Dossier Monteverdi Il ritorno di Monteverdi

SOMMARIO
RITORNO DI
CLAUDIO MONTEVERDI
Teatro alla Scala. Foto Lelli e Masotti
V
orrei sapere se certi indomiti rocciatori
quando sono ancora a pochi metri sul livello
del mare, si rendono veramente conto delle difficoltà e dei pericoli che li attendono e se vale la
pena di sopportare tanta fatica quando la vittoria
non può essere spirituale. Infatti essi quasi sempre
si arrampicano sulle rocce per conquistare un primato e non per contemplare la grandiosità dei panorami. Nemmeno io immaginavo le difficoltà che
dovevo incontrare per dare alla luce tutte le opere
di Claudio Monteverdi; ma la cima è stata raggiunta e il panorama che vi si gode è di una inaspettata grandiosità; chè non prima di aver
pubblicate tutte le opere del divino Claudio si poteva mostrare qual’era e sotto i suoi molteplici
aspetti.
Devo confessarlo: fu un puro caso se l’edizione è
stata iniziata ; però nel 1902 fu un caso ancora più
straordinario se primo fra tutti gli editori dell’Incoronazione di Poppea trascrissi ( sia pure soltanto
alcuni frammenti) questo melodramma monte ver-
di G. Francesco Malipiero
diano. Chi mi consigliò? Nessuno. Ubbidii esclusivamente al desiderio di conoscere il nostro passato
e di reagire contro la sopraffazione degli studiosi
stranieri che interpretavano a modo loro la nostra
musica, tentando di distruggere tutti i nostri sacrosanti diritti di precursori. Fu dunque nel 1902 che
ilò genio monte verdiano si mise direi quasi attraverso alla nostra strada, non per impedirci di camminare, ma per fare anzi il nostro passo più franco,
più sicuro.
I quaranta durissimi anni passati dopo che con
mano tremante aprii la prima volta il codice contariniano del Nerone ( chè così è inciso a lettere
d’oro sul dorso del manoscritto il titolo della Incoronazione di Poppea senza nome d’autore) e ancora oggi non posso convincermi di essere stato
proprio io a trascrivere, facendo atto di volontà,
parecchie migliaia di pagine di musica, a correggere, rileggendo infinte volte mille e mille bozze e
manoscritti.
Ciò nonostante, uno spirito maligno con beffarda
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malvagità mi ha fatto sfuggire alcuni errori, per il
gusto di farmi disperare. Fu un’amica straniera che
mi aiutò per la stampa dei primi volumi che avevo
deciso di pubblicare ad Asolo, il paese dei miei
sogni. Nel 1926 non ero ancora stato brutalmente
ricondotto, come avvenne più tardi, alla realtà e
tutto quello che vedevo nel paese della Regina di
Cipro corrispondeva esclusivamente alla mia immaginazione. Combinai con quattro viole e un
violoncello la lettura dei primi due libri dei Madrigali ( 1927) al Vittoriale e tale fu la commozione di
Gabriele D’Annunzio, che dal terzo tomo in poi
volli che l’edizione uscisse “all’insegna del Vittoriale degli Italiani” , omaggio molto relativo per
chi, come me, conosceva la profonda sensibilità
musicale del Comandante, quella nobilissima sensibilità che si manifestava in tutta la sua grandezza
quando l’elemento mondano e femminile rimaneva
al di là dei cancelli di Cargnacco e il Vittoriale appariva nel suo vero carattere, lasciando il predominio allo spirito di Gabriele D’Annunzio. Ma basta.
Non parliamo più di Monteverdi, del divino Claudio, di Claudio da Cremona, dell’incantatore
Orfeo, perpetuando un pregiudizio, considerandolo
cioè un musicista di eccezione, mentre egli è il più
vivo fra i musicisti italiani. Non è colpa sua se
gente di tutte le razze lo hanno trascinato per le
A
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fiere vestito con gli abiti che meglio potevano renderlo irriconoscibile, e spesso ridicolo.
Un reggimento di infecondi musicisti ha presentato al mondo il vero Monteverdi. Quante volte
non si è sentito dire: “ finalmente udremo l’autentico Orfeo, l’autentica Incoronazione di Poppea
di Claudio Monteverdi?”. E se a qualcuno è convenuto mettere in dubbio l’autenticità di un’opera,
l’ha fatto valendosi di dubbi o inesistenti testimonianze. Lo spirito monteverdiano è stato metodicamente cancellato, quasi che il suo peso minacciasse
l’esistenza dei suoi riesumatori. Se Claudio Monteverdi in alcune opere della sua ultima maniera oggi
può sembrar fiacco, spesso povero, egli è che le
sue semplificazioni armoniche e contrappuntistiche, qual maldestro cadenzare sono stati poi, durante tre secoli, sfruttati dai compositori di
melodrammi, perché la faciloneria molto si confaceva allo sviluppo del teatro cantato, o per meglio
dire del cantante di teatro. Ma perché ostinarsi a riconoscere un solo Monteverdi, quello delle opere
teatrali, se la sua espressione musicale rimane sempre ad un altissimo livello e non impoverisce, né
cambia stile quando scende dal palcoscenico, anzi,
non essendo costretta ad accoppiarsi ai grossolani
poeti-librettisti, si conserva più pura, più alta ed è
espressione squisitamente lirica, sovente con forti
In margine ad un articolo di Gian Francesco Malipiero
di Rinaldo Alessandrini
i più è nota la titanica impresa di Malipiero: trascrivere e pubblicare per la prima volta l’intera produzione monteverdiana. Impresa che si merita lodi aggiuntive quando consideriamo il povero stato delle sue cognizioni di paleografia musicale e il periodo storico nel quale tutto ciò ha avuto luogo.
Ma che la musica antica non fosse stata una “riscoperta” di inglesi e olandesi lo sapevamo ormai da tempo. A Malipiero, così
come a D’Annunzio, che fu patrocinatore e realizzatore di una monumentale collezione editoriale di musica antica, ed a numerosi altri, va il ringraziamento di noi esecutori italiani di oggi, consci di essere doppiamente eredi di una tradizione che ha saputo man mano riacquistare vigore in ragione dell’orgoglio della nostra cultura.
Non starò quindi qui a criticare Malipiero per le sue considerazioni, che potranno essere facilmente attribuibili al gusto di un
compositore, e dunque di qualcuno coinvolto in prima linea nell’attività compositiva e filosofica. E solo a ciò probabilmente
andrà attribuito l’equivoco concettuale per il quale Malipiero si stupisce del poco valore musicale delle opere teatrali monteverdiane. Il nostro si tradisce quando racconta delle esecuzioni strumentali da lui organizzate dei primi libri di ‘madrigali’ di
Monteverdi. Errore storico e ideologico fatale: separare la musica dal testo, dopo che il musicista cremonese aveva speso la
sua vita per rivoluzionare uno stato di cose allo scopo di legare definitivamente la musica all’emozione della migliore poesia
del suo tempo. E quindi, analogamente all’errore di Stravinsky nel suo ‘Monumentum pro Gesualdo’, Malipiero scorda, trascura, disconosce a priori il valore di una poesia il più delle volte anonima, ma che per Monteverdi seppe essere ispirazione di
immagini musicali memorabili: ne cerca il suo intimo significato nel solo assemblaggio di note, non percependo che con ciò il
risultato è quello di banalizzare le composizioni monteverdiane, privandole della loro ragione prima, il testo.
L’insoddisfazione per le opere teatrali viene da sé. Malipiero, oggi, dopo aver letto e riflettuto sulla portata rivoluzionaria
delle invenzioni fiorentine, non avrebbe difficoltà a vedere e capire come l’apporto monteverdiano al teatro d’opera fosse stato
ancora una volta riformatore, solo a pochissimi anni dalla nascita del nuovo genere. E avrebbe capito che non una Violetta o
un Rodolfo gioverebbero al teatro monteverdiano, ma cantanti-attori capaci di ricreare un linguaggio bifronte: la parola che
esalta la musica e l’opposto. Mobilità di suono, elastica e imprevedibile espressione, il tutto fuso nel ricreare la verosimiglianza e l’autenticità di situazioni teatrali ancora vere, perché, ancora oggi, profondamente umane.
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accenti drammatici, sia negli otto libri di Madrigali che in molte opere religiose? Coloro che nei
melodrammi cercano di rimediare alla apparente
povertà dei recitativi, arricchendoli con vaghi e
melensi contrappunti, dimostrano di non aver capito la ragione per cui i recitativi sembrano statici:
essi rappresentano una didascalia cantata indispensabile per la comprensione del soggetto e vanno
appunto recitati senza vincoli contrappuntistici, velocemente, in modo da lasciar trionfare la musica
dove è indispensabile alla poesia e al dramma.
Non due pesi e due misure. Un madrigale come la
sestina Lagrime d’amante al sepolcro dell’amato (
Sesto libro) è una espressione drammatica quanto
il Lamento d’Arianna, anche se materialmente non
è inteso per la scena. Dunque lo stile di Claudio
Monteverdi ha una grande unità quando si tolga la
zavorra del recitativo antimusicale ma imposto
dalle vicende dell’azione. La invadenza dell’elaboratore distrugge un grande musicista portando in
primo piano un piccolo compositore. Non va dimenticato che il melodramma alla morte di Claudio Monteverdi era ai suoi primi passi e che anche
se più della metà dei melodrammi monte verdiani
non fosse andata smarrita, essi rappresenterebbero
il quinto della produzione del maestro cremonese,
quasi una parentesi: spesso musica occasionale.
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Liberandosi dagli schemi della Camerata
fiorentina, Claudio Monteverdi non è riuscito
a superare la fase sperimentale del dramma in musica che mai si è potuto congiungere con la tragedia greca. Il teatro musicale del XVII secolo ha
perduto ogni contatto con Ottavio Rinuccini prima
che questi cessasse di vivere, e se l’Orfeo di Alessandro Striggio si avvicina di più ad un libretto rinucciano, L’incoronazione di Poppea e Il ritorno di
Ulisse in patria, sono due pasticci che il genio
monte verdiano ha suo malgrado digerito indipendentemente dalla brutta poesia dei suoi librettisti
dilettanti. Fra poco saranno trascorsi trecent’anni
dalla morte di Claudio Monteverdi e il miglior
modo di celebrare il terzo centenario sarà il riconoscere la grandezza di questo musicista non esagerando il valore delle sue opere drammatiche, né
caricarle di ridicoli anacronismi per adattarle alle
scene del nostro tempo. Meglio sarebbe praticare
qualche ritocco ai libretti, conservando invece la
vera espressione alla musica di Monteverdi che
rappresenta un’epoca e una personalità che fortunatamente, nonostante le offese degli uomini, non
ha subito le offese del tempo. Converrà dunque più
che celebrare, rivendicare, o meglio ancora vendicare il divino Claudio.
( Da Scenario. Mensile. Novembre 1942)
Teatro alla Scala. Foto Lelli e Masotti