La Cina nel nuovo quadro strategico internazionale

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PANORAMA INTERNAZIONALE
La Cina nel
nuovo quadro
strategico internazionale
Dr. Gianluca Sardellone
Analista strategico
N
el nuovo contesto internazionale postbipolare, dominato dalla lotta contro il terrorismo globale iniziata l’11 settembre del
2001 e dalla proliferazione di armi di distruzione di
massa, c’è un Paese alla ferma ricerca di un maggiore ruolo regionale ed internazionale.
È la Repubblica Popolare Cinese (1) (la Cina), il
più popoloso stato al mondo con circa 1,3 miliardi
di abitanti, oltre un quinto dell’intera popolazione
mondiale, il secondo per estensione territoriale (9,4
milioni di kmq, poco più della metà della Federazione Russa) e tra i primi produttori mondiali di importanti materiali strategici (2).
Oggi la Cina sta vivendo una complessa evoluzione politica ed economica: si sta, almeno in parte,
aprendo al liberismo e tenta di sviluppare, da un lato,
i rapporti con l’Occidente (USA, Europa ed Israele)
e la Russia e, dall’altro, con i paesi limitrofi dell’Asia
Centrale e della Penisola Indiana (le repubbliche dell’ex Unione Sovietica, l’India, il Pakistan e le cosiddette Tigri del Sud Est).
Per questo sta stringendo nuove partnership strategiche che le permettano di uscire, dopo mezzo
secolo di comunismo integralista, dal sostanziale isolamento internazionale e, inoltre, di dare soluzione
alle sfide politiche, al momento più pressanti sul
piano interno (l’economia e le riforme istituzionali)
e su quello esterno (i rapporti con Taiwan ed Hong
Kong). La Cina occupa, infatti, una regione (l’Estremo Oriente) di notevole rilevanza strategica e, al
contempo, instabilità che potrebbe, forse rappresentare, nel XXI secolo, il nuovo centro degli equilibri
geopolitici mondiali: qui, infatti, insistono potenze
nucleari acclarate (Corea del Nord, Russia, India e
(1) O Cina comunista, distinta dalla Cina Nazionalista (Taiwan)
(2) Tungsteno e manganese, oltre ad ingenti quantità di stagno, rame, piombo ma anche di uranio (anche se è piuttosto difficile fornire
dati completi ed aggiornati, poiché numerosi giacimenti risultano esplorati in modo molto approssimativo)
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La Cina nel nuovo quadro strategico internazionale
Pakistan, oltre alla stessa Cina) e vari stati minacciati dall’integralismo islamico e dalla proliferazione di
armi non convenzionali.
Il nuovo quadro strategico
Oggi la Cina vive una fase di boom straordinario
(con una crescita del 10% annuo) iniziata sul finire
degli anni settanta quando, dopo la morte di Mao, il
governo comprese il sostanziale fallimento del dirigismo statalista e quindi, la necessità di avviare la trasformazione del paese, attraverso la “riforma e l’apertura”. Fu sviluppata una politica estera più cauta e
realistica: Pechino attenuò la fiera contrapposizione
sia agli USA che all’URSS, l’autarchia economica e il
relativo disinteresse nei confronti delle organizzazioni internazionali.
Ma la modernizzazione, diversamente dalla Russia, venne condotta con cautela evitando quella
sovrapposizione di continuità e rinnovamento che
aveva accelerato la disgregazione del sistema sovietico. Da “impero di mezzo” chiuso al mondo esterno,
geloso della propria specificità e del proprio “splendido” isolamento, la Cina è progressivamente divenuta parte attiva della globalizzazione e sta tentando
di conciliare tradizione e modernità.
Ha migliorato i rapporti bilaterali con numerosi
Paesi vicini, incrementato le missioni all’estero, siglato accordi di sicurezza e commercio, rinsaldata la
partecipazione alle principali organizzazioni multilaterali. Il crollo del bipolarismo e dell’Unione Sovietica ha, infatti, spinto Pechino a normalizzare o stabilire ex novo la politica verso i Paesi nati sulle ceneri
dell’URSS.
La Cina ha avviato la soluzione di numerose questioni di confine rimaste per decenni insolute (con
Russia, Tagikistan, Kazakistan, Kirghisia, ma anche
Laos e Vietnam); migliorato i rapporti con l’India
(rimasti a lungo burrascosi e culminati nel 1962 in
una guerra aperta), accettato di affrontare in forum
internazionali questioni legate alla difesa ed alla sicurezza e di risolvere le controversie con mezzi pacifici,
basati sul diritto internazionale. La fine della guerra
fredda ha, parallelamente, prodotto una nuova era
nei rapporti con l’Occidente. Dopo un periodo “difficile” (alla fine degli anni novanta), gli USA considerano, ormai, la Cina non un più un nemico ma un
partner nella lotta contro il terrorismo islamico e la
proliferazione di armi di distruzione di massa.
Una minaccia, questa, aggravata dalla crisi nord
coreana che rischia di destabilizzare ulteriormente la
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regione: il regime comunista di Pyongyang, infatti,
oltre a ritirarsi nel 2003, dal “Trattato di Non Proliferazione Nucleare” (TNP), ha ammesso la realizzazione di un programma per arricchire l’uranio e realizzare un ordigno atomico.
La Cina, insieme con USA, Russia, Giappone e
Corea del Sud, dovrebbe, dal canto suo, costituire
una sorta di cordone sanitario attorno alla Nord
Corea in grado di dissuaderla da una folle politica di
riarmo. Pechino, del resto, rappresenta, nella fase
attuale, il soggetto che può esercitare le più forti pressioni politiche e diplomatiche su Pyongyang, specie
dopo la decisione americana di ridurre la presenza
militare nella penisola coreana, a protezione del 38°
parallelo (che dal 1953 segna il confine tra le due
Coree). Nel 2002, dopo la visita dell’allora vice premier cinese, Hu Jintao, USA e Cina avevano suggellato una ritrovata intesa, favorita dal crollo dell’URSS e dall’ingresso di Pechino nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), sostenuto, in
modo decisivo, proprio da Washington. Di recente,
l’Amministrazione americana ha mostrato prudenza
La Grande Muraglia cinese
tanto nei rapporti con la Cina comunista che in
quelli con la Cina nazionalista (Taiwan), invitando
entrambe ad astenersi da escalation belliche e soluzioni manu militari dalle conseguenze fortemente
destabilizzanti.
L’attuale establishment cinese mostra, del resto, un
atteggiamento favorevole non solo agli USA (le cui
coste occidentali si trovano di fronte a quelle cinesi)
ma anche ad Israele con cui intensi sono i rapporti di
cooperazione economico-militare.
La Cina ha superato la tradizionale ostilità nei
confronti di Gerusalemme e formali rapporti diplomatici sono stati avviati nel 1992: oltre a cooperare
nella lotta contro il terrorismo, Israele potrebbe par-
La Cina nel nuovo quadro strategico internazionale
La nuova dottrina militare
L’evoluzione della dottrina militare rappresenta un’ulteriore
conferma della maggiore visibilità internazionale e del contrasto
alle nuove minacce strategiche transnazionali.
A partire dagli anni novanta, la Cina, infatti, ha intensificato
la partecipazione ad operazioni di peace-keeping sia in Asia che in
Africa e condotto numerose esercitazioni congiunte con altri Paesi
(l’ultima, denominata “Pugno di ferro”, tenuta nel mese di settembre 2004, ha visto assistere, per la prima volta, anche militari
provenienti da Russia, India e Pakistan).
L’anno precedente, la Marina militare cinese partecipò, per la
prima volta ad una esercitazione congiunta con una straniera,
quella pakistana; esercitazioni navali congiunte si tennero, poi,
con l’India, la Francia e la Gran Bretagna.
Per decenni, la strategia cinese si è fondata sulla dottrina maoista della “guerra di popolo” e sul sistema rivoluzionario di warfare: la “presunta” supremazia delle risorse umane sui sistemi d’arma
prevedeva, infatti, un’ampia mobilitazione dei cittadini e l’uso
combinato di tecniche della guerriglia, della guerra di movimento
e di quella di posizione.
Il mutato quadro strategico, con minore rischio di guerra
nucleare globale e maggiore incidenza di conflitti locali, ha prodotto una rivoluzione anche in ambito militare, con la modernizzazione del sistema di difesa, di quello di Comando e Controllo ed
un incentivato impiego congiunto e sinergico delle tre forze armate. Si è, così, passati da un approccio human-intensive (incentrato
sulla consistenza quantitativa delle forze armate e sul concetto di
“nazione in armi”), ad uno techno-intensive, con il potenziamento
delle capacità di reazione rapida e delle forze speciali (che possono
acquisire informazioni e neutralizzare le installazioni nemiche,
anche mediante attacchi preventivi).
Oggi le Forze Armate cinesi contano, complessivamente, circa
2.9 milioni di effettivi, la cui nuova organizzazione dovrebbe ricalcare, una volta completata, quella degli USA, con unità snelle (brigate) e maggiore disponibilità di veicoli blindati leggeri e facilmente schierabili on the field. Nonostante i progressi, resta notevole il lavoro ancora da compiere: il Libro Bianco pubblicato nel
2002, pur apprezzando la massiccia riduzione del personale, ha
evidenziato il gap tecnologico tuttora forte nei confronti degli
USA (si parla di almeno 20 anni), l’insufficiente supporto radar e
logistico a favore dei moderni aerei da guerra Su-27 russi e l’eccessiva distanza delle basi dai possibili teatri di impiego.
tecipare alla modernizzazione delle forze armate
cinesi (i cui approvvigionamenti, in massima parte,
provengono, attualmente, dalla Russia).
I rapporti con la Russia
Sull’evoluzione del Paese inciderà, verosimilmente, l’andamento dei rapporti con la Russia che, dopo
la nascita della Repubblica Popolare Cinese, ha
conosciuto fasi alterne.
Le relazioni tra i due Paesi avevano vissuto, dopo
il 1945, una lunga fase positiva: Mosca aveva concesso massicci aiuti economici e militari alla Cina e
nel 1949 era nata la cosiddetta Alleanza Rossa con
cui il leader dei comunisti cinesi, Mao Tse Tung,
aveva potuto sconfiggere i nazionalisti di Chang kai
Shek, rifugiatisi a Taiwan.
Questa entente cordiale, favorita dalla koinè ideologica e dalla contrapposizione verso gli USA, si attenuò dopo la morte di Stalin (1953) e l’avvio della destalinizzazione voluta dal nuovo Segretario del Partito Comunista sovietico, Krusciov che prevedeva, tra
l’altro, l’avvio di un new-deal nei rapporti con l’Occidente.
Cina ed Unione Sovietica si trovarono, addirittura, ad un passo da un conflitto armato (nel 1969),
non solo per motivazioni ideologiche (il rispetto dell’ortodossia comunista) ma soprattutto strategiche e
territoriali (entrambe miravano a controllare politicamente non solo l’Asia ma anche i Paesi del Terzo
Mondo): mezzo milione di soldati cinesi e circa seicentomila russi vennero schierati lungo i confini,
pronti per l’attacco. Per questo, nel timore di un
confronto con Mosca, la Cina rilanciò la politica di
riarmo nucleare, realizzando, nel 1964, la prima
bomba atomica che, di fatto, poneva termine in
Estremo Oriente al duopolio USA-URSS.
Il crollo dell’URSS ha completamente ri-disegnato l’assetto geopolitico in Asia: l’enorme frontiera
comune (oltre seimila km) condivisa durante la guerra fredda si è decisamente ridotta (anche se quella
con la Russia si stende, tuttora, per oltre tremilaseicento km, mentre la restante parte riguarda Kazakistan, Kirghisia e Tagikistan).
La Cina ne uscì sensibilmente rafforzata dal
punto di vista politico e strategico ed un new-deal
sembrò caratterizzare i rapporti bilaterali, ponendo
termine ad una lunga fase di conflittualità: Cina e
Russia sembravano sul punto di ripristinare un asse
strategico interrottosi, fragorosamente, quasi mezzo
secolo prima.
Negli anni novanta, Pechino e Mosca si mostrarono ostili di fronte al progetto di allargamento ad
est della NATO, condannando il recesso americano
dal Trattato ABM (definito una pietra miliare per la
sicurezza internazionale) ed il rilancio del progetto di
Difesa Strategica (il cosiddetto scudo stellare).
I due Paesi, potenze nucleari e membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, siglarono il primo
accordo di Buon Vicinato, Amicizia e Cooperazione:
sulla spinosa questione di Taiwan, Mosca supportava
le posizioni di Pechino, ottenendone, in cambio, il
sostegno verso l’unità e l’integrità territoriale della
Federazione Russa, minacciata dall’indipendentismo
e dal secessionismo.
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La Cina nel nuovo quadro strategico internazionale
L’attacco alle Torri Gemelle, oltre a mutare radicalmente il contesto strategico mondiale, ha impresso una nuova svolta anche ai rapporti russo-cinesi.
L’Operazione Enduring Freedom e la campagna
contro i santuari del terrorismo in Asia Centrale (con
lo stabilimento di una massiccia presenza militare
occidentale) ha modificato il quadro geopolitico in
un’area di forte interesse per Russia e Cina.
La Cina ha guardato con sospetto alla crescente
cooperazione (sancita nel 2002) tra NATO e Russia:
Mosca, oltre a voler mantenere una certa influenza
sulle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale,
rappresenta un gigante demografico, territoriale e,
soprattutto, militare, capace di alterare l’equilibrio
regionale.
Ciononostante, Cina e Russia hanno deciso di
condurre esercitazioni militari congiunte (nel 2005)
dopo la storica visita della flotta militare russa nei
porti cinesi, avvenuta nel 1999.
Entrambi, del resto, affrontano la minaccia,
Veduta panoramica di Shangai
destabilizzante sul piano interno, del terrorismo islamico attivo in Cecenia e nello Xinjiang (o Turkestan
cinese, a maggioranza musulmana, dove insiste il
gruppo etnico separatista Uigur, di stirpe turca e lingua uigura).
Ma è nei settori degli armamenti e dell’energia
che sembra risiedere il futuro delle relazioni cinorusse.
Imprese militari russe sono, inoltre, attive sul
mercato cinese e Pechino ha ricevuto ingenti quantità di missili SAM-300, aerei SU-27 e SU-30, elicotteri d’attacco e sottomarini della classe Kilo.
Nella sconfinata ma quasi disabitata Siberia, inoltre, sono celate il 20% delle riserve mondiali di gas e
petrolio: un oleodotto collegherebbe la Siberia con il
più importante snodo petrolifero cinese.
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La Cina è, per dimensioni demografiche e industriali, il secondo importatore mondiale di greggio
(dopo gli Stati Uniti) e sta incrementando anche la
domanda di gas naturale; sono, peraltro, allo studio
alcuni progetti per la realizzazione di oleodotti e
gasdotti tra la Siberia occidentale ed il nord est della
Cina, mentre il gigante energetico russo Gazprom
preme per la realizzazione di un gasdotto nello
Xinjiang.
La Russia, grazie agli ingenti giacimenti in Siberia
e nel Mar Caspio, si propone quale principale fornitore di energia per il “decollante” sistema industriale
ed economico cinese.
Per ridurre la dipendenza (e, quindi, la vulnerabilità) da Mosca e dai Paesi produttori del Golfo Persico, Pechino sta, tuttavia, cercando di perseguire una
duplice strategia.
Da un lato, attraverso la Compagnia Petrolifera
Nazionale, intende diversificare le importazioni,
rivolgendosi non solo all’Asia centrale (Kazakistan e
Turkmenistan in primis) ma anche al Golfo (accordi
erano stati siglati con Iran ed Iraq e, di recente, con
l’Oman) ed al Corno d’Africa (il Sudan).
Dall’altro, incrementando lo sfruttamento dei
giacimenti interni che insistono, tuttavia, in luoghi
impervi, difficilmente accessibili e, soprattutto, prossimi all’instabile regione del Xinkjiang: la sua rilevanza geopolitica potrebbe, nel medio termine,
aumentare non solo per la presenza di risorse petrolifere, ma perché si tratta di una regione relativamente poco popolata, dove riversare le eccedenze
demografiche.
La Cina è, infatti, un Paese dall’ineguale distribuzione demografica dove coesistono aree pressoché
disabitate per la natura inospitale del territorio (quelle settentrionali) o per la presenza dell’Oceano Pacifico (ad est) e, per contro, regioni iper-popolose
(quelle meridionali).
Gli interessi in Asia Centrale
Per Pechino resta di vitale importanza l’evoluzione dei rapporti con i Paesi dell’Asia Centrale, la
cosiddetta Grande Scacchiera, coacervo di popoli,
religioni e sistemi politici differenti, dove la massiccia presenza di risorse energetiche ha aperto la competizione tra le Grandi Potenze tradizionali (USA,
Cina e Russia) e quelle emergenti (Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Turchia).
La Cina ha dovuto adottare una strategia ad hoc,
la “politica periferica”, fissando in quattro punti la
La Cina nel nuovo quadro strategico internazionale
propria politica nella regione:
• rapporti di buon vicinato;
• cooperazione nell’interesse comune;
• rispetto dell’indipendenza delle ex repubbliche
sovietiche;
• non ingerenza nella cosiddetta “domestic jurisdiction”.
Oltre a quella con la Mongolia, Pechino condivide un’enorme frontiera con i Paesi succeduti
all’URSS (Tagikistan, Repubblica di Kirghisia,
Fiume Han
Kazakistan ad ovest e Russia a nord-est).
Cina, Russia, Kazakistan, Kirghisia, Tagikistan ed
Uzbekistan hanno dato vita al “Gruppo di Shangai”,
un soggetto strategico dalle competenze piuttosto
diversificate, che spaziano dalla sicurezza stricto sensu
(lotta contro il radicalismo islamico, il terrorismo ed
il traffico di droga), all’economia, fino alla cultura.
Seguendo l’esempio uzbeko, anche Tagikistan,
Repubblica di Kirghisia e Kazakistan si sono avvicinati all’Occidente, stabilendo con esso forme di partnership politico-militari; restano, tuttavia, forti i legami etnici, linguistici e culturali tra la popolazione
dello Xinjiang e quella di alcune repubbliche ex
sovietiche. Pechino teme che l’indipendenza da
Mosca acquisita da queste repubbliche, possa rappresentare un fattore di destabilizzazione, riaccendendo le pulsioni separatiste nello Xinjiang e riattivando il nazionalismo degli Uighuri.
Gli Uighuri (la cui percentuale è scesa dal 78 al
48%), infatti, sono di etnia e fede islamica ma di lingua turca ed ammontano a circa 16 milioni di individui: insieme con Kazaki e Kirghisi, mostrano una
palese insofferenza nei confronti di Pechino, accusata di condurre una politica di assimilazione forzata.
L’insidiosa guerriglia islamica impegna circa trecentomila uomini delle forze di sicurezza di Pechino
che, tuttavia, ha conseguito un risultato di sicura
rilevanza nel 2002, dopo che gli USA hanno inserito nella lista dei movimenti terroristici il Movimento Islamico del Turkestan Orientale.
Questa decisione è risultata, certamente, gradita
al governo cinese che ha potuto, in questo modo,
delegittimare il separatismo di quella regione (sospettato di legami con Al Qaeda secondo il Patterns of
Global Terrorism).
Pechino, inoltre, ha rafforzato la cooperazione
economica e nel campo della sicurezza con l’ex
repubblica sovietica del Kazakistan, al fine di evitare
che i gruppi uiguri (legati alle milizie post talebane)
stabiliscano campi di addestramento e basi di supporto nello Xinjiang.
Nel 2003 si sono inoltre tenute esercitazioni congiunte per il contrasto al terrorismo cui hanno preso
parte anche forze russe, kazake e tagike.
Quanto ai rapporti con la Kirghisia, bisogna
tenere conto di due fattori: da un lato, l’assenza di
significative contese di confine e, dall’altro, gli stretti rapporti stabiliti dall’ex repubblica sovietica con gli
USA (compresa la concessione di una base aerea per
le operazioni contro Al Qaeda in Afghanistan).
La Kirghisia, probabilmente la più debole tra le
ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, si è avvicinata alla Partnership for Peace della NATO, ma
resta da valutare l’instabilità politica di cui soffre sul
piano interno (culminata, nel 2002, in disordini di
piazza nel sud del Paese).
Nel medesimo anno, i due Paesi conducevano
un’esercitazione congiunta anti-terrorismo nel quadro della Shangai Cooperation Organization (SCO).
Valutazioni simili valgono anche per i rapporti con
l’Uzbekistan che, dopo l’11 settembre, si è decisamente schierato con l’Occidente, concedendo agli USA
non solo la possibilità di utilizzare lo spazio aereo, ma
anche di creare proprie facilities militari in loco. Nel
2001, il Segretario di Stato, Powell, ha annunciato al
leader uzbeko, Karimov, l’intenzione degli USA di
sostenere l’emancipazione internazionale della giovane
repubblica post sovietica, sottraendola, di fatto, alle
mire dei principali attori locali (Russia e Cina). Prima
di Enduring Freedom, Pechino ha tentato una normalizzazione perfino con il regime talebano in Afghanistan: i rapporti tra i due Paesi si erano, di fatto, interrotti dopo l’estromissione del governo filo-comunista
di Najibullah ad opera degli studenti coranici. La
politica verso l’Afghanistan, del resto, va analizzata
tenendo conto, peraltro, di quella verso il Pakistan che
ha rappresentato (e tuttora continua a rappresentare)
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La Cina nel nuovo quadro strategico internazionale
La questione di Taiwan
Taiwan (o Formosa o Cina Nazionalista) è una piccola isola
(circa 36mila kmq) con venti milioni di abitanti; ma è, soprattutto, un problema internazionale di primaria rilevanza per Pechino.
Nel 1895, venne ceduta dalla Cina al Giappone con il trattato
di Shimonoseki e “nipponizzata”: dopo la Seconda Guerra Mondiale, divenne la roccaforte dei nazionalisti di Chang Kai Shek,
convinti che essa costituisse l’unico legittimo governo cinese.
La crescente contrapposizione tra Pechino e Taipei costrinse, di
fatto, la comunità internazionale a scegliere tra una Cina e l’altra:
pur di negare il riconoscimento a quella comunista, l’Occidente
(eccezion fatta per Gran Bretagna ed India) riconobbe Taiwan che,
nel 1952, ottenne l’impegno americano a neutralizzare lo stretto
di Formosa e proteggerne il governo.
Durante la guerra fredda (data la conflittualità nelle due
Coree), infatti, Taiwan rappresentò un elemento per contenere la
Cina comunista di Mao: fino al 1971, lo stesso seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza ONU era occupato dalla piccola
isola.
La situazione mutò con la elezione, negli USA, di Richard
Nixon che, pur di portare il Paese fuori dal Vietnam e di spezzare
l’asse Cina-URSS, puntò decisamente sull’apertura di rapporti con
Pechino.
La visita di Nixon a Pechino (nel febbraio 1972) sancì lo storico avvicinamento ed una netta cesura col passato: gli USA si
impegnavano a riconoscere l’indivisibilità della Cina ed a ritirare
le proprie forze presenti sull’isola e nello stretto di Formosa; in
cambio, la Cina riconosceva gli interessi americani nel Pacifico.
Taiwan venne dichiarata provincia separata della Cina ed affermata l’idea di “una sola Cina”: il formale riconoscimento diplomatico avvenne, tuttavia, nel 1979, quando, finita la distensione,
riprendeva il riarmo in Europa.
Nonostante l’irritazione di Pechino, Taiwan continuò ad avvicinarsi all’Occidente dal punto di vista economico, politico e culturale, ricevendo massicce forniture di armamenti che hanno alterato la balance of power nell’area.
L’ascesa, nel 2000, del nuovo presidente taiwanese, Chen ShuiBian (rieletto nel 2004), ha dato nuova linfa al processo di modernizzazione dell’isola, sempre più coinvolta nella globalizzazione.
Nonostante la cauta partnership economica con la Cina, Taiwan
sta tentando di acquisire sistemi di difesa sempre più moderni ed
efficaci per poter resistere ad un ipotetico attacco straniero: l’annuale esercitazione di difesa nazionale (denominata Wan-An 27)
con la presenza congiunta di forze militari e civili ha confermato
l’esistenza di questi timori.
un importante interlocutore per la Cina (specie a fini
di contenimento dell’India che condivide con la Cina
un confine lungo ben tremilatrecento km).
I passati rapporti tra l’intelligence pakistana e le
milizie talebane hanno, tuttavia, indotto, il governo
cinese a chiudere, tra il 2001 ed il 2002, alcuni valichi
di frontiera nel timore di infiltrazioni di terroristi,
prima che un accordo bilaterale permettesse alle forze
cinesi di stazionare nella parte settentrionale del Pakistan a protezione di alcuni siti nucleari e dell’impervia
frontiera con l’Afghanistan. Nell’agosto 2004 forze
armate cinesi e pakistane hanno condotto esercitazio-
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ni militari congiunte (significativamente denominate
“Amicizia 2004”) per verificare tecniche e procedure
anti-terrorismo; nel 2003, i due Paesi avevano condotto manovre navali congiunte nelle acque antistanti la città di Shanghai. La Cina, inoltre, avrebbe supportato i programmi missilistici di Iran e Pakistan, fornendo loro tecnologia dual-use, e contribuito alla
modernizzazione delle forze aeree pakistane. Il rapporto con il Pakistan è, del resto, di primaria rilevanza
strategica per Pechino che ha sostenuto le forze pakistane in Kashmir proprio al fine di tenere l’avversario
indiano impegnato in una logorante guerra ad intensità variabile. Nella medesima direzione si muovono
gli accordi militari con la Birmania/Myanmar.
Nella regione compresa tra l’Oceano Indiano e lo
Stretto di Malacca è forte la minaccia rappresentata
dai trafficanti di droga e dalla pirateria marittima: proprio per contrastarle, la Cina avrebbe consegnato al
governo birmano aerei, elicotteri e veicoli armati e
negoziato lo stabilimento di basi navali sul Golfo del
Bengala. A partire dal 1999, sono migliorati i rapporti con il Vietnam (dopo che, sul finire degli anni settanta, alcuni incidenti militari lungo la frontiera avevano fatto temere un’escalation militare): nel 1995,
Pechino aveva “ammonito” Hanoi affinché interrompesse le esplorazioni nel mar della Cina meridionale e
Tipico negozio cinese
recedesse dal proposito di acquisire dalla Russia aerei
da combattimento SU-27 e pattugliatori costieri.
Di sicura rilevanza è, infine, il rapporto con l’India, che mantiene, tradizionalmente, rapporti di
amicizia con Mosca: New Dehli resta, infatti, con la
Cina il solo Paese con una popolazione superiore al
miliardo. Nonostante le differenze tuttora forti, i due
Paesi hanno avviato un processo di distensione: nel
2003, dopo la composizione di alcune dispute di
confine, è stata ridotta la presenza militare cinese
lungo i confini e si sono svolte persino esercitazioni
navali congiunte.
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