Il paradosso dell`azione

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IL PARADOSSO DELL’AZIONE
Raimondo Guarino
[conferenza inedita, Bologna, aprile 2002]
Nel XX secolo, da quando il teatro, riferendosi al dominio dell’arte, ha pensato sistematicamente le
sue azioni come opere, le arti hanno cessato di pensare la produzione e la presenza in termini di
opere e hanno cercato il tempo e la presenza dell’azione. In questo incrocio è possibile spiegare
molti dei presupposti del modo in cui le parole inseguono le pratiche e le pratiche disorientano le
parole.
Se noi pensiamo al teatro come a un campo di pratiche simboliche, che significato ha il termine
presenza, se non una sorta di amnesia, o una tautologia? Di che specie è questa presenza, ed è
propriamente ciò che definisce le azioni del teatro rispetto a quali azioni? Quanto di questo
orientamento è dovuto al fatto che le stesse parole presenza e azione non hanno, non possono avere
oggi il senso che assumevano per il Living? Pensiamo al rappresentare, e al soggetto, sempre in
termini linguistici o semiologici. Mai in termini etologici. Partendo da questa limitazione è facile
definire l’incongruenza del fare teatrale rispetto al rappresentare. Questo scarto non impone un
confronto su un terreno diverso? Nella riflessione sulle tecniche artistiche trovano espressione altre
profondità, altre dualità dell’azione, della rappresentazione, del soggetto.
Commenterò i seguenti testi:
Testo 1. Baudelaire. Fedele al sogno, come un mondo
«Un buon quadro, pari e fedele al sogno che l’ha generato, deve essere creato come un mondo. Allo
stesso modo che la creazione, come noi la vediamo, è il risultato di molteplici creazioni, di cui le
precedenti sono sempre completate dalle seguenti; così un quadro realizzato armoniosamente
consiste in una serie di quadri sovrapposti, dove ogni nuovo strato conferisce al sogno più realtà e lo
fa salire di un gradino verso la perfezione».
Ch. Baudelaire, Salon de 1859
Commento:
Baudelaire pone una corrispondenza tra la complessità, l’autonomia dell’opera come sogno-mondo,
come realtà altra, e un principio di sovrapposizione e stratificazione. L’autonomia estetica e
l’organicità dell’opera, della creazione, è il frutto di molteplici creazioni. Questo valore di
stratificazione mostra che la fallacia del modello rappresentativo non sta nella sospensione della
presenza, ma nel limite della trasformazione, nel ricondurre la vertigine delle trasposizioni, la
sedimentazione di segni, linee, tracce allo schema della duplicazione imitativa. Quanto alla
presenza, essa è il risultato della trama dell’antecedente e del conseguente. La rappresentazione,
nella sua riduzione mimetica, è ciò che nasconde, schematizza e rimuove, in termini di traducibilità,
di funzionamento della macchina logica rispetto alle pratiche (Che significa? Qual è la matrice?
Come tradurre?), la profondità, lo spessore di strati della creazione.
Se usciamo dall’immagine, dal quadro di Delacroix, di cui scrive Baudelaire, dov’è, nel campo
dell’azione, e nel tempo dell’azione, la stratificazione creativa?
Dobbiamo ogni volta ritornare a pensare al teatro come azione, sottrarci alla fascinazione
dell’immagine, che pure ci consente di pensare l’azione nel teatro attraverso lo sguardo. L’esse est
percipi dell’azione indica il presente dello sguardo. L’azione confligge con il presente dello sguardo
eppure esiste per esso. Dove sarà il suo soggetto, il suo tempo, la sua organicità, se non in relazione
a un altro soggetto, a un’altra fonte dell’agire?
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Ritorniamo all’incrocio tra il teatro che cerca l’opera e l’immagine artistica che scopre l’azione. Il
modo in cui ha cambiato senso il termine performance indica uno spostamento dalla presenza alla
ricerca di un’altra dimensione. Nel territorio della performance si incontrano la crisi dell’oggettoopera nelle arti visive e la crisi delle matrici narrative, retoriche ed etologiche nell’arte scenica. La
performance è ciò che induce a pensare al corpo d’artista come oggetto di ostensione e agente di
intervento. Ma come non esiste corpo se non nell’immagine del corpo, così non esiste azione se non
nello sguardo per cui lavora l’azione. Il solo presente dell’azione è ciò che si incide nello sguardo, e
dunque risponde alle attese e alle memorie dello sguardo, e tale sguardo è il sovrapporsi di sguardi
empirici nella stanza visiva che è il corrispondente dei luoghi rituali dell’azione reale nella nostra
cultura. L’azione del performer nello spazio museale, o l’azione del performer nei luoghi del teatro
non può che essere, alla presenza dello sguardo, una stratificazione delle pratiche e delle azioni che
sono il materiale, l’impulso, l’estrazione, il sentiero della relazione di un tempo altro con il
presente.
La presenza come risposta allo sguardo è pertanto immersa, costruita nelle fonti e nei tempi del
rappresentare.
L’azione reale, mito fondatore della sopravvivenza del teatro del Novecento, è tale (è stata pensata
e esplorata come tale da Stanislavskij) in quanto consapevole dello sguardo ed esperta di pratiche.
Questa consapevolezza è correlata a un mutamento nel modo di pensare il soggetto.
Nella ricerca delle arti «visive» sull’azione, dal dadaismo al postmoderno passando per il
surrealismo e l’action painting, il soggetto come maschera degli automatismi psichici
(dell’interiorità) si è mutato nel soggetto come transito degli automatismi simbolici, cioè delle
icone, dei linguaggi, delle pressioni mediatiche. Il mito della performance senza matrice
(definizione dello happening secondo Kirby) e della soggettività artistica irrompente (ed esplosiva)
nello spazio museale (Fluxus e l’azionismo viennese come territori dell’opera assente) ha aperto un
terreno che si è mutato da crisi e negazione della rappresentazione a rappresentazione critica
esponenziale dei simulacri.
Nella ricerca sull’azione teatrale il soggetto di Stanislavskij si è trovato nella forma e nella
dotazione personale delle azioni fisiche. Nel pensiero e nel fare ulteriore sull’azione, cioè in
Grotowski, l’Atto si orienta verso le Fonti.
Testo 2: L’Io e l’uomo dell’azione
Il Performer è uomo d’azione. Non è l’uomo che fa la parte di un altro. È il danzatore, il prete, il
guerriero: è al di fuori dei generi artistici… Non voglio scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di
dimenticato. Una cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non sono più
valide.
Si può leggere nei testi antichi: Noi siamo due. L’uccello che becca e l’uccello che guarda. Uno
morirà, l’altro vivrà. Ebbri d’essere nel tempo, preoccupati di beccare, ci dimentichiamo di far
vivere la parte di noi stessi che guarda. C’è allora il pericolo di esistere solo nel tempo e in nessun
modo fuori del tempo. Sentirsi guardati dall’altra parte di sé, quella che è come fuori del tempo, dà
l’altra dimensione. Esiste un Io-Io. Il secondo Io è quasi virtuale; non è dentro di noi, lo sguardo
degli altri, né il giudizio: è come uno sguardo immobile, presenza silenziosa, come il sole che
illumina le cose – e basta. Il processo di ciascuno può compiersi solo nel contesto di questa
immobile presenza. Io-Io: nell’esperienza la coppia non appare come separata, ma piena, unica.
J. Grotowski, Il Performer, 1987-88
Commento:
La duplicità etologica dell’attore rispetto all’uomo non sta nell’immagine e nella somiglianza. Sta
anche nell’immagine come marchio di altre nature ma si muove nella consapevole distorsione e
dilatazione di un ethos complesso, fluttuante tra immagini e biologie. Questa dilatazione si fonda
sulla coscienza e la manipolazione di pratiche e relazioni simboliche. La duplicazione dell’Io-Io
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nelle parole di Grotowski è equivalente alla condizione dello spessore del mondo ricreato nel
quadro letto da Baudelaire. In essa è proiettata sia la riflessione sul materiale, sia la ricerca sul
soggetto.
Il luogo di questa coscienza non è interno né empirico ma è ancora una relazione con lo sguardo.
Qui lo sguardo si incorpora. Non indica l’impersonalità generica o l’oggettività occasionale, ma
provoca la chirurgica dualità (colui che guarda, colui che agisce) del performer, che racchiude la
premeditazione e la percezione dell’azione. L’azione del performer non conosce Io se non in questo
sdoppiamento, duplicazione radicale. Nell’universo delle pratiche, l’azione reale non è quella
presente, né quella rappresentata, ma ciò che risulta alla percezione come trasporto delle pratiche
dall’azione allo sguardo. La duplicità del rappresentare non ha qui a che vedere con la macchina
logica dei significati. I suoi segni hanno la prerogativa dell’evidenza e non la funzione dei
simulacri. Il paradosso dell’azione è la duplicità costitutiva tra l’agire e il guardare. Basata su
un’«immobile presenza», l’azione non contempla un soggetto, non produce presenza empirica (in
quale presente: il corpo pubblico, la solitudine pubblica dello stare per, dello stare davanti allo
sguardo?), ma produce uno spazio e un tempo complesso, una configurazione specifica delle
relazioni culturali, operando sulla sovrapposizione infinita, sul passaggio delle pratiche.
La performance, ha scritto Schechner, ha a che vedere con il passato. In questo passato non
riconosciamo matrici e filiazioni, genealogie e gerarchie, tradizioni univoche ed etnocentriche (o
antropocentriche), ma indoviniamo e sondiamo una stratificazione infinita. L’attore come doer of
the action è operatore di inchieste, memorie e riflessi nell’archivio delle pratiche e delle posture
animali, umane, meccaniche.
Testo 3. Filogenesi della libertà
«Il nostro mondo vive su un capitale di sopravvissuti in grado di assicurare un certo recupero della
realtà vissuta. Tra dieci generazioni il creatore di finzioni sociali sarà probabilmente selezionato e
sottoposto a un corso di «rinaturazione» in un parco in cui cercherà di dissodare un angolo di terra
con l’aiuto di un aratro copiato nei musei e trainato da un cavallo preso da una riserva, preparerà la
minestra a casa e organizzerà visite ai vicini, fingerà uno sposalizio, andrà a vendere cavoli ad altri
partecipanti al corso in un piccolo mercato, imparerà di nuovo a confrontare i vecchissimi scritti di
Flaubert con la realtà miseramente ricostruita. Dopo di che sarà certamente in grado di fornire agli
organi di produzione telediffusa uno stock di emozioni rinnovate… Possiamo quindi immaginare
sul serio un tempo prossimo in cui si conosceranno solo trasposizioni e in cui esisterà un corpo di
perfetti illusionisti che avranno il compito di studiare la dietetica psicofisica delle masse umane».
André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola. II. La memoria e i ritmi, 1965
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