INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE
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In tedesco vi sono due parole molto importanti: “existenzial” che corrisponde all’italiano
“esistenziale” ed “existenziell”, che corrisponde all’italiano “esistentivo”.
Come sostiene Hidegel, l’uomo è l’unico, tra tutti gli enti, che si interroga su sé stesso e
sugli altri enti.
Ad enti si attribuisce lo stesso significato del latino o del greco (lat. ens, entis, entia; gr. tò
òn = tutto ciò che è).
La peculiarità di porsi queste domande esistenziali si chiama carattere esistenziale
dell’uomo; porsi le domande e cercare le risposte significa fare della filosofia (“ Homo
naturaliter philosophus”).
La filosofia, ed in particolare il filosofo porta le domande ad un livello razionale e prova a
dare delle risposte: tante sono le risposte quante le correnti del pensiero filosofico.
La differenza tra perché filosofico e quello scientifico sta nel fatto che la scienza chiede il
come avvengono certi fenomeni, mentre la filosofia si chiede il perché del come, cioè il
perché del tutto.
Filosofia e scienza collaborano perché la scienza senza filosofia sarebbe tecnocrazia e la
filosofia senza scienza si ridurrebbe ad una dittatura ideologica od ad un astrattismo
assoluto.
Visto che l’uomo è per natura filosofo, filosofare serve a realizzare la propria umanità;
Eraclito diceva: “La sapienza appartiene agli dèi, non agli uomini”, dunque l’uomo ne può
essere solo amante (fiolòs-sofos). L’uomo può solo intravederla (teorèin) ma non potrà mai
possederla perché questo significherebbe essere dio; ma può fare dei passi in avanti: egli ha
soltanto un’adeguazione prospettica, conosce la Verità solo “ per speculum et in
aenigmate”.
Come sostiene Kant nella Critica Della Ragion Pratica si può imparare solo la storia della
filosofia, non a filosofare, ma attraverso la storia si impara a filosofare.
Che cos’è la verità?
Per millenni, l’esistenza umana, anche se non ne abbiamo testimonianza, è stata guidata dal
mìtos (in epoca anteriore al V secolo a.C.), parola che ha significato di “sentenza”, “annunzio”. Il
mito, in origine, era accompagnato dal sacrificio, cioè da un atto di offerta mediante il quale
l’uomo si propiziava gli dèi. L’intento del sacrificio è identificarsi con ciò che nel mito è la
Forza Suprema.
Tra il VII e il VI secolo a.C., i primi pensatori greci escono dal sacrificio, perché hanno
l’idea che ci possa essere un Sapere Innegabile, Incontrovertibile né dagli uomini, né dagli dèi.
In questo momento nasce la filosofia e gli uomini lasciano il mito per farsi guidare dal lògos. Per
esprimere il concetto di Sapere Incontrovertibile, l’uomo greco usa questi termini: sofìa, lògos,
alètheia, epistème. Sofìa ha lo stesso tema di safès, quindi significato affine (chiaro, manifesto,
evidente), “ciò che sta nella luce”. Alètheia (rad.Alethès = non nascosto) è ciò che è evidente,
incontrovertibile. La Verità quindi si impone all’intelligenza umana (epìstemi) e si manifesta nel
lògos: verità e ragione sono la stessa cosa. Ma qual è la Verità? Alètheia ed epìstemi sono il
manifestarsi del Tutto (tò òlon).Il Tutto non è una somma di parti, altrimenti sarebbe una
quantità indefinita e non infinita.
Il Tutto è il confine all’interno del quale tutti i confini sono oltrepassati e aldilà del
quale non vi è alcun confine da oltrepassare.
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Ma se la Verità è evidente come si spiega il concetto, che diverrà pirandelliano, del “così è
se vi pare”? Non bisogna confondere il contenuto con la forma. La struttura della Verità è
Incontrovertibile: è quella x che non si riesce a negare, è vero, cioè quel contenuto che non si
riesce a negare. Non c’è, infatti, contenuto che ammetta il suo contrario. Ma non vi è un
contenuto assoluto, perché per l’uomo ogni contenuto è un contenuto di fede.
Esiodo nella Teogonia afferma che “tutti gli dèi sono stati generati nel Caos”. Nel greco
classico caos significa “mescolanza”, “disordine”, “magma”. In contrapposizione a cosmo che
vuol dire “ordine”, “insieme ordinato delle cose uscite dal caos”.
Nel passato invece caos voleva dire “l’immensità dello spazio originario”, “l’apertura
immensa”. Tutto si genera in questo caos, che è la dimensione più vasta che il mito greco sia
riuscito a pensare, ma non è il Tutto perché gli manca il criterio in base al quale poter escludere
che qualche cosa si trovi al di fuori di esso. Còsmos, invece ha una radice indoeuropea, kens (da
cui in latino censeo = annunzio con autorità), cioè il tutto nel suo annunziarsi all’uomo si mostra
incontrovertibile, ovvero come Verità.
La vocazione alla Verità Incontrovertibile implica che ci si rivolga non al còsmos o al càos,
ma al Tutto. Solo ai confini del Tutto c’è la Verità; in una parte del Tutto è sempre possibile che
questa parte che si crede vera venga smentita dalla successiva conoscenza delle altre parti.
Solo conoscendo il Tutto si può dire qual è la Verità. Si richiede l’incontrovertibilità di
ogni parte del Tutto, considerando che un’affermazione è vera per ciò che dice, ed è falsa per ciò
che esclude.
Indefinito e infinito
Indefinito è il contrario di finito, delimitato; non viene mai dato tutto, è solo una parte a cui
se ne possono aggiungere altre: E’ una quantità.
Infinito è una qualità; è diverso dal finito, totalmente. Tracciando la fenomenologia della
realtà finita, le cose sono : estese, nel tempo, hanno una forma nello spazio, divengono, hanno
qualità diverse, hanno un peso, etc.
L’infinito non è questo, non ha nessuna di queste caratteristiche. Di esso non possiamo dire
ciò che è, possiamo dire solo ciò che non è, perché non ne abbiamo esperienza.
Si può parlare dell’infinito come un punto, che è un ente senza dimensioni. Questa
caratteristica si chiama coincidenza del massimo e del minimo. L’uomo nonostante sia finito, si
apre al concetto d’infinito. L’uomo è da-sein (ci-essere , che è un concetto superiore al semplice
esserci). Secondo Heideger, l’uomo si trova ad essere gettato nell’esistenza e mediante il dolore
se ne rende conto. Ma vi è gettato in vista di qualcosa.
Durante la vita si ha una gamma di possibilità, che vengono usate anche
inconsapevolmente, finché non si arriva all’ultima possibilità, ovvero la morte. Allora perché
vivere? Secondo la concezione greca e degli autori moderni più pessimisti (Schopenhauer, JeanPaul Sartre) la vita è un non-senso e siamo in un inferno per espiare la colpa di esserci staccati
dal Tutto. La morte è un ritorno al grembo divino.
Il primo non-contenuto
A = A è il principio d’identità
A<>A è il principio di non-contraddizione
Ogni ente, infatti, è identico a sé stesso; non è possibile che il medesimo elemento sia e al
tempo stesso non sia sé stesso e sotto il medesimo punto di vista. Questo principio è il massimo
dell’incontrovertibilità. Proviamo a negarlo:
se il principio è A <> -A allora A = - A.
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Per negare il principio di non contraddizione occorre usare il principio stesso. In sostanza :
se si vuole essere compresi bisogna che ogni termine detto abbia quel significato.
L’uomo e la verità
Parmenide afferma che : “l’essere è, e il non-essere non è; l’essere non è il non-essere”.
Questo è l’unico contenuto incontrovertibile della verità che noi possediamo. Il resto del nostro
sapere ha un diverso grado di certezza a seconda del grado di connessione con il contenuto
incontrovertibile dell’Essere.
L’uomo, non vivendo del solo contenuto dell’incontronvertibile , si trova in un’area
problematica. La sua conoscenza è un problema dal punto di vista della Verità. L’uomo è nella
problematicità, ma non potrebbe vivere se non potesse uscire dalla problematicità. Anche se non
sempre al livello teoretico, ma sempre al livello pratico, egli attribuisce valore di verità ad alcune
sue conoscenze che di fatto rimangono problematiche.
Attribuire valore veritativo a ciò che ha valore problematico significa essere nella Fede.
L’uomo, dunque, è nella Fede. Anche l’ateo che professa la concezione di non aver fede utilizza
la Fede.
I PRIMI PENSATORI GRECI
Di loro non abbiamo testimonianze dirette, ma la fonte più autorevole è Aristotele che scrive:
“La maggior parte di coloro che per primi filosofarono, ritennero che i principi di tutte le cose
fossero soltanto quelli di specie naturale. Essi chiamarono infatti stoichèion (elemento) e archè
(principio) delle cose, ciò da cui tutte le cose sono costituite, ciò da cui esse originariamente
derivano e ciò in cui esse si corrompono, in quanto è una sostanza che permane mentre le sue
affezioni vanno variando. Per questo motivo, ossia perché questa fùsis si conserva sempre, essi
ritennero che nulla si genera e nulla si distrugge.”
Il termine fùsis significa natura (la fisica è infatti lo studio della natura), l’insieme cioè delle
cose che divengono (lat. nascor). Al contrario si hanno le cose immutabili (studiate dalla
metafisica). Ma la natura non è il tutto, ne è solo una parte. Per i primi pensatori greci era invece il
Tutto.
Fùsis viene dalla radice indoeuropea bhu che vuol dire “essere”, imparentata con bha che
significa “luce”, “l’essere nel suo illuminarsi”. Questo Tutto non contiene ciò che racconta il mito,
ma, manifestandosi, mostra di contenere ogni cosa, ciò che il filosofo vuole comprendere. La
filosofia è allora lasciar apparire tutto ciò che è capace di rendersi manifesto.
I primi pensatori greci non si lasciano distrarre da nessuna delle cose della fùsis, ma vedono
che ogni cosa per quanto diversa dalle altre, ha in comune con tutte le altre di essere parte del Tutto.
Le cose, infatti, non sono solo diverse, ma sono anche identiche. Ognuna di esse è una parte del
Tutto e si manifesta all’uomo all’interno del Tutto. Ogni cosa, cioè, mostra un tratto identico che
come abitatrice del Tutto ha in comune con una cosa diversa (identità del diverso). Se così non
fosse non potrebbero manifestarsi come la totalità delle cose.
Eraclito afferma : “pànta èn”. L’uno è l’identità in cui restano unificate le loro differenze.
Le cose non sono invariate, perché il Tutto è un divenire. Le cose nascono e muoiono. Ma da
dove nascono e dove vanno a finire? Non possono provenire da un’altra dimensione perché
sarebbe al di fuori del Tutto. Possono solo venire dall’interno del Tutto. Cioè l’origine e la fine
sono all’interno del tutto. L’origine viene denominata archè, considerato come punto atomico, di
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energia, insomma l’unità del Tutto. E’ proprio dall’uno che provengono le differenze. L’uno è la
stessa identità del diverso. Il nascere è il formarsi delle differenze dall’uno.
Con questa concezione vi è l’identificazione di due concetti:
1. ciò che vi è di identico in ognuna delle cose (identità del diverso);
2. l’unità da cui tutto proviene e in cui tutto finisce (archè).
I filosofi di questo periodo tendono ad identificare ciò che vi è di identico nelle cose e ciò
da cui le cose sono costituite (stoichèion). Quindi:
identità del diverso = stoichèion = archè.
Alla base di questa concezione vi è un principio non confessato, cioè che niente si genera,
niente si distrugge, ma tutto si trasforma; in altre parole che “dal niente non nasce niente” (ex
nihilo nihil fit). Il Tutto è, così, divino, non generabile, non corruttibile, eterno. Il problema dei
primi filosofi greci è quello di stabilire in che cosa consista l’elemento unificatore del molteplice
(archè).
La scuola di Mileto
Talete è il primo dei filosofi ad affrontare questo problema; egli identifica l’archè con
l’acqua. Le motivazioni naturalistiche di questa soluzione sono che il nutrimento è umido,
oppure che dove c’è vita c’è acqua. Per quanto riguarda le reminiscenze mitiche, si potrebbe
osservare che per Omero l’autore di ogni generazione è Oceano.
Ma l’acqua di cui parla Talete non è l’acqua sensibile, in quanto l’acqua è uno degli
abitatori del tutto quindi non può essere l’archè. L’acqua di Talete è una metafora (un simbolo)
dell’elemento unificatore del molteplice, ma non è in grado di sopportare il peso di ciò che
rappresenta. Il problema di Talete è proprio quello di identificare l’elemento.
Questa è l’obiezione che gli viene mossa da Anassimandro, forse discepolo o addirittura
parente di Talete; egli afferma che qualsiasi elemento si assurga ad archè, si ha questo problema.
Occorre dunque che l’archè sia àpeiron (il senza limiti, illimitato), perché esso, in quanto tale,
non nasce, non muore, non invecchia. La generazione dell’universo è la generazione dei
contrari. Dunque l’àpeiron deve contenere ogni opposizione, deve essere l’originaria unità degli
opposti. Nell’eterno processo di generazione cosmica, il venire alla luce di uno dei contrari,
impedisce la generazione dell’altro contrario o ne provoca il dissolvimento. Quindi ogni cosa che
nasce ne porta altre al disfacimento, ma a sua volta verrà distrutta dalla nascita di altre cose.
Mentre nella dimensione eterna dell’àpeiron tutti i contrari coesistono, nella dimensione
temporale la nascita di ogni cosa è un’ingiustizia perché è una prevaricazione di un contrario su
un altro. Di questa ingiustizia la cosa nata pagherà il fio, perché verrà ricacciata
nell’indistinzione dell’àpeiron dalla nascita del suo contrario.
Questo in tutta la cultura occidentale persino in Sant’Agostino sarà determinante.
L’àpeiron contiene e unifica il processo di separazione delle cose; nascere non è uscire fuori
dall’àpeiron, ma solo dall’indistinzione dei contrari. L’àpeiron è l’unità suprema di tutte le cose,
ma è un concetto negativo. Ma in che cosa consiste, è predicato di quale soggetto?
Questa è l’obiezione mossa da Anassimene. Egli vede la necessità di ricercare la causa che
determina la trasformazione dell’archè in tutte le cose. Fino a quando l’archè viene intesa
soltanto come la materia che costituisce tutte le cose, non è possibile sapere quale sia il processo
di generazione cosmica. Secondo Anassimene la causa del trasformarsi dell’archè è la
condensazione e la rarefazione dell’aria. Come Talete prima di lui, Anassimene non considera
l’aria come un elemento sensibile particolare, ma come una metafora.
L’aria tutto avvolge come il soffio vitale ci sorregge. L’aria, incorporea, illimitata e vitale,
è la vita. Rarefacendosi origina il fuoco, condensandosi origina l’acqua e la terra. La mescolanza
di questi elementi origina tutte le cose. Riportando l’aria al soffio vitale Anassimene rende
esplicito ciò che vi era di implicito nelle affermazioni di Anassimandro.
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Questo governo àpeiron è un principio conoscente e vivo secondo Eraclito. Egli nacque ad
Efeso tra il VI-V secolo a.C. Eraclito non solo pensa all’identità del diverso, ma riflette
sull’identità degli opposti “Pànta èn” (tutte le cose sono uno), le cose si raccolgono in una
suprema unità. Tale identità non può essere una cosa limitata, deve essere àpeiron, ma non può
essere l’aria perché è una delle cose. Le cose opposte e diverse hanno di identico il fatto di essere
diverse e di essere opposte, il loro differenziarsi reciprocamente. Una cosa si genera
diversificandosi, rimane in essere finchè si diversifica dalle altre.
L’opposizione e ciò in cui ogni cosa consiste e da cui ogni cosa è generata (pòlemos).
La discordanza (pòlemos) è il principio di armonia di tutte le cose. L’identità del diverso è
il non essere altre cose, l’essere diverso. Il non essere altro da sé è l’àpeiron. Eraclito mette in
luce che ogni cosa può essere quello che è soltanto in quanto è legata alle altre in rapporto di
opposizione che spegne la prevaricazione: “ dichè pòlemos estì”. Nella guerra universale rimane
negata la tracotanza della singola cosa. Anche per Eraclito la fùsis = stoichèion = archè.
L’identità degli opposti è il luogo degli opposti uniti; cioè la legge delle cose è il contenuto della
suprema sapienza di Dio dalla quale procede ed è governato il divenire delle cose. Il Divenire è il
legame che unisce le cose. Nel Divenire tanto il contrasto delle cose che l’unità degli opposti si
manifesta nel modo più evidente, ogni cosa diventa il suo contrario cioè si identifica con esso.
Non può scomparire perché per il greco il nulla non esiste.
Nel Divenire l’Armonia nascosta si manifesta. Il còsmos è quindi il fuoco eternamente
vivo. Il fuoco di Eraclito è quel fuoco che gli scienziati moderni indicano quando la terra si era
appena formata dopo il Big Bang. L’opposizione delle cose, però, non è, per Eraclito, lo
stoichèion, cioè l’elemento, di cui le cose sono fatte, è la loro legge, il loro ordinamento. Lo
stoichèion è il fuoco, la materia da cui provengono le cose, di cui sono fatte ed a cui fanno
ritorno, ma la costituzione, cioè il processo di formazione è pòlemos.
Eraclito rende poi esplicita la contrapposizione tra la filosofia e i comune modo di pensare
della gente. La legge del Tutto è un Lògos eterno che si offre all’ascolto di tutti gli uomini, ma
purtroppo i più non lo sanno ascoltare. Questi vivono come in sogno, separati dalla divina legge
del Tutto, cioè regolano la loro vita secondo non la Verità ma secondo la loro dòxa. Le opinioni
sono trastulli di bimbi che nel loro sogno non capiscono che la pòlemos è armonia.
La scuola pitagorica
Anche i Pitagorici riflettono sull’archè, ma la loro riflessione si pone ad un altro livello. I
Pitagorici vedono che le cose sono costituite da un duplice elemento: la materia illimitata e un
qualcosa che dà una figura e una forma limitante alla materia. I Pitagorici rivolgono la loro
attenzione al tò pèras non allo stoichèion, ma alla sua forma primordiale (tò pèras appunto) che
fa in modo di formare le cose. Essi notarono che in musica vi è una proporzione tra l’acutezza
dei suoni e la lunghezza dello strumento. Dopo aver osservato lo stesso principio in fenomeni
fisici e astrologici, generalizzarono affermando quanto segue:
Tutto ciò che è, dipende dalla proporzione e dalla corrispondenza degli elementi che lo
costituiscono.
Questa proporzione essendo misurabile e numerabile li portò a teorizzare che il principio
della realtà fosse l’aritmòn (il numero). Da questa concezione dipende l’ontologia, ma anche la
gnoseologia (teoria sulla conoscenza) pitagorica: cioè che niente che sia illimitato è conoscibile
dall’uomo. Il numero viene concepito come egualizzazione del diseguale. L’ontologia pitagorica
consiste nel concepire l’aritmetica come regina delle scienze, persino superiore alla geometria.
Considerarono tre campi dell’aritmetica:
1. l’aritmetica come scienza del numero in sé stesso cioè l’essenza e le proprietà del
numero;
2. l’aritmetica come scienza applicata ai diversi settori della realtà;
3. l’aritmetica come scienza applicata alle realtà spirituali e morali:
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 teologia
 psicologia
 etica
 mistica, intesa come cammino dell’uomo verso Dio.
L’aritmetica come scienza del numero in sé stesso
Il numero è quel vincolo predominante e non creato della durata eterna di questo mondo.
La dottrina pitagorica è misterica, intesa come:
1. esoterica, ovvero riservata solo agli iniziati;
2. oscura, in quanto si hanno pochissimi frammenti e per altro nulla di Pitagora.
“Mòvas archè oùsa pànton” (il principio di tutte le cose è l’uno).L’uno ha le proprietà sia
dei pari che dei dispari, i quali si originano nell’uno. “ògaman àritmos èchei dùomen idìa èide”
(il numero uno ha due forme speciali). E’ infatti pari e dispari cioè artiopèrittos. Infatti
dall’addizione 1+1=2 si ha il primo numero pari; 1+2=3 il primo numero dispari. La struttura
fondamentale di ogni cosa è la duade. Niente può essere puro àpeiron perché è senza limite,
quindi senza forma e nulla senza forma ha esistenza. Non può essere puro peràinon (limitante)
perché ciò che limita richiede ciò che limitato. Ogni cosa deve essere al tempo stesso illimitata e
limitante; una struttura binaria, un elemento cioè illimitato e limitabile, e un elemento limitante.
Poiché gli elementi non sono illimitati nello stesso modo e neanche limitanti, i pitagorici
stabilirono un tavola di categorie in cui si dividono gli elementi:
 limitato e illimitato (ontologia);
 pari e dispari (aritmetica)
 uno e molteplice (ontologia);
 destro e sinistro (fisica);
 maschile e femminile (antropologia);
 fermo e in movimento (fisica);
 retto e curvo (geometria);
 luce e buio (fisica);
 bene e male (etica);
 quadrato e oblungo (geometria).
Il tre (la triade): in fondo ad ogni cosa vi è una struttura trina. Ione Chiense sostiene: “Mi
sembra che all’inizio di tutto il sapere, tutte le cose siano tre e nulla di più né di meno di queste tre
cose:
1. principio;
2. termine medio;
3. fine.
Per gli uomini la virtù è:
1. intelletto;
2. fortezza;
3. felicità.
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PARMENIDE
Secondo Parmenide l’affermazione dell’essere è affermabile soltanto nell’orizzonte dialettico
della negazione dell’identità con il suo opposto. La consistenza di questo punto di partenza è
ribadita attraverso l’esclusione delle sue alternative:
1. assumere come punto di partenza l’affermazione del non-essere; ma Parmenide stesso
afferma che: “non è e bisogna che non sia non-essere”. Dice quindi che è una strada
impraticabile perché non vi è alcun contenuto esplorabile. Il valore di questa
affermazione, perciò, si annulla in virtù dello stesso significato che assume.
2. assumere come punto di partenza l’affermazione del non-essere uguale e allo stesso tempo
diverso dall’essere, è una questione totalmente illogica.
Escluse queste due alternative, non rimane che l’affermazione dell’essere, come atto stesso di
non essere il nulla, quindi non un concetto statico, ma dinamico, attuale.
Questa è la posizione non contraddittoria di un significato auto-contraddittorio, che
manifesta la contraddittorietà di porre: è = nulla.
Parmenide continua elencando le “notizie” che si possono scorgere dall’essere:
 non si muove;
 non ha divenire;
 non ha passato o futuro, è eterno;
 abbraccia la totalità;
 è ingenerato e imperituro.
ZENONE DI ELEA
Nel V secolo a.C. fu discepolo di Parmenide. Egli difende la dottrina del maestro che veniva
attaccata per la negazione della molteplicità e la negazione del divenire. Zenone mira a mostrare che
chi afferma l’esistenza del divenire e della molteplicità è costretto a negare ciò che egli stesso
intende sostenere.
MOLTEPLICITA’
L’aspetto più manifesto è, secondo gli avversari di Parmenide, la grandezza spaziale della
realtà sensibile; ci sono infatti tante grandezze che occupano uno spazio diverso. Zenone sostiene
che ogni cosa che ha grandezza è divisibile in parti, ma esse sono delle grandezze quindi sono
ancora divisibili in parti. Il processo di divisione va all’infinito. Qualsiasi divisione di una
grandezza dà per definizione delle grandezze ed esse sono per definizione divisibili. La divisione
delle grandezze. La divisione delle grandezze significa che il divisore non ha alcuna grandezza. La
grandezza non è costituita da alcunchè, perciò la sua esistenza è impossibile.
DIVENIRE
Zenone afferma che se un corpo si muove dal punto A al punto B dovrà raggiungere prima il
punto medio M e prima ancora il punto medio tra A e M, e così via. Lo spostamento del corpo è
impossibile perché il corpo dovrebbe giungere all’infinito. In realtà Zenone confonde l’infinito con
l’indefinito: una grandezza si divide per indefinite e non infinite volte.
Con Parmenide la filosofia subisce una svolta. Prima la Verità è il manifestarsi della fùsis
(intesa come archè, stoichèion).Parmenide le ha dato il significato vero: la fùsis è l’essere che si
manifesta nel suo sforza di non essere il nulla. Parmenide non risolve il problema dall’archè, ma
elimina i termini stessi del problema, negando che tale problema esista.
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EMPEDOCLE
Egli accetta il principio che non si nasce e non si muore, ma mentre in Parmenide vi era
l’assoluta immobilità, Empedocle sostiene che nel divenire cosmico – la cui esistenza è manifesta
innegabilmente alla nostra sensibilità – gli enti che nascono e muoiono provengono dall’unità
originaria dell’essere e lì vanno a finire, non nel nulla.
Egli afferma l’eternità dell’essere, sia la realtà che il divenire delle cose. Secondo
Empedocle l’unita dell’essere è la pluralità di elementi originari che trasformandosi, componendosi
e separandosi, costituiscono le cose della nostra esperienza. Così il divenire è reale, ma perché è
accidentale, estrinseco rispetto agli elementi originari dell’essere, chiamati semi delle cose:
1. terra;
2. aria;
3. acqua;
4. fuoco.
La forza che li tiene uniti è la filìa, la forza che li separa è pòlemos. La nascita e la morte, pur
non essendo illusorie, sono mescolanza e separazione degli elementi in un ciclo eterno.
Egli esplicitò il tema che nel divenire cosmico, non solo gli enti non nascono dal nulla, ma il
loro divenire non può essere determinato dal niente, ma da una forza. Questo tentativo indica il
verso in cui si muove la conciliazione della verità della ragione e quella dell’esperienza, ma
Empedocle non raggiunge l’intento. La mescolanza e la separazione danno luogo ad una continua
separazione.
Melisso, discepolo di Parmenide, obietta che se non si vuole che l’esperienza del divenire e
della trasformazione degli elementi non sia illusoria, è, allora, impossibile che questi elementi siano
elementi dell’essere e che siano eterni, perché se lo fossero non potremmo percepirne la
trasformazione. Se le radici entrano nella costituzione dell’universo esse non sono gli unici fattori
costitutivi delle cose. Ogni cosa possiede una propria qualità, grazie alla quale si distingue dalle
altre.
ANASSAGORA
Egli conclude che non è possibile affermare che soltanto le quattro radici di Empedocle siano
l’essere. L’essere è l’insieme di tutte le qualità e le determinazioni che formano l’universo. L’essere
non è niente. Per questo non solo le quattro radici, ma tutte le cose devono preesistere nell’unità
originaria. Poiché un ente può diventare un qualsiasi altro ente (la vita ad esempio diventa morte) è
necessario dire che: poiché ex nihilo nihil fit in ogni ente vi è tutto ciò che esso può diventare,
ovvero tutto.
Anassagora tiene conto anche della critica di Zenone al molteplice: c’è sempre qualcosa di più
piccolo del divisore ottenuto. Queste particelle sono chiamate omeomerìe (òmos = uguale, mèros =
parte) e non sono percepibili. L’essere è l’insieme delle omeomerìe di ogni cosa. La nascita è il
raccogliersi delle omeomerìe. Quando queste diventano prevalenti in una certa regione spaziale, si
forma una determinata cosa e le omeomerìe si rendono manifeste. La morte invece è il disgregarsi
dell’unità e le omeomerìe ritornano invisibili.
I fenomeni sono la visione delle cose nascosta. Se i fenomeni costituiscono il divenire
cosmico, la nascita e la morte richiedono un’attività discriminante e disvelante che avendo
conoscenza e dominio di tutto, ha la potenza di raccogliere e disperdere le omeomerìe. Tale potenza
viene chiamata nùs, l’intelletto dell’ente che non ha mescolanza. Così mentre Empedocle pone due
forze discordi, Anassagora pone una mente non cieca come principio.
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GLI ATOMISTI
Sono collegati ad Anassagora. Democrito di Abdera (V-IV secolo a.C.) ne fu un esponente.
Egli vede che l’esperienza non può essere negata. Le cose infatti sono molteplici e divengono. I
fenomeni, secondo lui, sono il fondamento e la totalità della nostra conoscenza. Ma il molteplice
implica l'esistenza del non-essere. Democrito unendo esperienza e ragione, conclude che il nonessere è, proprio perché l’esistenza del non-essere è una conseguenza del molteplice.
Gli Atomisti con questo intendevano l’essere come il pieno, ciò che è esteso; il non-essere è
invece il vuoto, la pura estensione non riempita. Il vuoto divide la compattezza del pieno in una
molteplicità di parti, è ciò che rende possibile il molteplice. Il criterio di esistenza dei fenomeni è la
differenza tra gli aspetti qualitativi e quelli quantitativi.
Le qualità sono incerte, variabili, opinabili; le quantità sono chiare, sicure, indiscutibili. Perciò
la Verità è la quantità, non la qualità. L’essere, così, sarà la quantità, il pieno; il non-essere (cioè
la non-Verità) è il vuoto. Attraverso il ragionamento si giunge ad affermare l’esistenza di parti non
divisibili, ovvero gli atomi, parti non estese che costituiscono l’essere. Ogni atomo possiede le
caratteristiche dell’essere e l’esistenza del vuoto permette il suo differenziarsi dagli altri atomi. E si
differenzia per la sua grandezza, la sua posizione, la sua figura, il suo rapporto ,con gli altri atomi. I
fenomeni sono aggregati di atomi, il loro differenziarsi è possibile grazie alle infinite possibilità di
combinazione.
L’affermazione degli Atomisti del non-essere, fa affermare anche il divenire. Gli atomi si
muovono nel vuoto e incontrandosi danno origine alle aggregazioni. L’atomismo tiene fermo il
principio parmenideo che nulla si genera da nulla. Il passo avanti che compiono è dire che non
esiste altro essere all’infuori di quello che riempie lo spazio. Superano l’antinomia tra ragione ed
esperienza dicendo che l’essere è materia: la novità è proprio la concezione materialistica.
Empedocle ed Anassagora pongono una causa al divenire. Gli Atomisti affermano che la
variazione dello stato degli atomi non ha altra causa che quella di essere urtati da altri atomi: non
c’è uno scopo per tutto questo. E’ il risultato di uno scontro casuale tra gli atomi che si muovono.
Gli Atomisti latini (gli epicurei) hanno la stessa concezione dei greci. I greci però
concepiscono un movimento caotico, mentre i latini un movimento perpendicolare rispetto ad un
piano posto all’infinito, parallelo ad un altro atomo. Per una causa accidentale, una deviazione
(clinamen) avviene l’incontro fra gli atomi. I latini concepiscono il moto come moto rettilineo
perché è il moto perfetto.
Affermare che il non-essere = essere significa abbandonare un’affermazione fondamentale
della ragione proprio mentre si cerca di conciliare ragione ed esperienza.
I SOFISTI
L’antinomia e le possibili soluzioni, proprio perché trasferiscono l’antitesi dal piano del
rapporto ragione ed esperienza al piano interno della ragione (atomisti), porta in primo piano la
domanda: ma l’uomo può conoscere la Verità?
Con i sofisti, il pensiero filosofico si concentra sull’uomo che conosce e sul valore della sua
conoscenza. L’uomo può conoscere la Verità se c’è un dissidio (l’esperienza contro la ragione;
diventa ragione contro ragione).
Dicono che il dissidio è nella conoscenza perché è nelle cose.
Anassagora afferma l’opposizione è interno alle singole cose. Democrito concepisce l’essere
come non essere (l’unità di pieno e di vuoto). La stessa conoscenza delle realtà è in contrasto con sé
stessa non potrà mai diventare Verità.
L’essere si manifesta solo nelle discordanze di opinione. Con i sofisti praticano l’autocritica
del sapere filosofico.
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La filosofia è il luogo all’interno del quale può sussistere ogni critica al sapere stesso. Il
tema che diventerà il motivo dominante dell’occidente. L’abbandono della Verità per ottenere
potenza sulle cose. Il lògos viene sostituito dall’arte oratoria, la tecnica del linguaggio, che
trasforma le opinioni degli uomini, si può determinare nel corso della vita verso ciò che il tecnico
decide sia giusto. Non c’è più rispetto della Verità, ma solo il successo della propria opinione.
Secondo Protagora ogni attività conoscitiva è un’attività antitetica: nessuna conoscenza umana ha in
sé la verità. La verità è l’esperienza di ciascun uomo, l’insieme dei fenomeni che si manifestano ad
ognuno. Affinchè delle cose che sono, si possa a fermare che sono (ciò è la verità) ci si deve
attenere a quell’unico metròn che è il singolo uomo, perché l’uomo è il luogo in cui le cose si
manifestano.
Non è la ragione ma l’esperienza a stabilire di che cosa si debba affermare l’essere e di che
cosa vada affermato il non-essere (questa è una posizione estremamente moderna). I sofisti
contrappongono ragione ed esperienza (e questa posizione verrà superata dalla filosofia successiva),
ma è pur valida ancora oggi la loro concezione dell’uomo. Le cose si possono affermare o non
affermare solo perché si manifestano nell’uomo.
Gli uomini differiscono, perché differiscono gli insiemi di fenomeni che appaiono ad ognuno.
Il sofista non è più un privilegiato, ma è colui che ha la capacità di portare gli uomini da uno stadio
ritenuto inferiore ad un altro ritenuto superiore. Protagora riassume così il suo pensiero: “L’uomo è
la misura di tutte le cose”.
Lo studio classico si muove nella direzione di conoscere le cose in sé, lo studio moderno,
invece, è affermare che le cose come sono in sé non ci sono note: il problema quindi non sussiste,
perché quando l’uomo vuole conoscerle, le cose non sono più in sé, ma in relazione al soggetto
conoscente; in altre parole io posso conoscere le cose solo in rapporto alla mia attività
conoscitiva.
GORGIA DA LEONTINI
I tròpi (traslati) di Gorgia:
1. Non esiste nulla. L’antitesi tra ragione ed esperienza è insuperabile.
Dal punto di vista della ragione, le cose non sono molteplici e divenienti. Dal punto di vista
dell’esperienza l’essere uno e immutabile non è. Il tentativo degli atomisti di porre l’essere come
essere spaziale è come affermare che esiste sia l’essere che il non-essere, i quali si annullano
reciprocamente, quindi nulla esiste.
2. Quand’anche qualcosa esistesse, sarebbe inconoscibile.
Ciò perché se due fenomeni sono eterogenei (il che è vero) uno dei due non può diventare il
criterio di conoscenza dell’altro. Sulla base della ragione non si può giudicare la verità o la falsità
dell’esperienza e viceversa. Si condanna dunque sia Parmenide che giudicava l’esperienza con la
ragione, sia gli atomisti che giudicavano la ragione con l’esperienza.
3. Quand’anche qualcosa fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile.
Anche se la Verità esiste, non può essere comunicata, perché il linguaggio è eterogeneo rispetto alle
cose di cui si parla. Quando parliamo, cioè, manifestiamo agli altri non ciò di cui parliamo, ma solo
le nostre parole. Ogni uomo si trova in condizioni fisiche e mentali diverse da un altro, perciò non è
possibile che un pensiero in sé rimanga identico quando da uno viene comunicato all’altro. Quindi
le cose appaiono diverse a individui diversi; e lo stesso individuo ha diverse opinioni sulle stesse
cose (solipsismo gorgiano = non poter comunicare).
La sofistica ha mostrato il vanificarsi della Verità, così ogni decisione umana è arbitraria e il
sapiente è il pensatore che sa far scegliere ciò che sembra più opportuno; non ciò che sia Bene o
Giusto, ma l’opportunità della scelta, in mancanza di un criterio di Verità è determinata soltanto
dagli istinti e dalla forza. Così la vita diventa affermazione dei propri istinti e delle proprie forze e
poiché non tutti gli uomini lo sono “la giustizia è il dominio dei forti sui deboli” (Trasimaco).
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SOCRATE
Socrate è l’antisofista per eccellenza: povero, ma circondato di discepoli.
Quando afferma di non sapere, non è un atto di modestia, ma è la consapevolezza del fatto che
intorno a lui non c’è nulla che gli consenta di sapere (leggi, istituzioni, usi, dottrine filosofiche).
Poiché il sapere è una conoscenza incrollabile, ferma, essa è la Verità, mentre tutte le conoscenze e
le regole, una volta esaminate, si rivelano infondate e contraddittorie.
La critica di Socrate alla società è più radicale di quella degli atomisti: la sua condanna a
morte è una difesa della società che si sente minacciata. Egli sa cosa sia quella Verità di cui rileva
l’essenza: è l’incontrovertibilità, ma il tutto non ha questo carattere. A Socrate è presente l’idea di
Verità ma non la Verità stessa. Egli sa di non possedere la Verità. Sapere di non sapere, non
significa solo aver presente l’idea di Verità, ma anche essere nella Verità. La Verità coincide con la
critica e il rifiuto di tutto ciò che si va scoprendo privo di Verità. La Verità povera si dispone a
diventare ricca, perché coincide con la ricerca di quel vero sapere che si sa di non possedere.
Socrate vive intensamente la sua vita, vita di fede nella Verità che ricerca. La sua fede sta nel
sostenere che la Verità esiste anche se l’uomo non la possiede. Essere nella Verità è essere nella
fede.
Dunque riassumendo: si ha presente l’idea di Verità, ma si è alla ricerca della Verità non
si trova, ma che si ha Fede di poter raggiungere (I paradosso socratico). Il paradosso è apparente
perché, di fatto, non si saprebbe cercare se non vi fosse speranza di trovare. Socrate ha fede proprio
perché spera di raggiungere l’incontrovertibile (“ Fé sustanzia di cose sperate e argomento delle non
parventi” Dante).
Platone nell’Apologia parla di un demone interiore a Socrate. Questa voce e questa Verità
implicita in cui Socrate crede volontariamente: infatti se conoscesse la Verità non ne avrebbe
bisogno. Proprio perché non la conosce ha bisogno di un riflesso di questa Verità nella sua
coscienza.
Una persona che conosce il Bene non può non farlo; quindi chi fa il Male non lo fa mai
volontariamente, ma sempre involontariamente, a causa dell’ignoranza (II paradosso
socratico).
Corollario contraddittorio:
Patone nell’Ippia Minore, si domanda se sia più riprovevole Ulisse il quale pecca usando
l’ingegno o Achille trasportato dalla passione. Socrate afferma che pecca di più Achille perché
segue l’impulso analogamente agli animali, mentre Ulisse usa l’intelligenza. Socrate nega la
debolezza della volontà: il Male deriva solo dalla non conoscenza.
Socrate non ha fatto altro che educare, indurre gli uomini a riconoscere la loro colpevolezza
ed a migliorarsi (gnòti seautòn); ci si migliora ricercando continuamente la Verità.
IRONIA
Socrate si pone sullo stesso piano dell’interlocutore, e gli pone una domanda banale, ma
profonda, chiedendo una definizione incontrovertibile anche delle cose più comuni. L’interlocutore
dopo una prima risposta decisamente superficiale, cade nella rete dell’ironia. L’interlocutore è così
costretto a riconoscere di non sapere, di usare parole dietro alle quali non c’è alcun concetto
(concetto: lat. conceptum, gr. sullabàuo = prendere insieme i dati comuni di concetti estraendoli da
quelli non comuni per arrivare all’incontrovertibile). Sapere è dunque possedere la definizione
incontrovertibile.
Convincere gli uomini della loro ignoranza è il primo passo per educarli alla Verità. La
scoperta del sapere concettuale e la professione d'ignoranza sono due termini dello stesso processo.
Gli uomini non sono capaci di produrre delle definizioni, che per natura devono essere
incontrovertibili, ma invece esprimono delle opinioni sulle quali si può posare l’ironia. Il primo
passo dunque consiste nello sgomberare la mente dalle opinioni. Il secondo passo è la ricerca in
comune attraverso il dialogo. La ricerca socratica non è una ricerca nel buio, ma è garantita dalla
fede nell’uomo che non può non trovare. Questa fede è congiunta con la fede che la Verità non può
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non essere. L’impegno è allora di misurare con questo metro tutto ciò che si afferma per arrivare
alla Verità.
MAIEUTICA
LA maieutica è l’arte della levatrice. Socrate vuole aiutare la Verità a venire fuori da ogni
uomo, perché essa è dentro l’uomo, solo che lui non ne è a conoscenza. Non possiede i concetti già
formati. La Verità trova nell’animo dell’uomo le sue condizioni. La maieutica è coestensiva al
domandare ed all’ironia.
L’ironia e la maieutica hanno un fine pratico: quello di educare i concittadini alla coerenza
davanti ai veri valori. Socrate non è uno speculativo, un teoretico, è un moralista. Il suo messaggio
può essere espresso come rinuncia all’esercizio estrinseco dell’autorità. L’autorità si conquista
toccando la parte più nascosta della coscienza dell’uomo, svegliandola e ponendola in una crisi
salutare. Ciò presuppone grande rispetto per l’uomo e fede nel Bene che si fa luce da sé. L’opera di
Socrate è di stimolare la ricerca: Socrate stesso cerca sinceramente. La salvezza è dunque la
conoscenza della Verità e la sua ricerca.
La scuola cirenaica
Secondo Aristippo il concetto è sempre un concetto di oggetti sensibili, perciò si deve
attribuire all’esperienza il carattere di criterio di Verità. Perciò per sapere cosa sia il Bene si deve
conoscere quanto piacere e quanto dolore futuri siano connessi al dolore e al piacere presenti. Ciò
perché avendo eretto a criterio di Verità l’esperienza, il Bene coincide col piacere. La vita umana
deve dunque essere regolata in moda che l’uomo possa diventare il padrone del proprio piacere,
l’artefice dalla propria felicità. Questo è possibile solo se si rende indipendente da tutto quello che
la società ritiene Bene (ricchezza, fama, potere, piacere), perché queste non sono altro che
convenzioni sociali che preoccupano l’uomo e che lo rendono desideroso di possederle, ma che non
gli danno felicità.
La scuola cinica
Diogene è il simbolo del rifiuto più radicale della società in cui vive. Egli trova le condizioni
sotto cui giace l’uomo, non l’uomo stesso. Presso i cinici, il rifiuto della società non corrisponde al
trasformarla, ma al tentativo di vivere al di fuori di essa una vita naturale ed autosufficiente.
La scuola megarica
I megarici pongono come criterio di Verità la Ragione parmenidea (la negazione del
molteplice). L’uno è il Bene, il molteplice è il Male. L’autosufficienza che garantisce il possesso del
Bene è il riferimento dell’uomo all’Uno e la società come molteplicità viene rifiutata in quanto
Male.
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PLATONE
Platone è un solo uomo vissuto ad Atene, ma in realtà sono due perché su di lui ci sono due
fonti: i dialoghi platonici di lui stesso e suddivisi dal grammatico Trasillo in nove tetralogie in base
al contenuto; oggi le si raggruppano in quattro sezioni: scritti giovanili, di trapasso, della maturità,
della vecchiaia. Ha inoltre scritto quattro dialoghi: il Parmenide, il sofista, la politica, il filemo e
questi sono detti dialoghi dialettici.
L’altra fonte, quella a cui ci atterremo, sono le testimonianze indirette.
Platine nel Fedro dice (274B-275D): “il dio Teut fa delle scoperte e le presenta al re Tanus
(Aritmetica, Geometria, Astronomia e Scrittura). Per illustrare l’importanza della scrittura Teut dice
: la scrittura renderà gli egiziani più sapienti e li farà ricordare di più. Tanus risponde: la Scrittura
più che la verità e più che la Sapienza è in grado di produrre l’apparenza della verità, l’opinione,
poiché con essa viene meno l’insegnamento che rimane una prerogativa dell’oralità.
Il lettore crede di diventare conoscitore di molte cose, ma in realtà egli accoglie queste cose
come mera opinione. Il vero strumento di conoscenza è la parola del maestro. La Scrittura quindi
non crea dei sofòi, ma solo dei dossosofòi. Lo scritto è solo un mezzo per richiamare alla memoria
le cose che già si sanno, lo scritto non insegna, poiché esso è incapace di difendersi da solo ed ha
bisogno dell’intervento del suo autore. La scrittura è come la pittura: le immagini sembrano prive di
vive, ma sono prive di vita. A chi vuole approfondire esse continuano a dire le stesse cose. Anzi gli
scritti, passano nelle mani di tutti e vengono a contatto sia con i competenti che hanno una corretta
capacità di affrontarli, sia con coloro che non hanno sufficienti capacità di capire, perciò lo scritto
non ha capacità di scelta fra le persone.
L’oralità non si limita a ripetere le stesse cose, ma va oltre. Lo scritto è solo una copia del
discorso orale. Inoltre mentre il discorso scritto viene fissato su un rotolo di carta, cioè su una cosa
esteriore, il discorso orale viene scritto nell’anima stessa di chi impara mediante la scienza. Proprio
per questo contatto diretto con l’anima di chi impara sa bene con chi è opportuno parlare e con chi
si deve tacere. E’ in grado inoltre di difendersi. Per chiarire maggiormente la differenza Platone
ricorre ad un paragone: in occasione della festa di Adone i greco preparavano conchiglie in piccoli
recipienti ed a seminarvi dentro alcuni semi che in otto giorni spuntavano, ma non davano frutto e
morivano. Platone dice che l’agricoltore che ha senno quando semina i semi che gli stanno a cuore e
dai quali vuole i frutti, non li semina nel giardino di Adone, se lo farà lo farà soltanto per gioco e
per la festa. I semi di cui si preoccupa con serietà a cura di seminarli in luogo idoneo seguendo
regole dell’arte agricola, contento che quei semi diano frutto in otto mesi.”
Questa è la differenza fra colui che fissa il sapere nello scritto, oppure lo affida all’oralità Chi
possiede scienza non può che affidare le cose che gli premono di meno che allo scritto. Chi scrive
per gioco. Ma le cose che gli stanno a cuore, il suo pensiero vero da cui si aspetta frutto, lo affida
all’oralità, perché solo in essa c’è serietà. Egli si preoccupa che vadano nell’anima. Platone insiste
dicendo (276C-277A/S): lo scritto è una mitizzazione molto bella. L’oralità implica maggiore
serietà perché implica la dialettica.
(278C-E):
“Chiunque abbia composto opere scritte, essendo a conoscenza della Verità e che quindi
possa difendere il suo scritto e sia in grado di dimostrare la debolezza dello scritto, costui è da
chiamarsi filosofo, nome che non gli deriva dallo scritto. Per contro, colui che non possiede cose di
maggior valore che lo scritto, si chiamerà poeta, logografo, legislatore. La dimensione del filosofo
si attua nell’oralità.”
Lettera VII (341-344):
“Chi vuole accostarsi alla filosofia deve essere sottoposto ad una grande prova. Platone
presenta la filosofia nel suo complesso e evidenzia le fatiche che essa comporta. Ci sono due
atteggiamenti: o si giudica positivamente la peculiarità della filosofia e si decide di intraprenderla;
oppure si reagisce negativamente di fronte alla fatica a cui la vita privata sarebbe stata sottoposta.”
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Platone dice che sulle cose d cui si dà pensiero, non c’è uno scritto e non ci sarà mai, per i
seguenti motivi:
 Sarebbe di per sé possibile scrivere, tuttavia questo sarebbe inutile perché servirebbe solo
a quei pochi che capiscono e per costoro sarebbe inutile averli scritti giacchè essi
giungono alla conoscenza delle cose grandi con pochi aiuti orali;
 Sarebbe inutile farlo anche come sussidio per la memoria, perché le cose grandi sono
poche e brevi e rimangono impresse;
 Sarebbe dannoso scriverle, perché la maggior parte degli uomini non capisce queste cose e
le disprezzerebbe o si vanterebbe di sapere ciò che invece non ha capito.
Chi scrive sulle cose grandi, non lo fa per motivi corretti.
Platone nei dialoghi ha espresso solo il contorno del suo pensiero. La più comune
enunciazione della filosofia platonica è l’enunciazione chiastica, secondo la quale viene enunciato
prima il concetto A, poi il concetto B, poi nuovamente il concetto B ed ancora il concetto A.
A
B
B
A
Fedone (96A-102A)
In questo brano Platone parla di due navigazioni che corrispondono a due fasi del suo
pensiero:
1. Rappresenta il suo incontro con i fisici: in tale occasione egli vede l’impossibilità di
spiegare le cause della generazione delle cose secondo fisici. Anche la teoria del vùs di
Anassagora è resa inutile. Questa navigazione, Platone la fece con le vele spiegate
affidandosi allo studio dei filosofi precedenti. Le vele dei fisici erano le sensazioni, ma
Platone comprende che è necessario compiere una metàbasi per spingersi oltre.
2. Eustazio riferendosi a Pausania spiega: “Si chiama seconda navigazione quella che uno
intraprende quando rimasto senza venti, naviga con i remi.” Cicerone nella IV Tuscolanae
contrappone il metodo del pandere vela orationis e il dialecticorum remis. Allora Platone
non si rivolge più agli altri, ma fa una ricerca in proprio con i “remi” del ragionamento.
Fedone (99 D IV; 100 A VII)
In esso troviamo sfiducia nei sensi e predisposizione per il ragionamento: prende come base
un ragionamento e giudica le cose a seconda che esse concordino con detto ragionamento.
Nel Fedro, ciò spinge Socrate fuori dalle mura di Atene è la stessa cosa che lo ha trattenuto in
città l’amore per i logoi che spesso vengono derisi.
In risposta a questa critica, Socrate si difende fino a presentare la mitologia come il peggiore
dei mali (Fedone).Socrate (Platone parla per bocca di Socrate) ricerca le cause di ciascuna cosa.
Socrate dice di essersi sentito scettico circa i metodi della ricerca naturalistica: Questo
perché?
“Le risposte fornite dai naturalisti davano questo risultato: ciò che prima si credeva di sapere
diventa oscuro proprio in conseguenza di queste richieste: le convinzioni del senso comune che
hanno un carattere fisico-naturalistico, attraverso l’indagine filosofica dei fisici, si confondono: cosa
mette in crisi queste convinzioni? Il fatto stesso di teorizzare ciò che sta alla loro base, giacchè in
questo modo si vede l’inconsistenza dei fondamenti di carattere naturalistico sui quali il senso
comune poggia e si vedono le contraddizioni di tali fondamenti.
Esempi
Confrontando due di diversa statura, i fisici dicono che uno è più grande dell’altro per la testa
che però è cosa piccola. Oppure si dice che otto paragonato al sei è maggiore perché ha di più un
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due che perciò è minore ossia. La causa della più grande altezza e del maggior numero non è
spiegato ma è oscurata. Per i fisici non si spiega né l’uno, né il due. Si dice che sommando uno ad
uno si ottiene due, ma si dice anche che dividendo a metà un’unità si ottiene il due. Questi
movimenti – somma e divisione- sono opposti. Come può essere che due opposti siano la causa
dello stesso effetto? Impossibile.
Neanche la generazione dell’uno è spiegabile, ed in particolare per quale ragione una cosa sia
una, sicché senza una simile spiegazione, non è possibile spiegare neppure la causa del generarsi,
del corrompersi e dell’essere delle cose.” Questi sono i motivi per cui Platone abbandona i fisici.
Anassagora introduceva il nùs, ma, come dice Platone: “questa sua affermazione non aveva un
adeguato fondamento né la dovuta consistenza, perché Anassagora era legato al metodo dei fisici.
E’ giusto porre un nùs, ma Anassagora non è stato in grado di pensare a tutto ciò che questo
comportava. Affermare chi il nùs ordina e causa le cose, significa che dispone le cose secondo un
certo criterio: quello del miglior modo possibile (altrimenti sarebbe o cattiva o contraddittoria).
Dunque il nùs e il bene sono connessi. Ma chi abbraccia questa prospettiva deve conoscere, oltre al
bene, anche il suo opposto, il Male, perché la scienza del meglio e del peggio è la stessa.
Anassagora avrebbe dovuto spiegare come i fenomeni siano strutturati in funzione del meglio e
quindi con una precisa conoscenza del Bene e del Male – che hanno una valenza ontologica, non
morale -.Anassagora, invece, ha introdotto il nùs senza dargli questo ruolo. Di fatto ha attribuito il
ruolo di causa non al meglio, ma al tà stochèia (gli elementi fisici), le omeomerìe, che sono
necessarie ma non sono la vera causa.” Platone è legato al ex nihilo nihil fit:
CAUSA:
?
EFFETTO:
NEMO DAT QUOD NON HABET.
Occorre arrivare a ciò a cui il nùs si ispira nel determinare i fenomeni.
- Metabasi
Le spiegazioni sul piano fisico non approdano a nulla, bisogna abbandonare la fisicità ed
andare sul piano metafisico. Allora: “mi parve di dovermi rifugiare nei discorsi ed in essi ricercare
la Verità degli enti” (Socrate). Socrate non dice che solo i Lògoi ci permettono di organizzare la
sensorietà e di descrivere i fatti in modo oggettivo, perché sarebbe fisica e non metafisica. Egli
sostiene che solo nei Lògoi le cose si offrono all’uomo e si mostrano per ciò che sono in verità. In
tutto il Fedone si vuole dimostrare che in ogni incontro con gli Enti, diverso dai Lògoi, l’anima è
sempre costretta a passare per la mediazione del corpo. Tale mediazione, essendo estranea alla vera
sostanza degli enti, ne produce un’immagine deformata, falsa. Le qualità sono il frutto
dell’interazione delle essenza con il nostra apparato sensibile. Solo così si produce l’impressione
che le cose nascono e muoiono e che i fenomeni avvengono. A questo universo dei fatti –
“accadimenti” – inconcepibili senza la mediazione dell’apparato sensoriale, si oppone la pulsione
dell’anima verso un’esperienza immediata, in cui la stessa anima di per sé stessa contempli le cose
stessa (“àuta tà pràgmata”). Tali cose sono ciò che non diviene mai, ma che sempre è. Le cose ci
sono note solo attraverso un fatto che ha luogo nel tempo. Il loro sussistere è un divenire. La
ghènesis è il regno dell’accadere. L’àuta tà pràgmata costituiscono l’ousìa (l’essenza) la quale è
raggiunta solo dagli occhi dell’anima. L’àuta tà pràgmata, la singola essenza, è ciò per cui una cosa
della ghènesis è quello che è. L’àuta tà pràgmata sono chiamate da Platone èide (le forme, le idee).
L’anima anela alla visione immediata delle idee. Tale visione immediata è ciò che si intende per
Verità. a volontà di Verità è propria solo dell’anima, tutti gli altri desideri sono del corpo. L’unico
luogo di appagamento è il linguaggio. Nel parlare i processi che coinvolgono il corpo sono cornici
accidentali di un processo totalmente interno all’anima. I significati sono entità universali ed
immateriali, che possiamo solo comprendere.
Significato = èide = L’àuta tà pràgmata.
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Platone ha introdotto un elemento metafisico come causa del mondo fisico. La
spiegazione delle cause nel mondo fisico è un contraddizione, ma nel mondo metafisico è possibile.
Ogni cosa sarà spiegata mediante l’idea che tale cosa esprime.
“Si prende per base della propria spiegazione il postulato più solido, che consiste nel porre le
realtà intelligibili – le idee – come le vere cause del sensibile. Sono vere quelle cose che coincidono
con queste realtà intelligibili, false quelle che non coincidono.” (Fedone). Le idee hanno
dimensione ontica, cioè esistono. Le idee sono : eterne, intelligibili, incorporee, immutabili, sono
l’essere in senso pieno, sono in sé e per sé, sussistono in se e per se, sono l’unità capace di unificare
la molteplicità di tutte le cose che partecipano alla loro essenza.
“Si dovranno esaminare tutte le conseguenze che derivano dal postulato, per accertare se
concordano tra loro. Bisogna arrivare a quel postulato che non rinvii ad altro postulato
(incontrovertibile)”. Il postulato è una ratio sine qua non. Per porre tale postulato si procede per
esclusione.
La tradizione orale ci dice che Platone poneva sopra le idee i tà arcà cài pròta (i sommi
principi): è un piano anipotetico (incondizionato); in questo consiste la seconda tappa della
navigazione. Platone pone i sommi principi perché alla dottrina delle idee si può muovere la
seguente accusa (dialogo della Re Publica):
“Le idee non possono essere la spiegazione definitiva del mondo sensibile caratterizzato dalla
molteplicità e dal divenire perché sono esse stesse molteplici.” Molti uomini sensibili sono spiegati
dall’Uomo che ne è l’essenza, dunque la molteplicità è unificata dalla corrispondente idea. Ma si
hanno molte idee, tante quante i generi che si conoscono. La molteplicità viene trasferita al piano
metafisico. La dottrina delle idee la semplifica: la molteplicità viene trasferita dal piano sensibile a
quello intelligibile, ma deve ancora essere spiegata. Per spiegarla Platone postula l’esistenza dei tà
arcà cài pròta. Le fonti indirette sono : Aristotele, Teofrasto, Sesto Empirico, Alessandro da
Frolisia ed Aristosseno. Il ragionamento di Platone è il seguente:
I Ci devono essere dei sommi principi perché la molteplicità del mondo intelligibile non si
spiega da sé.
II Tà arcà cài pròta devono essere l’uno e la diade: devono essere un unico principio: si parla di
uno-diade, perché i principi sommi devono essere la spiegazione dell’unità e della molteplicità delle
idee. Devono spiegare l’unità della molteplicità (trasformazione del problema dell’identità del
diverso). Nei dialoghi le idee sono nell’iperuranio. “L’uno è il principio di determinazione
formale. La diade è il principio di variabilità indefinita” (Teofrasto).L’uno e la diade non sono
l’uno e il due, né principi matematici, ma metamatematici. La diade è una dualità indeterminata di
grande e piccolo, origine della molteplicità, infinita grandezza e infinita piccolezza (cioè una
tendenza all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo).Perciò viene qualificata come dualità
di molto e poco, di più e meno, di maggiore e minore. La diade è una strutturale disuguaglianza.
L’uno come principio di determinazione formale, delimita definisce, determina l’illimitato,
l’indefinito, l’indeterminato. L’uno agisce sulla diade e questa azione consiste nell’egualizzazione
del diseguale. La diade funge da sostrato all’upochèimenon, all’azione dell’uno. Da questa azione si
produce la molteplicità. Perciò l’uno e la diade sono una unita bipolare: non sono due principi
divisi, sono distinti.
RAPPRESENTAZIONE DEI SOMMI PRINCIPI
M = UNO
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Cramer, parlando dell’attività dell’uno-diade, afferma che è una generazione, ma non va
intesa come un processo temporale, bensì come una metafora per illustrare un’analisi di struttura
ontologica, cioè un modo per rendere comprensibile alla conoscenza umana – che è discorsiva –
l’ordinamento dell’essere che è aprocessuale e atemporale. Tutto ciò che è, è nella misura in cui è
delimitato, distinto e permanente, cioè in quanto partecipa all’unità originaria che è principio di
ogni cosa. L’essere può essere qualcosa e uno e partecipare all’unità, solo perché allo stesso tempo
partecipa al principio opposto, ovvero alla molteplicità illimitata e quindi è altro rispetto all’unità.
Per questo l’essere è unità nella molteplicità. E’ ciò che è generato a partire dai due principi
mediante la determinazione del principio materiale da parte del principio formale ed è un misto. Ne
consegue che tà arcà cài pròta non sono Essere in quanto costitutivi di ogni essere, sono anteriori
all’Essere nel senso che l’uno come principio di determinazione è al di sopra dell’essere, mentre
l’opposto (la diade) in quanto opposto è, ed allo stesso tempo non è, al di sotto dell’Essere.
Aristotele in Metafisica 4,1078 b 9-12/a 6, 987 b 14-18, Alessandro da Frodisia, Simplicio,
Sesto Empirico sono le fonti.
Platone ha insegnato la dottrina dei numeri ideali, cioè ha ridotto le idee a numeri. I Numeri
ideali non sono i numeri matematici, sono metafisici, sono le essenze dei numeri matematici. I
numeri ideali sono i primi generati dall’uno-diade, rappresentano in forma paradigmatica la
struttura sintetica, quell’unità nella molteplicità che caratterizza tutti gli enti a tutti i livelli.
L’essenza del numero ideale è una determinazione e delimitazione dell’uno sulla diade, sulla
molteplicità indeterminata ed illimitata di grande e piccolo (ad es. il 2 è la prima delimitazione di
grande e piccolo, è molteplicità e pochezza che viene definita dall’uno come doppia e metà).
La riduzione di idee a numeri non è:
a) identificare le idee con i numeri. Teofrasto ci dice che Platone nel riportare le cose
sensibili ai sommi principi procede per 3 tappe:
 collegamento delle cose alle idee;
 collegamento delle idee con i numeri ideali;
 collegamento dei numeri ideali ai sommi principi.
b) ridurre ciascuna idea a numero (aritmologia, aritmosofia);
c) pensare in base al nostro concetto di numero intero.
Occorre rifarsi al concetto di numero dei Greci. Secondo Topliz, per i greci il numero non è
una grandezza compatta, ma è un rapporto articolato di grandezze e di frazioni di grandezze, di
lògoi, di analogie (relazione, corrispondenza, proporzione). Il lògos è essenzialmente un
relazionarsi, è collegato ad una dimensione numerica. Perciò è naturale per i greci tradurre ogni
relazione con un numero. Ciascuna idea ha una precisa posizione nell’iperuranio a seconda della
sua maggiore o minore universalità ed a seconda della forma più o meno complessa dei rapporti che
essa ha con le altre idee.
ANIMALE
ANIMALE
CORPO
CORPO
OSSA
OSSA
VITA
VITA
SANGUE
SANGUE
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Un’idea sussume in sé numerose altre idee. Questa trama di rapporti (lògoi) può essere
ricostruita e determinata con la dialettica e può essere espressa numericamente perché il numero è
un rapporto. Gaiser sostiene che: “i rapporti numerici sono il permanente immutabile, perché sono il
vero e proprio essere che permane in ogni differenza e cambiamento di ogni singola cosa.”
La dialettica è la ricostruzione dei rapporti esistenti tra le idee (discensiva o diairetica;
ascensiva o anabatica).
Aristotele dice che i numeri ideali erano 10. Il procedimento diairetico può essere espresso
numericamente, come lògos. Ciò comporta che le idee più generali dalle quali parte il procedimento
sono numeri interi dai quali derivano i successivi rapporti. Ai 10 numeri della decade si riferivano
le idee più generali, alle quali dovevano far capo i rapporti.
La decade è la seguente:
1. Essere e non essere;
2. Identità e differenza;
3. Somiglianza e dissomiglianza;
4. Quiete e movimento;
5. Pari e dispari.
Se le idee sono il risultato del rapporto di egualizzazione del diseguale, in esse avranno una
struttura bipolare. Tutta la struttura reale ha una struttura bipolare. Con il postulato dell’uno-diade,
Platone spiega l’opposizione. Secondo il sofista le cinque idee madri sarebbero generate.
Uno-Diade
ESSERE
Identità
Quiete
Movimento
I metaidea
Diverso
L’essere è identico a sé stesso, quindi è diverso da tutto il resto; poiché è immutabile, è quiete,
ma contiene anche il concetto di movimento. L’essere è l’idea che sta al di sopra di ogni altra idea. I
numeri matematici sono ontologicamente fra gli enti ideali e gli enti sensibili (tò metaxù), in quanto
sono immobili ed eterni come le idee, ma ve ne sono molti della stessa specie, come gli enti
sensibili; sono intelligibili, ma possono essere sommati e divisi e ce ne sono molti uguali. La
convinzione della corrispondenza strutturalmente perfetta fra conoscere ed essere spiega ciò. Ad
una certa conoscenza corrisponde un livello di essere. Perciò al livello di conoscenza matematica
superiore alla conoscenza sensibile, ma inferiore alla conoscenza dialettica deve esserci un piano
con le rispettive connotazioni ontologiche. Le figure ideali sono qualità non quantità. L’oggetto dei
teoremi matematici e geometrici non è il numero o la figura ideale, ma non è neanche la figura
sensibile. Gli enti intermedi dal punto di vista delle idee sono imperfetti e mere immagini, ma
secondo il divenire sono perfetti. Partecipano delle idee, altrimenti non sarebbero nulla. Sono
rispetto al mondo sensibile ed al suo rapporto con le idee, ciò che i numeri ideali sono rispetto alle
idee ed al loro rapporto con l’uno diade.
UNO-DIADE
Numeri e figure ideali
IDEE
Numeri matematici e figure geometriche
MONDO SENSIBILE
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Platone concepisce la struttura del reale secondo uno schema analogico, analogia intesa come
rapporto matematico. La dialettica ha un valore gnoseologico ed ontologico; La conoscenza dei
rapporti tra le idee è la struttura stessa dei rapporti. La realtà deriva dai principi sommi secondo una
struttura gerarchica verticale e discensiva. Il numero ideale è la struttura stessa dell’idea. Il numero
matematico è il piano tra le idee e il mondo sensibile. Mentre il piano inferiore non è necessario al
piano superiore, il piano inferiore necessita del piano superiore.
Le fonti parlano di un principio disteleologico dal quale proviene l’elemento materiale. L’uno,
quando egualizza la diade produce le idee, ma l’egualizzazione lascia sempre qualcosa di illimitato:
questo residuo diadico, in quanto tale, è un principio disteleologico.
La concezione dell’uomo
L’uomo per Platone si compone di anima e corpo. Nel Fedro e nel Timeo la loro unione è
spiegata in due modi diversi. Nel Fedro si sostiene che l’anima è unita al corpo accidentalmente,
come il musico al suo strumento. L’unione è stata violenta, perciò l’anima propende per la
separazione per ritornare al suo stato iniziale. Nel Timeo, invece, il corpo è considerato veicolo
dell’anima. La posizione eretta indica l’origine celeste dell’uomo, mentre gli animali, che hanno
origine terrestre hanno una posizione inclinata. Da ciò si evince che la concezione negativa del
corpo, inteso come non-essere, non è stata razionalizzata; tale negatività viene tanto più evidenziata
quando si fa esperienza dei limiti del corpo.
Dal Timeo:
“Nessuno è cattivo di propria volontà, ma è cattivo a causa di qualche abito cattivo del corpo
ed a causa dell’educazione inesperta ricevuta.” Per abito si intende l’abitudine acquisita, che diventa
quasi una seconde natura.
Dalle Leggi:
“L’anima è vicinissima a Dio, è ciò che ha di divinissimo e di massimamente proprio”.
L’anima è più antica del corpo, è stata l’anima a determinare la formazione del corpo: la loro
distanza è infinita. L’anima supera così tanto il corpo che nell’Alcibiade Platone sostiene che solo
l’anima è propria dell’uomo.
L’anima risulta avere una triplice natura, ovvero ci sono tre fenomeni di essa:
1. Razionale, prodotta dalla divinità e sita nel cervello;
2. Irascibile, prodotta dagli déi degli inferi, sita nel torace e fonte delle nobili passioni, ma
inseparabile dal corpo e quindi destinata a perire con esso;
3. Concupiscibile, prodotta dagli déi infernali, sita nel ventre e fonte di tutte le basse
inclinazioni.
Nei singoli individui prevale l’una o l’altra. L’uomo in cui prevale la parte razionale è il
filosofo, adatto a governare; quello in cui prevale l’anima irascibile è il soldato, adatto all’arte
militare; l’uomo in cui prevale la parte concupiscibile è adatto alle arti manuali.
Platone spiega come segue la storia dell’anima:
“L’anima è creata dal dio (Demiurgo) e dagli dei infernali: il corpo precedente è ermafrodita.
La prima discesa dell’anima sulla terra è del tutto naturale, ma esige che la vita sia senza colpa.
Questo, però, è difficile perché la forza proveniente dalle parti concupiscibile ed irascibile è tanto
grande da offuscare la parte razionale. Questa difficoltà è espressa dal mito della biga alata nel
Fedro.
Il carro dell’uomo è trainato da due cavalli: uno bianco e nobile, l’altro è nero ed indomabile.
L’auriga tenta di guidarli cercando di armonizzarli, ma mentre quello bianco è docile, quello nero
non si lascia sottomettere e così la biga alata, che corre verso il mondo intelligibile, precipita. Nel
cadere, ha un impatto violento con il corpo che diventa per l’anima il suo carcere. Quando il corpo
muore, l’anima razionale viene giudicata dai giudici infernali, i quali la mandano o nel Tartaro o
nelle Isole Fortunate. Qui resta per mille anni; per tale millennio, molte anime del Tartaro si
reincarnano per l’espiazione: così fanno la comparsa le donne del primo millennio. Passati i mille
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anni, tutte le anime si devono reincarnare ed ognuna sceglie il genere di vita che farà davanti alle tre
Parche in un prato di Asfodeli. Le Parche si rivolgono alle anime, ricordando loro che scegliere è
comunque una colpa: solo Dio è senza colpa.
Essere, molteplicità e non essere
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