Relazione Perillo Convegno Fondazione ISPER

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in collaborazione con
Business School of Management
della Luiss “Guido Carli” di Roma
e
AIDP - Associazione Italiana
per la Direzione del Personale
Documentazione del Convegno
“Le Professioni nell’Azienda di Domani:
i Protagonisti del Capitalismo Intellettuale”
Roma – 25 maggio 2006 – ore 9,00
Intervento
Dottor Francesco PERILLO
Responsabile Management and Development HRO
Telespazio S.p.A. Gruppo Finmeccanica
Sul tema
“Professioni e professionalità
nelle imprese della conoscenza”
Alle nostre aziende non bastano più bravi manager.
È lo slogan di un master in Business Administration destinato a manager con 5-10 anni di
esperienza, ma potrebbe essere una buona sintesi per descrivere ciò che ci aspettiamo dalle nuove
professionalità nelle imprese basate sulla conoscenza.
Negli anni ’80 la capacità manageriale, sulla scia dell’insegnamento di Kotter e della straordinaria
diffusione del project management, è sembrata essere la risposta occidentale alla sfida giapponese,
per ridare vigore competitivo alle imprese eccessivamente “engineering oriented,” quelle che
operando nel campo dei sistemi ad alta tecnologia e con prodotti a forte connotazione tecnica, erano
nelle mani degli ingegneri. L’innovazione tecnologica già allora appariva essenziale per la
sopravvivenza ma, di fronte alla incredibile capacità orientale di copiare tutto a costi molto
contenuti, la sfida non poteva risolversi solo in termini di innovazione e creatività: occorreva
registrare tempi costi e qualità all’interno di una poderosa macchina metodologica che garantisse il
massimo controllo del business.
Come è noto, la knowledge based Company, lucidamente descritta da Peter Drucker e da lui
contrapposta alla classica impresa Labour intensive, richiedeva figure professionali orientate
all’innovazione ed alla condivisione delle conoscenze, un’organizzazione composta non più da
“lavoratori” ma da knowledge workers in grado di aggiornarsi continuamente, e legati all’azienda da
un forte patto psicologico. Ma anche la “nuova” impresa descritta da Drucker restava saldamente
nelle mani dai manager, cioè di coloro che ne presidiavano due elementi essenziali: il governo ed il
ritorno dell’investimento per l’azionista. Il management, anche nelle imprese della conoscenza, è
disciplina di gestione dell’organizzazione, finalizzata a trasformare idee, conoscenze e progettualità
in piani d’azione.
Bravi manager, capaci di applicare alla gestione del business rigorose metriche economicofinanziarie, incanalano le costruzioni dei creativi e le trasformano in progetti produttivi. Cos’altro è
l’efficacia se non l’organizzazione delle conoscenze in business di successo?
Ancora recentemente Drucker affermava che la prima domanda che deve porsi un manager
“effective” è : “qual è la conoscenza che mi serve?”. E rinviava la risposta ad un’altra domanda, a
suo avviso prioritaria per la gestione dell’impresa: “What I do want to do?”. Chiedersi infatti che
cosa si debba fare, e prendere questa domanda molto sul serio, è assolutamente cruciale per il
successo manageriale. Non porsi la domanda (che ricorda molto il mitico “che fare?” di Lenin)
renderà inefficace perfino il più abile dei manager. Una volta chiarite le priorità da perseguire, il
project management è poi la tecnica per fare le cose: “per gli Executives la conoscenza è inutile
finchè essa non è traslata in azioni. Ma prima essi hanno bisogno di pianificarne il corso…” ()
Come per il re Mida, qualunque progetto, una volta pianificato tra gli assi cartesiani del tempo e dei
costi, poteva trasformarsi in oro. A patto di tenerlo sotto controllo.
Nascevano così nel pieno degli anni ’80, ma prima ancora negli Stati Uniti, nuove figure
professionali che si moltiplicavano a mano a mano che l’impresa high tech, sulla spinta della
saturazione dei mercati evoluti, elevava le caratteristiche dei propri prodotti.
Il Program manager assicurava il controllo dei programmi attraverso la matrice organizzativa; una
figura “trasversale” che veniva preposta al presidio del ciclo di sviluppo della commessa attraverso
le gabbie dell’organizzazione funzionale. Una professione cui spesso veniva assegnata la missione
impossibile di conciliare il rispetto degli impegni contrattuali e dei margini attesi senza l’effettivo
governo delle risorse.

P.Drucker, What Makes an Effective Executive, Harward Business Review, June 2004
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Mi piace ricordare che questa figura fu introdotta in Italia già alla metà degli anni ’70 in particolare
dalla Selenia, azienda di progettazione e produzione di sistemi elettronici e radar, sulla base di un
modello sperimentato dalla Raytheon. Ricordo quanto ne fosse conflittuale ed incompreso il ruolo
all’inizio della sua sperimentazione; quanto nelle organizzazioni di allora le ragioni dell’efficienza
prevalessero su quelle dell’efficacia, e quante volte i conti dei Controller smentissero quelli dei
Program manager. Eppure questa scomoda professionalità, con la straordinaria carica dialettica che
essa introduceva nell’ordinato mondo produttivo, si dimostrava decisiva per il successo delle
imprese caratterizzate da una molteplicità di programmi di lunga durata a forte comunanza
tecnologica e produttiva. Con essa si apriva la strada a innovativi modelli di gestione basati sulla
catena del valore e sul presidio dei processi, che spingevano l’organizzazione oltre la struttura a
matrice, a lasciare la verticalità per l’orizzontalità. L’organizzazione piatta con il conseguente
alleggerimento delle strutture veniva resa possibile proprio dall’effettiva e diffusa applicazione del
Project management come metodo di lavoro e cultura organizzativa: ciò che la struttura non
garantiva più - la divisione del lavoro sulla base di rigorose job description- veniva invece integrato
dalle working breakdown structure, controllate e messe in fase da un numero crescente di Project
Manager, costellati da un’articolata rete di nuove figure professionali: PM assistant, Project
controller, Risk manager, Planner di funzione. Fino a giungere all’organizzazione capace di
incrociare progetti e processi in team sempre più integrati. Ne sono un esempio la GEC Marconi e
la BAe che nei primi anni ’90, adottando coerentemente la filosofia del TQM si focalizzano sul
miglioramento dei processi introducendo, almeno in fase di progettazione, l’organizzazione basata
sugli Integrated Project Team.
In questo nuovo contesto organizzativo, che nelle imprese ad alta tecnologia investe pesantemente
le attività di progettazione, il Project Engineer, o “Capo-progetto Engineering”, è il project manager
delle attività progettuali e di integrazione di sistemi: non più progettista ma gestore della complessa
fase di progettazione del prodotto. Come capo di un team di progettisti dedicati ad un singolo
programma egli è responsabile della delivery tecnica, ma nei tempi e nei costi che gli sono concessi
dal Project Manager. Egli è al contempo il leader di un team di progettisti e membro del team di
programma gestito dal PM.
L’effetto più evidente di questa riorganizzazione tanto industriale quanto professionale è il
cambiamento di pelle dell’ingegnere, quasi una mutazione genetica: il costo non è più per lui un
output del processo di progettazione, la tipica variabile dipendente della sua ideatività, ma un input
avente la stessa dignità di un requisito tecnico!
Il “valore” dell’eccellenza tecnica, primario in ogni impresa della conoscenza, è temperato dal
target cost imposto dal mercato: non è necessariamente la tecnologia più innovativa quella che
serve, ma va ricercato il giusto equilibrio tra tecnologia e gestione dei rischi. È il riuso di tutte le
fonti di conoscenza, più che l’innovazione in se stessa, la competenza portante richiesta al Project
Engineer: la capacità di impegnarsi a costruire soluzioni facendo leva su tutte le funzioni e
discipline presenti non solo all’interno dell’impresa, ma anche nelle organizzazioni dei suoi partner.
Il Knowledge management diviene così l’essenza stessa del management.
In questo modo anche la professionalità del Progettista viene messa in definitiva “sotto controllo”
dal Capo progetto, che a sua volta, come in un sistema di contrappesi, è sempre più spesso
controllato dal Risk manager di progetto, cui è affidato il costante monitoraggio delle criticità e il
contingency plan. Nelle organizzazioni più evolute, come si sta di fatto realizzando nelle aziende
del Gruppo Finmeccanica, si giunge ad affidare l’effettivo controllo di processo, in un’ottica
cooperativa e non certamente ispettiva, ad un comitato di pari in funzione di Assessor nelle
periodiche review di progetto, mentre il corretto controllo dei parametri dell’intero programma
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avviene nelle “Phase review”, in un confronto con i PM ed i supplier responsabili delle singole
delivery .
In parallelo, ai System Engineer è affidata la missione di definire le architetture dei sistemi, di
identificarne i requisiti, di assicurarne le compatibilità e l’integrabilità tra componenti, di anticipare
al massimo le possibili criticità rischiabili a valle del processo di sviluppo, di presidiare la
conformità del progetto ai requisiti ed alle best practices. In una parola: di assicurare il dominio del
sistema sotto ogni aspetto ed in ogni fase del suo sviluppo.
Il passo successivo, in questa sorta di evoluzione della specie del management nelle imprese della
conoscenza, è stato sicuramente quello di estendere la logica del project management ai processi di
“winning business”, con la conseguente introduzione della figura del Proposal Manager, garante
dell’integrazione dei preventivi e responsabile del coordinamento e del risultato del Team di
Offerta.
Più recentemente, spingendo ancora oltre questa filosofia, le imprese di maggiore complessità e con
chiaro orientamento al mercato più che al prodotto, si sono dotate della figura del Key Account
manager, interfaccia e facilitatore del cliente, una vera e propria cerniera tra il cliente e
l’organizzazione, per un programma o una intera linea di business.
Program manager, Project manager, Project Engineer, Risk manager, System Engineer, Proposal
manager, Account Manager: quale comune denominatore se non il “controllo”?
Certo va evidenziato anche un ossimoro che sembra caratterizzare le imprese della conoscenza: alle
nuove professionalità è richiesta in un certo senso meno conoscenza e più competenza, ovvero
minore grado di specializzazione teorico-disciplinare ed invece maggiori e più spiccate abilità e doti
comportamentali. Senza una buona dose di capacità relazionali e d’influenza, forse anche senza una
piccola dose di fortuna, le nuove professionalità richieste dalla struttura leggera delle aziende non
sono agibili.
Soprattutto i ruoli del Project Management e del System Engineering, hanno richiesto questa
profonda revisione nelle competenze comportamentali: nella misura in cui il loro lavoro doveva
svilupparsi essenzialmente in orizzontale. Un modo di esprimere la propria competenza
assolutamente diverso da quello del decennio scorso: al “sapere” occorre ora coniugare il “saper
fare” e il “saper essere”.
Anche nelle imprese della conoscenza il Management, pur nella sua profonda evoluzione, è
sembrato dunque mantenere saldamente la sua rotta sul timone del controllo.
Ma c’è un problema nuovo che si affaccia all’orizzonte dell’era “postindustriale” della
globalizzazione e delle adaptive enterprise: in questo processo di profondo cambiamento un fattore
decisivo per i manager sembra essere quello di dover gestire, in modo ormai sistematico, variabili
sempre meno sotto il proprio diretto controllo.
Ciò rischia di minare alla base l’essenza stessa del management. Uomini mezzi e risorse sono
integrati in modo sempre più flessibile ed occasionale in un contesto caratterizzato non solo dalla
complessità ma anche dalla turbolenza e dalla incertezza.
A mano a mano che l’impresa si dematerializza, concentrandosi sulle attività e sulle competenze
“core”, occorre imparare a gestire una rete, a tesserne le connessioni, a riconoscerne le aree forti e
quelle deboli: dal cliente al fornitore, alle stesse risorse umane gestite. È necessario acquisire una
competenza fondamentale, assolutamente nuova: il networking, saper raggiungere il risultato
valorizzando le relazioni, non la gerarchia o il comando…
Perciò alle nostre aziende non bastano più bravi manager.
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Possiamo allora dire che al manager occorre sostituire il leader? L’equazione in realtà sembra essere
molto più complessa.
Occorrerà probabilmente rivedere dalle fondamenta l’educazione manageriale, orientandola alla
gestione della complessità e dell’incertezza, deragliando dagli assi cartesiani dei tempi e dei costi e
puntando decisamente al conosci te stesso.
Un manager imperfetto.
Nascerà forse una nuova professione, il sistemista della complessità, caratterizzato da competenze
in grado di bilanciare psicologia ed ingegneria, scienza ed opinione, ragione e sentimento, in grado
di dominare il contingente e di elaborare contemporaneamente scenari alternativi. Un uomo del
Rinascimento, forse.
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