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n. 5 - 2010
Segnali utili per capire nuove
immunodeficienze
Eiaculazione precoce:
un problema frequente
Le biotecnologie:
il futuro della ricerca scientifica
L’osteoartrosi del ginocchio:
aggiornamento su eziopatogenesi e terapia
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N. 5/2010
Bimestrale
di informazione e aggiornamento scientifico
Periodico della bioS S.p.A. fondata da Maria Grazia Tambroni Patrizi
L’editoriale
2
Fernando Patrizi
Direttore Responsabile
Fernando Patrizi
Direzione Scientifica
Giuseppe Luzi
Segreteria di Redazione
Gloria Maimone
Segnali utili per capire nuove immunodeficienze
3
Giuseppe Luzi
Le biotecnologie: il futuro della ricerca scientifica
Coordinamento Editoriale
Licia Marti
Comitato Scientifico
Armando Calzolari
Carla Candia
Vincenzo Di Lella
Francesco Leone
Giuseppe Luzi
Gilnardo Novellli
Giovanni Peruzzi
Augusto Vellucci
Anneo Violante
9
Alessandra Lo Presti
Hanno collaborato a questo numero:
Alessandra Lo Presti, Alessandro Ciammaichella,
Augusto Vellucci, Giuditta Valorani, Giuseppe Luzi,
Lelio Zorzin, Massimiliano Rocchietti March,
1
Silvana Francipane.
La responsabilità delle affermazioni
contenute negli articoli è dei singoli
autori.
Direzione, Redazione, Amministrazione
bioS S.p.A. Via D. Chelini, 39
00197 Roma Tel. 06 80964245
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Eiaculazione precoce: un problema frequente
10
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impianti e Stampa
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via Portuense, 1555 - 00148 Roma
Massimiliano Rocchietti March
Edizioni bioS S.p.A.
Autorizzazione del Tribunale di Roma:
n. 186 del 22/04/1996
In merito ai diritti di riproduzione la BIOS S.p.A.
si dichiara disponibile per regolare eventuali
spettanze relative alle immagini delle quali
non sia stato possibile reperire la fonte
Pubblicazione in distribuzione gratuita.
L’osteoartrosi del ginocchio: aggiornamento su eziopatogenesi e terapia
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
16
Finito di stampare nel mese di novembre 2010
bioS SpA
Struttura Sanitaria Polispecialistica
Via D. Chelini, 39 - 00197 Roma
Dir. Sanitario: Dott. Francesco Leone
CUP 06.809.641
Un punto di forza per la vostra salute
EDitoRiALE
Fernando Patrizi
2
L’EDitoRiALE
UN tEtto Di SPESA SEmPRE Più PESANtE ANCHE NEL 2010
Come purtroppo verificatosi nel recente passato (2007, 2008, 2009) la BIOS ritiene necessario informare la propria clientela che anche per
il 2010 persiste il “tetto” di spesa imposto dalla
nostra regione per gli interventi effettuati in convenzione.
Il “tetto” di spesa implica che la regione Lazio non corrisponde il pagamento delle analisi riguardante l’eccedenza rispetto a quanto già prefissato.
Si vuole mettere in evidenza, in particolare,
che il “tetto” di spesa è ridotto di oltre il 30% rispetto alla quantità di analisi che in media la
BIOS già erogava per conto del SSR nel lontano
2006. In pratica la nostra regione anche quest’anno
non intende pagare le prestazioni che la BIOS sta
già erogando a superamento del “tetto”.
Va inoltre aggiunto che le tariffe con le quali
vengono definite le prestazioni di laboratorio
sono ferme da oltre dieci anni e nel 2010 c’è stata
un’ulteriore riduzione. Per non dire dei ritardi nei
pagamenti che sono ormai una costante.
La BIOS conferma ancora, per i mesi restanti
del 2010, di voler continuare l’erogazione dei servizi ai pazienti muniti di impegnativa, sebbene il
quadro economico penalizzi sensibilmente la nostra struttura calcolando la media produttiva del
lavoro svolto.
La BIOS auspica, nell’ambito dell’attuale politica dei tagli alla sanità, una rivalutazione del
ruolo che le strutture diagnostiche private più
qualificate svolgono sul nostro territorio con serietà, efficienza ed efficacia. Rivalutazione necessaria al fine di rimettere in condizione i suddetti Operatori Privati di continuare a garantire
stabilmente le stesse condizioni di accesso ai servizi per pazienti muniti dell’impegnativa scritta
dal proprio medico di base.
è nostra speranza che la gentile clientela,
informata con trasparenza della grave situazione,
sia in grado di apprezzare la decisione della
BIOS di non sospendere il servizio consolidando
in tal modo il rapporto di fiducia verso la nostra
struttura.
SEGNALi UtiLi PER CAPiRE NUoVE
immUNoDEFiCiENZE
Giuseppe Luzi
Immunologo clinico
3
Struttura del sistema immunitario.
La struttura del sistema immunitario e le sue
funzioni formano un insieme integrato composto
da cellule e molecole. Nella nostra specie si distinguono una risposta innata e una adattativa. Nella più “antica” risposta innata sono identificati macrofagi, cellule dendritiche, cellule “natural killer”. La risposta specifica (immunità adattativa)
si è evoluta solo nei vertebrati ed è basata sui linfociti T e B che hanno recettori specifici in grado
di riconoscere selettivamente varie molecole
(antigeni) presenti sugli agenti patogeni e nell’ambiente. Immunità innata e risposta adattativa consentono, interagendo, una sorveglianza costante per difendere l’organismo e mantenere il suo
equilibrio. L’immunità adattativa ha origine da una
cellula staminale che evolve in due direzioni: quella timo dipendente e quella “bone marrow” (midollo osseo) dipendente (B dipendente). I linfociti T sono a loro volta distinguibili in sottopopolazioni in base a caratteri morfologici e funzionali (T helper, T citotossici, T reg, etc.).
I linfociti B, dopo stimolazione, si trasformano
assumendo l’aspetto morfologico della plasmacellula. Ogni plasmacellula secerne uno specifico anticorpo. Per rendere la risposta immunitaria
coerente con le finalità utili per l’organismo un ruolo importante viene svolto dalle citochine, proteine
solubili, in gran parte prodotte dai linfociti T. Le
citochine svolgono un ruolo di modulazione sui
vari momenti funzionali del sistema immunitario.
Un ulteriore controllo della risposta immunitaria
viene svolto da particolari recettori, noti come Toll
Like Receptor (TLR). Questi recettori includono
una classe di molecole in grado di riconoscere
strutture comuni a numerosi organismi patogeni.
I TLR sono una componente della risposta innata e quando sono attivati danno luogo a un’azione di tipo infiammatorio. Il nome deriva dall’analogia che queste molecole hanno con il gene Toll
studiato originalmente nella Drosophila.
4
A partire dagli anni Cinquanta del ventesimo
secolo, da quando cioè venne descritto il primo
caso di agammaglobulinemia congenita dal pediatra Ogden Bruton, lo studio delle immunodeficienze ha fornito un buon contributo di conoscenze sul sistema immunitario nel suo complesso
e sulla possibilità di adottare terapie via via
sempre più sofisticate. In realtà l’approccio clinico
al sospetto di un’immunodeficienza è ancora ristretto a particolari specialisti come pediatri, immunologi clinici, in parte infettivologi e nella pratica clinica, sia ambulatoriale sia in corso di degenza ospedaliera, il sospetto di un’immunodeficienza è ancora evento non comune. Andiamo
un po’ indietro nel tempo: in un lavoro del febbraio
1989, pubblicato sul British Medical Journal
(Primary antibody deficiency and diagnostic delay) Blore e Haeney misero in evidenza che “in
generale i pediatri hanno un più alto indice di sospetto rispetto agli altri medici e in questo modo
i ritardi (di diagnosi per immunodeficienza) sono
minori, soprattutto per quanto riguarda le forme
di difetto anticorpale”. Più avanti gli autori ribadiscono “…delay seemed especially likely when
individuals were referred to organ based specialties”. In pratica cosa vuol dire? Già oltre venti anni fa ci si era resi conto che singoli specialisti - organo orientati - possono giungere con ritardo a una diagnosi di immunodeficienza.
Inquadrare le immunodeficienze.
Le immunodeficienze (ID) si possono distinguere in primitive (IDP) e secondarie (IDS). Le
IDP identificano un danno a carico delle cellule
del sistema immunitario su base genetica mentre
le IDS non vengono causate, almeno in prima approssimazione, da intrinseche anomalie nello
sviluppo e/o nelle funzioni delle varie popolazioni
cellulari coinvolte: esse sono conseguenti a cause che modificano in modo reversibile o irreversibile la capacità di espletare una risposta immunitaria efficace. La più nota delle IDS è espressa
clinicamente dalla malattia da HIV ma numerosi esempi riguardano gli stati secondari a malnutrizione, trattamento con immunosoppressori,
sindromi proteinodisperdenti, stati ipercatabolici.
Immunodeficienze primitive in una nuova luce.
Nel corso degli ultimi anni gli studi di immunogenetica hanno consentito di identificare un
numero consistente di geni correlati a varie IDP.
L’aver caratterizzato il rapporto tra alterazioni genetiche ed espressione fenotipica ha permesso di
utilizzare test genetici basati sull’espressione di
proteine correlate a geni IDP-specifici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health
organization - WHO), avvalendosi di un comitato di esperti (international Union of immunological Societies Expert Committee on Primary immunodeficiencies) ha classificato originalmente le
IDP a seconda del compartimento cellulare maggiormente colpito:
-
Difetti combinati dei linfociti T e B
Difetti prevalentemente localizzati nel compartimento della risposta umorale
Immunodeficienza associata a sindromi
Difetti congeniti dei fagociti (numero, funzione
o entrambe)
Difetti del complemento.
Questa classificazione è stata un punto di partenza, dal quale sono derivati ampliamenti complessi nel percorso delle conoscenze che progressivamente si sono accumulate. Le IDP sono
in generale considerate malattie rare; ma l’incidenza varia ampiamente, da 1:2.000.000 nati vivi,
fino a 1:300/1:400 per il deficit di IgA, che è la
forma più comune. In ambito pediatrico la frequenza delle IDP è simile a quelle osservate in patologie leucemiche e dei linfomi. Ai nostri giorni sono note oltre 200 patologie clinicamente descrivibili e sono conosciuti oltre 140 geni. Durante
gli ultimi dieci anni nuovi approcci all’inqua-
dramento patogenetico delle IDP hanno definito
il problema diagnostico sotto una nuova luce. In
particolare l’identificazione di difetti immunitari late onset (a comparsa tardiva), per esempio per
quanto riguarda l’aumentato rischio di infezione
nei confronti di alcuni microbi, ha consentito di
comprendere meglio i meccanismi di azione
propri dell’immunità innata. Gli studi hanno riguardato le basi genetiche di un’aumentata suscettibilità verso infezioni causate da un numero
ristretto di agenti patogeni e da micobatteri in particolare.
L’ultima classificazione aggiornata delle IDP
è stata prodotta dalla international Union of immunological Societies Export Committee on Primary immunodeficiencies nel corso dell’incontro
biennale di aggiornamento (giugno 2009).
Il lavoro, pubblicato su J Allergy Clin Immunol
(2009;124:1161-78), rispetto alla precedente classificazione del 2007 mette in evidenza in particolare alcune nuove caratteristiche sulla natura dei
difetti e sulla loro definizione nosologica:
1 Immunodeficienze combinate dei T e B linfociti
2 Immunodeficienze prevalentemente a carico
della risposta anticorpale
3 Altre sindromi ben definite di immunodeficienza associate a più estesi difetti
4 Malattie dovute a disregolazione immunitaria
5 Difetti dei fagociti (numero, funzione o entrambi)
6 Difetti dell’immunità innata
7 Disordini autoinfiammatori
8 Deficienze del complemento
Immunodeficienze secondarie.
Varie cause possono interferire sulla risposta
del sistema immunitario inducendo una condizione
di immunodeficienza. Nella pratica medica si tratta di un capitolo in espansione e solo in parte adeguatamente gestito a livello clinico. Le condizioni
correlate a IDS includono: uso di farmaci immunosoppressori, steroidi ad alte dosi con trattamento
prolungato, traumi, chirurgia/anestesia, infezioni recidivanti, la malattia HIV correlata. Tra le cau-
se di maggior rilievo epidemiologico si ha lo stato di malnutrizione con deficit di proteine e micronutrienti. Di particolare interesse i dati di più
recente acquisizione sul significato della vitamina D e lo stato frequente di ipovitaminosi. In questo ampio capitolo si ricorda anche l’identificazione di deficit immunitari clinicamente eterogenei
associati a sindromi multisistemiche (sindrome metabolica, malnutrizione).
Quando e come sospettare un deficit immunitario.
In linea generale si distingue una procedura ben
correlata ai deficit primitivi mentre per le IDS l’approccio non presenta la stessa “rigidità” di sequenza diagnostica.
Pertanto gli schemi di diagnosi e di definizione,
utilissimi in settori riguardanti le malattie da IDP
rare, non sono automaticamente estendibili alle forme secondarie. E tra queste, ovviamente, un significato del tutto particolare ha la malattia da HIV
con le sue varianti cliniche.
Per le IDP gli aspetti clinici fondamentali riguardano:
- infezioni ricorrenti delle alte vie aeree oltre 610 episodi /anno;
- infezioni batteriche in numero compreso tra 1
e 3/anno;
- infezioni gravi (sepsi, meningite): 1-2/anno;
- infezioni in siti anatomici inusuali (es. ascessi cerebrali o epatici);
- infezioni da patogeni opportunisti o non consueti (Aspergillus spp., Serratia m., Nocardia
spp etc.);
- infezioni ad andamento clinico grave anche
quando causate da agenti patogeni di comune riscontro;
- complicanze gravi dopo vaccinazione con microrganismi “vivi” attenuati;
- ritardo di crescita correlabile a fenomeni
diarroici cronici;
- anamnesi familiare con eventi o decessi dovuti a gravi infezioni;
- infezioni causate da mollusco contagioso disseminato, a carattere recidivante;
- evidenza di bronchiectasie.
5
L’iter di laboratorio può essere suddiviso in indagini distinte di 1°, 2° e 3° livello.
6
i livello: esame emocromocitometrico, protidemia e protidogramma elettroforetico, dosaggio
delle immunoglobuline sieriche; dosaggio C3 e C4;
ii livello: dosaggio delle sottoclassi IgG,
identificazione di anticorpi specifici per alcuni antigeni; eventuale ricerca di autoanticorpi in casi
selezionati; distribuzione delle varie sottopopolazioni linfocitarie (CD3, CD4, CD8, CD19,
CD16-56), il loro stato di attivazione prima e dopo
stimolo (CD38, CD25, CD69, CD40L, HLA-DR)
e le popolazioni naive e memoria T e B (CD45RO,
CD45RA, CD27, CD22); test di linfoproliferazione
in vitro usando antigeni specifici o mitogeni; parametri delle funzioni complementari. Per quanto riguarda deficit della fagocitosi sono usati alcuni test di biochimica come quello al nitro blue
tetrazolio (NBT test) o citofluorimetria a flusso
con diidrorodamina 123 (per valutare la produzione di superossido);
iii livello: si includono in questo raggruppamento indagini di tipo molecolare, in grado di identificare la presenza di un gene mutato; questo approccio è in funzione della natura e delle caratteristiche del gene (se noto o sconosciuto). Da queste analisi discendono varie implicazioni pratiche.
Infatti identificare il difetto del gene oltre a definire una diagnosi “strutturale” dell’anomalia
consente un’assistenza alla famiglia ricorrendo ad
adeguata consulenza genetica.
In età adulta il sospetto di ID deriva da segni
e sintomi che adeguatamente interpretati posso-
no aiutare indirizzando il medico verso una diagnosi corretta: si possono distinguere indicatori
clinici e di laboratorio. In ambito clinico vanno
differenziati eventi di natura infettiva e non infettiva. Nel primo gruppo si deve valutare la caratteristica del fenomeno infettivo (gravità, durata
e andamento recidivante, varie complicazioni presenti malgrado il corretto uso di antibiotici, isolamento di agenti patogeni non usuali). Nell’ambito delle manifestazioni non infettive i sintomi
critici sono: diarrea recidivante con o senza malassorbimento, diagnosi di bronchiectasie non altrimenti interpretabile, fenomeni autoimmuni
concomitanti (per esempio tiroidite e vitiligine),
crescita ritardata, patologia ematologica (anemia
emolitica, trombocitopenia, leucocitopenia).
I test di laboratorio vanno considerati in rapporto all’emergere del sospetto e in relazione all’approccio clinico nel corso della storia naturale di un’immunodeficienza, approccio che può interessare diversi settori della medicina clinica: gastroenterologia (diarrea), nefrologia (sindrome nefrosica), pneumologia (bronchiectasie), otorinolaringoiatria (sinusite cronica e infezioni recidivanti dei seni nasali e paranasali), diabetologia (infezioni recidivanti), infettivologia (infezioni da patogeni inconsueti e andamento recidivante), oncologia (in corso di immunodeficienza è documentato un più alto rischio di crescita neoplastica), chirurgia (ascessi non altrimenti motivati, per
esempio a livello polmonare).
Allo scopo di evitare una diagnosi o un sospetto diagnostico tardivi i parametri da considerare prima che questo ritardo si trasformi in un
evento svantaggioso sono tre: 1) presenza di malattie o fenomeni autoimmuni; 2) comparsa di neoplasie non usuali; 3) frequenti episodi di infezioni recidivanti non rispondenti alla terapia antibiotica.
Immunosenescenza.
Ovviamente anche il sistema immunitario invecchia; quale consistenza “strutturale” ha l’invecchiamento per quanto concerne la risposta immunitaria? In corso di immunosenescenza si assiste a una serie di trasformazioni che tendono ad
“abbassare” il livello della risposta immunitaria.
Questa downregulation riguarda diversi parametri: diminuita efficacia in risposta ai vaccini, comorbilità, maggiore facilità nel contrarre infezioni.
Di particolare interesse alcuni studi che hanno evidenziato una ridotta funzione della linea cellulare B, con alterazione quantitativa delle varie sottopopolazioni linfocitarie e una modificazione nel
repertorio della risposta specifica verso gli antigeni che appare ridotta.
Immunodeficienze: “dove” scovarle.
La definizione di immunodeficienza è oggi una
sorta di sfida di natura nuova. Abbiamo potuto
cambiare l’ottica di riconoscimento ricorrendo agli
strumenti di tecnologie avanzate e grazie a una visione della clinica non più rigida o vincolata ai limiti imposti dalle indagini di laboratorio. Ma proprio il sovrapporsi di conoscenze settoriali e in aree
di confine tra ricerca clinica e di base ha generato talora il rischio di sottovalutare le numerose condizioni di deficit immunitario, soprattutto in individui altrimenti sani e in età adulta. Gran parte del merito per questo cambiamento concettuale
è di J L Casanova, geniale autore di numerosi lavori che hanno consentito di identificare vari difetti altrimenti non individuabili. Come “pensa-
re” un’immunodeficienza in modo nuovo? Facciamo un esempio. Chi si infetta con Herpes Simplex Virus - 1 (HSV 1) di solito non ha problemi,
mentre un piccolo numero di individui sviluppa
l’encefalite.
Ecco: la dimostrazione che in questo gruppo
sfortunato ci possa essere un difetto della risposta immunitaria significa che esistono probabilmente alterazioni genetiche che giustificano il decorso “anomalo” o inconsueto in svariate condizioni cliniche. Difetti che si slatentizzano con una
forma di singolarità biopatologica: l’immunità non
risulta compromessa per il controllo di molti patogeni, mentre diventa insufficiente verso un
determinato microrganismo (virus o batterio che
sia).
Alla luce di quanto esposto e per concretezza ogni medico pratico, così come ha in mano il
manuale per il rischio cardiovascolare, per la gestione della terapia anti-ipertensiva, per il diabete, per l’ictus e come ha un riferimento per le linee guide riguardanti la prevenzione dei tumori
(cancro della mammella, del colon, dei polmoni,
della prostata, etc.), e si potrebbe continuare a lungo, può sicuramente giovarsi di una base di riferimento per sospettare e/o diagnosticare uno stato di immunodeficienza.
7
Riassumendo i punti principali da considerare
sono:
immUNoDEFiCiENZA CoNGENitA
Forme primitive geneticamente definite
Forme primitive in via di definizione
immUNoDEFiCiENZE SECoNDARiE
malattia da HiV
Da farmaci, patologie varie, malnutrizione,
dismetabolismo, ecc.
immUNoDEFiCiENZE DELL’Età ADULtA
Difetti congeniti con espressione fenotipica tardiva
Difetti genetici di nuova identificazione
immunosenescenza
8
Nel 2004 Charlotte Cunningham-Rundles ha
pubblicato un lavoro molto interessante, e astuto, base per capire come sia possible identificare uno stato di immunodeficienza partendo dai codici ICD-9 (identifying undiagnosed primary
immunodeficiency diseases in minority subjects
by using computer sorting of diagnosis codes - J
Allergy Clin Immunol 2004;113:747-55.) . In questa ricerca gli autori hanno considerato che le IDP
vengono diagnosticate raramente in gruppi di minoranza etnica. L’obiettivo primario è consistito
nello sviluppare e validare un metodo atto a identificare soggetti senza diagnosi definita ma con immunodeficienza, facendo riferimento a un ospedale cittadino con una significativa popolazione
di utenti appartenenti a gruppi di minoranza.
è stato sviluppato un algoritmo sulla base della international Classification of Disease, Ninth
Revision (ICD-9) con i codici relativi a soggetti
ricoverati al di sotto dei 60 anni di età, considerando la diagnosi di 2 o più dei 174 codici ICD9 relativi a complicazioni associate a immunodeficienza. Dopo aver analizzato 533 pazienti con
2683 accessi ed eseguito controlli su 59 identificati è stato possibile trovare 17 soggetti con im-
munodeficienza primitiva e 13 con immunodeficienza secondaria. Questo lavoro è un esempio utilizzabile anche in altre aree e nell’ambito delle ricerche miranti a definire un deficit di risposta immunitaria può essere un vero riferimento per ampliare approcci analoghi.
Si può concludere con quanto riassunto nel lavoro di Casanova e Abel, pubblicato su Science
(Primary immunodeficiencies: a filed in its infancy
2007; 317: 617 - 619): “A paradigm shift is occurring in the field of primary immunodeficiencies, with revision of the definition of these conditions and a considerable expansion of their limits. Inborn errors of immunity were initially thought to be confined to a few rare, familial, monogenic, recessive traits impairing the development
or function of one or several leukocyte subsets and
resulting in multiple, recurrent, opportunistic, and
fatal infections in infancy.
A growing number of exceptions to each of
these conventional qualifications have gradually
accumulated. It now appears that most individuals
suffer from at least one of a multitude of primary
immunodeficiencies, the dissection of which is helping to improve human medicine while describing
immunity in natura”. “[Un cambiamento si sta
manifestando nel campo delle immunodeficienze, con la revisione delle definizioni e una consistente espansione dei relativi limiti. Errori dell’immunità sono stati inizialmente localizzati
nell’ambito di forme rare, familiari, monogeniche,
recessive e in genere limitate all’infanzia.
Un crescente numero di eccezioni a ciascuna
delle definizioni convenzionali si è andato gradualmente accumulando. Ai nostri giorni sembra
che gran parte degli individui soffra di almeno una
di una vasta serie di condizioni di immunodeficienza, l’identificazione della quale mentre aiuta l’approccio medico ci consente di comprendere
l’immunità in natura]”.
Presso la bios S.p.A. di via D. Chelini, 39 (Bios diagnostica srl)
è attivo il servizio di immunologia Clinica,
diretto dal prof. Giuseppe Luzi, immunologo clinico.
iNFo CUP 06 809641
LE biotECNoLoGiE:
iL FUtURo DELLA RiCERCA SCiENtiFiCA
Alessandra Lo Presti
Biotecnologa
9
Le biotecnologie
Il termine biotecnologia fu coniato nel 1917
da un ingegnere ungherese, Karl Ereky, con riferimento e limitatamente alla lavorazione di alcuni prodotti agricoli. biotecnologia deriva dalla congiunzione di due distinti sostantivi: Biologia e Tecnologia; il primo indica lo studio e la conoscenza (logos) degli esseri viventi (bios) e delle leggi che li governano; il secondo (technè) si riferisce all'applicazione e all'uso di strumenti tecnici
per l'ottimizzazione di procedure il cui scopo è la
produzione di beni e servizi.
Nel corso degli anni la definizione di “biotecnologie" ha subito varie modificazioni; si va da
quella della Federazione Europea di Biotecnologia (EFB) del 1982 che per biotecnologie intende "l'uso integrato della microbiologia, della
biochimica, della genetica e dell'ingegneria chimica allo scopo di ottenere applicazioni di mi-
crorganismi, altri sistemi cellulari o loro sottostrutture per la produzione di composti di vario interesse o per terapie cliniche”, a quella del 1989
più recente e più ampia che definisce le biotecnologie come “l'integrazione di scienze biologiche e ingegneria allo scopo di utilizzare organismi, cellule, loro componenti o analoghi molecolari
per l'ottenimento di beni e servizi”. Accanto a queste definizioni ne troviamo anche una più immediata e sintetica: “sfruttamento di sistemi biologici per la produzione di beni e servizi”.
La biotecnologia si avvale dell’ingegneria genetica che fonde competenze di genetica e di biologia molecolare. Alla base delle biotecnologie vi
è la scoperta della struttura del DNA (acido desossiribonucleico) da parte di James Watson e
Francis Crick nel 1953 e la scoperta di Oswald
Theodore Avery negli anni ’40, riguardante il DNA
come la sostanza nella quale risiedono tutte le informazioni genetiche. Vista secondo la prospettiva sto-
10
rica la biotecnologia risale al tempo in cui si utilizzavano per la prima volta e deliberatamente il
lievito per fermentare la birra e i batteri per produrre lo yogurt.
La natura della biotecnologia mutò notevolmente grazie alla messa a punto della tecnologia
del DNA ricombinante (che si riferisce a numerosi protocolli sperimentali che portano al trasferimento di informazione genetica da un organismo a un altro). Questa tecnologia prevede, in
primo luogo, l’identificazione del gene di interesse,
quindi l’estrazione del DNA dall’organismo donatore, il taglio (digestione) enzimatico e unione
mediante “legatura” con un'altra tipologia di DNA
(vettore di clonazione) formando così una nuova
molecola di DNA ricombinato (costrutto di DNA).
Questo costrutto (vettore di clonazione-inserto
di DNA) viene trasferito e mantenuto dentro una
cellula ospite. L’introduzione di DNA in una cellula ospite di natura batterica è detta trasformazione. Si identificano e si selezionano quindi le
cellule ospiti che hanno assunto il costrutto di DNA
(cellule trasformate) da quelle che non lo hanno
assunto. La digestione enzimatica del DNA è resa
possibile grazie a specifici enzimi detti endonucleasi di restrizione di tipo II che si legano alla molecola di DNA e la tagliano in corrispondenza di
precisi siti di riconoscimento (sequenze palindromiche) con un taglio simmetrico e sfalsato o
con un taglio ad estremità nette (a seconda dell’enzima di restrizione implicato) producendo estremità coesive (Fig.1). Un qualsiasi DNA tagliato
con questi enzimi può essere facilmente attaccato a un'altra molecola di DNA tagliata dallo stesso enzima. La scoperta degli enzimi di restrizione ha così reso possibile lo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante.
Da soli gli enzimi di restrizione non bastano
per la clonazione molecolare. Quando si allineano le estremità sporgenti create dall’enzima di restrizione, i legami a idrogeno delle basi che si appaiano non sono sufficientemente robusti da tenere unite due molecole di DNA. Si utilizza in genere l’enzima DNA-ligasi T4 che catalizza la formazione di legami fosfodiestere alle estremità dei
filamenti di DNA già uniti dall’appaiamento tra
le basi dei due prolungamenti. Le molecole di DNA
saldate dalla DNA-ligasi-T4 si applicano a trasformare le cellule ospiti.
Fig 1. Digestione enzimatica del DNA con endonucleasi di restrizione, generazione di estremità coesive e legatura; da Giorgio
Seano al link http://www.ips.it/scuola/concorso_99/genetica/biotecn.htm
La trasformazione produce alcune cellule che
contengono i costrutti plasmide-inserto di DNA.
Avendo il plasmide una sequenza di DNA che gli
consente di replicarsi (l’origine della replicazione), l’intero costrutto verrà perpetuato (Fig.2).
Fig 2. Generazione di un costrutto vettore di clonazione-inserto
di DNA (contenente il gene di interesse) che viene trasferito e
mantenuto dentro una cellula ospite (cellula batterica).
Duplicazione del plasmide contenente il DNA del gene d’interesse
(insulina); da Giorgio Seano al link: http://www.ips.it/scuola/concorso_99/genetica/biotecn.htm
Si sono elaborate diverse strategie atte a selezionare le cellule in possesso dei costrutti plasmide-inserto di DNA:
1) saggiando la resistenza a determinati antibiotici o ricercando nelle cellule in accrescimento una determinata risposta colorimetrica;
2) eseguendo saggi immunologici o di attività
per i prodotti proteici codificati dal gene clonato;
3) mediante ibridazione del DNA con una sonda
contenente una sequenza nucleotidica presente nel gene bersaglio.
Al termine di ogni procedura di clonazione è
necessario controllare se sia stato clonato un
gene strutturale intatto.
Applicazioni biotecnologiche.
Sono numerosi i campi di applicazione delle
biotecnologie; i più importanti sono di seguito
riportati.
Settore farmaceutico.
Tra le più note sostanze prodotte con la tecnica del DNA ricombinante ci sono l'insulina,
l'ormone della crescita e l'interferone. L'insulina
fu la prima a essere prodotta con il metodo della
clonazione del DNA.
è possibile migliorare l'efficacia di farmaci
già in uso e ottenere prodotti altamente purificati
e privi di contaminanti allergenici o biologici.
I farmaci ottenuti attualmente con le biotecnologia sono numerosi (si possono ottenere ad
esempio ormoni, proteine, anticorpi monoclonali
e antibiotici) e molti altri sono in fase di avanzata sperimentazione.
Settore industriale e agricolo.
Per il settore industriale ritroviamo la costituzione di microrganismi in grado di produrre sostanze chimiche.
Per quanto riguarda il settore agricolo ritroviamo la modificazione di organismi per renderli
in grado di crescere in determinate condizioni
ambientali o nutrizionali.
Lo scopo di questo settore è quello di produrre soluzioni per l’agricoltura aventi un impatto
ambientale minore rispetto ai processi agricoli
classici. Ad esempio, sono state ingegnerizzate
alcune piante in grado di produrre autonomamente pesticidi, eliminandone la necessità di
somministrazione esterna, più dispendiosa e inquinante.
A questo fine è stato prodotto, il mais BT. è
in corso un ampio dibattito riguardo all'effettiva
eco-compatibilità di questi processi, nonché sulla
sicurezza degli organismi geneticamente modificati (OGM).
Settore biomedico.
Vaccini
I vaccini sono preparazioni di microrganismi
patogeni uccisi o modificati, o specifiche frazioni
di essi, che vengono iniettati in un animale per
stimolare l'immunità nei confronti di una determinata malattia. Generalmente, per produrre un
vaccino, vengono clonati i geni codificanti le proteine del rivestimento in quanto inducono una
consistente produzione anticorpale. L’importanza
dei vaccini ricombinanti risiede nel fatto che possono sostituire le sospensioni di virus uccisi o
inattivati. L’ingegneria genetica ha permesso di
sviluppare con notevole successo alcuni vaccini a
subunità.
Questi vaccini contengono solo una subunità
specifica di una proteina dell'organismo patogeno (generalmente una proteina del rivestimento); con le tecniche del DNA ricombinante è
possibile ottenere microrganismi in grado di produrre queste subunità.
Le proteine del rivestimento, che sono altamente immunogene, vengono purificate e utilizzate a dosaggi elevati per permettere l'induzione
di un livello protettivo di immunità. Sfortunatamente, quando il batterio E. coli viene utilizzato
come ospite di clonaggio, i vaccini prodotti sono
spesso scarsamente immunogeni e non sono in
grado di proteggere il soggetto da una successiva
infezione con il virus.
Il problema deriva dal fatto che, quando il
virus si replica nell'ospite, molte proteine virali
del rivestimento subiscono modificazioni post
trasduzionali, generalmente con l'aggiunta di residui di zuccheri (glicosilazioni).
Le proteine ricombinanti prodotte da E. coli
11
e da altri batteri non sono glicosilate e la glicosilazione è necessaria perché le proteine siano immunologicamente attive; quindi occorre utilizzare
ospiti eucariotici.
Uno dei vettori utilizzati per il clonaggio in
cellule di mammifero è il virus del vaiolo bovino. I vaccini costruiti con le tecniche dell'ingegneria genetica sono destinati ad avere un grande
successo poiché sono più sicuri degli usuali vaccini costituiti da virus uccisi o attenuati, sono più
riproducibili in quanto il loro patrimonio genetico può essere attentamente controllato, possono
essere somministrati in dosi elevate senza effetti
collaterali.
12
Terapia genica somatica.
Prevede il trasferimento di un gene mediante
diverse tipologie di vettori direttamente su linee
cellulari somatiche (anche se in alcuni casi è possibile inserire il DNA "nudo") modificando in
questo modo l’espressione genica di determinati
tessuti quali muscoli, polmoni, cervello, ossa,
reni, cuore e molti altri. Essendo rivolta alle cellule somatiche non viene trasmessa alle generazioni successive ma interessa solo il paziente.
La terapia genica somatica mira all'identificazione del gene difettoso che causa una patologia e quindi alla sua sostituzione con una copia
del gene che funzioni correttamente. Le patologie in cui è possibile applicare la terapia genica
sono principalmente i disordini ereditari quali la
distrofia muscolare, la fibrosi cistica, l’emofilia,
il diabete di tipo I, le malattie metaboliche (fenilchetonuria), le malattie rare a trasmissione genetica nelle quali sia stato individuato il gene
difettoso. Da alcuni anni si stanno sviluppando
tecniche di terapia genica applicabili anche alla
cura del cancro, di malattie cardiovascolari e
neurodegenerative.
In particolare è stata sviluppata una precisa
strategia di attacco per alcune forme di cancro
rappresentata dall’inibizione dell’angiogenesi.
Nello specifico, con la terapia genica è possibile introdurre nell’organismo malato geni che
codificano proteine inibitrici dell’angiogenesi in
modo da bloccare o ridurre la neovascolarizzazione del tumore. è anche possibile introdurre
nelle cellule tumorali geni in grado di disattivare
o contrastare il disequilibrio responsabile della
proliferazione incontrollata (dovuta all’anomala
attivazione e disattivazione di oncogeni e geni
onco-soppressori).
Il trasferimento genico può avvenire “in vivo”
o “ex-vivo”. In vivo può avvenire localmente,
(con un'iniezione intramuscolare o intratumorale,
per inalazione o per permeabilità), o per via sistemica (iniezione endovenosa) mentre ex-vivo
con il trasferimento genico in cellule in coltura
che siano state espiantate e poi successivamente
reimpiantate nel paziente.
Esistono diverse tipologie di vettori per la terapia genica: vengono utilizzati vettori biologici
(vettori virali) e vettori non virali (vettori fisici o
chimici). I vettori non virali sono stati messi a
punto per sopperire ai limiti dei vettori virali, si
possono produrre su larga scala, non risultano essere infettivi o mutagenici.
I vettori fisici (come ad esempio la pressione
idrodinamica, il trasferimento mediato da campo
elettrico o l’iniezione diretta nei tessuti) possono
essere utilizzati per il trasferimento ex-vivo; l’iniezione diretta nei tessuti è efficace solo quando
la terapia non richiede una grande quantità di
espressione del gene trasferito. I vettori chimici
(ad esempio i liposomi cationici, policationi come
DEAE dextrano, polietilenimmina o complessi
di polilisina) hanno un’efficienza ridotta rispetto
ai vettori biologici.
I vettori biologici (o virali) sfruttano la caratteristica intrinseca dei virus di essere parassiti
intra-cellulari obbligati; sono in grado di infettare la cellula ospite, con grande specificità, di
inserirsi nel genoma dell’ospite o di replicarsi nel
nucleo come un episoma (ad esempio Adenovirus) e consentire così l’espressione dei geni per
la produzione di nuove particelle virali. I vettori
virali si dividono in vettori retrovirali, vettori
adenovirali, vettori derivati da Herpes simplex
virus e vettori adenoassociati.
I virus ricombinanti utilizzati per la terapia
genica ex-vivo sono progettati per essere inattivi:
solitamente sono stati privati dei geni virali necessari per la replicazione, al posto dei quali sono
stati inseriti i geni di interesse terapeutico che si
vuole dare al paziente. Questi virus non competenti per la replicazione vengono detti difettivi e
non sono più in grado di dar luogo a un'infezione
produttiva e l’espressione del gene introdotto è
permanente. Fra le problematiche relative all’uso
dei vettori virali esiste la remota possibilità che i
virus introdotti possano ricombinare con altri
virus endogeni e quindi originare una progenie virale capace di provocare un'infezione produttiva.
I principali problemi da tener presenti per la
terapia genica con vettori virali sono le caratteristiche intrinseche del virus utilizzato. I retrovirus infatti infettano solo cellule in attiva divisione
e vengono prodotti in basse quantità; gli Herpes
Simplex Virus infettano cellule del SNC, possono
instaurare nei neuroni infezioni latenti ma non si
integrano e quindi non è possibile avere un'espressione a lungo termine dei geni inseriti.
I vettori adenovirali possono invece infettare
un'amplissima gamma di tipi cellulari.
L'ingresso nelle cellule avviene mediante endocitosi mediata da recettori ed è molto efficiente, ma il DNA inserito non sembra integrarsi
e quindi l'espressione dei geni inseriti può essere
mantenuta solo per brevi periodi.
I vettori basati su virus “adeno” associati garantiscono un'espressione genica a lungo termine
e un elevato grado di sicurezza; infatti essi si integrano nel cromosoma ma, poiché per inserire il
gene esogeno occorre eliminare il 96% del loro
genoma originario, possiedono pochissimi elementi virali.
Fra i problemi connessi con la terapia genica
(con qualsiasi tipo di vettore) è da tener presente
la risposta immunitaria che potrebbe generarsi
nel paziente, la difficoltà con cui il gene terapeutico si inserisce in maniera stabile nelle cellule bersaglio e la selettività delle cellule da
trasfettare.
proteine (vengono per questo considerati inibitori
specifici della traduzione).
La specificità delle molecole antisenso è talmente elevata che anche due geni che differiscono per una mutazione di un solo nucleotide
possono essere inibiti in modo differente. Possono interagire nel meccanismo dell’espressione
genica in vari modi (Fig.3):
❱ legandosi al DNA, inserendosi nella doppia
elica (con la formazione di un triplex, tripla
elica) e bloccando quindi la trascrizione;
❱ legandosi all’mRNA, sia prima che dopo lo
splicing, impedendo la traduzione; questi
sono oligonucleotidi antisenso in quanto
sono complementari all’mRNA;
❱ legando le proteine appena formate (aptameri);
❱ degradando gli mRNA (ribozimi).
Gli ONs antisenso oltre che bloccare stericamente l’unione mRNA ribosoma, rendono la catena di acido nucleico alla quale si legano più
soggetta alle RNasi. Gli ONs sono applicabili a
diverse patologie (in alcune forme di cancro in
cui vi è iper-espressione di oncogeni, o nel caso
della sovrapproduzione di angiotensina nell’ipertensione, nel trattamento di alcune patologie infiammatorie, in alcune malattie virali fra cui
HIV, epatite B, per le artriti reumatoidi, allergie
e molte altre).
Per l’aquisizione dell’oligonucleotide da parte
delle cellule si utilizzano diverse tecniche fra cui
i lipidi cationici, i liposomi, i peptidi, i dendrimeri, i policationi, la coniugazione con il colesterolo, l’aggregazione con ligandi di superficie
cellulare, la streptolisina O e l’elettroporazione.
Il futuro delle biotecnologie.
Negli ultimi anni le ricerche nel campo delle
biotecnologie (in particolare nel settore relativo
alla terapia genica) si stanno focalizzando sullo
studio di terapie basate sull’uso degli oligonucleotidi anti-senso e sugli small RNA interference.
Gli oligonucleotidi antisenso (ONs) sono
corte sequenze di acidi nucleici a singolo filamento, lunghi dai 15 ai 20 nucleotidi, complementari a una data sequenza target che agiscono
interagendo con l'RNA messaggero, bloccando la
traduzione e quindi la produzione di determinate
Un'altra tipologia di molecole sulle quali si
stanno svolgendo diversi studi e sulle quali si sta
focalizzando la biotecnologia sono gli small interfering RNA. Gli small interfering RNA
(siRNA), noti anche come short interfering RNA
or silencing RNA (RNA di silenziamento) appartengono a una classe di RNA a doppio filamento, lunghi 20-25 nucleotidi, utilizzati per
interferire nell’espressione di un gene specifico.
Sono utilizzati in diverse vie metaboliche cellulari per il silenziamento genico post trascrizionale e si stanno utilizzando principalmente nella
ricerca biomedica e nello sviluppo di famaci.
13
Fig 3. Targeting intracellulare degli oligonucleotidi (ONs). Gli
ONs si possono legare a DNA nucleare come molecole triplex (1)
oppure legandosi all’interno del loop della replicazione (2). Gli
ONs possono legarsi agli mRNA nascenti nel nucleo (3) o agli
mRNA maturi nel citoplasma nella parte iniziale (4) o lungo la sequenza ma più a valle (5) determinando blocco della traduzione
proteica o inducendo la degradazione da parte della RNAsi H del
filamento target. Aptameri si legano e inibiscono la funzione di
specifiche proteine (7). Immagine di Costi Mariapaola dal file Terapia genica link http://cdm.unimo.it/home/dipfarm/costi.mariapaola/terapia_genica.pdf
14
Una problematica relativa agli siRNA è che
possono indurre alcuni effetti non specifici e una
elevata quantità di siRNA potrebbe generare diverse risposte cellulari aspecifiche in grado di attivare una risposta immunitaria.
La maggior parte dei lavori scientifici sembra indicare che il fenomeno sia dovuto alla presenza di PKR, un sensore cellulare per gli RNAds,
e sembra probabile il coinvolgimento anche del
gene RIG-I (acronimo di retinoic acid inducible
Gene i).
Un metodo promettente per ridurre l'effetto
aspecifico consiste nell'adattare gli siRNA fino
a far assumer loro la struttura di un microRNA.
Dal momento che la presenza citosolica dei
microRNA è assolutamente naturale e comporta
uno dei più potenti meccanismi di silenziamento
cellulare, tale approccio promette di essere assai
efficace, permettendo di incorporare minori concentrazioni di siRNA per avere un silenziamento
molto più efficiente e selettivo.
Recenti applicazioni degli oligonucleotidi.
Gli oligonucleotidi antisenso sono attualmente
in corso di valutazione con trial clinici, molti dei
quali riguardano applicazioni oncologiche.
Fra questi, i composti diretti verso c-myb,
bcl-2, PKA, PKC-alfa, c-raf chinasi e Ha-ras.
Altre applicazioni riguardano la molecola di
adesione intercellulare-1 (ICAM-1) coinvolta in
diverse malattie infiammatorie.
è da evidenziare un recente studio nel quale
vengono utilizzati specifici oligonucleotidi antisenso diretti verso forme mutate della proteina
p53.
è noto che p53 è la più comune alterazione
genetica nel cancro della specie umana.
Questo lavoro dimostra che gli oligonucleotidi antisenso contenenti una differenza di un
solo nucleotide riescono a discriminare fra ogni
forma mutata di p53 e fra la forma wild type
(WT); inoltre in seguito all’utilizzo di tali oligonucleotidi antisenso si è evidenziata su linee cellulari tumorali umane una forte inibizione
dell’espressione delle forme di p53 mutate.
Problemi aperti nel prossimo futuro.
Una delle problematiche riguarda il trasporto
degli oligonucleotidi antisenso al gene bersaglio
senza che essi vengano degradati; occorre studiare con attenzione la tecnica sperimentale da
utilizzare per l’acquisizione degli oligonucleotidi da parte delle cellule in modo da garantirne
non solo l’ingresso ma anche una maggiore stabilità.
Occorre inoltre valutare la via di somministrazione più adeguata e la concentrazione ottimale di
oligonucleotidi per avere un effetto terapeutico
prolungato nel tempo, senza effetti collaterali per
i malati.
Occorre anche studiare se, in seguito alla
somministrazione di oligonucleotidi rivolti verso
una determinata proteina, vengano indotte modificazioni della trascrizione di altre proteine.
Per quanto riguarda la tecnica RNA interference, sebbene sia altamente specifica e capace
di interferire con l’attività di un gene, rallentandola, occorre tener presente la possibilità di induzione di risposte cellulari aspecifiche.
Questa tecnica, utilizzata dai ricercatori per
studiare le funzioni e le caratteristiche di specifici geni, potrebbe comunque avere un impatto
decisivo sul fronte terapeutico.
Sono necessari quindi ulteriori studi per eliminare le risposte cellulari aspecifiche e gli effetti collaterali.
EiACULAZioNE PRECoCE:
UN PRobLEmA FREqUENtE
Massimiliano Rocchietti March
Endocrinologo - Andrologo
15
L’eiaculazione precoce (EP), come dimostrano diversi studi epidemiologici su larga scala,
rappresenta la più frequente disfunzione sessuale
maschile. In Italia ne soffre un uomo su cinque
nella fascia d’età tra compresa tra 18 e 70 anni.
Secondo le principali società scientifiche internazionali, la definizione di EP si basa sui seguenti criteri:
- eiaculazione che si verifica, in modo persistente o ricorrente, in seguito a stimolazione
sessuale minima, prima o durante la penetrazione vaginale;
- mancanza di controllo eiaculatorio;
- conseguenze psicologiche negative a livello
personale.
Come hanno dimostrato numerosi studi epidemiologici, l’EP è la più frequente disfunzione
sessuale nell’uomo, con una prevalenza compresa tra il 20% e il 30%. In Italia, in particolare,
il 20% degli uomini ha riferito di essere affetto
da EP che è quindi più frequente della disfunzione erettile (DE), che colpisce il 12.8% degli
uomini. Inoltre la prevalenza dell’EP, a differenza di quella della DE, è indipendente dall’età.
L’EP è stata per la prima volta descritta come
entità o sindrome clinica da Bernard Shapiro nel
1943, che ne fece una prima distinzione tra tipo
A e B, successivamente classificati da Godpodinoff in EP lifelong, o primaria, e acquisita, o secondaria. L’EP lifelong o primaria colpisce il 50 %
degli uomini con EP. Essa è caratterizzata da:
- eiaculazione precoce ad ogni (o quasi) rapporto sessuale;
- il problema si presenta con tutte (o quasi) le
partner;
- insorge fin dal primo (o quasi) rapporto sessuale;
- l’eiaculazione avviene entro 30-60 secondi
(nell’80 % dei pazienti) o 1-2 minuti (nel 20 %);
- persiste per tutta la vita (nel 70 %) e può peggiorare con l’età (30 %).
Alcuni soggetti eiaculano già durante la fase
preliminare, prima della penetrazione o al primo
contatto con la vagina (ejaculatio ante-portas).
Uno studio recente ha dimostrato, per la
prima volta, l’ipotesi di un’influenza genetica sul
tempo di eiaculazione negli uomini con EP lifelong. Infatti, già il gruppo di Waldinger e coll.
16
aveva ipotizzato che l’EP lifelong dipendesse da
un’alterazione neurobiologica con vulnerabilità
genetica, che determinava una riduzione della
neurotrasmissione serotoninergica e/o dalla disfunzione dei recettori 5-HT (o serotonina). Janssen e coll., in uno studio su 89 uomini con EP
lifelong, ha mostrato esistere una stretta relazione
tra le varianti del gene che codifica per la proteina di membrana deputata al reuptake della serotonina e la durata dello IELT (tempo di latenza
eiaculatoria intravaginale).
L’EP aquisita o secondaria mostra le seguenti caratteristiche cliniche:
- EP che esordisce in un certo momento della vita;
- il soggetto ha precedentemente sperimentato
eiaculazioni normali;
- l’esordio può essere improvviso o graduale;
- la disfunzione può essere secondaria a patologie endocrine (ipogonadismi, ipertiroidismo),
urologiche, neurologiche, problemi psicologici o di relazione di coppia, farmaci (anfetamine, agonisti dopaminergici) o droghe (cocaina).
Le patologie urologiche che possono causare EP
sono:
- le infezioni delle ghiandole accessorie dell’apparato genitale maschile (le cosiddette
MAGI, Male Accessory Gland infections) quali: prostatiti, prostato-vesciculiti, prostatovescico-epididimiti;
- patologie organo-terminali (fimosi, frenulo
corto del prepuzio);
- la Disfunzione Erettile.
La salute sessuale è un argomento delicato,
difficile da affrontare sia per il paziente che per
il medico. Esistono pertanto metodiche atte a favorire il medico nella sua attività di diagnosi e
interazione con il paziente. Una di queste tecniche, denominata ALLOW, prevede un iter suddiviso in cinque fasi. Secondo questo schema, il
medico comincia a porre domande sulle relazioni
sessuali e legittima l’importanza dei problemi
sessuali. Quindi considera le proprie difficoltà
diagnostiche e terapeutiche e può eventualmente
decidere se inviare il paziente allo specialista per
l’impostazione della terapia. Infine il medico può
anche continuare allargando la discussione e, insieme al paziente, decidere quale strategia terapeutica intraprendere. Una volta poi che la
conversazione ha avuto inizio, è utile senz’altro
ricorrere all’impiego di questionari validati da
proporre al paziente durante la visita, ai fini di
una corretta indagine clinico-diagnostica. Uno
dei questionari più utilizzati è il PEDT (Premature Ejaculation Diagnostic Tool), che rappresenta uno strumento multidimensionale e validato,
di facile e rapida compilazione. è costituito da 5
domande dirette a indagare il controllo, i tempi
di eiaculazione, la frustrazione e le difficoltà interpersonali. La risposta sessuale maschile è rappresentata dal succedersi delle seguenti fasi:
desiderio, eccitazione (con erezione), plateau, orgasmo (con eiaculazione), risoluzione. Il ciclo
della risposta sessuale maschile si conclude con
i 3 eventi che caratterizzano l’eiaculazione: emissione, eiaculazione propriamente detta, orgasmo.
L’eiaculazione è causata da un riflesso spinale
simpatico sul quale vi è un limitato controllo volontario: mentre la sensazione di inevitabilità
eiaculatoria aumenta, il controllo volontario diminuisce, fino a un punto di non ritorno. Durante
l’eiaculazione si ha la chiusura del collo vescicale, il rilassamento dello sfintere uretrale esterno
e, quindi, una serie di contrazioni ritmiche della
muscolatura striata del pavimento pelvico, con
propulsione del liquido seminale in uretra.
Il centro spinale generatore dell’eiaculazione
è inoltre modulato da numerose strutture sovraspinali, del tronco encefalico e del diencefalo.
I neurotrasmettitori coinvolti nel processo
eiaculatorio sono numerosi e comprendono serotonina, dopamina, GABA, noradrenalina, ossitocina, acetilcolina e ossido nitrico.
è noto che la serotonina (5-HT) esercita un
effetto inibitorio sull’eiaculazione e sull’attività
sessuale maschile. Nel ratto maschio si ha liberazione di serotonina a livello ipotalamico al momento dell’eiaculazione. In particolare si è
osservato che l’aumento di questo neurotrasmettitore a livello ipotalamico e dell’area preottica
mediale successivo all’eiaculazione può inibire
un’eiaculazione successiva ed è responsabile del
periodo refrattario posteiaculatorio. La serotonina è, inoltre, il principale neuromediatore responsabile dell’inibizione tonica discendente sui
riflessi sessuali. Il gruppo neuronale responsabile di questa azione inibitoria è stato individuato
nel nucleo reticolare paragigantocellulare, situato
nel midollo allungato. Infatti, circa l’80% dei
neuroni di tale nucleo è di tipo serotoninergico.
Il ruolo della serotonina nella risposta sessuale, in particolare nell’eiaculazione, è supportato dall’osservazione degli effetti collaterali
degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI), che comprendono anche eiaculazione/orgasmo ritardato. La serotonina è quindi
un neurotrasmettitore chiave nel processo eiaculatorio. Ad oggi sono stati individuati almeno 16
diversi recettori serotoninergici, localizzati a livello ipotalamico, del tronco encefalico, del midollo spinale, ma sembra che la risposta sessuale
maschile sia mediata principalmente dai sottotipi
5-HT2C e 5-HT1A, situati soprattutto a livello
del nucleo paragigantocellulare.
Il processo eiaculatorio è quindi mediato dai
recettori 5-HT1A, che favoriscono l’eiaculazione
e 5-HT2C, che invece ritardano l’eiaculazione.
L’ipotesi corrente più accreditata attribuisce l’eziologia dell’EP a una iposensibilità del recettore
5-HT2C postsinaptico e a una ipersensibilità del
recettore 5-HT1A presinaptico. Si ritiene che la
soglia eiaculatoria del soggetto con EP, che presenta bassi livelli di serotonina e/o iposensibilità
del recettore 5-HT2C , sia geneticamente determinata ad un livello più basso. In particolare è
stato dimostrato che l’aumento dell’attività del
trasportatore per il reuptake della serotonina (5HTT), che esercita un ruolo chiave nella patogenesi dell’EP, è associato a un polimorfismo del
gene che codifica per questa proteina di membrana.
Quali sono le possibili opzioni terapeutiche?
Considerata inizialmente un problema psicologico, l’EP è stata trattata per decenni con terapie
non farmacologiche quali le tecniche comportamentali e cognitive. Successivamente, sono state
utilizzate anche terapie farmacologiche sia topiche (anestetici locali), sia sistemiche (antidepressivi e inibitori delle fosfodiesterasi-5).
In generale le tecniche comportamentali (ad
esempio il metodo “stop-start” o il metodo
“squeeze”) sono orientate ad addestrare l’uomo
a riconoscere i segnali pre-eiaculatori e a con-
trollare l’eiaculazione. Di solito queste tecniche
all’inizio offrono un beneficio in un’elevata percentuale di pazienti (45-65 %) ma possono alterare la spontaneità del normale rapporto sessuale
e, soprattutto, non hanno un effetto duraturo nel
tempo. Le terapie cognitive e sessuali, attraverso
il miglioramento della comunicazione tra i partner, mirano alla riduzione dello stress e dell’ansia correlata al sesso.
I trattamenti farmacologici topici, in creme o
spray, agiscono invece determinando una desensibilizzazione peniena, che a sua volta ritarda
l’eiaculazione. Tuttavia, non è stata dimostrata
alcuna correlazione statisticamente significativa
tra lo IELT e la sensibilità peniena.
I trattamenti farmacologici dell’EP per os
comprendono gli antidepressivi sia triciclici sia
SSRI (inibitori del reuptake della serotonina) e
gli inibitori della PDE-5 (fosfodiesterasi tipo 5).
Tuttavia il primo farmaco ad avere l’indicazione terapeutica specifica per l’EP è la dapoxetina, da poco reperibile in commercio. Le linee
guida 2009 dell’European Urological Association
infatti indicano la dapoxetina come il primo e
unico farmaco approvato per l’ EP. Essa agisce
determinando un’inibizione del 5-HTT, con conseguente inibizione del reuptake della serotonina
e potenziamento dell’azione del neurotrasmettitore. Il farmaco viene assunto on demand 1-3 ore
prima dell’attività sessuale; a differenza degli altri SSRI, che vanno somministrati cronicamente,
la dapoxetina risulta efficace al bisogno.
In conclusione l’EP rappresenta la più frequente disfunzione sessuale nell’uomo, addirittura più frequente della DE. L’uomo che soffre di
EP spesso prova scarsa autostima, disagio, frustrazione, ansia, depressione. Tutto questo rende
l’EP una condizione medica da diagnosticare e
trattare in modo appropriato.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica,
molto promettente sembra essere la dapoxetina,
farmaco di recente immissione in commercio,
che viene somministrato on demand.
Presso la bios S.p.A. di via D. Chelini, 39 è attivo il servizio di Andrologia.
medico responsabile dott. Giovanni Maturo.
iNFo CUP 06 809641
17
L’oStEoARtRoSi DEL GiNoCCHio:
AGGioRNAmENto SULLA
EZioPAtoGENESi E tERAPiA.
18
iL PUNto
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
PREmESSE
L’osteoartrosi (OA) costituisce la patologia articolare più diffusa e la principale causa di dolore cronico, interessando milioni di individui in tutto il mondo.
L’OA può essere considerata la conseguenza
di una disfunzione combinata, di natura biochimica, biomeccanica e biomorfologica della cartilagine articolare, con coinvolgimento anche
dell’osso subcondrale, della membrana sinoviale e del comparto capsulo-legamentoso.
Anche se la cartilagine articolare è la primitiva sede di lesione, la membrana sinoviale partecipa a tale processo involutivo con una “sinovite aspecifica” e l’osso subcondrale presenta fenomeni di congestione vascolare e attività osteoblastica con neoformazione di osso alla periferia
della cartilagine (osteofiti); concomita una fibrosi
capsulare e legamentosa.
Va sottolineato che l’OA è solo “prevalente-
mente” una malattia osteodegenerativa in quanto nella sua storia naturale intervengono poussée
di tipo infiammatorio, responsabili anch’esse della condrolisi (1) (Fig.1).
Fig 1. Esame istologico della cartilagine articolare e dell’osso
subcondrale in un’artrosi avanzata. Si rileva la graduale riduzione in spessore della cartilagine con fine fissurazione superficiale e scarsa colorazione dei piccoli raggruppamenti di
condrociti; è presente, inoltre, una sclerosi ossea con lieve fibrosi midollare (col. EE x 40 ).
Da una visione meccanicistica della OA, in cui
la cartilagine veniva considerata un tessuto inerte
tAb 1 - PRiNCiPALi FAttoRi Di RiSCHio PER L’oStEoARtRoSi
Definiti
età
componente genetica (anomalia del gene CoL2A1;HLA-A1 e HLA-b8 positivi)
fattori meccanici (stress articolare, perdita di assialità, perdita di sensibilità, ecc.)
patologia dismetabolica (iperglicemia, diabete, ipercolesterolemia)
obesità (non solo per il sovraccarico)
Probabili
nutrienti e altri fattori alimentari (sostanze ossidanti), fumo, densità ossea (aumento di
densità dell’osso subcondrale)
che con l’invecchiamento andava incontro ad una
progressiva usura, si è successivamente affermata
una visione metabolica, nella quale il condrocita è il protagonista nei processi di sintesi e degradazione della matrice (2); mentre in condizioni
normali i processi anabolici e catabolici della cartilagine sono in equilibrio dinamico, nell’OA si
altera questo equilibrio a favore del processo di
degradazione. In un complesso meccanismo biochimico entrano in gioco proteasi e inibitori delle stesse citochine e mediatori pro-infiammatori, con
intervento della membrana sinoviale (2).
Premesso quanto sopra i principali fattori di
rischio per l’OA sono riportati nella tabella 1 (3).
LA GoNoARtRoSi
Il ginocchio è un’ articolazione complessa costituita da tre compartimenti maggiori: articolazioni tibio-femorale mediale e laterale e articolazione patello-femorale. Ciascuna di tali articolazioni può essere interessata da OA (gonoartrosi) separatamente e in diverse combinazioni (4,5).
Le localizzazioni più comuni sono la tibio-femorale mediale isolata e l’associazione di tibio-
femorale mediale con la patello-femorale.
Numerosi contributi in letteratura concordano nel dire che la gonoartrosi radiologicamente evidente è meno frequente della OA delle mani, ma
più della coxartrosi (6,7). L’incidenza della gonoartrosi aumenta con l’età, con prevalenza per
le donne dopo i 50 anni; in ragione dell1% all’anno
nelle donne di età compresa tra 70 e 89 anni.
Anche se la struttura muscolare dell’uomo risulta più idonea che nella donna ad assolvere il
compito di protezione dei legamenti del ginocchio,
una condizione di ipotonotrofismo dei muscoli attivatori del ginocchio è più precoce nell’uomo.
Nell’inchiesta di DT Felson e coll. del 1992
emerge il dato dell’importanza nelle donne della perdita di peso al fine di ridurre il rischio di una
gonoartrosi sintomatica (8,9). Nel 1986 L’ACR ha
codificato i criteri clinici per la definizione della gonoartrosi (10) (Tab.2).
L’ARA nel 1989 ha modificato i precedenti criteri nei termini riportati nella tabella 3.
I pazienti con gonoartrosi possono essere suddivisi in due categorie principali: pazienti giovani, spesso di sesso maschile, con una patologia iso-
tAb 2 - CLASSiFiCAZioNE CLiNiCA DELLA GoNoARtRoSi (1986)
1) dolore al ginocchio per diversi giorni;
2) rigidità mattutina ≤30 minuti;
3) scrosci alla mobilizzazione attiva;
4) età maggiore di 38 anni.
19
tAb 3 - CRitERi DELL’ARA PER LA CLASSiFiCAZioNE DELLA GoNoARtRoSi (1989)
1) dolore al ginocchio e:
2) osteofiti radiologicamente apprezzabili o
3) a - presenza di aumento del liquido sinoviale (origine meccanica; età≥ di 40 anni) e
b - rigidità mattutina ≤30 min e
c - scrosci
20
lata del ginocchio, che può essere messa in relazione a una pregressa lesione traumatica o intervento chirurgico, come una meniscectomia; pazienti di età medio-avanzata, spesso obesi e prevalentemente di sesso femminile, che spesso presentano una gonoartrosi simmetrica, associata o
meno a quella di altre sedi articolari, incluse le
mani. L’obesità è fortemente correlata alla OA tibio-femorale, in particolare in soggetti anziani, di
sesso femminile (11). Il ruolo dell’obesità trascende
il concetto di sovrappeso, in quanto il tessuto adiposo è capace di liberare citochine e adipochine
(leptina, adiponectina, resistina, visfatina) con azione pro-infiammatoria sulla formazione ossea e catabolismo della cartilagine artrosica (12).
Recenti studi hanno enfatizzato l’importanza
di fattori occupazionali e genetici: flettere le ginocchia e accovacciarsi, se effettuate sotto carico, sono azioni particolarmente predisponenti per
l’OA tibio-femorale, mentre l’OA patello-femorale è legata maggiormente a fattori genetici, oltre che malformativi (displasie, varismo/valgismo,
iperlassità legamentosa, ecc.) (13).
La gonoartrosi può esitare in deformità dell’articolazione, in particolare per collasso del piatto tibiale, con episodi più o meno ravvicinati di
tumefazione della stessa per la presenza di un versamento articolare, espressione di flogosi sovrapposta. Autorevoli studi (14) hanno descritto la storia naturale della gonoartrosi, che è caratterizzata da una evoluzione lenta, che può essere clinicamente e radiologicamente stabile per diversi anni
(Fig. 2); ai possibili miglioramenti clinici non cor-
Fig 2. A sinistra immagine radiografica, in proiezione anteroposteriore, di un ginocchio affetto da gonoartrosi: è presente una
riduzione in ampiezza della rima articolare femoro-tibiale mediale,una sclerosi ossea marginale e una osteofitosi a “goccia”.
A destra, immagine radiografica, in proiezione laterale,di un ginocchio affetto da gonoartrosi femoro-tibiale e femoro-rotulea: è
particolarmente ridotta in ampiezza la rima articolare femoro-rotulea, con produzione di osteofiti.
tAb 4 - CoNSiDERAZioNi CLiNiCo –PAtoGENEtiCHE SULLA GoNoARtoSi
❯ molti individui, nonostante l’esistenza di numerosi fattori di rischio, non sviluppano
la gonoartrosi;
❯ una gonoartrosi clinicamente e/o radiologicamente evidente può essere correlata
oltre che all’obesità , anche alla iperglicemia, ipercolesterolemia e ipertensione
arteriosa;
❯ esisterebbe una predisposizione alla gonoartrosi, oltre che alla rizoartrosi, nelle donne
isterectomizzate;
❯ il grado di impegno delle articolazioni degli arti inferiori è correlato al grado e durata
dell’obesità, oltre che all’età del soggetto;
❯ è rilevante il rapporto tra gravità della gonoartrosi e la perdita di assialità femoro –tibiale, indipendentemente dal grado di obesità.
rispondono, però, miglioramenti radiologici. Lequesne (15) ha formulato un indice funzionale per
la gonoartrosi assegnando un punteggio:
A) al genere di dolore (notturno, mattutino, alla
marcia, con aiuto);
B) all’autonomia nella deambulazione, senza
dolore;
C) alla difficoltà nella vita quotidiana.
Una valutazione clinica dello stato di malattia può essere praticata anche attraverso la ricerca di diversi indici di funzionalità (ad es. WOMAC), che ci forniscono dati sulla qualità della
vita del paziente.
Un marcatore dell’attività di OA, testato in casi
di gonoartrosi (16 ) sarebbe l’IgG-BK, molecola antigenica bersaglio di anticorpi nell’OA.
Possiamo indicare nella Tab. 4 alcune considerazioni clinico-patogenetiche riassuntive sulla
gonoartrosi (6,7,17).
StRAtEGiA tERAPEUtiCA.
A prescindere dall’eliminazione dei “fattori di
rischio”, quando è possibile, la terapia della OA
sino a qualche anno fa disponeva solo di farmaci ad azione analgesico-antinfiammatoria, cioè
“sintomatici”, che non interferivano nella storia
naturale della malattia (17).
La TERAPIA MEDICA della gonoartrosi deve
essere “individuale”, basata sull’evidenza, secondo uno schema di piramide rovesciata al fine di:
1) ridurre la sintomatologia dolorosa
2) mantenere e migliorare la motilità articolare
3) migliorare la qualità della vita
4) limitare la progressione del danno articolare
5) informare il paziente sulla sua condizione.
LA TERAPIA NON FARMACOLOGICA si
avvale di presidi fisioterapici ed educazionali (la
ginnastica aerobica senza torsioni del ginocchio;
preparazione con potenziamento della muscolatura della coscia, idro-chinesiterapia, dieta, ortesi e/o ausilii).
LA TERAPIA FARMACOLOGICA prevede
in prima istanza l’impiego del paracetamolo
(sino a 4g/die) (18); un rafforzamento degli effetti
di questo farmaco si può ottenere con l’associazione di oppioidi, che però può comportare possibili effetti indesiderati.
In caso di non responsività al paracetamolo si
può ricorrere ai FANS (NSAID) non selettivi o selettivi della COX2 (19).
Controversa l’utilità dell’impiego della glucosamina solfato e del condroitinsolfato nella OA,
quali “Symptomatic Slow Acting Drugs for OA”,
a cicli ripetuti durante l’anno (20, 21, 22).
La terapia intrarticolare prevede due tipi di in-
tAb 5 - moDALità Di tRAttAmENto PER oA DEL GiNoCCHio
Non Farmacologica
Farmacologica
intra-articolare
Chirurgica
Educazione
Paracetamolo
Corticosteroidi
Artroscopia
Esercizio
NSAID
Acido ialuronico
Osteotomia
Solette
Analgesici oppiacei
UKR
Apparecchiature ortotiche
Ormoni sessuali
TKR SYSADOA
Spa
NSAID topici
Capsaicina topica
Vitamine/Minerali
EMF pulsata
Ultrasuoni
TENS
Nutrienti
21
tervento: quello con i corticosteroidi, giustificata della presenza di sinovite acuta con versamento
articolare e quella con acido ialuronico, che risponde all’esigenza di una “viscosupplementazione”. L’acido ialuronico agirebbe direttamente
sui sinoviociti e condrociti con stimolo della sintesi dell’acido ialuronico endogeno da parte dei
primi e stimolo della sintesi dei proteoglicani da
parte dei condrociti; inibirebbe inoltre, gli enzimi condrolesivi. Altra importante azione dell’acido ialuronico sarebbe l’effetto “scavenger” sui
radicali liberi, una azione sui leucociti (fagocitosi, chemiotassi), la modulazione dell’attività cellulare
attraverso l’interazione con un recettore cellulare, in
definitiva un’azione antiflogistica (23, 24, 25). Nella tabella 5 (pag. precedente) sono riassunte le mo-
dalità di trattamento medico e chirurgico della gonoartrosi. Recenti contributi in letteratura segnalano altre molecole da utilizzare come “structure
modyfing agents”, quale il Pharthenolide, che inibisce l’attivazione del processo infiammatorio mediato dall’IL-1, mediante l’inibizione di TNF alfa,
delle MMP 1,3,9, e stimola la sintesi di collagene di tipo II e aggrecano nei condrociti umani in
vitro (26). Una funzione analgesica nella OA manifesterebbe il TONEZUMAB, anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante diretto contro il
NGF (Nerve Growth Factor) (27,28).
Aperto il capitolo dell’impiego delle cellule staminali; la terapia chirurgica è l’estrema ratio in
caso di insuccesso della terapia medica conservativa.
bibLioGRAFiA
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mAi DiSPERARE.
Soggetto che “stava morendo di un cancro vertebrale, in fase terminale”, e
che poi è vissuto a lungo grazie a Percival Pott, chirurgo inglese del 1700.
Ero primario della divisione di Malattie Infettive di un grande ospedale provinciale. Una sera
il collega primario radiologo di un vicino ospedale mi chiamò chiedendomi un favore; mi pregava di ricoverare un suo zio, al momento degente
presso il reparto di chirurgia toracica di un ospedale di Roma, in quanto affetto da un avanzato cancro vertebrale, oramai definito non più curabile.
Me lo chiedeva perché la famiglia del malato viveva nella nostra città e quindi poteva assistere il congiunto nei momenti conclusivi della sua
vita e non era riuscito a trovare un altro letto libero nell’intero ospedale.
Pur se dirigevo un Reparto di Malattie Infettive dove non era previsto il ricovero di malati neoplastici, aderii alla richiesta, disponendo di una
stanza singola da poter temporaneamente utilizzare.
La mattina successiva, accompagnato dal
collega radiologo, suo nipote, si ricoverava il pa-
ziente. Era un uomo di 59 anni, in condizioni generali non particolarmente compromesse, il quale da circa quattro mesi presentava una rachialgia
a livello della regione dorsale, prima modesta poi
sempre più intensa, tanto da rendere molto penosa
la stazione eretta.
Non presentava altra sintomatologia, salvo
saltuaria febbricola, astenìa e modico dimagramento.
Nell’anamnesi non risultavano patologie precedenti significative, salvo coliche renali ripetute per nefrolitiasi e, da alcuni anni, sintomi minzionali riferibili a iperplasia prostatica.
Non vi erano mai stati traumi né interventi chirurgici. Era proprietario di una azienda vinicola
e affermava di non essere mancato dal lavoro per
malattia neppure un giorno. Tra le indagini di laboratorio recenti vi era solo una modica elevazione
della VES.
All’esame obiettivo, negativo per il torace e
gli altri organi esaminati, si rilevava spiccato do-
imPARARE DALLA CLiNiCA
Augusto Vellucci
Infettivologo
23
24
Percival Pott (1714-1788)
lore alla pressione esercitata sul dorso, a livello
della sesta-settima vertebra dorsale. Il collega mi
sottopose tutte le radiografie effettuate nei precedenti mesi; lo studio radiografico della colonna, negativo all’inizio della sintomatologia dolorosa, dopo due mesi aveva evidenziato un processo distruttivo a carico della parte inferiore del
corpo della sesta vertebra dorsale, vicino all’area
del disco intervertebrale tra sesta e settima vertebra,
con un quadro, a giudizio dei vari specialisti interpellati (oncologi, chirurghi toracici), da riferire a un processo neoplastico vertebrale.
A conferma di tale interpretazione, il collega
mi sottolineava il rilievo radiografico di una reazione della membrana periostale con neoformazione di una lamina ossea, sul bordo destro della vertebra alterata; e mi diceva che questo rilievo viene ritenuto un indicatore della aggressività
del processo patologico sottostante.
I radiologi, è sempre il collega che parla, definiscono l’aspetto radiografico di questa formazione come “triangolo di Codman”.
Nell’ipotesi di una patologia metastatica, erano state effettuate numerose indagini di laboratorio
e strumentali, che avevano evidenziato solo un calcolo in sede renale destra, qualche esito fibrocalcifico sottoclaveare nel polmone destro, e
modico aumento di volume della prostata, senza
rilevare alcun segno riferibile a un processo
neoformativo a carico dei vari organi studiati.
I tentativi ripetuti per effettuare una biopsia della regione vertebrale colpita non erano riusciti; l’ultima manovra era stata effettuata proprio il giorno prima, con un lungo ago introdotto posteriormente a livello della sesta-settima vertebra
dorsale, ma senza esito.
Facevo notare al collega che l’ultima radiografia portata in visione, effettuata due settimane prima, mostrava, oltre a una più estesa alterazione distruttiva del corpo della sesta vertebra dorsale, un evidente notevole interessamento del disco intervertebrale tra sesta e settima, che appariva quasi del tutto distrutto, e che il cosiddetto
triangolo di Codman era aumentato di spessore e
un po’ modificato di aspetto.
Il processo spondilitico aveva insomma assunto
un tipico quadro spondilo-discitico con periostite reattiva.
Feci allora effettuare subito un ultimo controllo
radiologico; la radiografia mostrava, sul lato destro della vertebra colpita, proprio all’altezza di
quello che era stato interpretato come triangolo di
Codman, la comparsa di un’ampia opacità paravertebrale, a contorno semilunare, riferibile a raccolta liquida; si confermava l’assenza di alterazioni in atto a carico dell’ apparato pleuro-polmonare.
Dinnanzi a un quadro patologico su riferito,
la diagnosi di neoplasia vertebrale appariva realmente convincente?
A parte le condizioni generali del paziente, ancora discrete, eravamo sì di fronte a un processo
distruttivo del corpo della sesta vertebra dorsale,
ma con chiaro interessamento del disco sottostante
e, ora, con formazione di una raccolta paravertebrale liquida; insomma era un quadro tipico di una
spondilo-discite infettiva ascessualizzata. Questa
patologia colpisce le vertebre e i dischi intervertebrali e può estendersi ai tessuti vicini sia infiltrando le strutture poste anteriormente alla colonna,
sia posteriormente comprimendo il midollo o le
radici dei nervi spinali.
E nel nostro caso era ora evidente la formazione liquida paravertebrale di tipo ascessuale.
Ricordai allora al collega radiologo che nel
1756 un chirurgo inglese dell’ospedale St. Bartholomew di Londra, il dott. Percival Pott, mentre cavalcava sulla Old Kent Road di Londra, cadde e
si fratturò un femore in più parti. Fu bravo a rifiutare l’amputazione dell’arto leso, che a quel tempo veniva proposta per le fratture gravi esposte,
ma che era molto pericolosa (facilmente insorgevano infezioni e si aveva un esito letale), e trascorse una lunga convalescenza scrivendo, tra l’altro, un articolo sulla patologia ossea causante paralisi alla metà inferiore del corpo (“Remarks on
that kind of palsy of the lower limbs” ).
In esso Pott, riferendo il caso di un ragazzo
quattordicenne figlio di una famiglia amica che
presentava una vera gobba per lesione vertebrale, descrisse esattamente quella che chiamò “artrite tubercolare delle vertebre” e che da allora
è universalmente nota come morbo di Pott.
E ricordavo al collega che la malattia è spesso riferita anche nella migliore letteratura classica, con molti famosi esempi di questo morbo,
come la “gobba” che Victor Hugo attribuisce a
Quasimodo (”hunchback”) di Notre Dame, ritenuta da causa tubercolare, e come la morte del dott.
Rank, caro amico di Nora, la protagonista, per
“consunzione tubercolare della colonna” nella
“Casa di Bambola” di Henrik Ibsen.
Insomma una malattia ben nota, anche se ai nostri giorni meno diffusa che in passato. Il morbo
di Pott è una spondilite tubercolare localizzata più
frequentemente nella porzione toracica della colonna vertebrale; inizia abitualmente nel corpo vertebrale colpito, vicino all’area del disco; ma questo poi viene sempre interessato, determinando appunto una spondilo-discite, esattamente come il
caso in esame.
Gli esami radiografici hanno ben evidenziato tale comportamento nel nostro malato: questa
osservazione doveva orientare verso una diagnosi
più corretta, dato che i tumori vertebrali raramente
interessano il disco intervertebrale (“tumors of the
spine rarely cross the disk spine” - Harrison’s Internal Medicine). E nel Pott, intensificandosi l’infezione tubercolare, nella sede della lesione si produce un vero e proprio ascesso, costituito da materiale denso e caseoso, ricco di micobatteri; proprio quello che è comparso chiarissimo nell’ultimo controllo radiografico.
Poiché i rilievi erano stati fatti in presenza degli aiuti e degli assistenti del mio Reparto, preferii
andare a esporre le mie conclusioni al collega radiologo nel mio studio privato.
E allora dissi chiaramente che la malattia del
soggetto in esame non mostrava caratteristiche tumorali e che la diagnosi da porre era quella appunto di spondilite tubercolare dorsale, o morbo
di Pott.
Facevo anche notare che il paziente aveva già
sofferto di un’infezione tubercolare, come rivelava il reperto radiografico di esiti fibrocalcifici sottoclaveari nel polmone destro, visti all’esame radiografico del torace.
E aggiungevo che, come avviene spesso, l’ascesso che si era formato poteva migrare verso
zone declivi e verso gli spazi intercostali adiacenti.
Non dovevamo dimenticare che era stato
messo in atto, proprio la sera prima, il tentativo
di una biopsia a livello della lesione inserendo più
volte un lungo ago a livello degli spazi circostanti
la vertebra colpita, senza riuscire a effettuare il prelievo, ma con ogni probabilità determinando qualche apertura a eventuali migrazioni dell’ascesso.
La mia diagnosi era definitiva e proposi al collega di iniziare subito la terapia antitubercolare.
Ovviamente questa decisione non poteva essere facilmente accettata; erano due mesi che il paziente veniva trattato come un soggetto affetto da
tumore, con la conferma di altri medici, sia oncologi che chirurghi toracici.
Ascessi freddi: vie anatomiche di clivaggio Ago-tC: tentativo di biopsia
(da C. Salfi - Codivilla Putti- Cortina d’Ampezzo)
25
A questo punto, il collega chiedeva una qualche conferma oggettiva.
Dopo circa 15 minuti trascorsi nel mio studio,
sentimmo bussare decisamente alla porta; era un
mio assistente che riferiva che il paziente stava urlando per un dolore violento, comparso all’improvviso, diffuso a tutto l’emitorace destro, che
gli rendeva penosa la respirazione profonda.
Corremmo dal malato e, all’esame obiettivo,
rilevai una completa ottusità su tutto l’emitorace
destro, che ore prima era perfettamente normale
alla visita e anche all’ esame radiografico. Era comparso un versamento pleurico massivo, evidentemente derivato dall’ascesso paravertebrale, diffusosi negli spazi intercostali e, come ipotizzato,
favorito dalla puntura della sera prima che aveva facilitato la migrazione; la radiografia confermava una completa opacità all’emitorace destro.
Ora potevamo avere la richiesta “conferma oggettiva”. Una puntura pleurica, subito effettuata,
faceva raccogliere una gran quantità di liquido opa26
Liquido pleurico ad aspetto caseoso (da Carvalho: Sondalo 2008)
co, biancastro, caseoso.
All’esame microscopico il liquido pleurico
estratto era ricco di micobatteri, positivi alla colorazione di Ziehl-Neelsen, proprio quelli tubercolari scoperti dal dott Robert Koch alla fine del
1800.
micobatteri colorati al ZiehlNeelsen
Robert Koch
1843-1910
La diagnosi era ormai sicura; la terapia antitubercolare subito iniziata e condotta in modo corretto, associata ai necessari provvedimenti ortopedici di immobilizzazione e scarico della colonna vertebrale, hanno permesso di ottenere, in alcuni mesi, una completa guarigione.
Il paziente mi chiese di conoscere la storia del
dottor Pott, che evidentemente aveva contribuito alla
sua guarigione; e da allora, nell’anniversario del ricovero presso il nostro reparto, ci inviava qualche
bottiglia del miglior vino della sua azienda per berlo in ricordo di Sir Percival Pott, chirurgo inglese del
XVIII secolo.
il prof. Augusto Vellucci è il responsabile del servizio Check-up
della bioS S.p.A. di via D. Chelini, 39.
il Servizio è articolato in molteplici protocolli diagnostici mirati
ad un efficace controllo dello stato di salute.
iNFo CUP 06 809641
Ricercatori dello University College di Londra
hanno ridotto la motilità di alcuni volontari facendoli muovere al “rallentatore”. Ciò grazie ad elettrodi posti sul capo che hanno incrementato nel
cervello la produzione di onde β, prodotte quando
si è rilassati (le onde α correlano con lo stato di veglia). Studio utile per il morbo di Parkinson?
AnoSSIA E AnGIoGEnESI
L’anossia (la Natura “cura se stessa”) favorisce
la liberazione compensatoria di fattori angiogenici
nel miocardio e nell’encefalo. Ma diminuisce NO
(ossido nitrico) e la trombomodulina, mentre stimola l’adesività piastrinica e la trombosi.
I dAnnI dELLo ZUcchERo
Tra i numerosi danni arrecati alla salute dall’iperglicemia vi è anche da considerare che essa stimola la produzione di endotelina, potente vasocostrittore prodotto dall’endotelio alterato.
TonSILLITI nELL’InFAnZIA
Sono molto più frequenti rispetto alle età successive poiché le tonsille, avendo il bambino un
sistema immunitario immaturo, in questa età producono un ridotto quantitativo di anticorpi. Tonsillectomia al bisogno per prevenire la malattia
reumatica.
AnEURISMI dELL’AoRTA
AddoMInALE
Il dolore, dovuto a erosione vertebrale, o a
compressione delle radici nervose o a ostruzione
dell’uretere, ha la caratteristica di modificarsi con
i cambi di posizione.
dUISbURG, 21 MoRTI:
Un AVVERTIMEnTo
“Mio figlio beve negli ultimi tre giorni della
settimana, si ubriaca, vomita, fa l’alba in discoteca” si lamentano padri e madri. Ma spesso con
un atteggiamento rinunciatario. Chi è genitore
non si deve rassegnare dicendo “fanno tutti così”.
Al di là delle responsabilità di chi doveva provvedere a un regolare afflusso dei partecipanti a
Duisburg, in Germania, il grave problema di
fondo di questi “rave party” - all’aperto o in discoteca - è che costituiscono un esplicito invito
all’alcol, al fumo, alle droghe e problemi connessi. Ne è compromesso l’armonico sviluppo
dei ragazzi che, non avendo il coraggio della
propria identità, si nascondono nel gruppo e non
pensano al loro domani. Il futuro, buco nero dei
giovani. E se poi cominciassimo a pensare a una
probabile connessione fra aumento della percentuale degli studenti rimandati o bocciati e il progressivo dilagare di questi incontri, con i conseguenti danni cerebrali? è forse arrivato il
momento di valutare a fondo e in modo risolutivo
il “problema discoteche”.
PREMATURI nATI SoTToPoESo
Presentano maggior rischio di complicanze a
lungo termine, anche in età adulta: bassa statura,
patologia cardiovascolare, insulino-resistenza,
diabete tipo 2, dislipidemia, patologia renale.
è anche stata descritta diminuzione del livello intellettivo. La cura con l’ormone della crescita (GH) sulla sviluppo intellettivo e cognitivo
ha scarsa efficacia nei bambini, mentre invece si
è rivelata utile nell’adulto. Per lo sviluppo psicomotorio di questi bambini rimangono determinanti i fattori psico-sociali e genetici: in particolare
l’ambiente familiare e scolastico, l’intelligenza
dei genitori, la condizione socio-economica.
mixiNG
ELETTRodI nEL PARkInSon?
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dIGIUno E cALcoLoSI bILIARE
28
Ogniqualvolta durante un pasto lo stomaco viene disteso dall’arrivo del cibo, si verifica contemporaneamente una contrazione della colecisti
con il preciso scopo di far affluire nell’intestino
la bile, indispensabile per un’ottimale digestione
specie dei grassi.
Nella bile, soluzione soprasatura molto complessa, sono presenti colesterolo e acido bilirubinico, insolubili in acqua e sali biliari con spiccata azione solvente.
I tre tradizionali pasti - colazione, pranzo,
cena - sono pertanto accompagnati dallo svuotamento della cistifellea.
Se viene saltato un pasto, si verifica stasi biliare nella stessa, stasi che favorisce la precipitazione delle sostanze insolubili.
Educazione alimentare: la pessima abitudine
molto diffusa (dato trascurato dalla letteratura internazionale!) di non fare la prima colazione va
assolutamente corretta poiché, in questo caso - specie se coesiste una ipotonia colecistica di base la cistifellea, repleta, rimane immobile per circa
18 - 20 ore. Facile al formazione dei calcoli.
MIcRobIoTA InTESTInALE
Ecosistema complesso che interagisce con la
mucosa intestinale e il suo tessuto linfatico, realizzando un’utile simbiosi.
è composto da un elevatissimo numero di
microrganismi che pesano circa un chilo e mezzo
e costituiscono il 60% delle feci.
SIndRoME dEL Lobo FRonTALE
Quadro psicologico complesso e variabile,
con turbe dell’attenzione e della volontà: rallentamento psicomotorio, indifferenza affettiva, superficialità critica, disinteresse del proprio pensiero.
oRESSIZAnTI
Cosiddetti dal greco ορεξις (appetito) in
quanto stimolano il senso della fame. Comprendono numerose sostanze. Neuropeptide Y, potente
oressizante, espresso dall’ipotalamo: il suo rilascio è controllato dal calo della leptina e dell’insulina, e dall’aumento dei glicocorticoidi. “Agouti-related peptide”: prodotto dall’ipotalamo, viene liberato dal digiuno e dal calo della leptina. Grelina o “ormone della fame”, unico peptide oressizante rilasciato dal tubo gastroenterico: aumenta
nel digiuno e nell’anoressia, diminuisce dopo i pasti e nell’obesità. Ormone melanocortinico, espresso dall’ipotalamo. Orexine A e B: prodotte dall’ipotalamo, dalla mucosa gastroenterica e dal pancreas, sono liberate a seguito di ipoglicemia, del
digiuno e dell’insulina. Oppioidi endogeni: sintetizzati dall’ipotalamo, sono correlati con il gusto e con il piacere fornito dal cibo. Endocannabinoidi, prodotti dll’ipotalamo e dal tubo gastroenterico. Adiponectina: secreta dal tessuto adiposo,
aumenta nel digiuno e nel dimagramento.
oMEoSTASI PondERALE
è conservata se vi è equilibrio fra oressizanti
e anoressizanti.
a cura del prof. Alessandro ciammaichella
Medico internista
cevano le cure anti-cancro, infatti, alle donne potrebbero essere prelevati gli ovociti, per poi impiantarli nell'ovaia "esterna".
2) Prospettive incoraggianti per la terapia genica
Terapia genica per trattare la beta-talassemia.
http://www.nature.com/nature/journal/v467/n
7313/pdf/nature09328.pdf
La beta talassemia è una malattia ereditaria tra
le più diffuse e dipende da un difetto genetico che
porta a insufficiente produzione dell'emoglobina, la
molecola che è presente nei globuli rossi del sangue e che trasporta l'ossigeno nell’organismo.
In uno studio pubblicato sul Journal of Assisted Reproduction and Genetics i ricercatori della Brown University di Rhode Island, USA, guidati dalla dottoressa Sandra Carson, hanno descritto
una tecnica di ingegneria dei tessuti tridimensionale, utilizzando cellule di donne di età fertile.
Per la prima volta al mondo questi scienziati
hanno creato in laboratorio un'ovaia artificiale in
grado di funzionare esattamente come quella
umana.
L'ovaia artificiale può accogliere gli ovociti ancora immaturi fino a che siano pronti per essere depositati nel grembo materno.
Questa nuova tecnica permetterà alle donne che
devono subire pesanti cure chemioterapiche, che
danneggeranno l'apparato riproduttivo, di aprire
nuove possibilità al concepimento. Prima che ri-
Nella rivista Nature sono stati pubblicati i risultati di uno studio effettuato presso l’Università
di Parigi dal gruppo di ricerca della dottoressa Marina Cavazzana Calvo in collaborazione con il
gruppo del dr Philippe Leboulch del Brigham &
Women's Hospital e Harvard Medical School di
Boston, USA.
In questo studio il primo malato di beta-talassemia è stato trattato con successo con una terapia
FRom bENCH to bEDSiDE
1) Un’ovaia artificiale per ovociti immaturi
con tecniche di ingegneria dei tessuti è prodotta in laboratorio un’ovaia artificiale in
grado di accogliere ovociti ancora immaturi.
http://www.springerlink.com/content/9t612k8
8w3263g1/fulltext.pdf
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genica introducendo la versione normale del gene
responsabile della malattia (il gene per la molecola
'beta-globulina”). Il paziente, che prima poteva sopravvivere solo grazie a trasfusioni mensili, non ha
avuto più bisogno di tali trattamenti.
I ricercatori hanno prelevato cellule staminali
del sangue del paziente e corretto il difetto genetico
che causa la malattia con la terapia genica, per poi
reiniettare le cellule corrette nel malato. Il gene
sano, introdotto nel DNA delle staminali con un
vettore virale, ha permesso all'uomo di produrre da
sé quantità sufficienti di emoglobina sana e quindi
di non essere piu' dipendente, ormai già da 21
mesi, dalle trasfusioni.
3) nuove idee per la vitamina b
Vitamina b contro l'Alzheimer.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2935890/pdf/pone.0012244.pdf
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Alcuni ricercatori norvegesi dell’Institute of
Basic Medical Sciences, dell’Università di Oslo, in
collaborazione con ricercatori dell’Università di
Oxford, hanno studiato come l'assunzione giornaliera di vitamina B abbia un effetto protettivo sulla
struttura cerebrale. La vitamina B potrebbe proteggere dall'Alzheimer le persone anziane con un
deficit di memoria non particolarmente grave.
Sembra, infatti, che possa ritardare la naturale lenta
corrosione del cervello. La vitamina B aiuta infatti
a decomporre l'amminoacido omocisteina che, se
presente in dosi eccessive, danneggia i vasi sanguigni e favorisce la demenza senile.
A questa ricerca hanno partecipato 168 volontari di età superiore ai 70 anni con sintomi di MCI
(mild cognitive impairment), ossia in uno stadio
preliminare di demenza senile. Per due anni hanno
assunto una dose discreta di vitamina B6 e B12 oppure un placebo. L'assunzione di vitamina B ha limitato in media del 30% la riduzione delle funzioni
cerebrali dovute all'invecchiamento.
4) cellule staminali premiate
Premio internazionale ad una ricercatrice
italiana.
http://www.stemcells.com/view/0/VirtualIssues.html#yia
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/st
em.293/pdf
La dottoressa Cinzia Rota dell'Instituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo ha
ricevuto il 2 ottobre 2010 a Seoul, durante il Simposio Internazionale sulle cellule staminali, lo
Stem Cells-Young investigator Award 2010. Ad assegnarlo ogni anno è la rivista scientifica 'Stem Cells', per premiare un giovane ricercatore che, come
autore principale, abbia pubblicato un articolo
giudicato rilevante dalla giuria editoriale, nel campo delle cellule staminali e della medicina rigenerativa. Il lavoro vincitore, pubblicato a marzo su
'Stem Cells', è stato condotto dai ricercatori dell'Istituto Mario Negri di Bergamo in collaborazione
con la Fondazione IRCCS Policlinico di Milano e
con il Laboratorio di Terapia Cellulare 'G. Lanzani' dell'Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo.
Lo studio stabilisce per la prima volta che cellule staminali mesenchimali isolate dal sangue del
cordone ombelicale sono in grado di riparare il dan-
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cellule staminali mesenchimali murine, da tessuto adiposo, in coltura fotografate da M. G. Valorani
no acuto del rene in topi trattati con il farmaco antitumorale cisplatino, e di ripristinare la normale funzione renale prolungando la durata della vita.
Queste ricerche condotte nel topo hanno implicazioni pratiche e, se saranno in futuro confermate nell’uomo, le staminali mesenchimali del cordone ombelicale potranno aiutare a curare i pazienti
con insufficienza renale acuta e contribuire a riparare altri organi riducendo la necessità di trapianto.
5) Prevenzione dell'influenza per la stagione
2010-2011
comunicato stampa del Ministero della Salute.
http://www.salute.gov.it/dettaglio/phPrimoPianonew.jsp?id=285
La vaccinazione antinfluenzale rappresenta un
mezzo efficace e sicuro per prevenire l’influenza e
le sue complicanze. Il Ministro della Salute Ferruccio
Fazio ha emanato la circolare con le raccomanda-
zioni per la prevenzione dell’influenza stagionale
2010-2011 che tengono conto dell’attuale livello di
allerta pandemica per il virus AH1N1.
La campagna di vaccinazione stagionale, che inizia ad ottobre, è promossa dal Servizio Sanitario Nazionale ed è rivolta principalmente ai soggetti
classificati e individuati a rischio di complicanze severe, e a volte letali, in caso contraggano l’influenza
e alle persone non a rischio che svolgano attività di
particolare valenza sociale.
L’offerta di vaccino a queste categorie è gratuita
e attiva da parte delle Regioni e Province Autonome. L’elenco delle categorie alle quali offrire prioritariamente la vaccinazione, le altre misure preventive nei confronti dell’infezione, insieme ad ulteriori informazioni e alle indicazioni per la sorveglianza delle sindromi simil-influenzali e dei virus
influenzali circolanti nel nostro Paese, sono visionabili nella circolare del 29 luglio 2010.
a cura della dott.ssa Maria Giuditta Valorani
Postdoctoral Research Assistant
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HANNo CoLLAboRAto iN qUESto NUmERo
Dott.ssa Alessandra Lo Presti
Biotecnologa
Prof. Massimiliano Rocchietti March
Dirigente medico
Endocrinologo - Andrologo
Prof. Lelio R. Zorzin
Medico Chirurgo specialista in Reumatologia
già Docente Università La Sapienza di Roma
Dott.ssa Silvana Francipane
Medico Chirurgo
Dr.ssa Maria Giuditta Valorani
Postdoctoral Research Assistant
Blizard Institute of Cell and Molecular Science, Queen Mary University of London - GB
Prof. Giuseppe Luzi
Immunologo Clinico
Prof. associato di Medicina Interna
Prof. Augusto Vellucci
Specialista in Malattie Infettive
Medico Responsabile del Servizio Check-Up BIOS S.p.A.
Prof. Alessandro ciammaichella
già Primario Medico Ospedaliero
La nuova alternativa
al dolore muscolo-scheletrico
FATTORI DI CRESCITA
GEL PIASTRINICO
INFO: CUP BIOS S.P.A.
06 809641
La Bios S.p.A. di Via D. Chelini, 39, nell’ambito delle sezioni
di Ortopedia, Traumatologia e Medicina dello Sport ha istituito un’area dedicata esclusivamente alla nuova metodica
denominata “Fattori di Crescita”.
Questa terapia innovativa apre nuove prospettive di guarigione per migliaia di persone che soffrono di problemi ortopedici. Inizialmente usata quasi esclusivamente nello sport
professionistico, adesso viene utilizzata anche da atleti di livello amatoriale e da tutti coloro che soffrono di patologie di
tipo traumatiche-infiammatorie dei tendini e dell’apparato
osseo e muscolare.
Questa nuova metodica consiste nel prelievo di una piccola
quantità di sangue del paziente, dal quale si ricava plasma arricchito di piastrine.
Le piastrine, cellule ricche di fattori di crescita contribuiscono attivamente alla riparazione delle lesioni attraverso la
rigenerazione cellulare.
In cosa consiste il trattamento con fattori di crescita ?
Sostanzialmente nell’iniezione nella zona interessata di plasma arricchito di piastrine ottenuto attraverso centrifugazione del sangue del paziente.
Le piastrine attivate ed iniettate rilasciano i fattori di crescita
a livello della lesione stimolando così il processo di guarigione.
I fattori di crescita hanno azione antinfiammatoria,analgesica, osteorigenerativa e angiogenetica.
Il trattamento è assolutamente innocuo e privo di effetti
collaterali.
Quando va eseguito ?
Dopo aver provato, senza successo i normali trattamenti non
invasivi, certamente, prima di un eventuale intervento chirurgico.
Quanti trattamenti occorrono ?
La terapia varia a seconda della patologia da trattare e va da
una a più applicazioni.
Quali sono le patologie interessate ?
➔ artrosi e altre lesioni della cartilagine (osteocondriti, etc.)
➔ pseudoartrosi, ritardo di consolidamento osseo
➔ tendiniti acute e croniche (spalla, gomito, polso, ginocchio, piede)
➔ lesioni e traumi muscolari (strappi, stiramenti, etc.)
➔ pubalgie (tendinopatia dei muscoli addominali e adduttori
della coscia)
➔ primo stadio di artrosi del ginocchio e dell'anca
➔ esiti dolorosi di artroscopia di spalla e di ginocchio
➔ periartrite scapolo-omerale (infiammazione di uno o più
tendini della spalla)
L’impiego dei fattori di crescita, è comunque ormai esteso a
diversi campi della medicina: chirurgia ortopedica, chirurgia
plastica, chirurgia otorinolaringoiatrica, chirurgia maxillofacciale, implantologia, chirurgia generale, neurochirurgia,
urologia, chirurgia vascolare maggiore e cardio toracica, oftalmologia, guarigione delle ulcere cutanee.
Come avviene il trattamento:
La procedura viene eseguita, con la collaborazione dei medici del centro trasfusionale del Santo Spirito, in assoluta
trasparenza davanti al paziente in regime ambulatoriale.
Si articola in varie fasi:
➔ visita preliminare
➔ consulenza medico centro trasfusionale
➔ prelievo del sangue venoso
➔ centrifugazione
➔ estrazione del plasma ricco di piastrine
➔ anestesia locale
➔ iniezione del concentrato piastrinico
➔ medicazione
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