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6 dicembre 1735
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Due giorni fa avrei dovuto festeggiare il mio decimo compleanno, invece quel giorno è passato inosservato; niente
festeggiamenti, solo funerali e la nostra casa, distrutta dal
fuoco, sembra un dente annerito e marcio tra gli alti e signorili edifici in mattoni bianchi della piazza dedicata alla
Regina Anna.
Per il momento viviamo in una delle proprietà di mio
padre a Bloomsbury. È una bella casa e, sebbene la famiglia sia devastata e le nostre esistenze lacerate, siamo grati
di averla. Rimarremo qui, sconvolti, come in un limbo,
come fantasmi, finché verrà deciso il nostro futuro.
L’incendio ha divorato i miei diari, così che iniziare
questo è come ricominciare da capo. È giusto quindi che
parta con il mio nome, Haytham, un nome arabo per un ragazzo inglese che vive a Londra e che dalla nascita fino a
due giorni fa aveva vissuto un’esistenza idilliaca, protetta
dalla immane sporcizia che invade la città. Da casa nostra
vedevamo il fumo e la nebbia sospesi sul fiume e, come
tutti gli altri, eravamo infastiditi dalla puzza che posso de9
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scrivere soltanto come quella di «pelo di animale bagnato»; non dovevamo, tuttavia, camminare attraverso i maleodoranti rifiuti di concerie, macellerie ed escrementi di
animali e persone. Gli effluvi che accelerano la diffusione
di malattie: dissenteria, colera, poliomielite…
«Dovete coprirvi bene, signorino Haytham, se non volete essere contagiato.»
Attraversando i campi per raggiungere Hampstead, le
balie mi tenevano alla larga dai poveracci squassati dalla tosse e mi coprivano gli occhi, affinché non vedessi
bambini deformi. Ciò che più temevano era la malattia,
immagino perché con lei non si può discutere: non la si
può ricattare né combattere con le armi e non rispetta né
ricchezza né posizione sociale. È una nemica implacabile.
Naturalmente aggredisce senza preavviso. E così ogni
sera mi controllavano per vedere se avevo qualche segno
di morbillo o varicella, poi riferivano a mia madre che stavo bene, allora lei veniva a darmi il bacio della buona notte. Io ero uno dei fortunati, con dei genitori che volevano
bene a me e alla mia sorellastra Jenny, che mi parlavano di
povertà e ricchezza, mi inculcavano l’idea di quanto fossi
fortunato e mi spingevano a pensare agli altri; erano loro
che assumevano balie e istruttori per occuparsi di me e
della mia istruzione, così che potessi crescere e diventare un uomo con alti valori morali e di grande merito. Un
privilegiato, non come i bambini che devono lavorare nei
campi, nelle fabbriche e inerpicarsi su per i camini.
A volte, tuttavia, mi chiedevo se quei bambini avessero
amici. E se ne avevano, pur non invidiando le loro vite,
sapendo che la mia era molto più confortevole, invidiavo
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loro gli amici. Io non ne avevo, non avevo neppure fratelli
o sorelle della mia età e così, ecco, ero timido. C’era inoltre un altro problema, sorto quando avevo appena cinque
anni.
Era successo un pomeriggio. Le abitazioni signorili
della nostra piazza erano costruite l’una accanto all’altra,
e ci capitava di vedere i nostri vicini o nella piazza o nei
loro giardini sul retro. Nella casa accanto alla nostra viveva una famiglia con quattro figlie, due delle quali avevano pressappoco la mia età. Le bambine passavano ore
e ore a saltellare o a giocare a moscacieca nel giardino e
io le sentivo mentre studiavo sotto gli occhi vigili del mio
precettore, il vecchio signor Fayling, dalle folte e grigie
sopracciglia e l’abitudine di toccarsi il naso e di studiare
attentamente ciò che aveva tirato fuori dei recessi delle sue
narici, per poi mangiarselo furtivamente.
Quel particolare pomeriggio il vecchio signor Fayling
era uscito dalla stanza e io avevo atteso di non sentire più
i suoi passi prima di abbandonare l’aritmetica, alzarmi,
andare alla finestra e sbirciare nel giardino della casa dei
Dawson.
Mio padre, celando a malapena il fastidio, mi aveva detto che il signor Dawson era un deputato. Il loro giardi­no
era circondato da un alto muro, però, malgrado gli alberi,
i cespugli e il fogliame verdeggiante, dalla finestra della
stanza dello studio scorgevo parti del giardino e le figlie
di Dawson che, quel giorno, stavano giocando a campana.
Avevano sistemato delle mazze da pallamaglio per creare
un percorso improvvisato, anche se non mi pareva prendessero il gioco molto sul serio; forse le due sorelle mag11
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giori stavano cercando di insegnare le regole alle minori.
In una confusione di trecce e vestiti rosa pieghettati, si
chiamavano a vicenda e ridevano e di tanto in tanto sentivo il suono di una voce adulta, con ogni probabilità quella
di una bambinaia nascosta alla mia vista dal fogliame degli alberi.
Trascurata per un attimo l’aritmetica, le avevo guardate giocare, quando, all’improvviso, come se avesse capito
che la stavo osservando, una delle due più piccole, di un
anno circa più piccola di me, aveva alzato gli occhi e mi
aveva visto alla finestra e i nostri sguardi si erano incrociati.
Avevo deglutito e, esitante, avevo alzato una mano per
salutarla. Con mia grande sorpresa, lei mi aveva sorriso.
Aveva poi chiamato le sorelle, che si erano raccolte attorno a lei, tutte e quattro, i colli allungati e, riparandosi gli
occhi dal sole, avevano fissato la mia finestra dove me ne
stavo come un oggetto da museo, un oggetto che agitava
la mano e che era leggermente arrossito per l’imbarazzo,
sentendo comunque la dolce e calda sensazione di qualcosa che avrebbe potuto essere amicizia.
Una sensazione di calore che era svanita appena la
bambinaia era apparsa da sotto gli alberi, aveva lanciato
un’occhiata tanto irata alla finestra da farmi subito capire
che mi aveva considerato un ficcanaso o peggio. Aveva
quindi allontanato le bambine dalla mia vista.
Avevo già notato quel genere di occhiata e l’avrei rivista, nella piazza o nei campi dietro la nostra casa. Ricordate come le mie bambinaie mi allontanavano dagli straccioni? Altre bambinaie tenevano allo stesso modo i loro
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pupilli lontani da me. Non mi ero mai chiesto il perché…
immagino, perché non c’era ragione per indagare.
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Un giorno, quando avevo sei anni, Edith arrivò con un
pacco di abiti ben stirati e un paio di scarpe con la fibbia
argentata.
Io uscii da dietro il paravento indossando le mie nuove
scarpe lucide, un gilet e una giacchetta e Edith chiamò una
delle cameriere. Lei disse che ero il ritratto di mio padre,
che era esattamente la loro intenzione.
Più tardi erano venuti a vedermi i miei genitori e io
avevo visto gli occhi di mio padre inumidirsi, mentre mia
madre non aveva finto ed era scoppiata in lacrime, agitando la mano, finché Edith le aveva passato un fazzoletto.
Mi ero sentito grande e istruito, pur avvertendo di nuovo la sensazione di calore sulle guance. Mi ritrovai a chiedermi se le Dawson mi avrebbero considerato elegante
nel mio abito nuovo, un vero gentiluomo. Avevo pensato
spesso a loro. A volte le scorgevo dalla finestra, mentre
correvano nel giardino o venivano condotte nelle carrozze
davanti alle case. Una volta avevo immaginato che una di
loro mi avesse lanciato un’occhiata furtiva, ma, anche se
mi avesse visto, quella volta non mi aveva rivolto né un
sorriso né un saluto con la mano, solo l’ombra dell’occhia­
ta ostile della bambinaia, come se il disapprovarmi venisse tramandato al pari una scienza antica.
Così avevamo i Dawson da un lato, con quelle miste13
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riose, saltellanti bambine, mentre dall’altra parte c’erano i
Barrett, una famiglia con otto figli tra femmine e maschi.
Come con le Dawson, li intravedevo soltanto quando salivano sulle carrozze e da lontano nel giardino. Poi un giorno, prima del mio ottavo compleanno, mentre passeggiavo
lungo il perimetro del mio giardino trascinando un bastone sui rossi mattoni dell’alto muro e fermandomi di tanto in tanto per rovesciare dei sassi ed esaminare qualsiasi
insetto scappasse via da sotto, ero arrivato alla porta che
dava in un passaggio tra la nostra casa e quella dei Barrett.
La pesante porta era chiusa con un enorme e arrugginito pezzo di metallo che pareva non fosse stato aperto da
anni e io lo fissai per un po’, soppesando il chiavistello nel
palmo, quando udii una voce fanciullesca, sussurrante e
insistente.
«Ehi, tu, è vero ciò che dicono di tuo padre?»
Arrivava dall’altra parte della porta, sebbene ci avessi
messo un po’ per individuarla, un attimo in cui ero rimasto
scosso, irrigidito dalla paura. Sbalordito, avevo visto at­
traverso un foro nell’uscio un occhio impassibile che mi
fissava, poi risentii la domanda.
«Su, mi chiameranno a momenti. È vero ciò che dicono
di tuo padre?»
Mi ero chinato per portare l’occhio a livello del buco
nella porta. «Chi è?» avevo chiesto.
«Sono io, Tom, della casa accanto.»
Sapevo che era il più piccolo e aveva circa la mia età.
Avevo sentito chiamare il suo nome.
«Tu chi sei?» mi aveva domandato. «Voglio dire, come
ti chiami?»
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«Haytham», avevo risposto, chiedendomi se Tom sarebbe stato il mio nuovo amico. Il suo bulbo oculare almeno era amichevole.
«Che strano nome!»
«È arabo. Vuole dire giovane aquila.»
«Ah, ecco, questo ha senso.»
«Cosa intendi dire con ‘ha senso’?»
«Oh, non saprei, ma in qualche modo ce l’ha. Ci sei
solo tu lì, vero?»
«Io e mia sorella», avevo replicato. «E mia madre e mio
padre.»
«Una famiglia piccolina.»
Avevo annuito.
«Senti», aveva insistito lui. «È vero o no? Tuo padre
è ciò che dicono? E non mentirmi, ti vedo gli occhi, sai.
Capirò se stai mentendo.»
In quel momento avevo provato una sensazione strana
ma per nulla piacevole: la percezione che da qualche parte
esistesse l’idea di ciò che era normale e che noi, i Kenway,
non ne facessimo parte.
Forse il proprietario dell’occhio aveva sentito qualcosa
nel tono della mia voce, perché si era affrettato ad aggiungere: «Mi dispiace, mi dispiace se ho detto qualcosa di
sbagliato. Ero solo interessato, tutto qui. Vedi, gira una
voce e sarebbe molto emozionante se fosse vero…»
«Quale voce?»
«Penserai che è una cosa sciocca.»
Sentendomi coraggioso, mi ero avvicinato al buco
e l’avevo guardato, bulbo oculare contro bulbo oculare,
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chiedendo: «Che vuoi dire? Cosa dice la gente di mio padre?»
Lui aveva battuto le palpebre. «Dicono che era un…»
All’improvviso c’era stato un rumore alle sue spalle e
avevo sentito una voce maschile adirata gridare il suo no­
me: «Thomas!»
Lo spavento lo aveva fatto indietreggiare. «Oh, fratello», aveva sussurrato. «Devo andarmene. Mi chiamano. Ci
rivediamo, spero.»
Ed era scomparso e io ero rimasto lì a chiedermi cosa
avesse inteso dire. Quale voce? Cosa diceva la gente di
noi, della nostra piccola famiglia?
Nello stesso tempo mi era venuto in mente che pure io
avrei fatto meglio ad allontanarmi. Era quasi mezzogiorno, l’ora del mio addestramento con le armi.
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