Una lingua comune per scienza e fede

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Il dialogo tra scienza e fede
Di Paolo Vidali
Si è fatto inquieto il rapporto tra scienza e fede. Problemi bioetici emergenti (la fecondazione
assistita, l’eutanasia, la distinzione tra vita e non vita…) mettono sempre più in tensione aspetti del
sapere scientifico e alcune convinzioni religiose. Polemiche più o meno cercate, ingerenze vistose,
arroccamenti teorici fanno emergere sentimenti di insofferenza, di sospetto, quando non di aperta
ostilità. Dobbiamo rassegnarci a questa nuova battaglia ideologica tra scientisti e teocon? Come
tutte le polemiche, anche questa nasce dal non voler cercare: il comune, anzitutto; lo specifico, in
secondo luogo.
Cominciamo dalla scienza. Esiste? Nel senso che c’è un modello di sapere unitario, con metodi,
procedure e criteri condivisi? No. Le scienze formali, come la matematica, sono il regno della
certezza deduttiva, pagata tuttavia con il prezzo di una sostanziale indipendenza dalla realtà. Le
scienze naturali, al contrario, sono il luogo del tentativo, della fallibilità, della certezza sospesa di
chi sa che grandi svolte teoriche e grandi scoperte sono avvenute e sono ancora possibili. E le
scienze umane, così storiche, così radicate nella situazione, così poco normative, ricordano in
qualcosa la certezza della logica simbolica o della geometria? Forse non sono scienze
l’antropologia, la linguistica, la storia? Allora smettiamo di parlare di scienza senza chiarire cosa
intendiamo. E cerchiamo, appunto, di intenderci.
Forse sembra più chiaro dire che cosa si intende per fede. Ne siamo sicuri? Quanti tipi di fede
esistono? Da quella ingenua e invadente dell’oroscopo, a quella strutturata delle religioni positive –
cristianesimo cattolico, islamismo sunnita… - a quella inquieta delle speranze e delle disillusioni
che attraversano la nostra esistenza: un figlio, un lavoro, un domani di ingiustizia minore… Non
sono tutte fedi? Con che cosa in comune?
Se questo non bastasse potremmo chiederci quanta fede c’è in molta pratica scientifica. L’attività di
ricerca muove sempre da assunti condivisi e non più discussi, almeno finché sembrano funzionare.
Non avanzeremmo nel sapere se non dando credito (cioè credendo) a ricerche altrui, a teorie
autorevoli, a esperimenti compiuti. Non si può trascurare il piano di credenze ragionevoli con cui si
fa ricerca scientifica, qualunque essa sia. Senza veri dogmi, ma con collaudate credenze, si avanza
nel sapere solo perché si dà credito al lavoro altrui. E’ un atto di fede? Di che tipo di fede?
Ma potremmo chiederci anche se nell’altro campo non vi siano interessanti compromissioni. “Date
ragione della fede che è in voi” diceva san Paolo. Parroci di campagna e teologi da università fanno
questo lavoro da sempre, cercando di rendere se non ragionevole almeno razionalmente accettabile
ciò in cui si crede. Nel “Sic et non” Abelardo ci invitava a conciliare tra loro le apparenti
contraddizioni presenti nei sacri testi: era il 1121. Perché superare la contraddizione se dobbiamo
vivere di fede? Evidentemente anche nel cuore del dogma cristiano il bisogno di razionalità non
viene mai del tutto cancellato.
Perché continuino a parlarsi, o riprendano a farlo, il mondo delle scienze e quello delle fedi hanno
bisogno di un limite e di un linguaggio. Il limite era chiarissimo a Wittgenstein quando affermava
nel Tractatus: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno
avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati” (6.52). Questioni di fondo
non possono essere affrontate con la strumentazione delle scienze. Serve la filosofia, la religione, la
narrazione di senso, l’ansia tutta umana di cercare un perché anche quando si sa, coscientemente,
che le risposte saranno fragili, provvisorie, sbagliate. Ma sono le domande ad essere autentiche.
Tuttavia un limite deve abitare anche la teologia e filosofia, quando si impegnano su Dio e
sull’umanità. Non si può ignorare il risultato della ricerca biologica quando si parla di uomo o di
creazione. Ogni discorso religioso deve poter convivere con il risultato – parziale e incerto, ma
condiviso – della ricerca scientifica. E’ quasi il solo ambito in cui uomini e donne diversi sanno
trovare un accordo e costruire su di esso. Nessuna religione può dire alcunché senza misurarsi con
questa fragile e fondamentale condivisione del sapere umano.
Per farlo occorre, però, parlare la stessa lingua, capirsi almeno sui concetti fondamentali. “Vita”,
“natura”, “origine”, “legge”.. non sono che alcuni di questi inciampi linguistici. E’ possibile
imparare a trattarli con una lingua comune? Possono teologi, filosofi, scienziati intendere la stessa
cosa quando si parla di “natura”? Ogni lingua è un lento assestamento di significati che segue e
precede una comunità. Segue perché senza un comune desiderio di capirsi non nasce nessun
linguaggio. Eppure anche precede, perché solo intendendosi sul modo di descrivere i problemi
possiamo capire e rispettare le nostre diverse soluzioni.
Pubblicato su Il Giornale di Vicenza il 3 aprile 2008
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