Habermasiana 5 - Leonardo Ceppa

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Habermasiana
Collana di filosofia normativa diretta da Leonardo Ceppa
5
LEONARDO CEPPA
IL DIRITTO DELLA MODERNITÀ.
SAGGI HABERMASIANI
TRAUBEN
Ristampa corretta 2011
© 2009 Leonardo Ceppa
© 2009 Trauben edizioni
via Plana 1 – 10123 Torino
fax 011837193
www.trauben.it
ISBN 9788889909676
4
Indice
Prefazione
7
Parte prima. Per un positivismo democratico
1.
2.
3.
4.
I contenuti etici della democrazia habermasiana
Un saggio di Habermas su Löwith
Il dibattito Denninger-Habermas sulla costituzione
Diritto costituzionale versus diritto egemonico
13
39
59
77
Parte seconda. Per un riformismo spregiudicato
5.
6.
7.
8.
Lotte di riconoscimento nella società democratica
La revisione di Habermas nella prefazione del 1990
Recuperare le religioni per rilanciare la democrazia
Senza religioni, niente democrazia
101
117
127
155
Parte terza. Il postmodernismo democratico
(stat pro ratione voluntas)
9.
10.
11.
12.
Il nazionalismo umanitario di Thomas Mann
I fondamenti del diritto: Günther versus Teubner
Gunther Teubner: costituzionalizzare il politeismo
L’affetto antimoderno di Michel Foucault
Fonti
167
191
225
239
259
“La natura vuole irresistibilmente che il diritto abbia infine il supremo potere”
(Kant, La pace perpetua)
6
Prefazione
“C’è indifferenza per queste cose, perché il relativismo ha distrutto il vero scopo dell’educazione, la ricerca di una vita buona”
(Allan Bloom)
Giunto all’età del sabbath biografico, il sottoscritto raccoglie i saggi
sparsi della sua ultima, scarsa produzione scientifica. Nel corso della vita, egli ha conosciuto due „scuole di Francoforte”: quella adorniana nei primi anni settanta, e quella habermasiana degli anni novanta. Un abisso le divide, nonostante gli omaggi formali che la seconda tributa alla prima. La parola d’ordine degli anni settanta era:
deduzione teorica di ogni fenomeno (come negli aforismi adorniani
di Minima moralia) dalla marxiana forma di merce. La parola d’ordine degli anni novanta era: verifica discorsiva della intuizione di
partenza secondo criteri di validità differenziati. Tuttavia un filo
comune lega le due fasi della scuola: l’esaltazione della dimensione
normativa (l’universalismo razionale della modernità) di contro ai
fronti contrapposti della metafisica premoderna e dell’irrazionalismo postmoderno. Dunque, per un verso, nessuna filosofia perenne del logos divino, né, per l’altro verso, alcuna celebrazione naturalistica della forza vitale („homo lupus” alla Hobbes, classe operaia alla Marx, emergenza del bios alla Foucault).
L’autore di questo lavoro è stato influenzato da entrambe le
scuole di Francoforte. Del suo innamoramento per Adorno sono
testimonianza, oltre a lavori di traduzione, i saggi ospitati dalla rivista storica di Guido Quazza e da „Belfagor”, l’introduzione einaudiana ai Minima moralia, il saggio su Korsch per la „Storia del marxismo” Feltrinelli, e lo Schopenhauer diseducatore uscito presso l’editrice
Marietti. Del suo innamoramento per Habermas, oltre a lavori di
7
traduzione, possono testimoniare i saggi e le recensioni qui raccolte
(solo minimamente aggiornate).
Habermas ha collocato la dimensione normativa nella „trascendenza dall’interno” che caratterizza, nel quadro della ragione comunicativa, la forza ideale del diritto e della democrazia. Ha potuto
così collegarsi all’ottimismo della scienza politica americana congedandosi dalle melanconie del marxismo occidentale europeo. I
princìpi normativi della ragione comunicativa e del patriottismo
costituzionale gli consentono di differenziare i piani della validità
giuridica, politica, morale attorno a un unico asse di legittimità. In
Italia invece la congiuntura ideologica continua ad essere confusa.
L’alleanza tra volontarismo dell’impegno e positivismo empiristico – tra
l’ottimismo cieco del cuore e il pessimismo lucido dell’intelligenza
– ha prodotto un cocktail cattivo di particolarismo etico (l’inferno lastricato dalle buone intenzioni) e relativismo culturale (la democrazia
come aggregazione di arbitrarie preferenze private).
In Schopenhauer diseducatore (1983) il sottoscritto aveva tematizzato – alla maniera francofortese – la complementarità di positivismo
e superstizione, rasoio di Ockham e danza di Dioniso. Le strettoie
ideologiche della sinistra italiana sembrano ora confermare quella
diagnosi. Né l’impegno volontaristico delle ideologie marxistiche,
movimentistiche e cattoliche, da un lato, né l’empirismo metodologico delle scuole neo-illuministiche (Della Volpe, Abbagnano,
Bobbio), dall’altro, hanno mai riconosciuto i vincoli universalistici
della ragione pratica kantiana. Per un verso, si punta ancora sulla
vecchia metafisica dialettica della storia, per cui la forza del negativo (della devianza, della protesta sociale, della trasgressione) produrrebbe automaticamente il progresso. (In questo senso è ancora
la lotta di classe a legittimare la democrazia e non viceversa). Per
l’altro verso, qualunque pretesa di trascendenza normativa, universalismo pratico, fondazione razionale, è vista come dogmatica e reazionaria (in questo senso Bobbio diceva che compito
dell’intellettuale è “seminare dubbi”). Insomma: la giustizia resta
cognitivamente “insondabile” e praticamente affidata alla forza
8
(invece che cognitivamente “inesauribile” e politicamente affidata alla democrazia) e i vincoli di legittimità restano “convenzionali” (castelli di carte soggetti ai venti della storia, invece che razionalmente fondati)1.
Ma a che serve essere pessimisti? Un giorno, se Dio vorrà, usciremo anche da queste strettoie. E impareremo la differenza esistente tra la lotta di classe marxista (fondata sulla forza) e il patto civico
republicano (fondato sulla legge). Capiremo anche che le due gambe del regime democratico servono per andare avanti e non per
darsi da soli calci negli stinchi. Qualunque obiettivo, anche il più
radicale e rivoluzionario, può essere raggiunto senza spargimento
di sangue (e senza turpiloquio2) nel medium deliberativo e procedurale di un diritto che veicola il consenso della cittadinanza. Qui il
revisionismo normativo e positivistico3 di Habermas potrà forse
essere d’insegnamento. Si tratta di legare il diritto alla ragione del
patriottismo costituzionale, rinunciando al volontarismo del non
Sulla complementarità di superstizione e positivismo cfr. ora Enrico Zoffoli, Al di
sotto della cittadinanza (Pera vs Flores d’Arcais), in “Teoria politica” 1/2009, 169-183;
nonché le mie recensioni a Gustavo Zagrebelsky e Marcello Pera (in “Teoria politica” 2/2008, e 2/2009).
2 Gli atti linguistici di cui si compongono i discorsi della politica sono illocutivi e
non perlocutivi (vulgo: sono argomenti e non insulti). Mentre parteggiano strategicamente per interessi e valori particolari, questi discorsi ribadiscono normativamente
l’universalità delle regole e del quadro istituzionale. Questa duplicità del ‘gioco
linguistico’ giuridico è ciò che ha incantato Habermas dopo il fallimento del ’68.
3 Ci sono due positivismi diversi. Quello deliberativo di Habermas dice (per motivi
normativi) che una legge è valida finché non viene cambiata dal popolo sovrano.
Quello empiristico di Norberto Bobbio dice (per scetticismo dei valori) che una
legge è valida perché così vuole la maggioranza (aggregativa) delle (arbitrarie) preferenze soggettive. Sulle dimensioni positivistiche del normativismo habermasiano
cfr. Peter Niesen, Oliver Eberl, Demokratischer Positivismus: Habermas und Maus, in
Sonja Buckel et Alteri, a cura di, Neue Theorien des Rechts, Lucius&Lucius, Stuttgart
2006, pp. 3-28, e Hauke Brunkhorst, Kritik am Dualismus des internationalen Rechts:
Hans Kelsen und die Völkerrechtsrevolution des 20. Jahrhunderts, in Regina Kreide, Andreas Niederberger, a cura di, Transnationale Verrechtlichung. Nationale Demokratien im Kontext globaler Politik, Campus, Frankfurt-New York, 2008, pp. 30-62.
1
9
praevalebunt. Vale a dire, legarlo alla forza del consenso e non alla
violenza del potere, all’idea di giustizia e non all’idea di egemonia,
alla forza dell’argomento migliore e non all’astuzia della strategia
più efficace. Si tratta di costituzionalizzare il “politeismo dei valori”
di cui parlava Max Weber. La guerra fredda è finita da tempo, i giovani imparano l’inglese, girano il mondo, smanettano computer e
cellulari, utilizzano le borse erasmus. La speranza non è affatto
l’ultima risorsa (spes ultima dea). La speranza è invece la condizione
pregiudiziale di ogni possibilità. Per usare il gergo habermasiano,
possiamo parlare di anticipazione normativa, patriottismo costituzionale, revisionismo spregiudicato, lotta di riconoscimento, legittimità che nasce dalla legalità.
Questa tipo di speranza è comune sia alle teorie democratiche
moderne (dunque kantiane) che subordinano la forza al diritto, la volontà alla ragione, sia alle teorie democratiche postmoderne (dunque
nietzscheane e weberiane), che subordinano il diritto alla forza, la
ragione alla volontà, la giustizia al mito. Il soldato Ryan ha svolto
così bene il suo compito, che anche l’irrazionalismo di Nietzsche e
Carl Schmitt ha infine dovuto volgersi in direzione della solidarietà
democratica (vedi Rorty) abbandonando le suggestioni dello stato
etico e carismatico. Sennonché la democrazia postmoderna del
“pensiero debole” (Vattimo) e del “diritto mite” (Zagrebelsky) non
riconosce l’autonomia del giusto sul bene, della norma sul valore,
del vero sull’utile. Pertanto non risulta immunizzata dalle suggestioni della propaganda, del risentimento, della fratellanza paternalistica, del relativismo nichilistico4. Solo se porteremo avanti il progetto normativo della modernità nel senso di Kant e di Habermas
riusciremo a controllare con la ragione, e non solo con la volontà, gli scenari della nostra storia.
L.C.
Per una lettura non relativistica del pragmatismo cfr. Jürgen Habermas, Richard
Rorty: Achieving our Country, in Idem, Tempo di passaggi, Milano 2004, pp. 113-123; sul
nichilismo del post-sessantotto cfr. Allan Bloom, La chiusura della mente americana. I
misfatti dell’istruzione contemporanea (1987), Lindau, Torino 2009.
4
10
Capitolo 6
LA REVISIONE DI HABERMAS
NELLA PREFAZIONE DEL 1990
In premessa alla ristampa Laterza 2002 del più famoso libro di
Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it. di A. Illuminati, F. Masini, W. Perretta, revisione di M. Carpitella, (pp. VIIXLIII), troviamo tradotte le quaranta pagine con cui l’autore aveva licenziato nel 1990 la sua diciottesima edizione tedesca. Originariamente uscito presso l’editore Luchterhand nel 1962, questo
libro aveva molto influenzato la cultura del Sessantotto europeo.
Tradotto in italiano nel 1971, era subito diventato un testo classico di riferimento per molte discipline storiche, sociologiche e letterarie, tanto da venire adottato come manuale di studio in diverse facoltà. La prefazione habermasiana del 1990 è interessante
soprattutto in quanto rappresenta una revisione e una autocritica
fondamentale dell’autore. Si tratta della registrazione e giustificazione di una svolta che, nel corso degli anni Settanta e Ottanta,
aveva progressivamente allontanato Habermas dalla impostazione
francofortese originaria, inducendolo a formulare una “teoria del
discorso” sempre più lontana dalla vecchia Dialettica dell’illuminismo
di Horkheimer e Adorno. Di fronte alla richiesta di scrivere nel
1990 una prefazione nuova per questo suo libro fortunato di
trent’anni prima, Habermas prende di petto il problema e scrive
una revisione folgorante della propria impostazione originaria. Di
fatto, queste quaranta pagine di Habermas anticipano anche – in
una straodinaria sintesi teorica che è quasi una sorta di “manife-
117
sto” programmatico – tutta la prospettiva su cui poggia Faktizität
und Geltung (il capolavoro uscito in Germania nel 1992 e tradotto
da Guerini e Associati nel 1996 col titolo Fatti e norme).
I
Il primo punto dell’autocritica habermasiana riguarda la mancata tematizzazione, nel testo del 1962, dei meccanismi di esclusione cui la sfera pubblica borghese dava origine. Habermas fa
ora tesoro della esperienza di Foucault pur continuando a divergere teoricamente da lui. Per un verso, il pluralismo delle sfere
pubbliche plebee, proletarie e contadine, nonché la strutturale
emarginazione delle donne nel carattere patriarcale della società
borghese, vengono ora intesi da Habermas come fenomeni costitutivi di esclusione che oltrepassano il concetto marxiano di falsa
coscienza. Per l’altro verso, Foucault ha torto nel pensare come
totalmente “altro” ciò che viene escluso, assumendolo come qualcosa di contrapposto, non inclusivo, democraticamente inassimilabile. Solo la contrapposizione di sfera carismatica feudale e rivolta plebea alla Bachtin conserva anche per Habermas queste caratteristiche di reciproca esclusione costitutiva: ma “in quel caso
la cultura e la controcultura erano così legate tra loro che l’una
scompare con l’altra” (p. XVI). Invece il carattere inclusorio e universalistico dei diritti rivendicati dall’illuminismo borghese consente, secondo Habermas, di interpretare come potenziale di autotrasformazione democratica sia il pluralismo delle proteste proletarie
sia le rivendicazioni femministe.
II
Il secondo punto dell’autocritica habermasiana riguarda sia la
semplificazione ottimistica con cui Wolfgang Abendroth interpretava la democratizzazione del capitalismo da parte dello stato sociale sia la semplificazione pessimistica con cui Theodor W. A-
118
dorno leggeva la manipolazione mediatica operata dall’industria
culturale.
Lo stato sociale nasce nel momento in cui le masse espropriate, non potendo fondare la loro autonomia politica sui meccanismi del mercato e della concorrenza, devono affidarsi ai meccanismi di compensazione, pianificazione e assistenza messi in atto dal potere politico. Abendroth interpretava lo stato sociale
come la possibilità di estendere il controllo politico-democratico
alla totalità del processo economico. Negli anni Sessanta anche
Habermas condivideva la speranza di riplasmare dall’interno la
sfera economica tramite un allargamento della partecipazione
democratica. Oggi egli la pensa diversamente: “il seducente programma di Abendroth tradiva le debolezze del pensiero hegeliano-marxista articolato in concetti totalitarii (…) Una società funzionalmente differenziata si sottrae a concezioni sociali olistiche.
Il fallimento del socialismo di stato che noi oggi osserviamo ha
confermato ancora una volta che un sistema economico moderno
non può venire convertito a piacimento dal denaro al potere amministrativo e alla formazione democratica della volontà senza
che ne venga intaccata l’efficienza” (pp. XXI-XXII). La lezione di
Luhmann sulla pluralità delle logiche sistemiche non è passata invano: Habermas ritiene oggi che il mercato non sia intrinsecamente democratizzabile, ma solo estrinsecamente addomesticabile. La logica interna del sistema economico va dunque rispettata
per quello che è. Persino certe degenerazioni sclerotico-burocratiche dello stato sociale legittimano oggi, agli occhi di Habermas,
programmi politici di privatizzazione e liberalizzazione (p. XXII).
Di fronte invece alle semplificazioni adorniane sulla industria
culturale e sulla manipolazione del consenso, Habermas fa oggi
valere l’idea della “civic culture” e di una imprevedibile interpretazione del messaggio mediatico. È questo il tema della “vermachtete Öffentlichkeit”, espressione che il traduttore volge in
italiano con “sfera pubblica depotenziata” e che invece sarebbe
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forse meglio tradurre con “dominata dal potere” oppure, più
semplicemente, “manipolata” (“prestrutturata e dominata dai
mezzi di comunicazione”, come si legge nella prima riga di p.
XXIII). In sostanza, Habermas non condivide più l’idea adorniana che la fine della sfera pubblica liberale debba automaticamente
significare anche la fine della democrazia. Operazionalizzare il carattere discorsivo e critico della società civile – ossìa trovare indicatori empirici sulla natura deliberativa dei processi dibattimentali
in cui si formano le opinioni e le volontà collettive – significa per
Habermas eludere l’alternativa secca e antinomica (in cui cade invece la ortodossìa adorniana) tra il valore ideale, controfattuale e normativo del concetto di opinione pubblica e il suo referente empiricosociologico, visto come pregiudizialmente manipolato ovvero vittima di una irredimibile “connessione di accecamento” “A suo
tempo ho giudicato troppo pessimisticamente la capacità di resistenza di un pubblico di massa… pluralistico, assai differenziato
verso l’interno” (p. XXIV).
III
Il terzo punto dell’autocritica habermasiana riguarda la più generale revisione teorica del quadro categoriale complessivo avvenuta negli anni Settanta e Ottanta. Habermas si era allora allontanato dal marxismo di Abendroth e di Adorno, sviluppando la teoria democratica a partire da una teoria dell’agire comunicativo.
Avendo abbandonato le versioni ottimistiche e pessimistiche della
filosofia dialettica della storia, la democrazia deliberativa di Habermas si scontrava con il problema sostanziale delle procedure.
Si trattava di superare ogni concezione meramente elitista e scetticheggiante della democrazia quale mero meccanismo procedurale di ricambio delle leaderships. Il pluralismo orizzontale degli interessi fattuali doveva infatti dimostrarsi conciliabile alla verticalità
normativa della validità. Nell’ambito della nuova prospettiva, il li-
120
bro del 1962 “diventava inservibile alla teoria democratica nel
momento in cui poneva come insopprimibile il pluralismo degli
interessi concorrenti, giudicando impossibile che da questo pluralismo potesse derivare un interesse generale capace di rappresentare un criterio normativo per l’opinione pubblica” (p. XXVII,
trad. modific.).
Habermas ci ricorda sinteticamente le tappe di questo suo percorso teorico. Tre aspetti vengono soprattutto evidenziati. a) Una
collocazione più profonda dei fondamenti normativi della teoria
democratica (ora identificati non più nella filosofia dialettica della
storia, bensì negli stessi presupposti pragmatici del linguaggio
quotidiano). b) Una recezione del pluralismo sistemico di Luhmann, in seguito alla quale le sfere dell’economia e dello stato capitalistico non sono più comunisticamente abolibili, ma solo riformisticamente addomesticabili nei loro effetti ecologici e sociali. (Valga al
riguardo un’altra citazione: “La società auto-amministrata, capace
di programmare legislativamente tutti i propri settori vitali, inclusa
la propria riproduzione economica, avrebbe dovuto, in teoria, venire integrata dalla volontà politica del popolo sovrano. Sennonché la supposizione che la società… possa autoregolarsi tramite i
media del diritto e del potere politico ha ormai perso ogni plausibilità di fronte al grado di complessità delle società funzionalmente differenziate” p. XXIX, trad. modif.). c) Nessuna immediata
“pretesa di virtù” alla Rousseau: anche la distinzione marxiana tra
borghese egoista e cittadino virtuoso è strutturalmente obsoleta.
Secondo Habermas, lo stato sociale delle democrazie di massa intreccia fin dall’inizio ruolo pubblico e ruolo privato, iniziativa politica e passività clientelare, universalismo della partecipazione e
particolarismo del risarcimento. Così l’autonomia del cittadino
non sta più nella sua aprioristica virtù morale, di stampo rousseauiano o kantiano, ma è il risultato della socializzazione politica,
ossìa l’effetto delle procedure con cui viene strutturalmente formata
l’opinione e la volontà collettiva. “Con ciò l’onere della dimostra-
121
zione si sposta dalla morale dei cittadini a quei procedimenti della
formazione dell’opinione e della volontà che sono destinati a fondare la presunzione di raggiungere risultati razionali” (p. XXXII).
Il concetto discorsivo della democrazia presuppone tuttavia
che i problemi pratico-politici siano razionalmente decidibili attraverso norme suscettibili di fondazione e di applicazione razionale (al
di là dunque del mero calcolo utilitaristico e strategico). Nel ricondurre tali problemi all’imparziale intersoggettività del “punto
di vista morale” Habermas si affianca ad autori neokantiani come
Rawls, Dworkin, Ackermann e Apel. Le questioni politiche si differenziano certo in un ampio ventaglio procedurale e argomentativo: la natura empirica delle questioni pragmatiche chiede di essere
affrontata con tecniche diverse da quelle adeguate alla natura esistenziale, valoriale e identitaria delle questione etiche, mentre la
preminenza metodologica del “giusto” sul “bene” caratterizzante
le questioni morali va sempre distinta dal carattere compromissorio delle trattative applicate a interessi insuscettibili di generalizzazione ( p. XXXIV). Tuttavia, secondo Habermas, la decidibilità
razionale delle questioni pratiche sta nella loro riconducibilità (diretta o indiretta) al punto di vista della giustizia, dunque alla prospettiva di un imparziale “moral point of view” cognitivamente
identificabile sul piano argomentativo. Ciò consente ad Habermas
di collegare la pluralità degli interessi concorrenti e degli indicatori
empirici alla unicità dell’interesse generale discorsivamente (e normativamente) vincolante. In tal modo la democrazia si presenta
come una mediazione di fattualità e validità, comunità reale dei cittadini e comunità ideale degli agenti morali – una mediazione operata dai cittadini attraverso gli strumenti del medium giuridico.
Anticipando temi che saranno sviluppati in Fatti e norme, Habermas propone qui una versione comunicativa del modello giusnaturalistico di Rousseau e Kant. La natura paradossale del diritto
come unione di legittimità e costrizione rinvìa in Habermas al
122
concetto illuministico di “autolegislazione” quale coincidenza dei
destinatari coi produttori delle norme.
In tal modo Habermas riesce a coniugare il massimo dell’idealismo normativo con il massimo del realismo empirico. “Le procedure giuridiche servono a far valere sul piano di una comunità
di comunicazione, idealmente ipotizzata, le costrizioni selettive di
natura spaziale, temporale e materiale presenti nella società reale “
(p. XXXV, trad. modif.). In questo senso la trascendenza normativa è per Habermas sempre situata, cioè interna a un contesto. La
decidibilità razionale (non meramente compromissoria) delle questioni pratiche si coniuga dall’interno alla dimensione empirica della
forza e degli interessi concorrenti. Per un verso la democrazia dipende dalla partecipazione spontanea e disinteressata dei cittadini
al bene pubblico, per l’altro verso le procedure sono una “dolce
costrizione” alla virtù, in quanto servono a purificare le preferenze soggettive, articolare identità culturali (non fondamentalistiche), graduare la distanza tra il cittadino come cliente-destinatario
dei servizi e il cittadino come soggetto legislatore.
IV
Il quarto e ultimo punto della prefazione habermasiana riguarda la traduzione del vecchio concetto di “sfera pubblica politica”
nel nuovo concetto di “società civile”. Ora l’ambivalenza tra una
società civile come fonte normativa e repubblicana della legittimazione e la società civile come oggetto della manipolazione, dell’influenza, della compliance verso gli imperativi sistemici, non viene
più dialetticamente risolta da Habermas né “col rinvìo a garanzie
di status dello stato sociale” (p. XXXVIII) né con la teoria della
passività conformistica del pubblico mediatizzato. Piuttosto la teoria dell’agire comunicativo consente ora di inserire le trasformazioni della sfera pubblica dentro i vasti processi della modernizzazione e della razionalizzazione del mondo di vita. “Una sfera
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pubblica dalle funzioni politiche ha bisogno non solo delle garanzie delle istituzioni dello stato di diritto, ma deve anche dipendere
dalla compiacenza (Entgegenkommen) di tradizioni culturali e modelli di socializzazione, dalla cultura politica di una popolazione
abituata alla libertà” (p. XXXVIII-XXXIX). Il vecchio concetto di
società civile, che in Hegel e Marx rinviava strutturalmente al
mercato capitalistico-borghese, subisce così una revisione. Come
fonte della legittimazione, la società civile – dalla cui anarchica
mobilitazione dipende la vita democratica – coincide ora con
l’associazionismo critico di un pubblico culturalmente differenziato, libero dai condizionamenti sia del mercato sia del potere politico. Questa prefazione viene scritta da Habermas nel 1990, l’anno successivo al crollo del Muro di Berlino. All’Est come all’Ovest, “il nucleo istituzionale della società civile è… costituito
da associazioni non statali e non economiche su base volontaria”
(p. XXXIX). Nella pagina conclusiva Habermas ricorda i lavori di
Andrew Arato e Jean Cohen, i quali nella grande ricerca uscita in
America due anni dopo – Civil Society and Political Theory, The MIT
Press, Cambridge, Mass., 1992 – collegheranno esplicitamente il
concetto di società civile all’architettura habermasiana della teoria
della modernità e dell’agire comunicativo.
Quale conclusione trarre da queste pagine dense e difficili? Il
senso complessivo della revisione teorica habermasiana sta forse
in un approfondimento della natura ambivalente della sfera pubblica
(ovvero di quella società civile che è, simultaneamente, fonte della
legittimazione e luogo della manipolazione). La democrazia potrà
superare il suo stadio storico “liberale” solo se saprà realizzarne
per altra via gli obiettivi (libertà ed eguaglianza). Ossìa solo se il
pubblico mediatizzato potrà ancora mettere in moto processi critici
di comunicazione, di partecipazione, di responsabilizzazione. Rispetto a questa impresa, il pessimismo radicale con cui Adorno (e
il primo Habermas) avevano influenzato la cultura del Sessantotto
sembra avere bisogno di una autocritica esplicita. “Se oggi mi ac-
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cingessi ancora una volta a studiare la trasformazione strutturale
della sfera pubblica, non saprei quale risultato otterrei ai fini di una
teoria della democrazia – forse un risultato che darebbe lo spunto a
una valutazione meno pessimistica e a un modo di vedere meno
provocatorio (trotzig) di un tempo” (p. XLIII, trad. modif.).
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