I confini del marketing, relazione convention 2000

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LE VISIONI DI MERCATO PER IL
CATEGORY MANAGEMENT
1. La visibilità delle categorie in punto vendita
2. La segmentazione dell’offerta secondo il
modello a clessidra
3. La variabilità dei confini del marketing
industriale e commerciale
4. La partnership nel category management
VERSIONE DEFINITIVA
1
Abstract
Il tema del category management è stato finora affrontato ignorando il
problema della definizione dei confini delle categorie merceologiche; ciò che
ha finito per creare un vizio di fondo nella implementazione delle soluzioni di
gestione integrata del valore. In questo lavoro intendo invertire il tradizionale
approccio che parte da una “data” categoria per sviluppare modelli e
soluzioni empiriche di partnership nei rapporti di canale. Ritengo infatti
necessario affrontare prima la questione generale della distonia delle due
visioni di mercato per arrivare poi a proporre la categoria merceologica come
unità stategica di business per entrambe gli attori del canale. Ritengo infatti
che il category management sia un punto di incontro ed un’efficace sintesi di
due visioni molto diverse tra loro.
Il primo passo consiste dunque nel dimostrare come la contestualizzazione
per categorie del marketing industriale e commerciale incida sulla “visibilità”
dei prodotti e, quindi, sugli gli acquisti d’impulso.
Il secondo passo consiste nel proporre una chiave di lettura del mercato a tre
livelli per ridurre la distonia della visione industriale e commerciale,
analizzando nel contempo la varianza dei confini della categoria assunta
come contesto delle azioni di marketing di industria e distribuzione.
Dopo aver affrontato il problemi della definizione del mercato sarà possibile
introdurre il tema della partnership nel category management, che viene qui
inteso come un nuovo modello verso cui orientare le relazioni di canale.
2
1. La visibilità delle categorie in punto vendita
I consumatori non entrano in punto vendita solo per approvvigionarsi di
beni di cui avvertivano a priori il bisogno. Il punto vendita è infatti il luogo
dove il consumatore si informa sui prodotti in offerta e si forma nuove idee di
consumo. Questa ipotesi è confermata dagli acquisti d’impulso, vale a dire
delle decisioni di acquisto maturate all’interno del punto vendita. Intervistando
500 consumatori all’entrata di un punto vendita 1, abbiamo constatato che
solo il 21,1% aveva predisposto in precedenza e per iscritto una lista della
spesa. I consumatori che non predispongono in anticipo una lista della spesa
sono in genere più flessibili nelle loro decisioni di acquisto. Anche in assenza
di una lista della spesa, il consumatore può comunque avere in programma di
acquistare alcuni prodotti prima di entrare nel punto vendita. Per calcolare gli
acquisti d’impulso abbiamo dunque confrontato le intenzioni d’acquisto
espresse nella lista della spesa, o dichiarate in forma verbale prima
dell’ingresso nel punto vendita, con il basket di prodotti acquistati; abbiamo
così potuto stimare l’incidenza a valore degli acquisti d’impulso che è risultata
pari al 53,1 %.
L’acquisto d’impulso può riguardare sia il prodotto / categoria
merceologica che la marca; infatti, la mobilità del consumatore è aumentata
sia all’interno di una data categoria merceologica che tra diverse categorie
merceologiche. Di norma, i consumatori programmano i loro acquisti in
termini di categorie merceologiche, riservandosi poi di decidere la marca
all’interno del punto vendita anche in funzione delle opportunità offerte dal
distributore e/o dal fornitore. Dalla nostra indagine sul consumatore, è
emerso che l’incidenza dei prodotti specificati solo come categoria nella lista
della spesa è pari al 97,4% %; l’incidenza delle intenzioni d’acquisto
formulate verbalmente per categoria è risultata invece pari al 99,5 %. Nel
26,9% dei casi, la programmazione dell’acquisto riguarda peraltro aggregati
più ampi della categoria merceologica, vale a dire la funzione d’uso e
l’occasione di consumo. Il 64,5 % degli intervistati ha inoltre dichiarato di
rinunciare a volte all’acquisto programmato di un prodotto per acquistare un
sostituto in promozione. L’importanza del punto vendita nel generare la
domanda si deve dunque da un lato alla consistenza degli acquisti d’impulso
e, dall’altro, all’ampliamento dei confini di programmazione degli acquisti.
La consistenza degli acquisti d’impulso è destinata ad aumentare
ulteriormente se industria e distribuzione troveranno il modo di collaborare
per aumentare la visibilità dei prodotti e delle marche che, a sua volta,
dipende:
La ricerca è stata realizzata nel punto vendita CONAD “Le querce” di Reggio Emilia nella seconda settimana di
novembre 1999.
1
3
 dalla segmentazione espositiva dell’assortimento, che dev’essere
coerente con l’organizzazione mentale dei bisogni del consumatore
(consumer decision tree) 2;
 dalla localizzazione dei prodotti (layout merceologico) che, oltre a
rispettare i vincoli fisici posti dalle attrezzature, dev’ essere organizzata
in funzione dei flussi di traffico che si ritiene opportuno creare per
massimizzare i contatti del consumatore con l’assortimento;
 dall’affiancamento dei prodotti complementari per una data occasione di
consumo o funzione d’uso (contestualizzazione), in modo da stimolare il
ricordo del bisogno;
 dal display merceologico che, per avere il massimo impatto sul
consumatore, dev’essere organizzato di norma in verticale per categoria
e in orizzontale per segmento di consumo o marca;
 dalla quantità e dalla qualità dello spazio attributi alle categorie e alle
marche, che devono rispecchiare la diversa sensibilità della domanda e la
diversa marginalità.
La manovra delle leve di merchandising indicate più sopra è fondamentale
per assicurare “visibilità” alle categorie ricercate dal consumatore in punto
vendita. La distribuzione italiana non è però ancora arrivata a manovrare in
modo completo e stabile le diverse leve di merchandising. Basti pensare in
proposito che:
 solo pochissimi distributori hanno sviluppato il merchandising a livello di
funzione autonoma rispetto agli acquisti, alle vendite, al marketing e alla
logistica;
 solo il 14% dei distributori intervistati3 ha dichiarato di realizzare
abitualmente ricerche sul consumatore per scoprire il modo con cui egli
categorizza i prodotti 4;
 meno della metà dei distributori intervistati ha dichiarato di manovrare la
leva della contestualizzazione espositiva.
Sarebbe logico attendersi che la segmentazione del marketing industriale
abbia un puntuale riscontro nella segmentazione di merchandising per
saldare così il comportamento di consumo col comportamento di acquisto.
L’unica forma di comunicazione della categoria è realizzata infatti in punto
vendita dal distributore manovrando le leve del merchandising. Invece, si
verifica una sostanziale distonia tra la segmentazione industriale e
commerciale dell’offerta; entrambi poi non tengono in sufficiente
considerazione la categorizzazione e la connessa gerarchia d’acquisto del
consumatore. Un esempio servirà a meglio chiarire il concetto. I distributori
2
Il 58,7% dei consumatori intervistati ha dichiarato di ricercare in punto vendita prima la ctegoria e poi la marca.
La ricerca è stata realizzata col metodo dell’intervista ed ha coinvolto 30 insegne appartenenti a diversi gruppi
strategici.
4
Molto più numerose sono invece le aziende industriali che svolgono abitualmente ricerche sulla categorizzazione
mentale del consumatore; tra le 7 aziende che hanno sponsorizzato questa indagine, 5 svolgono infatti ricerche sul
consumer decision tree.
3
4
contestualizzano di norma5 la crema di nocciole a base di cacao col miele e
la marmellata che insieme formano la categoria degli “ spalmabili dolci”. La
spalmabilità è l’unico elemento che accomuna questi segmenti di consumo e
la categoria non è di norma inserita nel contesto di un’occasione di consumo.
Il “marketing” Ferrero non si rapporta però certo al miele e alla marmellata
per disegnare le sue strategie; analogamente, le “vendite” Ferrero non si
rapportano certo al miele e alla marmellata nel trattare le condizioni di vendita
con i distributori.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per quanto riguarda la
manovra della quantità e della qualità espositiva attribuita alle categorie e alle
singole marche. La quantità di spazio è ancora oggi largamente attribuita in
funzione inversa al servizio logistico: più alta è la frequenza di rifornimento e
minore è la quantità di spazio attribuito. Questo orientamento all’offerta
piuttosto che alla domanda non permette di utilizzare pienamente il punto
vendita nella creazione di valore per il consumatore; l’esempio più eclatante
si osserva nella categoria del latte fresco che, in genere, ha un’incidenza
nell’esposizione molto inferiore all’incidenza nelle vendite e nel margine
complessivo 6, unicamente per l’alto servizio offerto dall’industria con la
consegna frequente a punto vendita. La qualità dello spazio è per contro di
norma gestita in funzione del margine unitario lordo, nonostante la forte
incidenza del fuori fattura per le marche industriali, ovvero in funzione dei
contributi dei fornitori che competono per la realizzazione di un vantaggio
competitivo sul piano dell’esposizione. La gestione dello spazio in base alla
diversa elasticità della domanda e alla diversa marginalità netta non è
dunque entrata nell’operatività della stragrande maggioranza dei distributori
italiani. Pochissimi distributori hanno inserito un software di space allocation
nelle proprie routine operative per riallocare in automatico lo spazio
espositivo di categoria con la frequenza del rifornimento o della variazione
dell’assortimento, inviando a punto vendita etichette di scaffale contenenti
anche il numero di facings e il numero del ripiano dove esporre il prodotto.
Anche se il 90% dei distributori intervistati attribuisce un livello sufficiente
alla visibilità delle categorie e dei segmenti di consumo, la mia opinione è
che gli spazi di miglioramento in questa materia siano ancora enormi.
Fintanto che la distribuzione italiana era caratterizzata da una fortissima
concentrazione territoriale delle insegne e, quindi, da un’altrettanto forte
fedeltà “di necessità” del consumatore, l’efficacia di merchandising non aveva
grande importanza. Il consumatore conosceva bene infatti in questo caso
l’assortimento e la localizzazione dei prodotti perché la sua esperienza
Recentemente, COOP e CONAD hanno testato un layout per funzione d’uso con riferimento in particolare alla
prima colazione. In questo test, gli “spalmabili dolci” sono stati smembrati in miele / marmellata da una parte e creme
di nocciola, dall’altra. La separazione sul piano espositivo dei prodotti che tradizionalmente componevano gli
“spalmabili dolci” ha trasformato un segmento di consumo in una categoria merceologica, con rilevanti conseguenze
sulla “vendibilità” dei prodotti coinvolti.
6
All’interno del banco frigo, il latte fresco occupa in media il 3,34% dello spazio espositivo, ma contribuisce alle
vendite per l’8,72% e al margine per il 6,98%.
5
5
d’acquisto era limitata a uno/due punti vendita/insegne.
La visibilità
dell’assortimento è stata dunque finora un corollario della fedeltà e non
richiedeva alcun intervento manageriale7.
Ora però tutto questo sta
cambiando anche nel nostro paese. Quando il consumatore dispone di più
alternative a livello di forma distributiva, formato di punto vendita e insegna,
l’infedeltà diventa la norma e l’esperienza non può più essere d’aiuto per
localizzare i prodotti. In questo caso, la corretta manovra delle leve del
merchandising
diventa
indispensabile per offrire al consumatore
un’adeguata qualità del servizio. Lo sviluppo del potenziale di merchandising
è peraltro facilitato dalla convergenza di interessi tra industria e distribuzione.
Segmentazione, localizzazione, contestualizzazione e display sono infatti
altrettante
leve manovrabili per aumentare gli acquisti d’impulso
nell’interesse di industria e distribuzione. La collaborazione tra industria e
distribuzione nella manovra di queste leve è fondamentale sia per la
complemetarietà delle competenze che per il sostanziale allineamento di
interessi nell’aumentare la domanda stimolando gli acquisti d’impulso. In
questa sede verrà analizzata in particolare la leva della segmentazione
dell’offerta in quanto, oltre ad essere quella meno presidiata sul piano
analitico, è sicuramente anche quella su cui si verificano i maggiori
scostamenti nella visione industriale e commerciale.
2. La segmentazione dell’offerta secondo il modello
a clessidra
La segmentazione dell’offerta consiste nell’aggregare i prodotti in cluster
omogenei al loro interno ed eterogenei al loro esterno. Con la
segmentazione, le imprese tracciano i confini della loro azione di marketing;
si tratta ovviamente di confini tanto più netti quanto maggiore è l’omogeneità
interna e l’eterogeneità esterna, che a loro volta dipende dal numero di
variabili considerate.
I confini di una categoria merceologica possono
essere infatti definiti attraverso l’intersezione di un numero più o meno
consistente di “insiemi” di prodotti omogenei rispetto ad un dato carattere.
Naturalmente, maggiore è il numero dei caratteri scelti per l’aggregazione e
più ristretti saranno i confini della categoria, che risulterà anche tanto più
omogenea al suo interno. I caratteri utilizzabili nel grocery per la
segmentazione dell’offerta sono numerosi:
 l’occasione di consumo;
Non stupisce che il 90% dei 500 consumatori intervistati nel punto vendita CONAD “Le querce” di Reggio Emilia
abbiano espresso completa soddisfazione sull’esposizione dei prodotti. Trattasi infatti di un punto vendita con
un’altissima frequenza di visita e fedeltà del consumatore.
7
6
 la funzione d’uso;
 la tecnologia;
 la shelf life;
 i materiali utilizzati;
 il gusto, il colore, il profumo;
 il formato di prodotto;
 il tipo di confezione.
Maggiore è il numero di caratteri utilizzati per la segmentazione e più ristretto
è il numero di prodotti e di imprese che popolano l’aggregato. Definendo la
categoria come intersezione di un numero variabile di insiemi omogenei
rispetto ad un dato carattere, è possibile tracciare anche una netta linea di
demarcazione tra la concorrenza effettiva esercitata in un ambito stretto e la
concorrenza potenziale esercitata in un ambito largo. La segmentazione
dell’offerta in categorie di prodotti via via più omogenei, consente di
individuare anche i competitors con cui l’impresa si deve misurare ai diversi
livelli. Per comprendere la complessità della segmentazione dell’offerta, si
può fare riferimento alla categoria della birra; i caratteri di differenziazione
della birra possono essere così articolati:
 gradazione alcolica (analcolica, leggera, normale, speciale, doppio malto,
alla frutta);
 tipo di fermentazione (alta, bassa, spontanea);
 tecnologia di processo (tradizione inglese, scozzese, belga,irlandese,
francese, tedesca, americana, londinese);
 colore (paglierino chiaro, dorato, ambrato, bruno, nero);
 spuma (persistenza, dimensione delle bollicine, cremosità, compattezza);
 profumo (luppolato, fruttato, maltato, erbaceo, floreale).
La diversa combinazione dei caratteri di differenziazione della birra dà luogo
di fatto a 56 segmenti di consumo (cfr. Appendice 1) che, ovviamente, sono
in gran parte sconosciuti alla maggioranza dei consumatori e non vengono
trattati contemporaneamente dai distributori. Se da un lato l’ampiezza
dell’offerta industriale consente ai distributori di differenziare l’assortimento
riducendo di conseguenza la trasparenza del prezzo di categoria, dall’altro, la
differenziazione dell’offerta industriale è sempre eccessiva rispetto alla
differenziazione della domanda e, quindi, spetta alla distribuzione riconciliare
la richiesta di varietà del consumatore con la differenziazione dell’offerta
industriale individuando la miglior combinazione tra rotazione e prezzo al
consumo. Aumentando il numero di segmenti trattati si riduce infatti il tasso di
rotazione in quanto la sensibilità della domanda all’aumento della varietà è
decrescente. La diminuzione del tasso di rotazione determina a sua volta un
aumento dei costi di distribuzione e, quindi, del prezzo al consumo. Esiste
pertanto un trade off tra offerta di varietà e offerta di convenienza la cui
definizione rientra nelle manovre competitive del distributore.
Se poi si considera che le best practices di merchandising prevedono
un’esposizione verticale di categoria e orizzontale di segmento/marca, di
7
fatto, si può creare
una categoria sul piano espositivo solo quando il
numero dei segmenti/marche è pari al numero degli scaffali. Nel caso della
birra, i 56 segmenti di consumo offerti sul mercato vengono di fatto ridotti nei
6 segmenti espositivi illustrati nella figura 1. Il primo passo da compiere nella
segmentazione del mercato consiste dunque nella individuazione delle
“etichette” delle categorie che si vogliono trattare. Con riferimento alla figura
1, supponendo che industria e distribuzione concordino sull’esistenza di una
categoria “BIRRA”. Il secondo passo da compiere consiste nel definire i
confini della categoria individuando i segmenti espositivi, posizionando di
conseguenza al loro interno i prodotti dei diversi segmenti di consumo che si
è deciso di trattare. Il distributore decide la copertura dei segmenti di
consumo in relazione al formato di punto vendita, al ruolo di marketing
attribuito alla categoria, alla differenziazione rispetto ai competitors e al trade
off tra varietà e convenienza.
Il terzo ed ultimo passo consiste
nell’individuare le occasioni di consumo e/ o le funzioni d'uso in cui può
essere ventilata la categoria. Supponendo infatti che i distributori decidano di
organizzare il layout per funzione d’uso / occasioni di consumo allo scopo di
facilitare il reperimento dei prodotti e stimolare gli acquisti d’impulso 8,
occorre decidere se e in che misura ventilare la presenza espositiva della
categoria. Con riferimento alla fig. 1, si tratta di decidere se concentrare o
disperdere l’esposizione della birra. Se si ritiene che la domanda di birra non
vari in rapporto alle occasioni di consumo / funzioni d’uso, la categoria verrà
proposta in un’unica localizzazione e articolata in diversi segmenti espositivi.
Se viceversa si ritiene che il consumatore richieda diversi tipi di birra nelle
diverse funzioni d’uso / occasioni di consumo e, soprattutto, se si ritiene che
aggregando sul piano espositivo prodotti complementari si favorisca
l’acquisto d’impulso, si opterà per la proliferazione della presenza espositiva
della birra. Ciò che peraltro non significa necessariamente aumentare lo
spazio espositivo attribuito alla categoria; si può optare infatti per la doppia
esposizione nel caso di abbondanza di spazio e di elasticità della domanda,
ovvero per l’esposizione singola di un dato segmento di consumo in caso
contrario. Se prendiamo come riferimento un’altra categoria molto distante
dalla birra (fig. 2), la lettura del mercato può essere riproposta con le stesse
modalità: l’esposizione del torrone può essere opportunamente dispersa per
occasioni di consumo se si ritiene opportuno contestualizzare la
differenziazione del prodotto per stimolare gli acquisti d’impulso. Lo stesso
si può dire nel caso in cui la differenziazione del prodotto non si esprima a
livello di segmento di consumo, ma nell’estensione della marca in termini di
formato e packaging. Il Rocher viene attualmente proposto in diversi formati
8
Questo orientamento è gia stato seguito con successo nel non alimentare creando universi espositivi; attualmente,
alcuni distributori stanno sperimentando sia in Italia che all’estero questo tipo di layout. Il layout per occasione di
consumo risponde ad esigenze promozionali e, quindi, è limitato nel tempo e si sovrappone al layout per funzione
d’uso che invece è continuativo. Le occasioni di consumo che hanno una maggior valenza promozionale sono le varie
festività e ricorrenze, l’inizio / fine della scuola, l’ospitalità, la stagionalità.
8
e in diversi packaging in rapporto a quattro occasioni di consumo: fuori pasto
dolce, ospitalità, regalo, ricorrenza. E’ ovvio che, nel caso di un layout del
punto vendita per occasioni di consumo, il Rocher dovrebbe essere proposto
in quattro diverse localizzazioni e contestualizzazioni.
Per chiarire
ulteriormente le opportunità di valore che nascono allargando l’ottica di
marketing, prendiamo in considerazione qui di seguito le differenze che
caratterizzano i prodotti di due categorie merceologiche contestualizzabili
nella funzione d’uso “fuori pasto dolce”.
Merende
Prodotti morbidi
>>>>>
Prodotti per bambini >>>>>>>
Prodotti per la nutrizione >>>>>>
Acquisto programmato
>>>>>
Acquisto multiplo
>>>>>
Comunicazione rivolta
al responsabile d’acquisto >>>>
Snack9
prodotti croccanti
prodotti per adulti
prodotti per la gola
acquisto d’impulso
acquisto singolo
comunicazione rivolta
al consumatore
I prodotti appartenenti alle categorie “merende” e “snack” sono così diversi
che si impone un approccio specifico. La differenziazione del consumer e
trade marketing è del tutto naturale quando i prodotti che appartengono a
diverse categorie vengono proposti con diverse marche. Anche in questo
caso occorre però la collaborazione del distributore, che deve
contestualizzare correttamente i prodotti rispettando il loro profilo di
marketing. Se il distributore non gestisce il layout e il display in modo da
rendere visibili le funzioni d’uso in punto vendita o, addirittura, se i prodotti
sono esposti senza rispettare i confini naturali 10, non è facile per l’industria
differenziare le sue azioni di consumer e trade marketing. A maggior
ragione, la collaborazione del distributore è necessaria quando si tratta di
posizionare uno stesso prodotto in diverse categorie con la stessa marca;
Ringo è per esempio proposto con due diversi formati e packaging per la
costestualizzazione nelle
“merende” e negli
“snack”.
Alla
contestualizzazione di una stessa marca in diverse categorie dovrebbe
corrispondere un diverso prezzo al consumo per unità di misura e, di riflesso,
diverse condizioni commerciali. Ringo snack e la Nutella in formato
Millennium (2 kgr) da regalo dovrebbero essere proposti con un maggior
prezzo al kgr sia per recuperare i maggiori costi di prodotto che per la
9
Questo schema è stato riprodotto per gentile concessione della società Barilla
Non sono infrequenti per esempio i casi di inserimento di un prodotto snack nella categoria delle merende per
beneficiare della maggior rotazione assicurata da questa contestualizzazione.
10
9
diversa contestualizzazione. Di nuovo, le opportunità di marketing che
discendono da una corretta segmentazione possono essere colte solo se
industria e distribuzione trovano il modo di collaborare nella segmentazione
dell’offerta. La partnership nella contestualizzazione dei prodotti è cioè un
prerequisito per la creazione di valore attraverso la differenziazione del
prodotto industriale.
In conclusione, il mercato può essere opportunamente letto su tre livelli
che rappresentano come vedremo altrettanti contesti di riferimento per il
marketing di industria e distribuzione. Adottando una chiave di lettura del
mercato a tre livelli, il formato e il tipo di packaging possono essere
considerati estensioni di prodotto con cui il brand si riposiziona in diversi
segmenti di consumo o in diverse categorie.
Fig.1 2
Siccome non esistono soluzioni oggettive per la segmentazione
dell’offerta, secondo la scuola di pensiero che si esprime nell’ECR è
necessario condividere il linguaggio e la sintassi11 del mercato per:
1- comunicare nel canale;
2- negoziare le condizioni e gli investimenti di trade marketing;
3- valorizzare il patrimonio informativo dei distributori;
4- allineare i confini delle categorie che il consumatore vede in punto vendita
coi confini dell’azione di marketing dell’industria al fine di realizzare
iniziative di marketing integrato.
Il peso delle diverse motivazioni che possono essere portate a sostegno della
necessità di condividere la visione del mercato è diverso per industria e
distribuzione; dalle interviste ai due attori del canale emerge chiaramente che
l’industria attribuisce più importanza al 3° e al 4° carattere, mentre la
distribuzione assegna un punteggio più alto al 1° e al 2° carattere.
L’albero ECR sarebbe dunque una sorta di “esperanto di marketing ” la cui
adozione diffusa permetterebbe, seppur con diverse valenze per i due attori
del canale, di superare l’ostacolo frapposto alla comunicazione dalle
differenti categorizzazioni e dai conseguenti diversi valori economici.
L’omogeneità della segmentazione migliorerebbe la trasparenza del mercato,
in quanto la stima delle quote verrebbe fatta con riferimento allo stesso
frame; la certezza del gradimento espresso dal consumatore attraverso
11
Il linguaggio è espresso dal codice EAN, mentre la sintassi è espressa dalla clusterizzazione dei prodotti che, con
l’esclusione dei prodotti freschi non confezionati e del non alimentare, si articola nei seguenti cinque livelli:
 6 reparti
 63 settori
 313 categorie
 978 segmenti di consumo
 1506 formati e gusti.
I cinque cluster ECR rappresentano la sintassi del mercato, vale a dire altrettanti oggetti di calcolo per i sistemi
informativi e punti di riferimento per la comunicazione di canale.
10
quote di mercato accettate universalmente aiuterebbe poi anche i distributori
nella definizione delle loro politiche assortimentali. Infine, l’omogenità della
segmentazione faciliterebbe anche l’acquisto del consumatore che finirebbe
col trovare in tutti i punti vendita la stessa contestualizzazione dei prodotti 12.
L’albero mercati costruito in sede ECR è stato certamente un esercizio
utile dal momento che ha favorito l’incontro tra industria e distribuzione su
un tema così importante come la segmentazione dell’offerta. Sono però
convinto che i risultati operativi saranno modesti in quanto:
 la visione ECR del mercato è il frutto di un’intesa tra un numero limitato
di aziende industriali / commerciali e non impegna in alcun modo le
singole imprese, che possono adottare una “vista libera” per definire il
loro ambito competitivo;
 il mercato ECR è un albero instabile perché si fonda su poche radici e
sviluppa un numero eccessivo di rami, in quanto il tronco che
rappresenta la categoria (2° livello) è radicato su un solo reparto (1°
livello) e si sviluppa in tre livelli successivi senza tener conto
dell’esigenza di combinare la segmentazione con la visibilità a punto
vendita dei cluster (t.2) 13;
 la lettura del mercato dovrebbe essere invertita definendo prima la
categoria con l’individuazione dei segmenti di consumo da esporre a
punto vendita e, successivamente, decidendo se concentrare o ventilare
per funzione d’uso l’esposizione dei segmenti di consumo;
 la segmentazione dell’offerta rientra nelle manovre competitive e,
quindi, per definizione non può essere condivisa a livello generale.
Dalle interviste effettuate alle imprese industriali e commerciali, non è
emersa una decisa volontà di adozione immediata della segmentazione
ECR (tab.1). Una prima giustificazione di questo atteggiamento
prudenziale può essere ricercata nello scostamento tra la sintassi ECR
e la segmentazione attualmente utilizzata dalle aziende; una piena
coincidenza dei confini di categoria si realizza infatti solo nel 33% dei
casi per l’industria e nel 41% dei casi per la distribuzione.
In particolare, l’intenzione di passare rapidamente alla sintassi ECR
è più consistente (33%) nell’industria che nella distribuzione (20%).
L’adozione generalizzata dell’esperanto ECR porterebbe Nielsen e IRI a competere solo sul prezzo, con la possibilità
che a termine, dopo una forte caduta della profittabilità, nascano poi spinte collusive. Sul fronte distributivo,
l’omogeneità della segmentazione stimolerebbe l’infedeltà dei consumatori che dovrebbero sopportare minori costi
(tempo d’acquisto) nel cambiamento di insegna.
13
La visibilità dei cluster assortimentali può essere realizzata manovrando la leva:
 della contestualizzazione, aggregando le referenze sostituibili;
 del display, esponendo in verticale l’aggregato che si vuol “far vedere” al consumatore e in orizzontare le sue
diverse articolazioni.
Più grande è il punto vendita, maggiore è lo spazio disponibile e la varietà offferta; ciò che permette di rendere
“visibili” cluster assortimentali via via più ristretti. Anche nei punti vendita più grandi è però molto difficile assicurare
la visibilità oltre il terzo livello di segmentazione.
12
11
Questo scostamento è sorprendente se si pensa che molti distributori
non hanno ancora adottato la categoria come unità strategica di
business e, di conseguenza, i loro sistemi informativi non sono
organizzati per categorie; ciò che rende più semplice l’adozione della
sintassi ECR in quanto non è richiesto un cambiamento di abitudini
consolidate. Il 93% dei distributori intervistati ritiene però opportuna la
produzione di dati Nielsen / IRI sulla base della sintassi ECR in aggiunta
a quelli attualmente commissionati dall’industria. Il 71% dei distributori
intervistati si è detto infatti pronto a utilizzare la sintassi ECR per gestire
i rapporti di canale e una sintassi specifica aziendale per supportare le
attività di marketing.
Tab.1 ORIENTAMENTO ALL’ADOZIONE DELLA SINTASSI ECR
No
Si, immediatamente
Si, nel medio – lungo periodo
Distribuzione
20%
20%
60%
Industria
17%
33%
50%
I distributori esprimono un’esigenza di trasparenza nei rapporti di canale
che potrebbe essere almeno in parte soddisfatta da un linguaggio comune
e informazioni omogenee. Non bisogna però dimenticare che la produzione
di informazioni secondo la segmentazione ECR richiederebbe costi
aggiuntivi che difficilmente l’industria è disposta a
sopportare
semplicemente per aumentare la trasparenza dei l rapporti di canale. A
volte infatti, la trasparenza è proprio ciò che si vuole evitare. Questo non
significa però che non vi possa essere una collaborazione tra la singola
insegna e il singolo fornitore per migliorare la contestualizzazione dei
prodotti. La segmentazione dell’offerta rientra infatti nella logica normale
del fornitore che si propone come category captain per contribuire a
migliorare la performance della categoria, o di un insieme di categorie
(funzione d’uso), come presupposto per aumentare nel contempo le
vendite e la marginalità delle sue marche. Questo approccio è già stato
implementato da Wall-Mart che, se da un lato pretende di negoziare coi
fornitori il prezzo netto-netto evitando di conseguenza tutti i
condizionamenti del marketing distributivo derivanti dal fuori fattura,
dall’altro, è disposta a condividere con un fornitore partner di categoria il
suo patrimonio informativo e la manovra del retail mix 14. Vi è un grande
spazio di collaborazione tra industria e distribuzione nella scoperta della
Berry, B., (1998), “Wall-Matr Expectations of Suppliers”, QEII Conference Center, Londra, 8 ottobre 1998
Arnold J. Fernie J. (2000), “Wall-Mar in Europa: Prospettive per il mercato britannico” Industria & Distribuzione, F.
Angeli, n°1
14
12
categorizzazione mentale del consumatore e nell'articolazione delle
rispettive politiche di marketing in funzione di una segmentazione su tre
livelli. Si tratta però di uno strumento di differenziazione competitiva
realizzato da coalizioni verticali. Se da un lato le aziende industriali
“acquistano” la collaborazione dei distributori nel collocamento dei loro
prodotti, dall’altro, vi è anche un sempre maggior impegno a sfruttare le
sinergie di marketing nella aree in cui gli interessi dei due attori sono
allineati Vi sono cioè veri e propri esempi di marketing integrato, vale a
dire iniziative di marketing realizzate congiuntamente da industria e
distribuzione specie nel campo della promozione delle vendite. Il
marketing integrato non è in contraddizione con la visione del canale come
successione di mercati indipendenti in quanto:
 si tratta di coalizioni temporanee che non si basano sul potere di mercato
di un channel leader, ma sono al contrario alimentate dalla
interbrandcompetiton;
 gli obiettivi di marketing dei due attori restano sostanzialmente diversi,
ma nel breve periodo si possono realizzare sinergie collaborando in
specifiche iniziative di sell out.
3. La variabilità dei confini del marketing
industriale e commerciale
La popolazione degli uomini di marketing è stata per lungo tempo
affetta da miopia cronica 15. La miopia consisteva nel fissare gli obiettivi e
nello scegliere i targets per le azioni di marketing guardando ai competitors
più vicini in un orizzonte di breve periodo, trascurando di conseguenza
l’impatto sui competitors più lontani e la concorrenza intersettoriale. I singoli
beni assumono però un valore per il consumatore solo quando sono inseriti
in processi di consumo che soddisfano bisogni complessi. Il consumatore
non trae cioè un’utilità diretta dai singoli beni che acquista, trattandosi di
imputs di un processo che implica una diversa intensità di preparazione a
seconda del contenuto di servizio incorporato nel prodotto 16. Così, per
esempio, il bisogno di nutrirsi e di bere si articola in una serie di processi di
consumo / funzioni d’uso (prima colazione, pranzo, cena, merenda, fine-fuori
pasto) che rappresentano il primo gradino nella gerarchia della soddisfazione
del consumatore e altrettante occasioni di scelta tra prodotti sostituibili, oltre
che di trade off tra acquisto di una materia prima e di un prodotto pronto per
15
16
Levitt T.,(1960)” Marketing myopia”,in: “Harvard Business Review”, luglio-agosto, pag. 24-47
Pellegrini L. (1997), Category management e marketing del distributore, in: Notizie FAID, N° 122
13
il consumo. I distributori iniziano solo ora a rendersi conto che, aggregando i
prodotti in base alla omogeneità merceologica e localizzando poi le categorie
prescindendo dai processi di consumo / funzioni d’uso in cui acquistano un
significato per il consumatore, si perdono consistenti opportunità.
L’affiancamento di prodotti complementari nella funzione d’uso consente
infatti di stimolare gli acquisti d’impulso e di migliorare la qualità del servizio
riducendo il tempo di permanenza nel punto vendita. Raggruppando i
prodotti complementari rispetto ad una data funzione d’uso / occasione
(centro) di consumo, è possibile infatti aumentare nel contempo la qualità del
servizio e gli acquisti d’impulso. Così, per esempio, il cibo per neonati può
essere affiancato ai prodotti per la pulizia e la cura del bambino creando un
aggregato di livello superiore denominato baby care; analogamente, il cibo
per animali può essere affiancato ai prodotti per la pulizia, il controllo e la
cura degli animali creando la funzione di di Pet care. La pasta può essere
per contro affiancata ai sughi e ai condimenti, creando la funzione d’uso
denominata primo piatto. La manovra della leva della contestualizzazione
espositiva richiede dunque una segmentazione dell’offerta in aggregati molto
più ampi di quelli scelti dall’industria per orientare le sue azioni di marketing.
In generale, la distonia tra la visione stretta dell’ industria e la visione ampia
della distribuzione nella lettura del mercato è determinata dal fatto che per il
dettagliante la segmentazione dell’offerta ha sempre una valenza espositiva;
la segmentazione distributiva, al pari della altre leve di merchandising, serve
cioè essenzialmente per influire sul comportamento di acquisto del
consumatore che si trova all’interno del punto vendita. Questa circostanza
trova la sua manifestazione più evidente nella difficoltà con cui l’innovazione
di prodotto può essere riconosciuta sul piano della esposizione a punto
vendita. L’innovazione può determinare un semplice spostamento dei confini
o la nascita di una nuova categoria a seconda del grado di novità:
incrementale o radicale. La nascita di una nuova categoria dal punto di vista
industriale non si traduce però automaticamente in una nuova categoria
anche dal punto di vista commerciale. Per il distributore infatti, la
segmentazione dell’assortimento ha essenzialmente una valenza espositiva;
la categoria può essere gestita però come unità di business sul piano
espositivo solo quando il numero dei segmenti o delle marche è almeno pari
al numero dei ripiani. Questa è infatti la condizione necessaria per adottare
un display verticale di categoria e orizzontale di segmento/marca.
Il produttore non può dunque esimersi dall’ampliare i confini delle
sue azioni di marketing in sintonia con la segmentazione commerciale
dell’offerta; se non seguisse il distributore su questo terreno rinuncerebbe
infatti a delle consistenti opportunità di creazione di valore.
Il distributore è
portato a segmentare l’assortimento per processi di
consumo non solo per soddisfare meglio il consumatore e cogliere nuove
opportunità di marketing, ma anche per aumentare il suo potere contrattuale
14
negli acquisti. Ampliando i confini della categoria di riferimento, il distributore
ottiene infatti:
 una riduzione della quota delle singole marche e, quindi, un
abbassamento della leadership riconosciuta;
 un aumento del numero dei fornitori alternativi e, di conseguenza, una
riduzione del rapporto di dipendenza nei confronti dell’industria;
 un aumento del campo di variazione delle condizioni di vendita e degli
investimenti commerciali e. pertanto, una crescita del potenziale di
miglioramento del valore negoziato sulla singola marca.
Il distributore è infine portato ad ampliare i confini del suo marketing
quando opera nel mercato virtuale dove il “contenuto” è separato dal
“contesto” e dalla “infrastruttura” 17.
La disintegrazione della catena
distributiva del valore porta infatti all’erosione dei confini delle categorie come
unità strategiche di business. Nel mercato virtuale, il distributore si limita ad
offrire il contesto inteso come piattaforma di accesso e navigazione in un
mare di offerte digitali,organizzate secondo confini molto più ampi di quelli del
mercato fisico. E’ il caso per esempio di e-Toys che si sta attualmente
riposizionando come venditore di prodotti per bambini, aggiungendo quindi ai
giocattoli tutte le categorie che rientrano nella funzione d’uso dei prodotti per
l’infanzia. Lo stesso si può dire per Amazon, che ha esteso la sua offerta dai
libri ai CD, DVD / video, software, elettronica di consumo, medicinali e
giocattoli18. Questa diversificazione dei distributori on line non si deve tanto
alle economie che discendono da un’estensione della piattaforma di accesso
e navigazione, oppure alle economie generate dalla concentrazione degli
acquisti per effetto della ripartizione dei costi logistici di consegna della
merce. Questi vantaggi si conseguono infatti anche acquistando da specialisti
in un centro commerciale virtuale organizzato da portali come Yahoo e
America Online. La diversificazione di e-retailers come e-Toys ed Amazon
può essere invece meglio spiegata come estensione della marca
dell’insegna. Dal momento che il vantaggio competitivo si gioca sulla facilità
di accesso e navigazione, il distributore può opportunamente estendere la
sua specializzazione dalla categoria merceologica alla funzione d’uso o alla
occasione di consumo perché ciò agevola la ricerca del consumatore e
stimola gli acquisti d’impulso. Un’estensione dell’offerta oltre la funzione d’uso
può essere al contrario molto pericolosa perché trasformerebbe il distributore
in un generalista con alti costi d’acquisto rispetto ai centri commerciali virtuali.
La distonia tra la visione stretta dell’industria e la visione larga della
distribuzione è destinata tuttavia a ridursi fino a scomparire nel prossimo
futuro man mano che i distributori miglioreranno la qualità del loro
management e l’autonomia del loro marketing. La visione distributiva del
mercato finirà cioè per ampliare i confini del marketing industriale per effetto
17
Per u n approfondimento dei cambiamenti dei rapporti di canale nel mercato virtuale, si veda: G. Lugli, Evoluzione
dei rapporti industria-distribuzione, in: L’Industria, n° 4 / 99
18
Cfr, The Economist, novembre 20th, p. 92
15
di due circostanze concomitanti. In primo luogo per il fatto che il consumatore
è educato a riconoscere la categoria in punto vendita attraverso le azioni di
merchandising e di comunicazione dell’insegna. Spetta al distributore
vendere e comunicare la categoria. In secondo luogo, lo sviluppo di un
marketing di categoria da parte del distributore si tradurrà nella nascita di
nuove opportunità per l’industria di marca che adeguerà la sua visione di
marketing a quella dei distributori.
Il comportamento dei distributori non è però l’unica forza che spinge ad
ampliare i confini del marketing industriale; anche la progressiva
concentrazione di molti settori agisce nello stesso senso. La progressiva
concentrazione di molti settori industriali incide cioè sulla segmentazione
dell’offerta utilizzata per orientare le politiche competitive. Per crescere in
termini relativi all’interno della categoria, il fornitore deve investire risorse
tanto più consistenti quanto più alto è il suo potere di mercato. All’aumentare
della quota di mercato si riduce infatti da un lato la sensibilità alle leve del
marketing mix dei consumatori non trattanti e, dall’altro, aumentano gli sforzi
dei distributori per offrire alternative al consumatore attraverso la marca
commerciale e sostenere sul piano espositivo i followers. Il produttore in
posizione di dominanza può non avere dunque interesse ad aumentare la
sua quota di mercato, in quanto risultati ben più consistenti possono essere
ottenuti impiegando le stesse risorse per allargare le occasioni di consumo
e, più in generale, per sottrarre consumatori e consumi ai sostituti. Se Coca
Cola adottasse per esempio politiche volte a sottrarre volumi all’acqua
minerale o ad altre bevande gassate piuttosto che a crescere in quota nella
cola 19, si assisterebbe ad una crescita in valore assoluto e ad una riduzione
del peso relativo in quanto il mercato di riferimento si amplierebbe. La
soggettività dei confini dell’azione di marketing mette in discussione il rigore
del calcolo delle posizioni di dominanza da parte dell’Antitrust, che si basa
sempre sulla definizione più stretta del mercato 20.
Un altro fattore di ampliamento dei confini del marketing industriale è
l’aumento della promozione di prezzo, che ha finito per accrescere la mobilità
del consumatore. La crescita dell’infedeltà non riguarda solo le marche di
uno stesso segmento di consumo o di una stessa categoria merceologica. Le
diverse categorie sono popolate da fornitori che non si considerano tra loro
in concorrenza, ma che il consumatore ritiene sostituibili rispetto ad una data
occasione di consumo / funzione d’uso. Quando il rapporto di sostituibilità tra
La quota di Coca Cola nella categoria della cola si colloca intorno all’80%.
I confini del mercato rilevante per l’Antitrust variano peraltro in funzione della decisione da assumere. Se si tratta di
assumere una decisione sull’abuso di posizione dominante, i confini di categoria vengono tracciati in modo molto
stretto sia sul piano merceologico che territoriale. Se invece si tratta di autorizzare fusioni e incorporazioni, i confini
della categoria vengono ampliati. Nel caso di Coca Cola, l’Antitrust italiana ha condannato la Compagnia per abuso di
posizione dominante nella categoria della Cola, mentre l’Antitrust francese ha negato l’autorizzazione alla acquisizione
di Orangina assumendo come riferimento il mercato delle bevande analcoliche. Una definizione ristretta del mercato
porterebbe infatti a dover autorizzare le fusioni-incorprazioni in quanto le parti opererebbero su diversi mercati
rilevanti. Sembra quasi che le corti individuino prima il potere di mercato e poi definiscano i confini del mercato per
ravvisare l’esistenza del potere stesso.
19
20
16
categorie è elevato e sostenuto dalla variabilità dei prezzi generata
dall’attività promozionale, l’ambito di riferimento del marketing industriale
finisce per ampliarsi. Le azioni aggressive dei fornitori operanti in una data
categoria merceologica incidono infatti sulle vendite e sui profitti dei rivali
diretti (stessa categoria) in maniera consistente e sui rivali indiretti (diversa
categoria) in maniera meno consistente, ma non trascurabile. Anche nel
nostro paese si comincia dunque ad orientare il marketing e le vendite in
un’ottica di cross category. Quando il contesto di riferimento è la funzione
d’uso o l’occasione di consumo, le azioni più efficaci sono quelle
specificatamente orientate a togliere volumi ai rivali indiretti; i risultati ottenuti
attaccando i rivali indiretti sono peraltro più stabili in quanto non generano di
norma una reazione consistente e immediata. L’allargamento dei confini della
concorrenza comincia dunque
ad avere un risvolto operativo nei
comportamenti delle imprese che non sono più orientate solo a crescere in
quota, ma anche e soprattutto ad allargare il mercato stimolando nuove
occasioni di consumo. Anche sul piano organizzativo, l’allargamento dei
confini della concorrenza comincia ad essere visibile con lo spostamento di
ingenti risorse di trade marketing dal brand management al category
management.
Infine, i confini del marketing industriale si amplieranno quando il
distributore manovrerà la leva della contestualizzazione espositiva,
soprattutto per le imprese che producono beni acquistati prevalentemente
d’impulso. L’aggregazione di prodotti complementari nella funzione d’uso,
oltre a stimolare le vendite incoraggiando l’acquisto d’impulso, rappresenta
un’opportunità anche per il marketing industriale. Molti prodotti sono infatti
consumati in diverse occasioni e, di conseguenza, l’impresa industriale può
differenziare il formato e la formula per adattarli alle esigenze del
consumatore. Questo significa che una stessa marca può essere esposta in
diverse localizzazioni, col risultato di aumentare la sua visibilità ed
accessibilità per il consumatore che di norma visita solo una parte del punto
vendita. Si può dunque creare valore per il consumatore sintonizzando il
marketing industriale col marketing distributivo.
A questo punto dell’analisi possiamo concludere che è in atto un
processo di ampliamento dei confini del marketing industriale e commerciale;
ciò che determina una riduzione della distonia tra la visione stretta
dell’industria e la visione ampia della distribuzione. Questa convergenza
della visione industriale e commerciale del mercato non elimina tuttavia
l’esigenza di differenziare i confini di riferimento a seconda del target che si
vuole raggiungere e dalla leva che si vuole manovrare. Resta dunque da
chiarire la natura e le implicazioni della varianza del contesto in cui prendono
forma le azioni di marketing e si valutano i loro risultati.
La segmentazione dell’offerta varia in rapporto ai tre possibili target
dell’azione di marketing: il consumatore (consumer marketing), il distributore
17
(trade marketing), l’acquirente (marketing distributivo). Quando il marketing
industriale si rivolge al consumatore finale, la visione del mercato non può
che essere assai stretta. La scoperta di vuoti d’offerta da soddisfare con la
differenziazione del prodotto richiede infatti di norma l’individuazione di
segmenti di domanda via via più stretti. Inoltre, la rivalità per la conquista e il
mantenimento delle preferenze del consumatore non può che essere gestita
con riferimento ai competitors e ai prodotti più “vicini”; anche sul piano tattico
dunque, il contesto di riferimento del consumer marketing è definito da un
numero limitato di prodotti e rivali.
Quando invece il produttore orienta la sua attività di marketing nei
confronti del cliente rivenditore per influire sul suo comportamento a sostegno
della marca, la visione del mercato si è amplia. Il distributore valuta infatti la
performance dei brands e orienta il suo comportamento verticale con
riferimento a un contesto molto più ampio del segmento di consumo. Inoltre,
la competizione sul mercato intermedio per acquisire i servizi commerciali a
supporto della marca è di fatto trasversale (cross category); si pensi per
esempio all’esposizione in testa di gondola, piuttosto che fuori banco e in
avancassa. I conflitti di ruolo tra la funzione marketing e la funzione vendite
delle aziende industriali discendono dunque anche da una diversa visione del
mercato di riferimento: più ampia per la funzione vendite nell’attività di trade
marketing e più stretta per la funzione marketing nell’attività di consumer
marketing.
Quando poi il target delle azioni di marketing è rappresentato dal cliente
che si trova all’interno del punto vendita, il contesto di riferimento è
rappresentato da tutti e tre i livelli della clessidra; per influire sulla dimensione
e sulla composizione della spesa, è necessario infatti specificare il retail mix
per segmento, categoria e funzione d’uso.
In definitiva, il contesto in cui possono essere opportunamente
interpretate e valutate le azioni di marketing varia in rapporto al target da
raggiungere secondo lo schema seguente.
Consumatore
(consumer
marketing)
Funzione d’uso /
occasione di
consumo
Categoria
Segmento di
consumo (ASA)
X
Distributore
(trade marketing)
Acquirente
(retail marketing)
X
X
X
X
X
18
La segmentazione dell’assortimento si articola in cluster più o meno
ampi sia in rapporto ai diversi possibili target che ai diversi obiettivi delle
azioni di marketing. Questo principio vale sia per il distributore che per il
fornitore. Se analizziamo per cominciare la variabilità dei confini di marketing
dal punto di vista del distributore, il primo livello di segmentazione consiste
nella aggregazione di tutti i prodotti
sostituibili e complementari nella
funzione d’uso. Questa segmentazione dell’assortimento serve a guidare il
layout (localizzzazione) e il display dei prodotti; la manovra di queste leve si
pone come obiettivi:
 il miglioramento della leggibilità dell’assortimento e della connessa
visibilità dei prodotti;
 l’aumento degli acquisti d’impulso;
 il miglioramento della qualità del servizio riducendo il tempo di acquisto.
La segmentazione dell’assortimento in funzioni d’uso non serve però a
soddisfare altre esigenze gestionali del distributore. La segmentazione
dell’assortimento in funzioni d’uso non serve per esempio per guidare la
negoziazione delle condizioni di acquisto e degli investimenti commerciali dei
fornitori; la comparazione di sconti e contributi può essere infatti utilmente
fatta solo tra fornitori che offrono sostituti vicini che si considerano pertanto
rivali diretti. La stessa misurazione della performance perde di significato
quando viene fatta confrontando prodotti sostituibili solo nella funzione d’uso,
ma largamente eterogenei sul piano del consumo. Occorre dunque
approfondire la segmentazione dell’assortimento specificando le funzioni
d’uso in categorie merceologiche. La segmentazione dell’assortimento in
categorie merceologiche non serve però a sua volta per definire il retail mix
del distributore. Occorre infatti articolare sul piano espositivo l’assortimento
nel maggior numero possibile di segmenti di consumo; il display verticale di
segmento e orizzontale di marca migliora infatti la leggibilità dell’assortimento
e orienta il consumatore verso l’acquisto dei prodotti a più alta marginalità
unitaria. L’unico vincolo alla definizione espositiva di un segmento è la
presenza di un numero di marche almeno pari al numero degli scaffali.
L’omogenietà interna del segmento di consumo è naturalmente molto
consistente in quanto, oltre alla omogeneità propria della categoria, si
aggiungono altri elementi: il gusto, il formato, la fascia prezzo, la shelf life.
Anche il prezzo, la promozione e la comunicazione vanno gestite a livello di
segmento di consumo perché è a questo livello che il consumatore assume le
informazioni per la scelta del punto vendita.
Una segmentazione analoga a quella richiesta per la manovra del retail
mix è necessaria per la manovra delle leve di marketing del fornitore.
L’innovazione e la differenziazione del prodotto devono essere infatti guidate
dalla segmentazione in funzioni d’uso. L’offerta di prodotti intermedi tra
categorie consolidate ha infatti caratterizzato i processi innovativi degli ultimi
anni; si pensi in particolare al passaggio dal caldo al freddo, dal salato al
19
dolce, dal basso contenuto di servizio all’alto contenuto di servizio.
L’estensione della marca per funzioni d’uso rappresenta inoltre una strada
obbligata per aumentare le occasioni di consumo e, nel caso dei distributori
che organizzano il layout per funzioni d’uso, anche per aumentare la
presenza espositiva e con essa le occasioni di acquisto in punto vendita. La
funzione d’uso rappresenta per contro un aggregato troppo ampio per
orientare la comunicazione e la manovra delle leve di trade marketing; per
realizzare un vantaggio competitivo nella mente del consumatore e nel punto
vendita agendo rispettivamente sulla percezione e sul servizio distributivo
accordato al prodotto, occorre manovrare le diverse leve con riferimento ad
un contesto caratterizzato da una maggior omogenità interna come quello
espresso appunto dalla categoria. Infine, la definizione del prezzo relativo
non può prescindere dalla considerazione dei sostituti più vicini; il
posizionamento di prezzo richiede cioè il segmento di consumo come
contesto di riferimento.
La variabilità dei confini del mercato di riferimento può essere dunque
espressa sia in funzione del target (consumatore, distributore, acquirente)
che della leva di marketing che si intende manovrare secondo il seguente
schema.
DISTRIBUZIONE
Layout merceologico
MERCATO RILEVANTE
Funzione d’uso
Negoziazione
Categoria
Retail mix
Segmento di consumo
INDUSTRIA
Politica di
prodotto
Comunicazione e
trade marketing
Politica di prezzo
.
3. La partnership nel category management
La distonia tra la visione industriale e commerciale del mercato di
riferimento può essere in parte ricomposta attraverso il depotenziamento
del trade marketing e la condivisione del retail marketing, sviluppando in
sostanza la partnership nel category management. La soddisfazione
puntuale e completa del consumatore è il cemento che unisce industria e
distribuzione nelle rispettive azioni di marketing. Molti conflitti verticali
nascono dalla pretesa di soddisfare ciascuno il proprio consumatore,
dimenticando che il consumatore di beni non è una persona diversa dal
consumatore di servizi; i due elementi dell’offerta si vendono peraltro
congiuntamente e si influenzano a vicenda. Per soddisfare dunque
completamente il consumatore occorre estendere l’orizzonte temporale
20
delle azioni di marketing e neutralizzare sul piano competitivo i rapporti di
canale. Ciò che significa da un lato ridurre gli investimenti di trade
marketing e, dall’altro, ridimensionare il ruolo del buyer spostando la
negoziazione a valle del marketing nella catena del valore distributivo. Gli
investimenti sui clienti rivenditori generano infatti solo vantaggi non
sostenibili; non appena il flusso di denaro si interrompe o il competitor
decide di offrire di più per ottenere la collaborazione di una data insegna, si
ritorna al punto di partenza. Il trade marketing, a differenza del consumer
marketing, non genera alcuna accumulazione di valore. Più consistenti
sono gli investimenti di trade marketing e più instabili sono le quote di
mercato delle marche industriali; analogamente, più consistenti sono gli
investimenti di trade marketing e maggiore è la varianza delle quote di
vendita che le marche industriali realizzano nelle diverse aree e nelle
diverse insegne.
Nel medio – lungo periodo Industria e Distribuzione
perseguono il comune obiettivo della fidelizzazione; il consumatore fedele
alla marca è in genere fedele anche all’insegna. I fornitori più lungimiranti
non puntano più dunque oggi a limitare l’autonomia di marketing dei clienti
con riferimento ai brands del loro portafoglio, ma si propongono come
partners per il miglioramento della performance della categoria.
L’interesse dell’industria a sposare la categoria come unità strategica di
business (ASA) discende dal fatto che, aiutando i clienti a migliorare la
performance della categoria, è possibile far crescere nel contempo la quota
della marca. L’obiettivo della politica distributiva è dunque lo stesso; ciò che
cambia è l’approccio ai clienti rivenditori e gli strumenti impiegati. Col trade
marketing si investivano risorse sui clienti per evitare discriminazioni
espositive, per ottenere il miglior servizio distributivo alla marca, oltre che
naturalmente per utilizzare il punto vendita e l’insegna come mezzi di
comunicazione e promozione delle vendite. Col category management,
l’orizzonte del fornitore si amplia all’intera categoria e il suo contributo al
miglioramento della performance può spaziare dalla semplice condivisione
del patrimonio informativo all’affiancamento del cliente rivenditore nella
manovra del retail mix per un certo numero di punti vendita in test. Se col
trade marketing il fornitore investiva sui distributori per ottenere un servizio
commerciale adeguato a supportare gli obiettivi di vendita della marca, col
category management invece l’investimento è indiretto; il fornitore finanzia
cioè la crescita della qualità del management distributivo nella convinzione
che la performance della categoria possa essere migliorata in sintonia con la
crescita in quota della marca. Questa convinzione ha il suo fondamento
logico nella performance di categoria, che è particolarmente modesta
quando:
 la visione distributiva del mercato è troppo ampia e tale da assegnare un
eccessivo peso alle interdipendenze tra categorie 21;
21
Si pensi in particolare alla vendita in perdita di alcuni prodotti per crear traffico al punto vendita.
21
 il distributore non dispone di competenze, risorse e modelli organizzativi
idonei ad assumere la categoria come unità strategica di business;
 vi è forte distonia tra la leadership goduta dal fornitore sul mercato del
consumo e il posizionamento competitivo sul mercato intermedio.
Ovviamente, il category management non potrà sostituire completamente il
trade marketing; sul piano organizzativo, lo sviluppo della partnership
attraverso la gestione congiunta della categoria è stato peraltro assegnato
proprio alla funzione trade marketing. E’ difficile prevedere in che misura il
nuovo approccio sostituirà il vecchio, anche perché la sostituzione dipenderà
dalla disponibilità dei distributori a seguire i fornitori sulla nuova strada. In
questa sede non interessa però tanto la ristrutturazione degli investimenti che
supportano la politica distributiva dell’industria di marca, quanto piuttosto la
logica e gli strumenti del passaggio dal brand management al category
management.
Il category management consiste nell’adozione della categoria come
unità strategica di business nei rapporti col consumatore e nelle relazioni di
canale. Con questa definizione si è risolto alla radice il problema
dell’appartenenza del category management; industria e distribuzione
possono cioè avere entrambi un’approccio strategico alla categoria nel
momento in cui condividono il contesto di riferimento per tutte le attività
generatrici di valore.
Il primo passo che un distributore compie verso il category
management è la ventilazione degli obiettivi di sell out e di margine per
categoria; quest’esercizio viene naturalmente compiuto in base al ruolo di
marketing attribuito alle singole categorie. Se ad una categoria viene
attribuito il ruolo della creazione di traffico per un certo periodo e per uno o
più formati di punto vendita, la conseguenza diretta sarà un aumento delle
vendite ed una riduzione della marginalità unitaria. Gli obiettivi di vendita e di
margine attribuiti alla categoria vengono poi ventilati per fornitore ed è a
questo punto che si attiva il primo banco di prova della partnership nella
gestione della categoria. Il fornitore potrebbe infatti non essere d’accordo sul
ruolo attribuito alla categoria e, di conseguenza, sulle vendite e sul margine
unitario della categoria oltre che della marca. Questo conflitto nasce da una
diversa visione di marketing di industria e distribuzione. L’industria, per
quanto possa ampliare la sua visione di marketing, non arriverà mai oltre la
categoria. Al contrario, la visione di marketing della distribuzione si estende
sempre alla funzione d’uso e all’intero punto vendita; di conseguenza, il ruolo
assegnato ad una categoria ha sempre una valenza trasversale sia che si
tratti di crear traffico sia che si tratti di fidelizzare la clientela sviluppando
un’immagine di convenienza, qualità e servizio. La decisione di attribuire un
dato ruolo di marketing ad una data categoria spetta dunque al distributore
proprio per la valenza trasversale di questa decisione. D’altra parte, se il
partner industriale deve accettare come vincolo il ruolo di marketing attribuito
22
dal cliente, non può però
rinunciare alla condivisione della sua
implementazione. Il successo
della partnership si misura infatti con
l’incremento di performance della categoria ed è compito del
fornitore
evitare che la visione trasversale del distributore finisca per penalizzare
eccessivamente la categoria. Concretamente, supponiamo che il distributore
attribuisca il ruolo di creazione di traffico alla categoria “birra”; per evitare che
questa scelta si traduca in un aumento delle vendite modesto rispetto alla
riduzione della marginalità unitaria, il fornitore può chiedere di:
 limitare la promozione al periodo di massima stagionalità;
 promuovere solo i segmenti di consumo e le marche più sensibili al prezzo;
 declinare l’intensità della promozione per formato di punto vendita;
 differenziare le marche in promozione per area territoriale;
 finanziare la promozione con risorse assegnate al marketing di insegna.
Un’altra fonte di conflitto è il contenuto del category management, che
per molte aziende industriali significa solo puntare alla ottimizzazione della
performance di categoria condividendo la manovra del retail mix. Per la
distribuzione invece, l’ottimizzazione della performance di categoria viene
ricercata combinando retail mix e negoziazione. All’industria di marca che
opera in più categorie merceologiche viene infatti chiesto di:
 rinunciare al sostegno dei prodotti deboli con gli strumenti della vendita
abbinata a prodotti forti, oltre che con sconti e i contributi trasversali;
 differenziare le condizioni commerciali e gli investimenti di trade marketing
in funzione dei diversi contesti in cui si inseriscono i suoi prodotti 22.
L’industria non può però accettare una completa contestualizzazione della
negoziazione per categoria; per esempio, non è pensabile che il fornitore
possa accettare di chiudere il contratto con uno stesso cliente su alcune
categorie e non su altre. L’adozione della categoria come punto di
riferimento per amministrare le relazioni di canale non può esprimersi cioè
nel completo abbandono della vecchia logica del portafoglio prodotti, ma solo
nella sua evoluzione. Un ulteriore elemento di complessità interviene poi
quando la negoziazione cross category riguarda diverse aziende di uno
stesso gruppo industriale.
Un’altra fonte di conflitto è la possibile strumentalizzazione della
negoziazione di categoria. Il distributore potrebbe infatti ricercare il partner
industriale nella gestione della categoria a valle dell’assegnazione del ruolo di
marketing. Nel caso per esempio dell’assegnazione del ruolo della creazione
di traffico, il category captain potrebbe essere individuato in funzione della
disponibilità a supportare questa autonoma decisione del distributore; il che
significa mettere all’asta la partnership nel category management
individuando il fornitore che è disposto ad investire di più. Oppure, il
Dalle interviste all’industria di marca è emerso che oggi la differenziazione per categoria del trade marketing
interessa principalmente le condizioni di vendita; in futuro, si prevede un’accentuazione della differenziazione del
servizio logistico e dei contributi promozionali
22
23
distributore potrebbe scegliere come category partner il follower per ridurre
la sua dipendenza dal leader; in questo caso, il follower accetta di aumentare
il valore negoziale in cambio di una sua crescita in quota nell’insegna.
Ovviamente, questi comportamenti opportunistici impediscono una
collaborazione reale e stabile nel miglioramento della performance di
categoria.
La partnership nel category management richiede un
cambiamento radicale nel comportamento negoziale di entrambi; il fornitore
deve ridurre fortemente il suo orientamento al portafoglio prodotti e il
distributore deve spostare la negoziazione a valle del marketing nelle attività
che compongono la catena del valore distributivo.
Un altro ostacolo che si incontra sulla strada della partnership nel
category management è la replicabilità delle soluzioni testate.La necessità di
differenziare il retail mix per formato di punto vendita e per area territoriale
riduce la replicabilità ed evidenzia un contrasto di fondo tra la visione di
marketing dei due attori del canale. Il fornitore
può accettare una
differenziazione per formato del retail mix di categoria, ma non può
condividere una differenziazione territoriale del retail mix di categoria se non
è giustificata dalla domanda, ma dalle esigenze competitive del distributore.
Spesso poi la scarsa replicabilità del test viene strumentalizzata dal
distributore che moltiplica così il numero dei partners di categoria per formato
e area territoriale. Siccome l’investimento del fornitore si giustifica solo in una
prospettiva ponderale e, d’altra parte, non avrebbe senso ridurre l’orizzonte
della partnership al punto vendita in test, la replica delle soluzioni testate con
successo va messa in conto fin dall’inizio. D’altra parte, il fornitore può
proporre lo sviluppo della partnership nel category management solo ai clienti
che non operano in sovrapposizione territoriale; ciò che introduce da un lato
un limite strutturale alla replicabilità e, dall’altro, apre questo nuovo modello
di relazione anche alle imprese che non detengono una posizione di
leadsership.
Un ultimo ostacolo alla partnership si incontra nell’organizzazione dei
due attori del canale. Per l’industria, realizzare test di category management
significa spostare responsabilità e risorse dal marketing alle vendite; ciò che,
in attesa di uno sviluppo del modello organizzativo, può essere fatto solo per
iniziativa e sotto il controllo del top management. Per il distributore, la
collaborazione col fornitore in un test di category management implica la
separazione e la subordinazione dell’attività di negoziazione alla attività di
marketing; ciò che di nuovo può essere fatto solo per iniziativa e sotto il
controllo del top management. I vertici aziendali hanno però fin’ora
manifestato grande prudenza nel supportare l’evoluzione al category
management per non turbare equilibri consolidati e, in sostanza, per non
creare conflitti interni che avrebbero ripercussioni imprevedibili.
24
Un punto di equilibrio delle opposte esigenze potrebbe essere trovato
scambiando la garanzia di miglioramento della performance di categoria
offerta dal fornitore con l’impegno del distributore ad estendere per formato
le soluzioni testate con successo.
Che la partnership nel category management sia la strada giusta per
creare valore trova oggi conferma nell’interesse dell’antitrust inglese che
accusa i due attori del canale di collusione per tenere alti i prezzi ed
escludere i piccoli fornitori dall’assortimento 23. La partnership nel category
management riduce la trasversalità del marketing distributivo in quanto la
visione ampia del mercato propria delle aziende commerciali viene
controbilanciata dalla visione strettta propria delle aziende industriali. Se la
collaborazione si estende a numerose categorie, è probabile dunque che si
riduca fino a scomparire la propensione del distributore a vendere sotto costo
per creare traffico. Questo non significa però colludere per tenere alti i
prezzi, ma eliminare una forma di concorrenza che in alcuni paesi è ritenuta
distorcente al punto che è stata sancita la sua illegalità. Anche l’accusa di
collusione per escludere i fornitori più piccoli mi sembra poco fondata. Non
bisogna infatti dimenticare che gli assortimenti commerciali sono
costantemente aumentati in ampiezza e in profondità in tutti i paesi; ciò che
mal si concilia con la tesi di una collusione per ridurre le alternative offerte al
consumatore. Soprattutto, ampiezza e profondità dell’assortimento non
possono essere confusi con la varietà dell’offerta. Un assortimento di
categoria che si presenta ampio come numero di marche e profondo come
numero di referenze per marca può essere nel contempo poco vario se alcuni
importanti segmenti di consumo risultano scoperti. In termini di wellfare può
essere opportuna una riduzione di ampiezza e profondità se realizzata per
aumentare la copertura dei segmenti di consumo. Siccome poi la sensibilità
della domanda all’aumentare dell’ampiezza, della profondità e della varietà, è
ovviamente decrescente, il tasso di rotazione si riduce man mano che
aumenta il numero di alternative offerte al consumatore. La riduzione del
tasso di rotazione determina a sua volta un aumento dei costi di distribuzione
e, quindi, un aumento del prezzo al consumo. Spetta al distributore
riconciliare la domanda di alternative di acquisto con la domanda di
convenienza attraverso una politica assortimentale definita con la
collaborazione del produttore che, avendo maturato una profonda
conoscenza del consumo dei suoi prodotti, può fornire preziose informazioni
al cliente rivenditore.
23
Cfr. MARKUP, dicembre 1999
25
Fig. 1 - IL MODELLO A CLESSIDRA
Pulizia della
persona
Mangiare
BISOGNI
Pulizia dei
capi
Pulizia della
casa
bere
FUNZIONI
D’USO
Prima
Primo Secondo Contorni Pane e Fine Fuori
colazione piatto piatto
sostituti pasto pasto
Feste e Ospitalità
ricorrenze
CATEGORIA
BIRRA
SEGMENTI
ESPOSITIVI
Standard
Premium
Superpremium
Specialty
Analcoliche/Light
Saving
26
FIG. 2 - IL MODELLO A CLESSIDRA
BISOGNI
SODDISFATTI
DAL
SUPERMERCATO
Mangiare
Piaceri di
gola
Bere
Pulizia della
persona
Pulizia dei
capi
Pulizia della
casa
FUNZIONI
D'USO/
OCCASIONI DI
CONSUMO
Merende
Snack
Ospitalità
Regalo
Ricorrenza
CATEGORIA
SEGMENTI DI
CONSUMO DA
SELEZIONARE
PER
L’ESPOSIZIONE
TORRONE
Torrone classico torrone classico
torrone classico
torrone classico
duro alla nocciola duro alla mandorla tenero alla nocciola tenero alla mandorla
torrone specialità torrone specialità torroncini classici torroncini classici torroncini ricoricoperto
nocciolato
morbidi
duri
perti al cioccolat
27
T. 2 – Segmentazione ECR dell’offerta grocery
Drogheria Alimentare




















Prodotti da forno e
cereali
Fuori pasto dolci
Fuori pasto salati
Specialità etniche
Olio, aceto e succo di
limone
Conserve animali
Conserve vegetali e
frutta
Insaporitori
Sughi, salse e
condimenti
Pane e sostitutivi
Preparati e piatti pronti
Prodotti dietetici
Cibi infanzia
Preparati bevande calde
Pasta
Riso
Ingredienti base
Latticini uht e
assimilabili
Spalmabili dolci
Ricorrenze
Bevande










Acqua
Champagne/spu
mante
Vino
Liquori
Aperitivi
Bevande piatte
Bevande gasate
Succhi di frutta
Altre bevande e
preparati
Birre
Freddo


Gelati
Surgelati
Fresco











Da bere
Bianco
Formaggi
Yogurt
Freschi dolci
Latte e panna
fresca
Condimenti
freschi
Salumi
Precotti
Altri prodotti
freschi
Piatti
pronti/specialit
à
Pasta fresca
Uova fresche
Cura Casa
Cura Persona
 Detergenti
superfici
 Commodities
 Detergenti
stoviglie
 Usa e getta
 Accessori
 Deodoranti
ambienti
 Insetticidi
 Detergenza
bucato
 Cura tessuti
 Igienico
sanitari
 Igiene
personale
 Prima infanzia
 Igiene orale
 Rasatura e
depilazione
 Capelli
 Corpo, mani e
piedi
 Viso
 Profumeria
cosmetica
Ai gusti

Compatto
Brassé
Bifidus
Greco
Pezzi frutta
 Pet food
 Accessori pet e
lettiere
63
CATEGORIE
1092
SOTTOSEGMEN
TI DI CONSUMO
Intero

Bambino
7
REPARTI
331
SEGMENTI DI
CONSUMO
Minipasto
Magro
Pet Care
Goloso
1.739 FORMATI/
GUSTI
220.000 REFERENZE
28
APPENDICE: BIRRE OTTENUTE MEDIANTE ALTA FERMENTAZIONE
Bitter Ale
Strong Ale
Light Ale
Pale Mild
Dark Mild
Tradizione inglese
Brown Ale
Old Ale
Barley Wine
Pale Ale
India Pale Ale
Real Ale
Tradizione scozzese
Scotch Ale
Strong Scotch Ale
Tradizione irlandese
Red Irish Ale
Belgian Ale
Golden Strong Ale
Dark Strong Ale
Tradizione belga
Saison
ALE
Trappiste
D’Abbazia
Tradizione francese
Bière De Garde
Tradizione germanica
Altbier
Tradizione americana
Kolsch
Cream Ale
Steam Beer
Milk Stout
STOUT
Tradizione inglese
Oatmeal Stout
Imperial Stout
PORTER
Tradizione irlandese
Dry Stout
Tradizione londinese
Porter tradizionale
Porter moderna
Ambrata–rossa, molto luppolata con
scarsa schiuma
Versione più forte della Bitter Ale
Ambrata–rossa molto calorica
Chiara, meno luppolata e con gradazione
inferiore alla Bitter
Versione scura della Pale Mild
Scura, prodotta con malto–caramellato,
gusto dolce
Scura ad alta gradazione con un certo
corpo
Scura con gradazione vicina a quella del
vino, di notevole corposità
Ambrata–rossa dal gusto particolare
Più alcolica e luppolata della Pale Ale
Ambrata–rossa aggiunta di lieviti e
invecchiata
Scura con sapore maltato
Versione più forte della Scotch Ale
Ambrata–rossa dal noto sapore
leggermente burroso
Ambrata–rossa più aromatica e alcolica
delle britanniche
Versione più forte della Belgian Ale,
dorata dal sapore morbido e fruttato
Versione scura a maggiore gradazione
della Belgian Ale
Color arancio scuro molto luppolata dal
gusto acidulo con sentore di frutta ed erbe
speziate
Colore variabile dall’oro al marrone
scuro, gusto fruttato e aromatizzato,
corpose ad alta gradazione
Simili alle Trappiste
Color ramato ad alta gradazione ottenute
mediante rifermentazione in bottiglia
Ambrata–rossa, dal sapore pulito simile
alle “Ale” inglesi e belghe
Chiara dal sapore leggermente fruttato
Chiara, cremosa di bassa gradazione
Chiara ottenuta da lieviti tipici della
fermentazione bassa: birra vivace
Scura e corposa dal sapore dolce
Scura, particolarmente corposa per
aggiunta di farina di avena
Versione ad alta gradazione, corposa con
sentore di ribes
Scura, gusto amaro, corposa di normale
gradazione
Scura, molto alcolica
Versione a gradazione moderata
29
APPENDICE: BIRRE OTTENUTE MEDIANTE BASSA FERMENTAZIONE
Pils
Munchner Hell
Munchner Dunkel
Vienna
Marzenbier
Red Lager
Dort Export
LAGER
Ruchbier
Dark Lager
Ice Beer
Dry Beer
Strong Lager
Bock
Recente tipologia di lager chiara ottenuta mediante
abbassamento della temperatura sotto zero
Anch’essa recente, chiara dal sapore secco, neutro senza
retrogusti
Di buona corposità, con sentore di malto che prevale sul luppolo
e conseguente aromaticità contenuta
Tipica tedesca con gradazione alcolica sostenuta (6–7°)
Dunkel Weizen
Weizenbock
Versione più alcolica e maltata delle Weizennbier
Doppelbock
Malt Liquor
Bière Blanche
Hofenweizen
Kristallklar
Frambozen
Birra di frumento speciale a bassa gradazione, disponibile in tre
versioni (bianca, verde, e rossa) con aggiunta di un particolare
fermento lattico che le conferisce una tipica acidità fruttata
Birra a fermentazione spontanea ottenuta con una miscela di
orzo maltato e frumento non maltato, molto luppolata con
luppolo invecchiato: ne scaturisce un aroma più attenuato, gusto
acidulo, colore ambrato e scuro, consistenza vinosa
Ambrata–rossa ottenuta dalla miscela di Lambic giovane e
invecchiata
Lambic ambrata–rossa dal sapore fruttato dovuto all’aggiunta di
amarene
Versione che prevede l’aggiunta di fragole
Faro
Lambic ottenuta con aggiunta di zucchero o caramello, dal
caratteristico sapore dolce–acido e colore marrone
Berliner Weiss
Lambic
ALTRI TIPI DI BIRRA
Versione scura
Ambrata–rossa maltata dal sapore dolce
Ambrata–rossa a gradazione alcolica leggermente superiore
delle normali lager
Rossa, alternativa alle tipologie viennesi e Marzenbier
genericamente qualificate anche Red Beer
Chiara, via di mezzo tra una Pils e una Munchner anche se
leggermente più forte
Scura dal caratteristico gusto affumicato
Alternativa alla Runchbier sempre di colore scuro
Versione della Bock utilizzata a maggio per festeggiare la
primavera
Versione che supera i 7,5°
Birra statunitense ad alta gradazione
Birra ottenuta da una miscela orzo–frumento (frumento non
maltato), chiara, denominata anche Witbier, dal leggero tono di
acido lattico e intenso aroma di frutta
Birra chiara rifermentata e non filtrata con la caratteristica di
avere il residuo di lieviti in bottiglia
Weizennbier ottenuta con una miscela di cereali–frumento (con
frumento maltato prevalente sugli altri) chiara dal sapore fruttato
Versione più scura e abboccata delle Weizennbier
Maibock
ALTA GRADAZIONE
Chiara, gusto secco amaro e luppolato, abbondante schiuma con
gradazione alcolica tra 4 e 5 gradi
Chiara, sapore maltato e aroma poco luppolato
Geuze
Kriek
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