà di circolazione garantite dal TCE.
Nella fattispecie, la legislazione italiana esenta
dall’imposizione, fino al 95%, i dividendi distribuiti a
società residenti, e assoggetta il restante 5% all’aliquota
normale dell’imposta sui redditi delle società, pari al
33%. I dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati
membri sono assoggettati ad una ritenuta alla fonte
del 27%. Su domanda, peraltro, è possibile ottenere un
rimborso fino a un massimo di quattro noni di tale
imposta.
Secondo la Corte è quindi in definitiva pacifico che la
normativa italiana assoggetti i dividendi distribuiti a
società stabilite in altri Stati membri ad un tasso
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d’imposizione superiore a quello applicato ai dividendi
distribuiti alle società residenti. (consid. 33)
La Repubblica italiana sostiene tuttavia che tale differenza di trattamento sarebbe solo apparente, poiché si
dovrebbe tener conto, da un lato, delle CDI e, dall’altro,
del complesso del sistema tributario italiano.
In ordine al primo punto, la Repubblica italiana sostiene
che i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati
membri non sarebbero in realtà trattati diversamente dai
dividendi distribuiti a società residenti, in quanto le CDI
permetterebbero di detrarre l’imposta trattenuta alla
fonte in Italia da quella dovuta nell’altro Stato membro.
A questo proposito, la Corte ha in effetti dichiarato che
non può escludersi che uno Stato membro garantisca
il rispetto dei suoi obblighi derivanti dal Trattato stipulando una CDI con un altro Stato membro; tuttavia è
necessario che l’applicazione della CDI permetta di
compensare gli effetti della differenza di trattamento
derivante dalla normativa nazionale. Infatti, solo
nell’ipotesi in cui l’imposta trattenuta alla fonte
possa essere detratta dall’imposta dovuta nell’altro
Stato membro, per un ammontare pari alla differenza
di trattamento derivante dalla normativa nazionale, tale
discriminazione scompare totalmente.
Orbene, la scelta di tassare nell’altro Stato membro i
redditi provenienti dall’Italia o il livello a cui sono tassati
non dipende dalla Repubblica italiana, ma dalle modalità di imposizione definite dall’altro Stato membro. La
Repubblica italiana non ha quindi alcun fondamento nel
sostenere che l’imputazione dell’imposta ritenuta alla
fonte in Italia sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro, in applicazione della CDI, consenta in ogni caso
di compensare la differenza di trattamento derivante
dall’applicazione della normativa nazionale.
La Corte conclude quindi che la Repubblica italiana non
può sostenere che, a causa dell’applicazione delle CDI, i
dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri
non siano, in definitiva, trattati diversamente dai dividendi
distribuiti alle società residenti.
Per quanto riguarda il secondo punto, i giudici comunitari concludono che la Repubblica italiana non può
neppure sostenere che la differenza di trattamento non
esista, in quanto si dovrebbe tener conto del complesso
del sistema di tassazione italiano, che avrebbe lo scopo di
assicurare in modo diretto o indiretto la tassazione delle
persone fisiche beneficiarie finali dei dividendi.
Infatti i giudici hanno rilevato che tale ragionamento
equivale a paragonare regimi e situazioni non comparabili, cioè, da un lato, persone fisiche beneficiarie di
dividendi domestici e il loro regime di tassazione dei
redditi e, dall’altro, società di capitali beneficiarie di
dividendi in uscita e la ritenuta alla fonte prelevata dalla
Repubblica italiana. (consid. 43)
Tale Stato membro non può, di conseguenza, sostenere
che non vi sia una differenza di trattamento tra le
modalità di tassazione dei dividendi distribuiti a società
stabilite in altri Stati membri e quelle dei dividendi distribuiti alle società residenti. Una differenza di trattamento
di questo tipo può dissuadere le società stabilite in altri
Stati membri dall’effettuare investimenti in Italia. I giudici
concludono che essa costituisce, di conseguenza, una
restrizione alla libera circolazione dei capitali vietata, in
linea di principio, dall’articolo 56, n. 1, TCE. (consid. 45)
La Corte ha rilevato tuttavia che occorre esaminare se
tale restrizione alla libera circolazione dei capitali possa
essere giustificata con riferimento alle disposizioni del
Trattato e in particolare dalla giurisprudenza, per la
quale risulta che, perché la normativa tributaria italiana
possa essere considerata compatibile con le disposizioni
del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali,
è necessario che la differenza di trattamento riguardi
situazioni che non siano oggettivamente paragonabili o
sia giustificata da motivi imperativi di interesse generale.
In altra sede i giudici hanno già dichiarato che, riguardo
ai provvedimenti adottati da uno Stato membro al fine
di prevenire o attenuare l’imposizione a catena ovvero
la doppia imposizione sugli utili distribuiti da una società
residente, gli azionisti beneficiari residenti non si trovano
necessariamente in una situazione analoga a quella di
azionisti beneficiari che risiedono in un altro Stato membro.
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Tuttavia, a partire dal momento in cui uno Stato membro,
in modo unilaterale o per via di accordi, assoggetta
all’imposta sui redditi non soltanto gli azionisti residenti,
ma anche gli azionisti non residenti, per i dividendi che
essi percepiscono da una società residente, la situazione
di tali azionisti non residenti si avvicina a quella degli
azionisti residenti.
La Corte ha constatato quindi che il legislatore italiano
ha scelto di esercitare la sua competenza fiscale sui
dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati
membri. I non residenti beneficiari di tali dividendi si
trovano, di conseguenza, in una situazione analoga
a quella dei residenti per quanto riguarda il rischio di
doppia imposizione economica dei dividendi distribuiti
dalle società residenti, per cui i beneficiari non residenti
non possono essere trattati diversamente dai beneficiari
residenti. (consid. 54)
A tale riguardo, la Repubblica italiana afferma che la
differenza di trattamento sarebbe giustificata da motivi
imperativi di interesse generale inerenti alla coerenza del
sistema tributario (i), al mantenimento di una ripartizione
equilibrata del potere impositivo (ii) e alla lotta contro la
frode fiscale (iii), motivi che la Corte ha effettivamente
riconosciuto come idonei a giustificare tali differenze.
La Corte ha però respinto i punti (i) e (ii) rilevando che
la Repubblica italiana riprende in sostanza gli argomenti
esposti per difendere la tesi secondo cui la differenza di
trattamento non esisterebbe, in quanto bisognerebbe
anche tener conto del fatto che gli azionisti persone
fisiche residenti sono assoggettati in Italia all’imposta
sui redditi. Per le ragioni esposte sopra (cfr. consid. 43), il
suddetto argomento non è quindi stato accolto.
Per quanto riguarda la giustificazione relativa alla lotta
contro la frode fiscale, la Corte ha constatato che una
restrizione alla libera circolazione dei capitali può essere
ammessa a questo titolo solo a condizione che essa
sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo e
non ecceda quanto necessario per raggiungerlo. Una
presunzione generale di evasione o di frode fiscale non
può essere sufficiente per giustificare una misura fiscale
che pregiudichi gli obiettivi del Trattato.
I giudici hanno quindi osservato che nella fattispecie,
tutti i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati
membri sono assoggettati, in modo generale, ad un
regime fiscale meno favorevole. Tale trattamento meno
favorevole non può, pertanto, essere giustificato con
riferimento alla lotta contro la frode fiscale.
Del resto, la Direttiva del Consiglio del 19 dicembre
1977, n. 77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le
autorità competenti degli Stati membri nel settore delle
imposte dirette e indirette (di seguito Direttiva sulla reciproca
assistenza) può essere invocata da uno Stato membro per
ottenere, da parte delle competenti autorità di un altro
Stato membro, ogni informazione necessaria a consentirgli
di determinare correttamente l’ammontare delle imposte
rientranti nell’ambito applicativo della citata Direttiva.
Il trattamento meno favorevole cui la normativa italiana
assoggetta i dividendi distribuiti a società stabilite in altri
Stati membri costituisce, di conseguenza, una restrizione
alla libera circolazione dei capitali incompatibile con
l’articolo 56, n. 1, TCE. (consid. 61)
La Corte ha quindi accolto il ricorso della Commissione
vertente la violazione dell’articolo 56, n. 1, TCE da parte
della Repubblica italiana.
2.3. Il giudizio della Corte sulla violazione dell’articolo 40 Accordo SEE
La Corte ha quindi considerato la normativa italiana
in esame giustificata con riferimento agli Stati
parti dell’Accordo SEE, per il motivo imperativo di
interesse generale riguardante la lotta contro la frode
fiscale, nonché idonea a garantire la realizzazione di
detto obiettivo senza eccedere quanto necessario per
conseguirlo. (consid. 72)
La Corte ha quindi respinto il ricorso della Commissione
vertente la violazione dell’articolo 40 Accordo SEE da
parte della Repubblica italiana.
La Corte ha dapprima stabilito che, anche se restrizioni
alla libera circolazione dei capitali tra cittadini di Stati parti
dell’Accordo SEE devono essere esaminate con riferimento all’articolo 40 e all’allegato XII a detto Accordo,
tali disposizioni rivestono la stessa portata giuridica delle
disposizioni, sostanzialmente identiche, dell’articolo 56 TCE.
Pertanto la Corte ha rilevato che, e per i motivi che ha
esposto in sede di esame del ricorso alla luce dell’articolo
56, n. 1, TCE, il trattamento meno favorevole a cui la
normativa italiana assoggetta i dividendi distribuiti a
società stabilite negli Stati parti dell’Accordo SEE costituisce
una restrizione alla libera circolazione dei capitali ai sensi
dell’articolo 40 dell’Accordo SEE.
Tuttavia, la Corte ha ammesso che tale restrizione è
giustificata dal motivo imperativo di interesse generale
che attiene alla lotta contro la frode fiscale. (consid. 68)
Come già dichiarato dalla Corte, la giurisprudenza
vertente su restrizioni all’esercizio delle libertà di circolazione in seno alla Comunità non può essere integralmente
applicata ai movimenti di capitali tra gli Stati membri
e i Paesi terzi, in quanto tali movimenti si collocano in
un contesto giuridico diverso, per esempio il quadro di
cooperazione tra le autorità competenti degli Stati
membri stabilito dalla Direttiva sulla reciproca assistenza
non esiste tra queste ultime e le autorità competenti di
uno Stato terzo. (consid. 69)
La Repubblica italiana ha poi affermato, senza essere
contraddetta dalla Commissione, che non esiste alcun
dispositivo di scambio di informazioni tra essa e il
Principato del Liechtenstein e le CDI che aveva firmato
con la Repubblica d’Islanda e con il Regno di Norvegia
non prevedono l’obbligo di fornire informazioni.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.fiscooggi.it/files/imagecache/img_major_
story/immagini_articoli/u18/uscita.jpg
[21.12.2011]
http://www.fiscooggi.it/files/imagecache/img_major_
story/immagini_articoli/u26/corte-giustizia-europea_.jpg
[21.12.2011]
http://www.soldionline.it/pictures/20080725/savedimage-18117.gif
[21.12.2011]
http://www.fondazioneimpresa.it/wp-content/uploads/
2010/10/Unione-Europea1.png
[21.12.2011]
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