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delle religioni
Ebraismo e blasfemia
Dio non maledirai
N
ella tradizione catechistica cristiana, il fondamento
biblico per la proibizione della bestemmia1 è costituito dal comandamento del Decalogo che vieta di pronunciare il nome del Signore invano (cf. Es 20,7). A proposito di questo divieto, Martin Lutero nel suo «Enchiridion» il
piccolo catechismo per pastori e predicatori indotti (1529) afferma che il comandamento ci insegna a temere e ad amare
Dio, così da non bestemmiare, giurare, coltivare superstizioni, mentire o ingannare in nome suo, e a invocarlo, pregarlo,
lodarlo e ringraziarlo. Meno preoccupato del versante esortativo, il Catechismo di Pio X sostiene che questo comandamento proibisce di nominare il nome di Dio senza rispetto, di
bestemmiare e fare giuramenti falsi e illeciti.
Il Catechismo della Chiesa cattolica, dopo aver recuperato
un aspetto più affermativo («Il secondo comandamento prescrive di rispettare il nome del Signore», n. 2142), sostiene che:
«La bestemmia si oppone direttamente al secondo comandamento. Consiste nel proferire contro Dio – interiormente o
esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel
parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei
propositi, nell’abusare del nome di Dio» (n. 2148).
Verrò santificato
in mezzo ai figli di Israele
Riguardo al fondamento biblico, le cose stanno in maniera diversa nell’ebraismo. Anch’esso, è ovvio, proibisce la bestemmia, ma in proposito il riferimento costitutivo non è dato
dalle Dieci parole. Nello specifico, il tema della blasfemia in
ambito ebraico è affrontabile sotto tre angolature:
– fondamenti biblici e valenza intraebraica del precetto
che proibisce la bestemmia;
– occorre porsi il problema se la proibizione valga per i
non ebrei;
– è preso in considerazione un eventuale atteggiamento
blasfemo ebraico nei confronti di altre religioni (in particolare il cristianesimo)?
Va subito precisato che, a differenza di quanto avviene nel
cattolicesimo, nell’ebraismo il divieto non si fonda sul comandamento del Decalogo che proibisce di nominare il nome di
Dio invano. Quest’ultimo, infatti, riguarda in primo luogo la
sfera del giuramento compiuto per motivi impropri o futili. Il
discorso sulla bestemmia fa riferimento ad altri e più articolati
fondamenti. Per rendersene conto è particolarmente utile rivolgersi al Libro dei precetti di Mosè Maimonide.2 Il testo che
ci riguarda si colloca al sessantesimo posto tra i precetti negativi. Vi si legge: «La proibizione di pronunciare il Gran Nome; è questo l’argomento che si chiama “bestemmia”. La punizione è la lapidazione (Lv 24,16). Quanto al divieto, non vi
è nel testo un divieto speciale per questo peccato da solo, ma
vi è un divieto che comprende questo argomento e altri, cioè
il detto “Dio non maledirai” (Es 22,27)».
In sostanza, nel Levitico si afferma che il bestemmiatore
va punito con la morte, tuttavia in base al principio secondo il
quale si può punire solo là dove è stato esplicitamente stabilito il divieto in questione, occorre riferirsi anche a un altro brano in cui la proibizione è esplicita. Da qui, il rimando al passo
dell’Esodo che in ebraico suona così: «Elohim lo’ taqqel» («Dio
non maledirai»). Si usa perciò il termine generico Elohim, con
cui ci si può riferire a tutta la sfera divina (solo il verbo o un aggettivo riferito a questo termine stabiliscono se si è di fronte a
un singolare o a un plurale; in altre parole, Elohim può significare benissimo anche dèi). Nel Levitico, però, si parla esplicitamente di bestemmiare «il nome di YHWH (l’impronunziabile Tetragramma)». Dall’insieme di questi due riferimenti si
comprende che per il diritto rabbinico la pena capitale (peraltro teorica in quanto non più applicabile, quanto meno dalla
scomparsa del Sinedrio nel 70 d.C.) è riservata all’ebreo che
profana pubblicamente il nome di YHWH. Essa rappresenta
la perfetta antitesi di un altro comando peculiarmente riservato al popolo d’Israele: quello della «santificazione del Nome».
Il tema viene chiarito anche questa volta da Maimonide,
in un passaggio in cui si compie un riferimento a un noachide, vale a dire a un non ebreo che, secondo la visione rabbinica, è soggetto ai sette precetti rivelati da Dio a Noè validi per
tutti i popoli. «Nel Talmud di Sanhedrin è detto: “Un noachide ha il dovere di santificare il Nome divino o no? Sta a sentire, sette precetti sono stati dati ai noachidi, e se includessero
anche questo sarebbero otto. Così risulta chiaro che questo è
un precetto imposto solo a Israele e si porta come prova: “E
verrò santificato in mezzo ai figli d’Israele” (Lv 22,32)».
In breve, i sette precetti non comprendono quello della
santificazione del Nome (riservato al popolo d’Israele); tuttavia
essi includono la proibizione della bestemmia (comandamento
valido per tutti). Per comprenderlo basta elencarli: proibizione
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Parole delle religioni
della blasfemia, dell’omicidio, del furto, di legami sessuali irregolari, di cibarsi di un membro strappato da un animale vivo
a cui si aggiunge l’obbligo di stabilire un diritto penale.3
In base alla visione ebraica, come va intesa la proibizione
della bestemmia per i non ebrei? La risposta dipende da quale fondamento viene individuato per i sette precetti. Secondo
Maimonide, essi sono da considerarsi comandamenti rivelati
dal Dio d’Israele. Secondo quest’ottica, il noachide è, perciò,
bestemmiatore solo quando profana il nome del Signore. Il
principale brano di riferimento biblico a proposito della blasfemia del non ebreo è di nuovo costituito dal c. 24 (vv. 10-16)
del Levitico. Il colpevole messo a morte per disposizione divina rivelata a Mosè era infatti un egiziano; da ciò si ricava il
principio secondo cui la stessa punizione vale sia per gli ebrei
sia per gli stranieri.
L’offesa al sentimento altrui
In base a questo procedere non esiste alcuna proibizione
per un non ebreo di bestemmiare le proprie divinità. Tuttavia, specie con l’entrata nell’età moderna, la sensibilità muta
e, in qualche caso, ci si orienta in modo esplicito verso un certo tipo di universalismo. Come prova di ciò ci si riferisce di
nuovo al Levitico. In ebraico si legge: «Ish ish ki-yeqallel Elohayw» (Lv 24,15).
Il termine ish28/11/13
(uomo) ripetuto
due volte
può
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essere reso con chiunque, perciò si traduce: «Chiunque maledirà il suo Dio». Preso in senso lato, ciò riguarda anche ogni
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morale
Trimestrale - anno XLV – N. 180 (4) ottobre-dicembre 2013
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rassegna bibliografica
non ebreo che si rivolge in modo blasfemo alla propria divinità: «La tradizione ebraica si appoggia alla parola ish del testo sacro per stabilire che il sacrilegio è proibito tanto ai non
ebrei che agli ebrei».4
Oltre a vietare la profanazione delle divinità altrui a opera
dei gentili, il precetto proibisce anche l’insulto da parte ebraica delle divinità altrui? La preoccupazione è moderna. Lo
scherno dell’idolatria (o, più radicalmente, l’invenzione stessa della categoria di idolatria) è biblico: non solo gli dèi delle genti hanno gli occhi e non vedono, ma come loro divengano pure quelli che li hanno fatti (cf. Sal 115,5.8). Un equivalente tardo antico, medievale, moderno e contemporaneo
di questo atteggiamento è, sia pure con notevoli differenze tra
le varie epoche, il dileggio anticristiano. Esso si concentra soprattutto sulla figura di Maria e di Gesù. Si vedano in tal senso le cosiddette Toledot Yeshu («storie di Gesù») nelle quali, per esempio, Gesù è presentato – secondo una diceria già
conosciuta da Celso – come figlio del rapporto adulterino di
Maria con un soldato romano chiamato Pantera, avvenuto
per di più quando la donna era in stato di impurità mestruale. Inoltre Gesù sarebbe stato un blasfemo in quanto avrebbe fatto uso del Tetragramma impronunziabile praticando la
stregoneria.5 Va rilevato che il ricorso, già talmudico, al nome
Yeshu è di per sé spia di un atteggiamento denigratorio, esso
infatti comporta la soppressione della componente teofora e
salvifica del nome Yehoshua’ («il Signore salva»).
In un contesto contemporaneo in cui il riferimento principale diviene il rispetto delle credenze altrui, simili affermazioni sarebbero considerate blasfeme. Non a caso alcuni articoli
del Codice penale israeliano, ispirati da precedenti norme risalenti al periodo del Mandato britannico, pongono l’accento proprio sul rispetto delle credenze e delle pratiche religiose
altrui: «Insulto alla religione. Se una persona commette uno
dei seguenti atti è passibile di un anno di reclusione:
1. Diffondere una pubblicazione giudicata tale da offendere gravemente la fede o il sentimento religioso altrui.
2. Pronunciare in luogo pubblico, in modo tale da essere ascoltato da altri, parole o suoni giudicati tali da offendere
gravemente la fede o il sentimento religioso altrui».
Secondo lo spirito proprio di una legislazione contemporanea, l’accento si è perciò spostato dalle offese rivolte a Dio (proprio o altrui) a quelle dirette al sentimento religioso degli altri.
Piero Stefani
M.T. PONTARA PEDERIVA: La bioetica dei
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1 Il testo riprende alcuni temi esposti in un intervento tenuto il 10 ottobre 2013 presso il dipartimento Cesare Beccaria dell’Università statale
di Milano, nell’ambito del modulo didattico «Libertà di espressione, blasfemia e incitamento all’odio religioso».
2 Mosè Maimonide, Libro dei precetti, Introduzione, traduzione
dall’ebraico e note di Menachem Emanuele Artom, Carucci-Dac., Roma
1980.
3 Cf. S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, Il Mulino, Bologna
2002, 137ss.
4 Cf. E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti, Genova 1990,
227.
5 Cf. R. Di Segni, Il vangelo del ghetto, Newton Compton, Roma
1985.
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