Istituzioni e trascendenza in H.Marcuse

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Istituzioni e trascendenza in H. Marcuse1
GIANLUIGI PALOMBELLA
La produzione di Herbert Marcuse mostra un filo rosso che emerge dalla costante
preoccupazione di tradurre la metafisica tedesca nei termini di quella filosofia concreta
di cui egli parlò innanzitutto nel secondo dei suoi saggi importanti 2. Una concretezza
che oggi riassumerei nella consapevolezza della storicità istituzionale della conoscenza.
La storia e le istituzioni della società civile, e infine lo Stato, sono nel loro insieme
l'orizzonte in cui egli consapevolmente si muove, anche quando i suoi riferimenti teorici
sembrano particolarmente astratti e speculativi. Tuttavia a un hegeliano come Marcuse
non sarebbe stato possibile fermarsi a questo punto. Il carattere concreto della filosofia,
la determinatezza istituzionale e storica della prassi e della conoscenza, erano tutt'altro
che il dato da cui partire, tutt'altro che il semplice e scontato emergere della consistenza
fattuale: erano proprio la meta, l'obiettivo della ricerca, il confine da raggiungere. In
fondo, la realtà per Marcuse è una dimensione hegeliana, ossia è un momento ulteriore e
superiore rispetto alla mera positività del dato, la realtà è l'Aufhebung della possibilità3.
In un certo senso, la concretezza della filosofia, come egli scriveva allora, era assicurata
dal suo orientamento alla verità, era direttamente un'appropriazione della verità: e alla
verità si risale solo affrontando la contingenza, l'accidentalità, la storicità. I presupposti
della verità sono gli stessi di Marx ed Engels dell'Ideologia tedesca, non sono arbitrari,
non sono dogmi, sono gli individui reali con le loro condizioni materiali di vita4 (3).
Questi stessi presupposti sono nello stesso tempo l'oggetto di un diverso e insidioso stile
filosofico, quello esistenzialista di Martin Heidegger, che finisce per mutarne il senso e
1
Relazione al congresso internazionale su Herbert Marcuse nel centenario della nascita, tenutosi
presso il Goethe Institut (Roma), nell'ottobre del 1998.
2
Ueber konkrete Philosophie, in "Archiv fuer Sozialwissenschaft und SozialPolitik", vol. LXII,
1929, pp. 111-23; ed. it: Sulla filosofia concreta, in Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-32, trad. di A.
Solmi, Torino 1975, pp. 3-29. C'è un destino di attualità, e nel contempo nietscheanamente di inattualità
nel lungo lavoro filosofico svolto da Marcuse nell'arco del '900. La sua capacità di farsi carico del
travaglio culturale di un intero secolo, si traduce in un costante confronto critico con coloro che più hanno
contribuito a costituirne le categorie filosofiche principali, Freud e Heidegger, Weber, ma anche Marx,
Hegel, Kant; nel secolo dei totalitarismi e poi del progresso tecnologico dispiegato, Marcuse resta il
filosofo della ragione e della immaginazione. Probabilmente, un gigante sulle cui spalle poter salire, e la
cui reale statura si misura in verità solo scostando il velo delle interpretazioni estemporanee che hanno
dominato sino a qualche lustro fa.
3
Per questi concetti, è estremamente importante H. Marcuse, Hegels Ontologie und die Grundlegung
einer Theorie der Geschichtlichkeit, V. Klosterman, Frankfurt am Main 1932; ed. it. L'ontologia di Hegel,
trad. di E. Arnaud, Firenze 1969. Marcuse intreccia un fitto dialogo con Hegel, soprattutto attraverso
G.W.F., Scienza della logica, trad. di A. Moni, riv. Da C. Cesa, Bari 1978. Cfr. ivi, pp. 214 e sgg, quanto
ai concetti di realtà e di possibilità. Infine, si tenga conto del fatto che la nozione di possibilità era già
stata un elemento chiave nella filosofia di Ernst Bloch, tra i cui lavori erano usciti gli importanti Geist der
Utopie, Muenchen 1918; e Thomas Muenzer als Theologe der Revolution, Muenchen 1921. Per un'analisi
dettagliata dell'intero problema e della stesso confronto con la Scienza della Logica di Hegel, devo
rimandare al mio Ragione e immaginazione. Herbert Marcuse 1928-1955, Bari 1982, pp. 118-57.
4
K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca, in Id., Opere , vol. V, trad. di F. Codino, Roma 1972, p. 16.
1
il valore: essi diventano ad un tempo il segno inevitabile dell'esser-ci dell'uomo, e il
luogo dell'inautenticità5. Ora, se per Heidegger la concretezza è un dato, per Marcuse è
un obiettivo. L'esser nel mondo è sì una condizione ontologica, ma non è una
condizione ontologica nessuna delle sue modalità storiche, nessuna delle sue forme
istituzionali. La deiezione è solo il presupposto della storicità dell'uomo, e nel
contempo, non appaia un banale gioco di contrasti, l'essere nel mondo è il presupposto
della conquista della verità e dell'autenticità6. Il "giudizio comune", che è il tipico
sostituire alla verità il semplice ritenere-per-vero, per Heidegger è necessariamente
altro, è luogo inospitale della verità; mentre per Marcuse il "giudizio comune", le cui
vesti sono spesso assunte dall'ideologia, non corrisponde necessariamente a falso, a
occultante, a falsificante. Anche l'ideologia può ospitare la trascendenza della verità, e
ciò in quanto per la verità non esiste evidentemente altro terreno dove allignare. Questo
dunque separa, a tale riguardo, Heidegger da Marcuse: originarietà e concretezza storica
della verità non devono né possono dividersi. Il vero non è il frutto di una sorta di
esperienza interna, non è un'intima contemplazione7. Questo è il contesto genetico di
gran parte dell'atteggiamento teorico del Marcuse più maturo, successivo, ed a questo
contesto dunque avrebbe potuto attribuirsi un più decisivo rilievo nell'interpretazione
complessiva del pensiero marcusiano. La discussione degli anni dai venti alla fine dei
trenta è infatti soprattutto una discussione sulla verità: e Marcuse credeva di disporre
della chiave di volta: il potenziale rapporto tra l'"estraneazione" concreta del proletariato
e la filosofia della concretezza (ossia, si potrebbe ben dire, la filosofia della
trascendenza). Quella chiave stava nell'ontologica vicinanza alla verità di una classe
5
Com'è noto queste categorie sono contenute in M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. di P.
Chiodi, Milano 19762. Quel che di consueto si sottolinea a riguardo del rapporto tra Marcuse e
Heidegger, è l'influenza esistenziale e fenomenologica esercitata dal secondo sul primo. In effetti, tale
influenza è ben evidente nei termini del rilievo che Marcuse attribuisce a storicità, temporalità, al tema
dell'unità e differenza di Sein e Da-sein. Lo mostra l'intero Heidegger-Marxismus espresso a partire dal
saggio marcusiano Beitraege zu einer Phaenomenologie des Historiuschen Materialismus, in
"Pholosophische Hefte", n. 1, Berlin, luglio 1928, pp. 45-68. Infine, è certamente importante che Marcuse
trovasse in Heidegger quanto non era riuscito a trovare in Husserl, al quale rimproverava piuttosto la
riduzione della filosofia ad un'analisi della coscienza nella sua intenzionalità: l'epochè husserliana certo
non poteva condurre dove Marcuse intendeva giungere (per E. Husserl, si vedano naturalmente, Ricerche
logiche, trad. di G. Piana, Milano 1968; e Id., Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica, a cura di E. Filippini, Torino 1976). Su Husserl Marcuse scrisse poi nel 1936 un saggio
interessante: Zum Begriff des Wesens, in "Zeitschrift fuer Sozialforschung", vol V, 1936, pp. 1-39. Qui,
non a caso, Marcuse sottolinea il carattere astratto e consolatorio che è implicito nell'uso della soggettività
trascendentale, come quella che rimane dopo la riduzione fenomenologica husserliana, e che tuttavia pur
distraendo dall'essere qui ed ora, costituisce comunque, cartesianamente l'unico Sprungbrett sull'esistente.
Ciò detto, Marcuse coglie sin dall'inizio i limiti dell'heideggerismo ed è assolutamente consapevole che
Heidegger ignora il problema della "costituzione materiale della storicità": un problema che rappresenta
una ragione di più per l'integrazione di Heidegger con Marx.
6
Chi studi attentamente l'opera di Marcuse, troverà come lo sforzo compiuto di ricostruzione
dell'ontologia di Hegel, nel 1932, nascesse in fondo dalla consapevolezza dell'insufficienza della filosofia
di Heidegger: il cui sguardo alla possibilità sembrava risolversi in un progetto rivolto al passato, rivolto a
quell'idea di tempo originario che di fatto scavalca la storia e ne appiattisce il senso in una uniforme
indifferenza rispetto all'essere.
7
Qui, oltre ai limiti dell'ek-sistere heideggeriano, devono esse ricordati quelli husserliani:
"Rivolgendomi puramente verso l'interno, aderendo esclusivamente alla cosiddetta 'esperienza interna' (o
meglio all'autoesperienza o all' 'entropatia'), (...) attingo una conoscenza originaria" (E. Husserl, Postilla,
in Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., vol. III, p. 918).
2
sociale. Una classe capace astrattamente di indicare con la sua sola esistenza
l'"insufficienza" e l'inadeguatezza, o marxianamente l'"intollerabilità" del presente 8,
rende possibile alla ragione orientata alla verità, di percepire le istituzioni storiche
dell'economia e della società classista come intimamente destinate al riscatto dell'azione
(naturalmente, l'azione rivoluzionaria). Questo radicamento dell'azione9 nella verità è un
elemento di grande continuità, è l'orizzonte intero della ricerca marcusiana: si tratta di
una relazione che Marcuse stesso sposta nel tempo man mano che il problema diventa poi - riconoscere l'allontanamento storico del proletariato dalle condizioni "oggettive"
della conoscenza. L'omologazione della società "ad una dimensione"10, al di là dei suoi
più evidenti caratteri di superficie, crea infatti un radicale problema politico per la
trascendenza, perché produce un deficit di conoscenza della verità. Il deficit deriva
essenzialmente dal deteriorarsi del rapporto di classe, e in particolare dal perdersi di
quel legame tra la parte (una classe) e la totalità, il tutto. Il proletariato, cessando di
indicare la via d'accesso alla trascendenza e alla conoscenza del reale nelle sue intime
contraddizioni, non può più aspirare a riflettere il mondo da un punto di osservazione
globale, onnicomprensivo. Così, finisce per essere tutt'altro, o molto meno, che il
fenomeno e l'angolo visuale di quella totalità, assurta a categoria essenziale della
sinistra hegeliana contemporanea, da Lukacs a Korsch11, a Marcuse. E' per questa
ragione che Marcuse giunge infine al Gran Rifiuto, a porre la questione negli ultimi due
decenni del suo lavoro, nei termini che oppongono questa volta il Tutto e (come si
usava dire) l'affatto diverso, il sistema e il suo assoluto trascendimento. Sinché è stato
possibile muoversi entro le coordinate del marxismo tradizionale, una parte ha potuto
incarnare la trascendenza rispetto al tutto; dopo, la parte appare riassorbita nel tutto.
Non si dà un punto del "sistema" che sia qualitativamente altro e diverso dall'insieme; il
tutto pervade l'essenza di ogni suo elemento interno. In un certo senso, l'incapacità della
parte di trascendere il tutto, può valere anche come definizione aurea dello stato di cose
che coincide con la logica totalitaria, passata in altre vesti dall'esperienza nazifascista a
quella della società tecnologica unidimensionale. Il totalitarismo nazista aveva reso
possibile elevare una parte della società, le forze, gli ideali e gli interessi particolari di
un ceto politicamente dominante a rappresentazione esaustiva, conclusiva, della
8
Nell'Ideologia tedesca Marx e Engels fanno testualmente riferimento all'unertraegliche Macht
dell'esistenza estraniata (cit., pp. 33-4).
9
La questione dell'azione nasceva anch'essa nel giovane Marcuse. Le sue origini sono note e sono
varie: nella storia del marxismo si legano alla critica dello storicismo positivista della Seconda
Internazionale; più in generale; l'azione rivoluzionaria era investita di una potente enfasi etica. L'ansia di
sovvertire lo status quo prendeva corpo in intellettuali come Lukacs in una dimensione di radicalità e di
sacrificio (G. Lukacs, Tattica e etica, in Id., Scritti politici giovanili 1919-28, trad. di P. Manganaro e N.
Merker, Bari 1972), che traduceva l'ispirazione letteraria e "tragica" su cui era andata sovrapponendosi (si
legga G. Lukacs, L'anima e le forme, trad. di S. Bologna, Milano 1963, sp. il saggio: Quando la forma si
frange sugli scogli dell'esistenza (Soeren Kierkegaard e Regina Olsen). In Marcuse era integrata in una
visione, sin dall'inizio piuttosto solida, dell'ontologia.
10
H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston
1964; ed. it: L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, trad. di L. Gallino
e T. Giani Gallino, Torino 1967.
11
Cfr. G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, trad. di G. Piana, Milano 1974 (5), sp. p. 35 e passim;
K. Korsch, Marxismo e filosofia, trad. di G. Backaus, Milano 1978 (4)
3
totalità12 (11). Il nazismo aveva occupato infatti con le sue rappresentazioni lo spazio così scriveva Marcuse - lasciato libero dall'individualismo naturalistico delle concezioni
liberali, ossia appunto, il tutto, l'insieme13. Nel totalitarismo si era creata l'identità tra la
parte e il tutto: ma era una creazione artificiale, forzosa e forzata. Nella società
unidimensionale, parte e tutto coincidono nuovamente, ma è una coincidenza più
insidiosa, profonda, interiore, che nasce dall'assorbimento dell'io, dal sovvertimento dei
bisogni primari, dall'omologazione della coscienza e della ragione. Tutto ciò non
annulla però la questione, poiché sopravvivono le assunzioni fondamentali del pensiero
marcusiano:
a) al di là del problema del suo portatore storico, la trascendenza resta comunque per
Marcuse il senso della filosofia.
b) la conoscenza, riferita all'essenza concreta delle cose, è per Marcuse sempre opera di
una parte. E questo ad esempio faceva apparire anodina e implausibile l'idea
mannheimiana di un'Intellighentsia liberamente sospesa, super partes, una sorta di
illusorio conoscitore disincarnato14;
c) sebbene ad una parte - allora al proletariato - si riservasse un angolo visuale
privilegiato, ciò non significò mai per Marcuse - nemmeno negli anni '20 - che il
proletariato, per questo, fosse la verità, e che cioè dovesse darsi identità tra una parte e
il tutto;
d) infine, e conseguentemente, l'obsolescenza del c.d. punto di vista estraniato (alla
Lukacs) del proletariato, non poteva essere, sotto alcun profilo, né implicare,
l'obsolescenza della verità. In Marcuse non c'è una filosofia della storia capace di
trattenere sotto una potente astrazione la fissità dei destini del mondo; non è necessario
che il metodo storico e la storia, o come per Hegel la logica e l'ontologia, coincidano.
Sebbene culturalmente inscritta nelle vocazioni di hegeliani e marxisti, l'idea della
storia a disegno, della storia che tocca in qualche punto il suo definitivo apice, è in
Marcuse sostituita dalla contraria, operante convinzione che la storia è aperta, sebbene
vi sia, senza alcun precostituito disegno, un metodo in grado di seguirla. E' soprattutto
12
11 Il rovesciamento del senso della totalità nel totalitarismo, che ne annulla il significato
"dialettico", è particolarmente affrontato da Marcuse in Der Kampf gegen den Liberalismus in der
totalitaeren Staatsauffassung, in "Zeitschrift fuer Sozialforschung", vol. III, n. 2, 1934, pp. 161-94; ed. it.
La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in H. Marcuse, Cultura e società.
Saggi di teoria critica 1933-65, trad. di C. Ascheri, H. Ascheri Osterlow, F. Cerutti, Torino 19693, pp. 341.
13
Sebbene la liberale "privatizzazione della ratio" sia il presupposto dell'irrazionalità del tutto, e dunque il
totalitarismo abbia attecchito sui limiti del liberalismo, tuttavia esso non è semplicemente un naturale
svolgimento del liberalismo, bensì il suo capovolgimento: Marcuse sostiene che le condizioni ideali della
concorrenza del libero mercato tra soggetti privati in campo economico, corrispondono nel campo
gnoseologico alla libertà della ricerca della verità , e conclude che "tutte le tendenze da cui i postulati
politici del liberalismo (...) traggono la loro validità teorica, sono elementi di un vero razionalismo"
(Marcuse, La lotta contro il liberalismo, cit., p. 17). Si noti che per Marcuse in una collettività liberale, la
ricerca della verità si basa sul "libero gioco della domanda e della risposta, sul convincere e lasciarsi
convincere in forza di argomenti, quindi proprio sulle obiezioni e sulla critica provenienti dall'avversario"
(Ibid.).
14
Si veda K. Mannheim, Ideologia e utopia (1929), trad. di A. Santucci, Bologna 1974. La
discussione sull'ideologia, e attorno a Mannheim, coinvolge Marcuse, Horkeimer, Lukacs, e molti altri.
Non posso riproporre qui una ricostruzione dettagliata del dibattito, particolarmente ricco e notevolmente
complesso, che ho già a suo tempo compiuto, nel mio Ragione e immaginazione. Herbert Marcuse 192855, cit., sp. pp. 46-70, e alla quale devo qui rimandare.
4
per questa ragione di fondo, che Marcuse in verità non dà corpo a costrutti destinati a
crollare alla prima svolta, e le posizioni raggiunte dalla conoscenza possono dunque
cambiare. In questo senso, se anche un certo marxismo avesse perso la sua scommessa
d'infallibilità analitica, l'impianto "critico", marcusiano, non ne è per ciò stesso travolto.
Anche per questa via ci è possibile scoprire il significato che Marcuse attribuisce alla
verità. E nello stesso tempo, alla trascendenza. Cercherò di approfondire questo tema,
cui Marcuse è rimasto sempre fedele, sebbene alle volte solo tra le righe. Egli
rimproverava alla sociologia, anche a quella di Mannheim, di avere conseguenze
quietistiche, perché in grado di rispecchiare il carattere della realtà, senza esercitare su
di essa alcuna leva critica. Al contrario: con il linguaggio di allora, la condizionatezza
(storica) contiene un'incondizionata verità, l'incondizionatezza del valore, che può
scardinare i limiti in cui tende ad essere relativizzata. In primo luogo, la scienza della
totalità può fornire questo vantaggio critico, quello che in linea di principio fu il
vantaggio di implicare verità utili per l'azione. In secondo luogo, la verità ha un
importante contenuto etico: una società libera dal dominio, libera dall'angoscia
prometeica del principio di prestazione15, è ed ha un valore superiore e più alto rispetto
alla società presente; questa è una questione di principi, è un problema etico che
travalica la conoscenza ideologica da cui pure esso sorge. Emerge così quello che
chiamerei uno schema metodologico generale, rispetto al quale marxismo, dimensione
estetica, psicoanalisi, hegelismo, appaiono solo dei mezzi o meglio dei contenuti
operativi, ed espressivi. Dietro questo resoconto c'è un pensiero progettuale, un
pensiero "forte", che non teme i termini di un programma "massimo", e vede i limiti di
un moderatismo ambiguo. Ne deriva che il concetto di verità e di trascendenza mettono
in primo piano un evidente nucleo quasi escatologico, o palingenetico. Si tratta di un
atteggiamento della filosofia che oggi a molti non appare lecito, e che suscita diffusa
diffidenza. La condizione a noi contemporanea - che ci sembra così infinitamente
lontana dai dibattiti degli anni '20- '40, ma anche degli anni '60- '70 - ci ha posto
innanzi ad un universo in cui le verità appaiono plurali, e le prospettive conoscitive
tutte ugualmente legittime, proprio perché tutte ugualmente condizionate dalla propria
storia, dalle proprie ragioni, e da queste, da storia e ragioni, sostenute 16. Il pensiero
quasi escatologico di Marcuse rischia di sembrare dunque altrettanto
monodimensionale rispetto all'universo che avrebbe voluto superare: esso ci appare
come diretto oltre la mite coesistenza delle verità parziali di cui il nostro pluralismo si
alimenta. Ma è proprio nel confronto con questa fase della riflessione filosofica che il
pensiero marcusiano può essere più internamente spiegato. Anticipando il senso delle
mie conclusioni, si potrebbe dire che in Marcuse la verità è quel tanto di universale che
si esprime concretamente nella critica determinata delle condizioni di uno stadio storico
circoscritto e specifico. Essa si propone con un quantum di determinazione suscettibile
15
Questo contrasto tra principio di piacere e principio di prestazione, si trova interamente dispiegato
nell'opera forse più accattivante e incisiva di Marcuse, Eros e civiltà, trad. di L Bassi, Torino 1972 (rist.
della VI ed.) (ed. orig. Eros and Civilisation. A Philosophical Inquiry into Freud, Boston 1955, e 1966
con una nuova prefazione dell'autore).
16
La filosofia politica contemporanea ruota attorno a questo tema in modo permanente. Mi limito a
suggerire solo qualche lavoro, in una letteratura ormai amplissima, tra i più rappresentativi e recenti, J.
Rawls, Liberalismo politico, trad. di G. Rigamonti, Milano 1994, Ch. Taylor, Multiculturalismo. La
politica del riconoscimento, trad. di Gianni Rigamonti, Milano 1993; M. Walzer, Sulla tolleranza, trad. di
Rodolfo Rini, Bari 1998 (ma anche Id., Sfere di giustizia, trad. di Gianni Rigamonti, Milano 1987).
5
di modificarsi nella direzione che, all'interno di mutate circostanze storiche, appare
nuova proiezione dell'universalità. Il carattere storico e trascendente della conoscenza
della verità è forse il legato più stimolante per le nostre società democratiche, le quali
sono invece affette da una incontenibile crisi conoscitiva, e dalla relativizzazione della
maggior parte dei loro credo. Noi sperimentiamo l'impossibilità - destinata a crescere di ancorare a un qualche permanente, condiviso set di principio, le nostre decisioni.
Viviamo il razionale imbarazzo di confrontare ciò che è inconfrontabile, valori con
valori, verità con verità. Lo stesso pluralismo morale tende strutturalmente a una crisi
comunicativa dove non sembra essere superabile la vecchia Seinsverbundenheit del
pensiero, e questa si traduce ipso facto in titolo di legittimazione delle interpretazioni
del mondo. Ed è un titolo che in linea di principio non si può negare. In questa
condizione, nell'agenda di vita dell'uomo contemporaneo non può che mancare ogni
traccia di programma massimo: le istituzioni sociali si reggono altrimenti, si reggono
sul tacito accordo di evitare lo scontro, o presumere l'incontro17, tra le grandi linee di
principio, visto che è possibile negoziare, su ogni altro piano, accettabili mediazioni
pratiche. E' una società retta dal programma di non problematizzare il livello profondo
delle decisioni, e di favorire interazioni e condivisioni pragmatiche. Se si volesse
raggiungere un completo consenso teorico, dietro ogni accettabile soluzione pratica, il
cosiddetto pluralismo si rivelerebbe distruttivo o ne sarebbe esso stesso distrutto. Ad
esempio, si potrebbe dire che, dal punto di vista giuridico, l'autorità di cui le decisioni
normative oggi godono è inversamente proporzionale all'ampiezza o, se si vuole,
all'astrattezza della giustificazione che viene fornita per esse18. Ma - dovremmo
aggiungere- le società contemporanee hanno bisogno di un medium di comunicazione
interno, perché la pluralità delle posizioni etico-politiche le tradurrebbe in un universo
di monadi, pericoloso e autodistruttivo. Il concetto di trascendenza di Marcuse è a
questo riguardo estremamente produttivo, e va ben al di là del suo connotarsi di
qualche decennio fa. Naturalmente, è solo leggendo Marcuse come si legge un classico,
e non come si legge un contemporaneo, che noi scopriamo come quel medium possa
essere identificato nel concetto di trascendenza. A differenza che per Mannheim, per
Marcuse la "corrispondenza" del pensiero ideologico, la sua adeguatezza, non va
riferita allo stato di cose di cui esso è espressione, in quanto idoneo o meno a servire gli
interessi di un particolare gruppo sociale: in Marcuse, in termini un po' inconsueti,
l'adeguatezza del pensiero è riferita non a questo stato di cose, bensì alla capacità in
astratto di promuovere l'ingiustizia o la giustizia, la verità o il suo occultamento, e
ancora la felicità o la repressione. Il ruolo del pensiero è ricostruire l'insieme di quei
versanti della realtà che rimangono celati dietro il pensiero affermativo, positivo,
corrente. Il pensiero può conquistare angoli visuali eticamente produttivi, riconoscere
condizioni date di libertà e di dominio. Per questo, la relativizzazione storica
(diacronica) del pensiero non appare affatto un male in sé. Coerentemente, in Marcuse,
è ben più difficile trovare invece una relativizzazione comparativa (sincronica), ossia
riferita alle diverse scelte di principio sostenute contestualmente da prospettive culturali
e politiche differenti, e rassegnata alla loro equivalenza. La consapevolezza del
carattere determinato e condizionato, o prospettico, della conoscenza non ci assolve,
17
Come, in fondo, fa lo stesso Rawls, Liberalismo politico, cit.
Questo tema è articolatamente studiato in C. Sunstein, Legal Reasoning and Political Conflict,
New York-Oxford 1996.
18
6
infatti, quando non siamo in grado di discriminare e perdiamo la misura critica da cui
scaturiscono il controllo di giustizia e il controllo di felicità. C'è un legame tra
l'adozione di una posizione imperialistica e intollerante, da un lato, e la cecità teorica
dall'altro. Il medium di comunicazione che può porre in relazione interlocutori
differenti è la conoscenza della realtà, e la condivisione di una ricerca costante della
giustizia. Non c'è spazio qui per nessun integralismo etico, per nessuna fissità
metafisica.
C'era un paradosso nella scoperta della sociologia della conoscenza, ossia il
carattere ricorsivo e autoreferenziale dell'analisi dell'ideologia: noi impieghiamo mezzi
propri della conoscenza sociale per comprendere la conoscenza sociale stessa. Questa
ambivalenza e questo carattere riflessivo escono dal proprio avvitamento nella logica
marcusiana della ricerca della trascendenza, di quello che ho chiamato il controllo di
giustizia, il controllo della felicità. Certo, il nostro sguardo critico resta affetto da
unilateralità (più che da falsità), grazie al suo essere storicamente relativo. Ma poiché
misura gradi di giustizia e /o di felicità esso aspira a parametri indipendenti dalla
condizionatezza da cui muove, aspira cioè a superare la vischiosità di ciò che è solo
parzialmente vero. In Marcuse si trovano un metodo e una concezione della
trascendenza della giustizia e della felicità che superano questa impasse della
incomparabilità e unilateralità delle concezioni plurali del mondo19. Ciascun discorso
morale presuppone un qualche valore che deve darsi all'infinito come perennemente
non realizzato, o una qualche verità i cui contenuti storici sono solo un'approssimazione
necessaria verso di essa, che resta un ideale regolativo. E' estranea a Marcuse la visione
platonica, della Repubblica, dove idee fisse e di contenuto sovrastorico, trascendenti in
questo senso, possano essere elevate a metro di giudizio della realtà. A Marcuse
interessano la verità e la giustizia, ma si deve escludere sia che con queste egli
identifichi un contenuto trascendente specifico, una quantità, un corpus fermo, sia che
al contrario intenda solo un valore relativo e condizionato in modo storicamente
contingente. In realtà, egli non fa che riferirsi costantemente a un ideale indeterminato,
ma di volta in volta determinabile, che è ontologicamente presupposto nella natura dei
processi di conoscenza umana: ossia il fatto stesso che ogni discorso conoscitivo
presupponga una verità, i cui tratti non sono immediatamente materializzati; che ogni
discorso morale presupponga una giustizia, un'idea di bene i cui contenuti non sono
fissabili o dati una volta per tutte; il fatto che in ogni percorso storico l'umanità non
possa fare a meno di assumere, in qualche senso, una nozione di vero, di giusto, di
bene. Ma questa nozione è una sorta di facoltà trascendentale, più che un concetto
19
Non escluderei che alla luce del metodo e della concezione marcusiana della trascendenza possano
essere affrontati e forse ridimensionati i problemi teorici irrisolti che contrappongono ormai stabilmente
nella filosofia contemporanea, nel dibattito anglosassone, liberals e communitarians. Per questo dibattito,
cfr. la raccolta di saggi da Dworkin a Larmore, da MacIntyre a Taylor, Sandel, Waldron, ed altri, che
appare in Comunitarismo e liberalismo, a cura di Alessandro Ferrara, Roma 1992. Non è, del resto, un
caso che si debba a uno studioso formatosi sotto l'influenza della Scuola di Francoforte, come J.
Habermas (da ultimo con Fatti e norme, trad. di L. Ceppa, Milano 1996, ma anche nelle numerose
precedenti opere), il tentativo più imponente di coniugare, per usare l'espressione che ho qui adottato,
trascendenza e istituzioni, senza subire lo scacco e i limiti sia del neoaristotelismo sia di un astratto o
atomistico neocontrattualismo (quest'ultimo giudizio risale alla critica che Michael Sandel, I limiti della
giustizia, trad. di Savino D'Amico, Milano 1994, rivolge a John Rawls, Una teoria della giustizia, trad. di
Ugo Santini, Milano 1984).
7
determinato, è una capacità di verità, che il pensiero incorpora se è tale. Il pensiero
ragiona storicamente, ma si appella a valori trascendenti il cui status logico e
metodologico è costantemente quello dell'indeterminatezza. Il valore trascendente è
sempre realizzabile ma è costitutivamente inesauribile in una specifica articolazione
data. Questa idea di valore, nella sua trascendenza, è ciò che ogni cultura presuppone,
ogni discorso storico implica come un riferimento logico, e costituisce nello stesso
tempo il medium della comunicazione tra visioni diverse della sua concretizzazione.
Questa idea metodologica ha possibili applicazioni e conseguenze pratiche. Ad
esempio, siamo consapevoli che è un errore imporre la nostra concezione della giustizia
ad altre culture, o come è stato scritto, "applicare lo standard di giustizia dell'aggressore
alle vittime"; da ciò discende tuttavia che "applicare agli aggressori i principi normativi
propri delle vittime è egualmente un errore"20. Di fronte a questo esito disarmante, la
riflessione critica può essere ripresa solo se si apprezza adeguatamente il fatto che
ciascuna prospettiva circa la giustizia, la verità, il bene, argomenta la propria validità
facendo riferimento a giustizia e verità, che essa sostiene di realizzare meglio d'altri,
nozioni ideali usate come un presupposto comune, sebbene indeterminato. E' questo
status trascendentale21 dei valori di verità e di giustizia, che si dispiega costantemente
nelle scelte teoriche di Marcuse. E' in virtù dello stesso atteggiamento mentale che
acquistano valore filosofico la metapsicologia di Freud, o il discorso sulla felicità di
Eros e civiltà, o i Manoscritti economico-filosofici del 1844: in quest'ottica, essi
appaiono infatti come un meta-discorso rispetto alla psicanalisi, alla narrazione storica,
all'analisi dell'economia politica. Marcuse ha coniugato il pensiero critico da Hegel a
Marx a Freud con una continuità che dipende dalle peculiarità di un metodo; tale
metodo consiste nel carattere trascendentale dell'idea di trascendenza dei valori. Il nodo
del metodo e del discorso marcusiano è precisamente nella capacità di esercitare una
critica dei presupposti culturali e materiali interni alle nostre stesse forme di vita. Certo,
noi non possiamo trascendere la nostra forma di vita, alla Wittgenstein, ma in Marcuse
noi possiamo modificarla dall'interno, sfruttando il senso della sua inadeguatezza
all'idea - questa sì trascendente - di felicità, di verità, di giustizia. Modificare
dall'interno non significa affatto, come nel lessico usato venti e trent'anni fa, riferirsi
all'azione intra-sistemica piuttosto che extra-sistemica, o rinunciare a trasformazioni
qualitative; in questo caso, interno significa invece che solo come partecipanti,
privilegiati o meno, di una forma di vita, noi esistiamo, e che non ci sono posizioni
disincarnate, immuni da una specifica deiezione (alla Heidegger) storica. Ora, la
tensione che si instaura tra le istituzioni del presente e la "liberazione", tra il principio
di prestazione e il principio di piacere, tra la cultura affermativa e la funzione dell'arte,
tra la tecnologia, l'autorità e la libertà, è una tensione chiaramente metastorica, nel
senso che essa non sta nella terapia freudiana, ma nella metapsicologia freudiana, non
20
J. Balkin, Cultural Software. A Theory of Ideology, New Haven 1998, p.153.
"Trascendentale" non ha qui il senso solipsistico che aveva in Husserl o in Kant, e non riguarda
pertanto né il semplice "foro interno" né la singolarità della coscienza; semmai converte l'aspetto
deontologico kantiano in un rapporto nuovo con storia ed esperienza: trascendentale deve qui essere
inteso, a mio modo di vedere, come una relazione specifica e una facoltà che lega le qualità etiche e
conoscitive della mente agli aspetti strutturali delle relazioni sociali. Il senso dell'universalità si mantiene
nel discorso marcusiano proprio attraverso questo carattere trascendentale della riflessione critica, ed è
questo senso di universalità, questo status trascendentale dei valori a scongiurare un ripiegamento su
concezioni puramente neoaristoteliche.
21
8
sta direttamente nella storiografia ma nella critica della storiografia, non sta nello Stato
hegeliano ma nella dialettica e nella logica, infine non sta nell'economia capitalistica
ma nella critica dell'economia politica. Si potrebbe sostenere, di contro, che dunque con
Marcuse nihil novi sub coelo. La dialettica era in Hegel, la critica dell'economia
politica in Marx, la metapsicologia in Freud. Dov'è dunque il passo che porta Marcuse
oltre? Potremmo dire che il quid novi sta nello svuotamento dei valori di giustizia, di
libertà, di felicità, di verità, del loro contenuto imperialistico, nella capacità del metodo
di trascendere i prodotti critici da esso stesso articolati storicamente. Marx come
Marcuse muove da presupposti storici, si avvale di un'"astrazione determinata".
Tuttavia, il discorso marxiano stringe in unità metodo critico e mezzi materiali,
contingenti, di conoscenza e di azione: esso per esempio vale sinché e se vale la
posizione salvifica del proletariato. La dialettica hegeliana si rifiuta di diventare
oggetto di se stessa, perde di vista il proprio lato formale, ossia la propria trascendenza
istituzionale, si traduce in un contenuto storico determinato, trasforma il bene
nell'eticità, come definitiva, finale concretezza hic et nunc. Freud investe l'idea di
felicità di un'aura di impotenza, piegando alla terapia il fine dell'analisi. E' in Marcuse
che noi ritroviamo, come egli scriverebbe, il lato borghese della teoria rilanciato contro
i suoi stessi limiti. Marcuse tiene ferma la trascendenza. L'idea di trascendenza esiste
solo grazie alla imperfezione derivante dalla nostra posizione storica, all'impossibilità
di collocarci in una postazione puramente ideale grazie alla quale far cadere ogni scarto
tra l'ideale normativo e la sua realizzata olimpica pienezza. In fondo, la complessità di
queste tesi era apparsa allo stesso Marcuse, di fronte all'ambiguità della grande cultura
"borghese", alla quale il nostro secolo deve la promesse de bonheur, e dunque di
giustizia e di felicità. La cultura affermativa - egli scriveva - "ha portato (...) a fare del
mondo dell'anima e dello spirito un regno autonomo di valori, a staccarlo dalla civiltà
materiale per innalzarlo al di sopra di questa. Il suo tratto più caratteristico è
l'affermazione che c'è un mondo di valore superiore ed eternamente migliore, il quale è
impegnativo per tutti e va approvato incondizionatamente"22. Se Marcuse si fermasse a
questo punto, egli si arresterebbe sull'orizzonte della critica dell'ideologia, che era, in
fondo, visibile già da Marx. Ma per Marcuse la questione non è affatto conclusa qui.
L'immagine di felicità e di liberazione che la cultura astrattamente riproduce esprime
comunque un ideale di giustizia, nei termini di una parità ancora senza concretezza, di
una libertà ancora senza storia, che misura però l'inadeguatezza del presente della
civiltà materiale. E verso quest'ultima, esso si pone, alla fine, come una minaccia 23. E'
pur vero infatti che "c'è un frammento di beatitudine terrena nelle opere della grande
arte borghese, anche quando esse dipingono il cielo"24. Ma non si può capire la via
filosofica di Marcuse se non si coglie come la trascendenza Ma non si può capire la via
filosofica di Marcuse se non si coglie come la trascendenza dell'arte e della sua
immagine di felicità non rappresentino affatto per lui la presentazione di un modello di
armonia, di una verità contenutisticamente piena, di un progetto platonico da rivoltare
come tale sulle ingiustizie del presente. Di nuovo, Marcuse non eleva affatto la
22
H. Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura, in Cultura e società, cit., p 49 (Si tratta del
saggio Ueber den Affirmativen Charackter der Kultur, in "Zeitschrift fuer Sozialforschung, VI, 1937, pp.
54-94).
23
Ivi, p. 51.
24
Ivi, p. 73.
9
"perfezione" di quelle rappresentazioni della verità a obiettivo di una liberazione
attuale. Persino nella rappresentazione artistica nel bello, del vero e del giusto, i valori
mostrano un intimo e interno contrasto tra forma e contenuto. L'arte borghese è la
rappresentazione dissonante in contraddizione con la sua stessa realtà; essa è come per
Nietzsche l'arte greca, il trionfo del principium individuationis, un instabile e
temporaneo trionfo della forma. Ancora: quell'arte svela e maschera, ed è il limite di
ogni rappresentazione concreta, compresa quella artistica, di non essere ancora
alcunché di storico, di reale, di essere pertanto anche parzialmente ingannevole e
illusoria. Il vero e il giusto, la libertà e la felicità non hanno senso nell'arte come tale,
perché sono un problema degli uomini reali, un problema che trascende la mera
dimensione estetica. La bellezza è invereconda perché "mette in mostra ciò che non è
permesso promettere apertamente ed è negato ai più"25. La questione della trascendenza
istituzionale del valore non si comprenderebbe dunque se non si tenesse conto
dell'interno conflitto tra la promessa di felicità dell'arte o della cultura affermativa e il
loro mero carattere consolatorio. Il bello è rappresentazione del vero e del giusto, ma
non è mai se non un momento di storica articolazione di essi; vero e giusto trascendono
il bello borghese, che tuttavia funge da espressione concreta e storica di un'ispirazione
universale. Questa universalità è semplicemente l'impossibilità di dare al concetto di
verità e a quello di giustizia un contenuto definitivo. La fissità dell'arte nella cultura
affermativa è dovuta al fatto che l'opera d'arte è già una rappresentazione determinata,
sebbene essa sia una rappresentazione determinata dell'universale. Quel che può essere
raccolto e che va promosso non è affatto l'opera in sé, né la sua articolazione materiale
del vero e del giusto, bensì il fatto che tramite l'arte si esprima una tesi metaestetica: la
tesi secondo cui vero e giusto sono sì presupposti del bello, ma soprattutto sono i
presupposti della liberazione materiale e della felicità. La trascendenza del valore e il
suo carattere indeterminato sono dunque la chiave di ogni processo conoscitivo, la
ragione del suo dinamismo: ogni modello compiuto. determinato, di una società
perfetta, sarebbe destinato a subire le ingiurie del tempo, a trascinare nella propria
caducità anche il giusto e il vero di cui era sembrato definitivamente appropriarsi. Ogni
modello sovrastorico, d'altro canto, avrebbe il difetto di non potersi collocare nei limiti
della nostra condizionatezza storica. E' invece proprio il carattere indeterminato dei
valori la ragione profonda per cui vale la pena provare la trasformazione della realtà,
non rinunciare ad essa, progettarla in modi antidogmatici, perseguire un pervicace
rapporto con la nostra storia. Le nostre rappresentazioni della verità e della giustizia
sono un contingente padroneggiare attraverso la teoria elementi di intrinseca
universalità. La distanza che separa i contenuti peculiari delle nostre teorie morali, ad
esempio, non è che la proiezione sincronica di una diversità storica, gnoseologica,
etica: ma l'ambizione della filosofia è la capacità trascendentale del metodo, di
dominare il carattere relativo delle nostre rappresentazioni attribuendo ad esse il valore
che hanno quale rappresentazione dell'universale.
Così, chi ricolleghi in un solo testo l'intero percorso culturale marcusiano trova
quasi stilizzata la sua tendenza nel tempo a spostare il centro di osservazione
dell'universalità, man mano che la teoria si mostra non più adeguata come strumento
critico. E' per questo che Marcuse può trasferire il testimone della conoscenza dal
25
Ivi, p. 71.
10
proletariato urbano alle fasce minoritarie e marginali, che percepiscono ratione propria
l'ottusità del mondo di cui sono paradossalmente parte esclusa; come è per questo che
assegna al pensiero desiderante, all'arte, alla letteratura, alla psicoanalisi i compiti che
aveva attribuito al solo pensiero razionale, decenni prima26.
Quel testimone è un problema che naturalmente supera ogni biografia, anche quella di
Marcuse.
26
25 Se c'è un progetto "massimo", dunque, che scaturisce dalla lezione marcusiana, questo non era
e non è semplicemente un caduco programma politico, ma innanzitutto, un programma meta-filosofico.
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