BOLLETTINO U.C.F.I. (UNIONE CATTOLICA FARMACISTI ITALIANI

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N. 18/05
Questioni etiche in rapida evoluzione
OSSERVAZIONI ETICHE IN MATERIA DI
“TEST GENETICI”
La decodificazione del genoma sta portando sempre più a scoprire numerose conformazioni genetiche che possono
preludere all’instaurarsi di malattie o contribuire ad una predisposizione ad esse. Tale situazione comporta che l’analisi
del patrimonio genetico di ciascun individuo contribuirà ad identificare una schiera innumerevole di non-pazienti, e
nello stesso tempo a mutare il concetto di salute e di malattia, dato che predisposizioni genetiche ad una malattia
piuttosto che ad un’altra sono presumibilmente ubiquitarie. Ne risulta la necessità di regolamentare secondo principi
etici volta per volta l’uso dei tests genetici, e a limitarne l’applicazione indiscriminata; ne risulterebbe altrimenti
un’utilizzazione eugenetica o comunque discriminante delle singole persone e/o nascituri.
Prima di tutto, tramite le conoscenze che derivano
dall’applicazione del “Progetto Genoma”, si sta creando
un sempre crescente gap tra le capacità diagnostiche e i
mezzi terapeutici. Sarà in futuro possibile conoscere
ogni dato appartenente alla morfologia del nostro
genoma e, in alcuni casi, ogni possibile alterazione,
piccola o grande, potrà essere diagnosticata. Ma le
conoscenze del progetto “HUGO”, che potremmo
definire “l’anatomia del genoma”, non modificheranno a
breve le informazioni riguardo la funzione di questi geni
medesimi (“la fisiologia del genoma”), la cui
conoscenza è destinata a rimanere per molto tempo
ancora sconosciuta, a causa della complessità dei
meccanismi biomolecolari. Così, in un futuro prossimo,
avremo molti test genetici indicativi per l’anomalia, che
tuttavia non saremo in grado di confrontare con validi
strumenti terapeutici o preventivi: una moltitudine
umana composta da non–pazienti si sta muovendo verso
il confine medicina molecolare e genetica. Un esempio
di questa categoria potrebbero essere i portatori di una
tripletta di tre basi nucleotidiche (per la precisione CAG)
ripetuta per più di 40 volte. Il gene responsabile della
malattia di Huntington è stato identificato nel 1993 e si
trova sul cromosoma 4. È stato chiamato IT-15 e
contiene le informazioni per la produzione di una
proteina, huntingtina, dalla funzione ancora ignota.
Nelle persone normali il gene della huntingtina contiene
corte ripetizioni della suddetta tripletta, da poche a un
trentina. Nelle persone affette dalla malattia di
Huntington la tripletta è ripetuta un numero maggiore di
volte, da 40 a un centinaio. Queste espansioni alterano la
funzione della proteina e la presenza di una sola copia
Premessa
L’incremento delle nuove conoscenze concernenti le
strutture e le funzioni dei geni umani e delle nuove
tecnologie laboratoristiche per l’analisi dei materiali
genetici sta proponendo una serie di nuovi test genetici.
Questi test non solo possono offrire nuove possibilità per
la diagnosi delle materie esistenti, ma possono essere
considerati mezzi innovativi per valutare i futuri rischi di
malattia per un individuo al momento sano e per la sua
stirpe e quando un effettivo intervento preventivo è
possibile, per promuovere atti medici o comportamentali
per ridurre quel determinato rischio. I progressi della
genetica e della medicina molecolare stanno
rivoluzionando l’approccio di base nella ricerca delle
malattie, con la possibilità di fornire gli strumenti per
attuare strategie diagnostiche e terapeutiche individuali,
al fine di mantenere la salute, prevenendo la malattia e
migliorando i trattamenti. Questo approccio potrà essere
realistico non solo per i disordini recati dall’anomalia di
un singolo gene, come per la corea di Huntington, ma
pure per i malati delle più comuni malattie complesse
come il diabete, le malattie cardiache, la schizofrenia e il
cancro, dove le sottili differenze genetiche possono
contribuire al rischio malattia e alla risposta a particolari
terapie. Nonostante questa visione assai ottimistica delle
nuove frontiere della genetica, molte obiezioni possono
essere sollevate, soprattutto nell’ambito etico e
deontologico e, dunque, di procedura comportamentale.
Applicazioni pratiche dei test genetici
1
alterata del gene è sufficiente a far sì che la malattia si
sviluppi, giacché si trasmette con modalità autosomica
dominante. Nelle persone che hanno un numero di
triplette intermedio (30-35 ripetizioni) si ha una
condizione genetica definita pre-mutazione. Questi
individui non sviluppano la malattia, ma rischiano di
trasmetterla ai figli, poiché durante la formazione dei
gameti è possibile l’ulteriore espandersi delle triplette. Si
è altresì osservato che questo fenomeno è assai più
probabile durante la formazione degli spermatozoi
rispetto agli ovuli, sicché se è la madre ad aver la premutazione è molto più difficile che i figli si ammalino.
Da quanto detto è possibile che una persona sviluppi la
malattia anche se i genitori non si sono mai ammalati. La
diagnosi della malattia di Huntington
si basa
innanzitutto sulla presenza di sintomi neurologici, ed è
rinforzata dalla presenza di altri casi nella storia
familiare. Tuttavia i primi segni sono tanto vaghi da
render impossibile valutare quanto siano specifici o
quanto condizionati dall’ambiente familiare e dalla
paura di aver la malattia. Per una corretta diagnosi il
medico deve prima escludere altre malattie quali la
schizofrenia, l’alcolismo, la depressione, il morbo di
Parkinson e altre patologie che causano problemi del
movimento e demenza. Oggi, però, è soprattutto l’analisi
genetica che permette l’identificazione di possibili
malati quantificando il numero di triplette presenti del
gene responsabile. L’introduzione dell’esame del DNA
permette di far previsioni sulla possibilità di sviluppare
la malattia ed a richiederlo sono i figli e i fratelli sani o
ancora asintomatici di persone affette. Il confronto
dell’esame genetico di una persona con quello del
parente malato indica con certezza se questa abbia
ereditato o no l’alterazione, altrimenti il test prende in
considerazione solo la lunghezza delle triplette e dà un
risultato affidale al 95-99%. Nell’individuo asintomatico
(il non-paziente) è impossibile prevedere se e quando
manifesterà la malattia, essendo molto variabile l’età di
esordio (anche in vecchiaia). Ciò vale pure per la
diagnosi prenatale: si può determinare se il feto presenta
espansioni delle triplette, ma non si possono fare
previsioni sull’evolversi della malattia. Solo per
espansioni maggiori di 50 si stabiliscono correlazioni:
più elevato si presenta il numero di ripetizioni, più grave
e precoce è la malattia. In una malattia tanto devastante,
per cui non vi è terapia specifica né preventiva e in cui
l’età d’esordio è assai variabile, effettuare o meno il test
per i figli e i fratelli delle persona malate è una scelta
che condiziona la vita futura ed è una decisione che
ognuno deve prendere solo dopo aver avuto almeno
un’informazione adeguata. Nella prassi comune avviene
che alcuni decidono comunque di effettuare il test, altri
non lo fanno, sapendo ugualmente di avere il 50% delle
probabilità di non esser portatori dell’alterazione
genetica. Ci sembra opportuno in ogni caso un iter
obbligatorio, che ha lo scopo di informare la persona
interessata affinché comprenda appieno tutte le
implicazioni del caso, il tutto assieme ad un sostegno
psicologico adeguato.
Riflessioni etiche
Come accade spesso in questi casi la riflessione degli
eticisti si divide in due nette categorie. Gli strenui
oppositori dell’introduzione nella routine di questi test
diagnostici sostengono che la conoscenza di un alto
rischio di sviluppare la malattia, soprattutto se non
esistono mezzi di prevenzione adeguati, raggiunge solo
l’obiettivo di condurre ad una “ discriminazione
genetica” circa la copertura assicurativa di questi nonpazienti. Ne risulterebbe una posizione che tende e
bloccare, frenare se non addirittura ad abolire queste
tecniche diagnostiche. D’altro canto, i favorevoli a
questa nuova attitudine affermano che le prove di una
tale predisposizione aiuteranno il non-paziente a
implementare la sua attenzione riguardo alla
prevenzione e a pianificare più coscientemente il suo
avvenire. Questi teorizzano inoltre che “la conoscenza
per la conoscenza” è da considerarsi uno dei pilastri
della cura della salute e del consenso informato stesso,
così che lo status genetico di un individuo debba
considerarsi uno step obbligato nel processo della sua
cura. Di qui risulta una tendenza ad utilizzare e produrre
i suddetti test in modo indiscriminato. E’ vero che queste
modificazioni culturali, che migliorano la condizione
della cultura umana, forzano la revisione di precedenti
principi legali atti ad assicurare la protezione
dell’individuo, così come per altre migliorie scientifiche,
la coscienza politica e sociale dell’applicazione di nuove
tecnologie si sviluppa più tardi rispetto alla loro
introduzione nella vita di tutti i giorni. Ne deriva che, in
considerazione degli aspetti legali, molti paesi, ad
esempio gli USA, affrontano in un secondo momento,
ma comunque in modo serio , le problematiche nascenti
dai test genetici, come la discriminazione e la
riservatezza, promuovendo fondi per la protezione
sociale e legale. Altri paesi, come Francia e Italia,
invece, sono ancora orientati ad applicare le legislazioni
esistenti, partendo dall’assunto che i principi vigenti
possono essere indipendenti dalle nuove tecnologie. In
altre parole, prima di intraprendere nuove pratiche
scientifiche, vi è la necessità di modificare i principi e le
leggi vigenti. Del resto la rivoluzione genetica e
molecolare nella cura della salute, sta causando una
profonda riconsiderazione dei molti principi centrali
propri della medicina ippocratica. Il primo tra questi è la
nozione di persona sana. L’acquisizione della completa
sequenza genica di ognuno offrirà ai ricercatori una tale
varietà tra gli individui che lo stesso concetto di
normalità non potrà essere applicato ad ognuno di noi.
Noi appariamo unici da un punto di vista di sequenze
biomolecolari e in ognuno di noi parecchi geni
predisponenti o patologici possono essere identificati.
Sicché ognuno può, senza alcuna manifestazione
patologica, essere eventualmente classificato sia come
malato che come non-paziente. Ciò comporterebbe una
nuova concezione filosofica e antropologica di malattia e
2
di salute che ancora non è completamente identificata,
pur essendo da tempo allo studio.
Il secondo aspetto etico, come menzionato dal French
Ad Hoc Committee, riguarda l’informazione, che può
portare con sé preoccupanti aspetti e risvolti sociali e
psicologici sull’individuo e la sua famiglia a causa del
gap tra le conoscenze scientifiche e la loro utilità nella
pratica clinica. Inoltre, al contrario del passato, la
diagnosi di malattia deducibile dal DNA non resta
confinata al solo individuo, ma comprende ascendenti e
discendenti (la cosiddetta “famiglia genetica”).
Il concetto o il principio di autonomia, del medico e del
paziente, che pare facilmente raggiunto nella maggior
parte delle procedure mediche, viene drammaticamente
sfidato dalla prassi dei test genetici, in special modo in
quelli che riguardano la suscettibilità al cancro o a
malattie quali la Corea, dove massimo è il dilemma etico
tra il diritto di sapere e quello di non sapere, per la scelta
che ne deriva se intraprendere o no una
maternità/paternità. Per il genetista la definizione di un
corretto “pedigree” è essenziale per valutare il rischio e
la suscettibilità a un dato test genetico. Per questo
motivo la diagnosi genetica non può essere considerata
un’attività meramente collegata all’individuo, ma a tutti
coloro che condividono la stessa stirpe. Così, sebbene
paia assai ragionevole e moralmente corretto che un
individuo desideri conoscere se stesso nella maniera più
profonda (a livello del DNA), in quanto detentore di tale
diritto, d’altra parte la stessa dignità e gli stessi diritti e
motivazioni devono accordarsi con quelli degli elementi
della stessa famiglia, che desiderano eventualmente non
venire a conoscenza. La meta di questa investigazione
non appare come la volontà di acquisire informazioni
private riguardanti un’altra persona, ma il desiderio e
l’intenzione di evidenziare il più chiaro scenario
dell’eredità propria di un individuo. Tuttavia, in una
situazione di conflitto di interessi, il rispetto
dell’autonomia pare imperativo, al punto che il genetista
dovrà fornire tutte le informazioni mediche e genetiche
utili a chi si sottopone al prelievo del sangue, ma
mantenere il rispetto della privacy per che non desidera
essere informato sui risultati del test genetico. Il
principio di beneficialità a sua volta condurrà a
sciogliere eventuali reticenze per il bene comune della
persona stessa o della prole. La mancanza delle adeguate
terapie porterà comunque alla necessaria prudenza
nell’utilizzo dei test stessi, per evitare conflitti di
coscienza nell’intraprendere le relative paternità o
maternità, e per evitare odiose discriminazioni. Un
soggetto con eventuali anomalie genetiche non è infatti
per questo sminuito nella sua identità personale. Né tutto
può o deve essere tradotto in termini economici od
assicurativi; ciò rivelerebbe ancora una volta una visione
utilitaristica ed una sottomissione della persona
all’imperativo economico.
Situazioni anche più complesse e delicate possono poi
intuitivamente verificarsi alla presenza di un figlio
adottivo, il quale cerchi do coinvolgere i genitori naturali
nel processo di consulenza genetico, in cui il genitore
naturale dovrà essere lasciato opportunamente libero di
contribuire senza obblighi o coercizioni morali e legali,
né interferire con i genitori legittimi.
Il problema del consenso
Una recente sentenza italiana dell’Autorità della Privacy
ha deciso che il bene salute è da privilegiarsi rispetto alla
privacy.1 Così, membri di una “famiglia genetica”
possono essere informati dei risultati di laboratorio
anche senza il consenso o contro la volontà
dell’individuo che s’è sottoposto al test per una
determinata malattia o predisposizione ad essa. Questa
decisione si capisce subito dimostrarsi eccessivamente
tranchante, e rivelare la cosiddetta e ben nota “tirannia
dei principi”. In questo caso, infatti, la privacy, o meglio
la conoscenza subordinata agli altri valori della persona,
relativizzano il senso del valore “salute”, il quale non
può essere inteso in senso astratto ed assoluto. Per un
corretto consenso informativo è opportuna, invece, una
chiara descrizione dei benefici e dei rischi attesi dalla
procedura, la sensibilità e specificità e il valore della
predizione. Solo dopo di ciò il paziente potrà
liberamente decidere se sottoporsi o no a determinati test
ed accertamenti. Dopodiché ulteriori informazioni circa
il test devono essere prodotte in modo chiaro e consono
al livello culturale e di comprensione del paziente:
informazioni formali, come la logistica del test, come e
dove ricevere i risultati, chi li comunicherà, se i
campioni verranno conservati e per quanto; teoretiche
come le implicazioni e le limitazioni dei risultati; legali,
come la potenziale perdita di copertura assicurativa. Il
proliferare di questi test porterà, secondo alcuni studiosi,
ad un aumento delle diagnosi prenatali per stabilire lo
status genetico del feto. Se positivo, il test potrebbe
addirittura portare ad un largo uso delle procedure di
aborto, giustificato anche solo dalla convinzione che lo
stato di portatore sia equiparabile a quello di malato. Il
problema assume dunque un peso di gravità enorme e
dimostra una pericolosa mentalità eugenetica: ci
sentiamo il dovere di diffondere un forte segnale di
allarme a questo riguardo. Come precedentemente
evidenziato, la diagnosi genetica ha scaturito numerosi
scontri e conflitti tra il bene salute individuale e il bene
privacy (inteso nella complessità di cui sopra si diceva)
dei restanti componenti della famiglia e il fatto che i
risultati di una consulenza genetica possano considerarsi
non più come una proprietà dell’individuo, ma della
famiglia e, ancora, il rispetto sia di chi vuole sapere, sia
di chi non lo desidera. Nei riguardi dei minori e persone
prive della capacità di dare il consenso la preservazione
della privacy del paziente dipende dal suo status e dal
suo sviluppo mentale: il campo come al solito si
complica ulteriormente: In ogni caso resta tale il diritto
di essere informati e di scegliere, sicché una valutazione
caso per caso va fatta, sforzandosi di ottenere sempre un
1
TROIANI F., La tutela della privacy in ambito sociosanitario, Rimini: Maggioli, 2001.
3
vero coinvolgimento cosciente del soggetto nelle
decisioni che riguarderanno lui e la vita dei suoi
congiunti. L’ambito soggettivo ha sempre il suo
innegabile rilievo. Qualora nessuna reale prevenzione o
cura sia possibile, è necessario sforzarsi di evitare la
diagnosi fine a se stessa per preservare il diritto del
soggetto, specie se minore, di sapere o non sapere, ma
sempre in relazione a possibili terapie attuabili, e non
solo come conoscenza di un dato pur vero e scientifico,
ma che porterebbe solo a penalizzarlo (lui e suoi
congiunti) anziché aiutarlo nel vivere.
anonima, considerando tale procedura una condizione
sufficiente per mantenere la riservatezza. Sebbene la
tutela della riservatezza e della privacy sia una
situazione determinante per il paziente e la sua famiglia,
altri problemi possono insorgere dal “possesso” di dati
genetici, soprattutto quando da questi si ricavano
brevetti relativi a scoperte nel campo della genetica che
divengono poi fonte di considerevoli guadagni, come già
di fatto sta accadendo in Europa. Si introduce così
un’altra controversia sulla responsabilità professionale
riguardo l’accesso alle informazioni e ai nuovi ritrovati
nel campo della genetica, che dovrebbero essere forniti
ai soggetti interessati. Questo aspetto potrebbe dipendere
da come si interpreta il concetto di “nuovi ritrovati”,
ritenendoli quelle scoperte prive di una ricaduta nella
cura del paziente e che, quindi, egli non ha titoli per
ricevere; è invece chiaro che ogni nuovo ritrovato in
grado di apportare migliorie nello status del paziente o di
accrescere le sue conoscenze riguardo la malattia
dovrebbe essergli reso disponibile. Circa la scoperta
incidentale, un tale evento dovrebbe esser preventivato e
pianificato col soggetto, soprattutto quando questo non
sia legato direttamente alla patologia per cui si è
richiesta la consulenza o il test.
Ipotesi di responsabilità professionale
Da un punto di vista generale, i principi di una corretta
pratica clinica e gli standards di cura sono
universalmente accettati. Devono conformarsi alle
conoscenze scientifiche attuali e farsi carico del
massimo interesse del paziente. E’ palese che l’errata
interpretazione di un test o la sua omissione o
l’effettuazione di una procedura medica che crei danno a
un paziente è sempre una fonte di responsabilità legale;
soprattutto quando è disponibile un provato rapporto
rischi/benefici e/o un valido protocollo di follow-up per
la prevenzione. Anche se la validità di questi standards
non è assoluta e la condizione dello status di portatore è
la sola informazione attesa, l’errata interpretazione di un
test o di segni clinici può avere rilevanza penale, nella
misura in cui ciò venga a incidere sulla scelta di
generare figli del paziente o sulla previsione della
qualità e durata della propria esistenza. A partire da ciò,
è chiaro quali peculiari aspetti legali derivino dalla
consulenza e dai test genetici: prima di tutto dobbiamo
considerare che molti test di laboratorio sono ancora “in
limite” tra sperimentazione e routine, sicché è facile si
creino conflitti nella definizione delle linee guida
corrette per una buona pratica clinica e,
conseguentemente, gli strumenti per una valutazione
giuridica dell’erronea interpretazione di test e
conduzione di terapie e follow-up. Se dal punto di vista
etico e deontologico, pur sommariamente, posiamo però
ritenere che la responsabilità professionale esista solo se
sia effettivamente mancata una consulenza genetica per
quei test e per quelle malattie già sicuramente
diagnosticabili e inserite nelle linee guida, nessuna
responsabilità professionale potrà essere invece invocata
a proposito di un soggetto già concepito, se pur con
anomalie genetiche impreviste e imprevedibili, o anche
prevedibili, ma tuttavia accadute e presenti, pur nella
regolarità dello screening genetico pre-natale previsto.
E’ importante evidenziare, inoltre, che in tali situazioni
il comportamento del consulente può diventare
determinante a tal punto da indirizzare il paziente e
condizionarne le sue decisioni. L’uso di una banca del
DNA è universalmente considerato della massima
importanza nel promuovere nuove ricerche e la
conoscenza circa i disordini genetici. La maggior parte
dei laboratori registrano i dati in loro possesso in forma
Conclusione
Da questa pur breve disamina risulta evidente come il
problema sia tra i più aperti e discussi, anche perché la
materia scientifica è già di per se stessa in rapida
evoluzione, così come le problematiche etiche ad essa
collegate. Come si sarà notato le nostre valutazioni sono
animate da una visione antropologica che denota
un’attenzione alla centralità della persona umana, anche
e soprattutto nella sua eventuale realtà di presenza di
anomalie genetiche; una ricerca fine e appassionata di
tutte le metodologie scientifiche e soprattutto
terapeutiche che veramente possano essere ritenute a
servizio della persona stessa; un richiamo al senso della
paternità/maternità responsabile alla luce delle
conoscenze che la scienza mette e disposizione e sotto
l’egida di un rapporto medico-paziente in cui il
“consenso informato” sia solo la ratifica di un dialogo
profondo e costruttivo tra le due parti. Non è mancato un
segnale avveduto a proposito delle “tentazioni”
eugenetiche che nulla hanno a che fare con un impegno
serio, avvertito e appassionato per la ricerca diagnostica
e terapeutica, che sicuramente in questo campo come in
moltissimi altri ha il diritto e il dovere di progredire.
L.M. Bucci, M. Paganelli, A. Ventura,
F. Ventura, R. Celesti
Dipartimento di Medicina Legale, del Lavoro,
Psicologia Medica e Criminologia
Università di Genova – Sezione di Medicina Legale
(tratto da Medicina e Morale, 2005/4)
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