Governance e Responsabilità sociale

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Governance
e Responsabilità sociale
· Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di
governance. Mutamenti in atto nelle scelte strategiche e
nelle politiche delle aziende
· Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
I Quaderni di Unipolis / on line
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Governance e Responsabilità sociale
Questa pubblicazione raccoglie le ricerche sul tema Governance e responsabilità sociale,
promosse dalla Fondazione Unipolis in due successivi momenti, ma che hanno una loro
unitarietà e coerenza di fondo.
La più recente, sviluppata tra il 2011 e il 2012, ha avuto come argomento di indagine e
riflessione i “Modelli e le esperienze CSR in relazione ai sistemi di governance. Mutamenti in
atto nelle scelte strategiche e nelle politiche delle aziende”. Essa è stata realizzata in stretta
collaborazione con il Dipartimento di Scienze Giuridiche “A. Cicu” dell’Università di Bologna,
cui la Fondazione ha erogato un assegno di ricerca. Oltre all’esito del lavoro analitico svolto,
vengono pubblicati gli interventi dei partecipanti al seminario di presentazione del 29 marzo
2012. La ricerca è stata effettuata sotto l’egida di un Comitato di indirizzo composto da:
Giorgio Riccioni (coordinatore), Walter Dondi, Pierluigi Morara, Marisa Parmigiani, Elisabetta
Righini, Lamberto Santini e Francesco Vella. La realizzazione è stata curata da Costanza Russo,
ricercatrice del Dipartimento di Scienze Giuridiche “A. Cicu” dell’Università di Bologna.
La seconda ricerca, svolta e presentata nel 2009, ha avuto come obiettivo l’”Analisi dei Codici
Etici d’impresa in Italia” ed è stata realizzata direttamente dalla Fondazione, con la
collaborazione di personalità ed esperti. Questa ricerca, con una serie di commenti e di
contributo, era già stata oggetto di pubblicazione all’indomani della presentazione ma,
essendo esaurita, si è ritenuto opportuno riproporla, anche in considerazione della sostanziale
unitarietà dei temi sviluppati, che attengono al rapporto tra le modalità con le quali vengono
affrontati i temi della responsabilità sociale d’impresa, sia in chiave etica e valoriale, che nelle
politiche di sostenibilità, in relazione ai sistemi di governo delle aziende. Anche questa ricerca si
è svolta avvalendosi di un Comitato di indirizzo composto da: Giorgio Riccioni (coordinatore),
Maria Bettazzoni, Walter Dondi, Pierluigi Morara, Marisa Parmigiani, Elisabetta Righini,
Lamberto Santini, Francesco Vella. La realizzazione è stata curata da Paola Lanzarini e Silvia
Furfaro per conto della Fondazione Unipolis.
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Indice
Etica, responsabilità e regole. L’integrazione di sostenibilità e business
di Pierluigi Stefanini e Walter Dondi…………………………………………………………………………………………………..........p.5
PRIMA PARTE
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance. Mutamenti in atto nelle scelte
strategiche e nelle politiche delle aziende
1. Introduzione.............................................................................................................................................p.11
2. La ricerca
2.1 Obiettivi della ricerca……...............................................................................................................……p.12
2.2 Metodologia e campione....................................................................................................................p.13
2.3 I questionari........................................................................................................................................p.15
2.4 Limiti...................................................................................................................................................p.15
3. Analisi qualitativa: il settore finanziario e quello delle multiutility
3.1 La governance e il grado di strutturazione della funzione di CSR.......................................................p.16
3.2 L'integrazione della CSR nelle politiche aziendali...............................................................................p.17
3.3 La robustezza della funzione di CSR: budget e personale...................................................................p.18
3.4 Analisi multivariata.............................................................................................................................p.19
4. Principali spunti emersi ...........................................................................................................................p.19
Il punto di vista degli esperti.......................................................................................................................p.21
Il contesto europeo…………………………………………………………………………………………………………………………………p.26
Gli Interventi al seminario di presentazione
Maurizio Chiarini...........................................................................................................................................p.30
Paolo Migliavacca.........................................................................................................................................p.32
Valter Serrentino...........................................................................................................................................p.32
Francesco Vella.............................................................................................................................................p.33
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Perché investire su etica e responsabilità sociale
di Giorgio Riccioni…………………………………………………………………………………………………………………………………….p.35
SECONDA PARTE
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
1. Introduzione
1.1 Obiettivi della ricerca…….....................................................................................................................p.39
1.2 Limiti dello studio................................................................................................................................p.40
2. La Responsabilità Sociale d’Impresa tra autoregolamentazione e legislazione…………………………………...p.40
2.1 Il Codice Etico e il Comitato Etico ......................................................................................................p.42
2.2 Il decreto legislativo 231/2001 ..........................................................................................................p.43
3. La ricerca: analisi quantitativa e qualitativa
3.1 L’analisi quantitativa
3.1.1 La metodologia….………….............................................................................................................p.47
3.1.2 L’analisi dei dati
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Governance e Responsabilità sociale
3.1.2.1 Profilo del campione di aziende selezionate…………….………………………………….…………....p.47
3.1.2.2 Caratteristiche generali del Codice Etico…………………….………..…………………………….….…..p.47
3.1.2.3 Gli Organismi garanti del Codice Etico…………………………..…………………….……..................p.49
3.1.2.4 Procedure di segnalazione e verifica a supporto dell’attuazione del Codice Etico…… .p.51
3.2 L’analisi qualitativa
3.2.1 La metodologia……………............................................................................................................p.52
3.2.2 L’analisi dei risultati
3.2.2.1 Il campione delle aziende e gli intervistati....................................................................p.52
3.2.2.2 Ruolo, funzione e impatto del Codice Etico .................................................................p.52
3.2.2.3 Approfondimenti sull’Organo garante del Codice Etico.…………..….…………………...........p.53
3.2.2.4 Il sistema di segnalazione, verifica e attuazione ……………….………….……………..……...…..p.54
3.2.2.5 I punti critici e le buone prassi…....................................................................................p.56
4. Alcuni modelli di governance della Responsabilità Sociale d’Impresa
4.1 Modello Classico.............................................................................................................................p.57
4.2 Modello 231....................................................................................................................................p.57
4.3 Modello CSR....................................................................................................................................p.59
4.4 Proposta di modello di governance CSR..........................................................................................p.63
5. Commenti
5.1 Sintesi del seminario interno………………………………………………………………………………………………………p.63
5.2 Il rapporto tra Codice Etico e Responsabilità Sociale d’Impresa di Marisa Parmigiani………….…....p.66
5.3 Il Codice Etico per una governance multi-Stakeholder della Responsabilità Sociale d’Impresa
di Lorenzo Sacconi…………………………………………………………………………………………………………………..…..p.69
5.4 I Codici Etici nel sistema normativo delle imprese di Mario Viviani................................................p.73
6. Riferimenti bibliografici............................................................................................................................p.83
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Presentazione
Etica, responsabilità e regole.
L’integrazione di sostenibilità e business
di Pierluigi Stefanini e Walter Dondi
In questa pubblicazione vengono raccolte le ricerche
realizzate e promosse dalla Fondazione Unipolis tra il
2009 e il 2012 riguardanti il rapporto tra governance
d’impresa e responsabilità sociale in Italia, nonché i
contributi e le riflessioni che hanno accompagnato le
loro presentazioni pubbliche.
La prima ha avuto come oggetto l’analisi
dell’applicazione dei codici etici nelle aziende, la
seconda – che ha visto il determinante contributo
dell’Università di Bologna - in modo più specifico la
relazione tra i modelli e le esperienze di CSR e i sistemi
di governo delle imprese. Ancorché si discuta da
tempo delle tematiche connesse alla responsabilità
sociale e alla sostenibilità nelle aziende, risultano
ancora scarsamente esplorate le questioni che
riguardano il rapporto tra queste politiche e la
governance d’impresa. Che è poi il cuore del sistema
decisionale di un’azienda. Laddove, cioè, risiedono i
più delicati aspetti della relazione tra la proprietà e il
management. In particolare – anche se non
esclusivamente - per le aziende e i gruppi quotati in
borsa.
Si tratta di ricerche, di analisi, di interventi, che non
hanno alcuna pretesa di completezza e tantomeno di
esaustività. Tuttavia, si segnalano per essere
innovative per argomenti, approccio e profondità.
Anche per questo, riteniamo, hanno suscitato un
indubbio interesse da parte di coloro che da più
tempo e con continuità affrontano queste
problematiche.
Il contesto nel quale queste due iniziative si collocano
è peraltro contrassegnato dalla profondissima crisi che
ha investito, a partire dall’estate del 2007 ed esplosa
nel settembre dell’anno successivo con il fallimento
della Lehman Brothers. In questi anni abbiamo così
potuto misurare tutti i limiti, e diciamo pure anche i
fallimenti, di un modello di sviluppo e di gestione
dell’attività imprenditoriale come quello che ha
dominato gli ultimi decenni e che è giunto a investire
la stessa solidità degli stati.
Senza alcuna pretesa di compiere, in questa sede, una
analisi anche solo in superficie della crisi, delle sue
ragioni e delle sue conseguenze, non si può tuttavia
prescindere dall’evidenziare come già nel corso degli
ultimi anni fosse emerso con una certa chiarezza che il
prevalere della finanza, dei meccanismi di leva del
Pierluigi Stefanini è Presidente del Gruppo Unipol e della
Fondazione Unipolis. Walter Dondi è Responsabile Etico e CSR del
Gruppo Unipol e Direttore della Fondazione Unipolis.
debito volti a massimizzare la redditività del capitale a
breve e brevissimo termine − compresi i giganteschi
bonus ai grandi manager che avevano sconvolto ogni
parametro di riferimento ed esasperato le differenze
retributive, portando la disuguaglianza sociale a livelli
conosciuti forse solo in epoche antiche – avessero
prodotto una vera e propria crisi etica. Così come gli
scandali che dagli Usa al Regno Unito, dalla Francia
all’Italia si sono susseguiti negli anni non erano, del
resto, che la manifestazione più eclatante e vistosa di
una malattia assai più profonda. Quella determinata
da una progressiva deregolamentazione dei mercati,
nella deprivazione di quei valori morali che pure
hanno avuto tanta parte – sia pure con molteplici
contraddizioni – nella costruzione del mercato e della
concorrenza capitalistica.
In ultima analisi, questa lunga fase, durata almeno un
trentennio, è stata caratterizzata dal rovesciamento
stesso delle finalità dell’economia moderna, così come
del resto ce l’avevano insegnata i classici. Ci ha
ricordato proprio di recente il Nobel Amartya Sen,
citando Adam Smith, che i mercati non possono
funzionare in maniera efficiente senza un sistema
integrato di istituzioni esterne e valori estesi, in cui gli
operatori possano avere fiducia gli uni negli altri. E
ancora, la messa in guardia nei confronti di coloro che
nella “ricerca spasmodica di rapidi profitti” rovinano la
stabilità dell’economia. E come non citare i saggi e gli
ultimi continuativi scritti di un giurista ed esperto di
mercati come Guido Rossi che indica proprio nello
stravolgimento delle relazioni tra finanza ed economia
reale e nel prevalere di un “capitalismo predatorio”
l’origine vera della crisi sistemica che stiamo
attraversando. Peraltro, la stessa Enciclica papale
“Caritas in Veritate” ci ha anch’essa offerto ulteriori
elementi non solo di analisi, ma anche notevoli spunti
volti a individuare i cambiamenti necessari a dare
all’azione economica nuove finalità.
Il lavoro di ricerca realizzato e promosso dalla
Fondazione, ha trovato negli avvenimenti degli ultimi
anni nuove e più forti motivazioni. Proprio perché, se
tra le ragioni che hanno determinato la crisi e la sua
gravità c’è il processo di deregolamentazione dei
mercati, allora è evidente che assume straordinaria
rilevanza il tema delle regole. Di quelle che il potere
pubblico è chiamato a definire o ridefinire per cercare
di ridurre i rischi prodotti dall’attività economica e
finanziaria sui cittadini e le persone, sia nei confronti
degli stessi Stati. Ma anche di quelle regole che
autonomamente le imprese possono darsi per
corrispondere a obiettivi di maggiore trasparenza,
responsabilità ed efficacia nei confronti dei propri
Stakeholder di riferimento.
5
Governance e Responsabilità sociale
Le dimensioni e la profondità della crisi, la sua natura
di sistema rendono essenziale un ripensamento del
modello di sviluppo su scala globale. In causa non c’è
solo l’economia e la finanza, ma la società intera, il
rapporto dell’uomo con la natura. In una parola, la
possibilità stessa di rendere sostenibile nel futuro la
vita dell’uomo sul nostro pianeta. Non è una
valutazione banalmente “catastrofista”, come gli
esegeti dell’ottimismo a prescindere vorrebbero far
intendere. Essa fa riferimento alle assai solide e
argomentate analisi provenienti dai più importanti
istituti di ricerca internazionali e ormai fatte proprie
dalle classi dirigenti più avvedute e consapevoli dei
maggiori Paesi, non da ultimi gli Stati Uniti.
Può essere che – e già i primi segnali in questo senso si
sono visti – ci sia chi ritenga che, passata la bufera,
tutto possa riprendere più o meno come prima. Una
tale idea delle ripresa sarebbe non solo miope, ma
anche illusoria. Perché i nodi di fondo alla base della
crisi esplosa così fragorosamente nell’estate del 2008
non possono esser sciolti riproponendo il vecchio
modello di fare finanza, economia, impresa.
Se questo è dunque il contesto, è nostro compito –
cioè di tutti coloro che hanno un’idea più lungimirante
e umanamente ispirata dello sviluppo – lavorare
affinché si operi un cambiamento nell’agire
economico che riporti al centro delle sue finalità le
persone e il loro benessere. La responsabilità sociale
d’impresa è la cornice strategica dentro la quale
questo lavoro può trovare un suo efficace
svolgimento. Purché essa sia intesa, come viene
ampiamente argomentato in tutti gli interventi che
accompagnano queste ricerche − al di là delle
differenti
accentuazioni,
le
quali,
peraltro,
costituiscono un importante contributo di idee e di
elaborazione – come modalità di fare impresa e di
produrre valore economico e sociale per l’insieme dei
portatori di interesse.
Le due ricerche che qui vengono presentate e
analizzate, sia pure svolte con modalità e in tempi
diversi, hanno entrambe al centro la questione di
come le imprese scelgono di dotarsi di sistemi di
autoregolazione e impegno in chiave di responsabilità
etica e sociale. E di come essi diventano parte
integrante di una strategia capace di accrescerne non
solo il “profilo etico” e la “percezione” e l’“immagine”
interne ed esterne, bensì la propria competitività sul
mercato. In sostanza, alla base c’è l’idea che valori
etici, responsabilità sociale, sostenibilità, non sono
semplici “orpelli”, “marketing buonistico” da
propagandare
con
accorte
campagne
di
comunicazione, bensì leve fondamentali per
rispondere in modo innovativo ai bisogni espressi sul
mercato dai consumatori, ma più in generale per
corrispondere alle esigenze di tutti coloro che hanno
rapporti diretti o indiretti con l’impresa: dagli azionisti
ai lavoratori, dai clienti ai fornitori, dalla comunità alla
pubblica amministrazione. E di come non sia così
illusorio pensare di perseguire obiettivi di sviluppo e
redditività dell’impresa in un rapporto equilibrato fra
tutti i diversi interessi in campo.
Da questo punto di vista, le ricerche mettono in
evidenza, insieme ai molti limiti e alla certamente
ancora inadeguata acquisizione del valore della
responsabilità
sociale,
come
nel
mondo
imprenditoriale siano stati fatti significativi passi
avanti. La stessa diffusione dei codici etici – se si fa
riferimento alla prima delle indagini svolte - per
quanto avvenuta in buona parte sulla spinta
dell’applicazione della legge “231” (quella sulla
responsabilità amministrativa degli enti), costituisce
una base importante dalla quale partire per fare quel
salto quantitativo e qualitativo che è certamente
indispensabile se si vogliono perseguire gli obiettivi di
cambiamenti cui si è accennato prima. Così come la
ricerca più recente, quella sul rapporto tra sistemi di
governance delle imprese e gestione delle politiche di
responsabilità sociale, mette in rilievo la varietà delle
scelte operate dalle aziende, nonchè le difficoltà ad
assumere la sostenibilità come asse strategico delle
imprese. E, ancor più, a costruire attorno ad esso
percorsi coerenti e continuativi.
Le ricerche realizzate dalla Fondazione Unipolis ci
consentono di compiere riflessioni a partire da dati di
analisi – quantitativi e qualitativi – che prima non
erano noti o scarsamente rilevanti. E quindi di entrare
nel merito di come, concretamente, nel vivo
dell’esperienza quotidiana le imprese affrontano il
difficile cimento di rendere coerenti le enunciazioni
valoriali e di principio con i comportamenti gestionali
e operativi. Tema da non sottovalutare e da non
affrontare con sufficienza. È ben vero, infatti, che
troppo spesso, ancora, nelle imprese prevale un uso
strumentale della responsabilità sociale e dei codici
etici. E tuttavia, bisogna anche evitare di affrontare
queste problematiche con un eccesso di costruzioni
astratte, non in grado di misurarsi con la complessità
dell’agire imprenditoriale e della gestione delle
organizzazioni.
Proprio per questo, consideriamo queste ricerche e gli
impegnativi saggi e interventi raccolti in questa
pubblicazione un contributo importante non solo di
analisi e riflessione, ma anche uno stimolo alle
imprese affinché intraprendano la strada dell’impegno
e/o del miglioramento della loro attività sui temi etici
e della CSR. La questione, peraltro molto importante,
del rapporto tra azione volontaria e norma di legge,
può ricevere una prima significativa risposta dalla
crescita della sensibilità e della cultura valoriale da
parte degli imprenditori e dei manager.
6
Presentazione
Allo stesso tempo, appare altrettanto rilevante ed anzi
essenziale che il necessario intervento pubblico per
l’opportuna regolazione dei mercati – sia nei singoli
stati che nella dimensione sovranazionale – non si
trasformi in nuove forme di “statalismo burocratico”
che sarebbero sicuramente nefaste. Servono regole
chiare, trasparenti, efficaci, in grado di evitare i
comportamenti speculativi, ma che allo stesso tempo
diano spazio a una sana competizione nel mercato, fra
una pluralità di soggetti e di forme imprenditoriali, in
grado di rispondere agli obiettivi di sviluppo
economico, sociale e civile.
Ed è proprio a partire dalla necessità di evitare di
restare prigionieri di una falsa contrapposizione tra
queste illusorie alternative – autoregolamentazione e
controllo burocratico – che a un sistema di regole è
indispensabile affiancare un’azione profonda e diffusa
volta a far crescere una cultura dell’etica e della
responsabilità che faccia perno sugli individui, sulle
imprese, sulle organizzazioni, sulla politica e le
istituzioni a tutti i livelli. Giova ripeterlo: non si vuole
in alcun modo sottovalutare l’importanza di norme e
leggi capaci di dare ordine, legittimità e rigore – sulla
base di interessi collettivi e generali – all’attività
economica. Da questo punto di vista, ad esempio, il
nostro Paese è certamente carente. Così come,
soprattutto, è carente dal punto di vista della
strumentazione necessaria per rendere efficaci i
controlli e le sanzioni. Tuttavia, non c’è dubbio che tra
le conseguenze che il prevalere del modello
iperliberista di crescita finanziaria e speculativa ha
prodotto, c’è stata anche la diffusione di (dis)valori,
fondati sull’egoismo individualistico, un consumismo
fine a se stesso, l’indifferenza verso gli altri e il bene
collettivo. Si tratta certamente di fenomeni culturali e
sociali complessi. Accanto a processi positivi, come
l’affermarsi di maggiore libertà, diritti e
autodeterminazione individuale, si sono prodotti
anche guasti profondi che hanno a che fare con il
diffondersi di un certo egoismo di massa, l’indifferenza
per il bene altrui e quello collettivo, l’inseguimento
della libertà di “fare ciò che si vuole”.
Dunque, se questo è il quadro, è evidente che i
problemi da affrontare non sono solo di natura
prevalentemente economica o, per usare un
linguaggio di altri tempi, strutturale. La questione di
fondo appare, per tanti versi, più di natura culturale
(sovrastrutturale, sempre per stare a quel linguaggio).
Ha a che fare, cioè, con i paradigmi dello sviluppo e,
quindi, con l’idea stessa di mondo nel quale l’uomo
intende vivere e, soprattutto, lasciare in eredità alle
generazioni future. Il che, alla fin fine, si riassume nella
questione etica. E nella capacità di ridare “senso”,
“significato” all’idea stessa di sviluppo, fondata su una
concezione più ricca e allo stesso tempo più sobria e
articolata di benessere, che abbia meno a che fare con
una dimensione quantitativa e più qualitativa dei beni
di cui ricercare la disponibilità e il possesso.
I codici etici, per le imprese e le organizzazioni,
costituiscono uno strumento molto importante
proprio nella sfida rappresentata dalla costruzione di
una nuovo cultura delle responsabilità. Perché
perseguono principalmente l’obiettivo di far crescere
la conoscenza e la consapevolezza delle regole e dei
comportamenti virtuosi, un nuovo “senso civico”,
rispetto ai diversi ambiti nei quali le persone sono
chiamate ad operare. Nell’impresa questo significa
soprattutto creare fiducia. Fiducia tra l’impresa e i
propri portatori di interesse, fiducia tra gli stessi
Stakeholder, come ben argomentano alcuni dei saggi
che sono qui riportati.
Senza voler sottovalutare l’importanza che, all’interno
dei codici etici, devono avere gli apparati sanzionatori
e gli strumenti di controllo, che pure sono necessari
per dare “effettività” al codice stesso, non c’è dubbio
che l’accento vada posto sul ruolo – diciamo pure
“educativo” – che tali strumenti devono avere in
termini di promozione e diffusione della cultura etica e
della responsabilità. È questo, infatti, che può, più di
ogni altra cosa, contribuire a creare quel clima di
fiducia, di rispetto e responsabilità fondamentale
perché l’impresa possa svolgere la propria funzione
nel mercato e possa competere sulla base non di
“trucchi”, ma della propria capacità di corrispondere a
reali bisogni sociali. Ecco perché è fondamentale che i
valori e i codici etici costituiscano la base sui quali
l’impresa deve fare leva per costruire e sviluppare le
proprie strategie e la propria competitività sul
mercato. Contribuendo così, essa stessa, a far crescere
nel mercato e nella società, questa nuova cultura del
fare economia.
Muoversi in questa direzione richiede che l’intera
struttura dell’impresa, a partire dal sistema di
governance – e qui riprendiamo ciò che è emerso in
particolare nella seconda ricerca realizzata con
l’Università di Bologna - sia pienamente coinvolta e
permeata dalla cultura delle responsabilità etica e
sociale. È prima di tutto responsabilità degli organi
amministrativi e di governo garantire un indirizzo
strategico e una coerente gestione dell’azienda che
abbiano a costante riferimento una visione dei valori
ispirati ad una sostenibilità di lungo periodo, in
un’ottica di bilanciamento degli interessi dei diversi
soggetti coinvolti, direttamente e indirettamente,
nell’attività imprenditoriale. Da questo punto di vista,
non è secondaria, come evidenziato nella ricerca e nei
diversi interventi, la modalità di organizzazione del
governo societario, ma anche come viene strutturato il
rapporto all’interno dell’azienda tra le funzioni che
hanno le responsabilità strategiche e di gestione e le
funzioni che si occupano specificatamente di
7
Governance e Responsabilità sociale
responsabilità sociale e sostenibilità. Si propone cioè
con più forza la questione dell’integrazione tra
CSR/Sostenibilità e business dell’impresa.
Se infatti negli ultimi tempi è andato intensificandosi
un confronto circa l’obiettivo di dare vita al cosiddetto
“bilancio integrato” per le imprese, cioè un bilancio
che integri i dati contabili con quelli sociali e di
sostenibilità, la questione – diciamo pure la sfida – che
rimane aperta è quella di riuscire a coniugare con
coerenza, valori proclamati con obiettivi economici e
di sostenibilità, nell’ambito della quotidiana gestione
dell’impresa. La questione va quindi ben oltre il
sistema di rendicontazione per coinvolgere la cultura e
la prassi aziendale.
C’è dunque materia per continuare a studiare e a
ricercare. Ma soprattutto c’è materia per agire, per
compiere nuove esperienze e per cercare di diffondere
– anche attraverso azioni mirate – le buone pratiche. E
ce ne sono, come emerge anche dalle ricerche qui
presentate e dagli interventi pubblicati.
La nostra speranza e il nostro augurio è che i lavori qui
illustrati – per i quali va il doveroso ringraziamento a
quanti si sono impegnati – contribuiscano ad
accrescere la conoscenza e l’attenzione su questi temi
che costituiscono fattori rilevanti per l’innovazione e il
cambiamento delle nostre società.
8
PARTE PRIMA
Governance
e Responsabilità sociale
«Modelli ed esperienze di responsabilità sociale d’impresa
in relazione ai sistemi di governance. Analisi settoriale,
tipologica, economica e giuridica anche in relazione ai
mutamenti in atto nelle scelte strategiche e nelle politiche
delle aziende»
9
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Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
1.Introduzione
E’ ormai lontano il tempo in cui si credeva che la
responsabilità sociale delle imprese fosse unicamente
quella di massimizzare i profitti (Friedman, 1970).
Il progressivo affievolimento dei dogmi liberisti ha
infatti ricondotto il dibattito circa il ruolo delle
imprese dell’odierna società capitalistica nell’alveo di
teorie di stampo “istituzionalista”. In tal senso, si sono
inquadrate le imprese come istituzioni stabilmente
radicate in un determinato contesto sociale,
territoriale e culturale di riferimento e si e’ richiesta
loro una maggiore partecipazione, anche in
collaborazione con soggetti pubblici, al benessere
della comunità in cui operano (Jaeger, 2000). Si e’
quindi riconosciuto valore non solo agli interessi degli
azionisti ma anche a quelli di soggetti portatori di altre
istanze nei confronti delle imprese, ovvero fornitori,
lavoratori, consumatori, comunità locale, e cosi via.
Questi sono comunemente indicati come Stakeholders
o Corporate Constituencies a seconda dell’approccio
preferito, e la ben nota Stakeholders’ theory, nelle sue
più diverse sfumature, si occupa proprio di inglobare
contenuti valoriali e morali nella gestione interna ed
esterna dell’impresa, nonchè’, almeno in teoria,
nell’adozione
delle
strategie
imprenditoriali.
L’accennata elaborazione si e’ poi via via estesa fino a
considerare anche prospettive di “sviluppo
sostenibile” delle società che includessero la
possibilità di una “relazione cooperativa” (Libertini,
2006) tra impresa e ambiente. A loro volta questi
macro filoni contengono al proprio interno più
specifici focus con riferimento alla finanza etica, alla
«corporate social performance», all’utilizzo della CSR
come precisa strategia aziendale, alla c.d. green
economy o technology, alla corporate compliance e
cosi via . Analogamente, lo sviluppo sostenibile può
essere riferito tanto a tematiche ambientali quanto a
quelle sociali ed economiche.
Dal canto loro, le aziende si sono dotate di strumenti il
cui ottenimento e’ condizionato all’adozione effettiva
di politiche responsabili: per esempio, certificazioni
sociali (es. SA 8000, ISO 9001, ISO 14001, EMAS e, più
di recente ISO 26000) strumenti di accountability (es.
Bilancio Sociale, Bilancio di Sostenibilità), ricorso ad
agenzie di rating sociale (es, VIGEO), e i marchi
ecologici e sociali (ECOLABEL, FSC) e cosi via.
Il riconoscimento di una funzione lato sensu “sociale”
degli operatori economici e’ stato formalizzato anche
a livello istituzionale. Per esempio, sin dal 2000 la
Commissione Europea sulla scorta di diverse iniziative
e Comunicazioni (Strategia di Lisbona 2000; Agenda
sociale, 2000; Libro Verde 2001; Commissione,
2002; Commissione 2006; Commissione 2010) ha
dimostrato di considerare la CSR sia come un mezzo
per favorire congiuntamente lo sviluppo e la coesione
sociale sia come un elemento chiave per assicurare
rapporti d’impiego duraturi e fiducia dei consumatori.
Ed e’ in una di queste iniziative che può finalmente
leggersi la definizione di Corporate Social Responsibiliy
(CSR), intesa come «l’integrazione su base volontaria
dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle
loro attività commerciali e nelle loro relazioni con altre
parti». Da qui si evincono due caratteri principali della
responsabilità in analisi: il primo e’ appunto la
volontarietà alla base della decisione delle società di
dotarsi di strumenti “etici”, e il secondo e’ che la CSR
e’ rappresentata da quei comportamenti che
ricomprendono ma vanno oltre gli obblighi legali e
regolamentari in capo agli operatori economici.
Obblighi che sono stati disciplinati solo in minima
parte dal legislatore –che in successive occasioni ha
anche agevolato la costituzione di imprese “sociali”
tout court – i quali intervengono a dettare regole
organizzative
interne
con
riferimento
alla
responsabilità penale degli enti. Sotto altri aspetti
inoltre il legislatore, sia a livello nazionale che
regionale, incoraggia le imprese a dotarsi di strumenti
di CSR prevedendo agevolazioni o riconoscimenti di
diversa natura.
Come anticipato, il contenuto della CSR e’ ampio e
multiforme. Ben lungi dall’essere una vetrina
filantropica delle imprese, dall’affidare loro compiti di
immediata utilità sociale (come invece nel caso delle
imprese sociali vere e proprie), ovvero dal tradursi in
un esercizio di mera compliance normativa, la CSR
implica che l’adesione a valori, codici e politiche
sostenibili si rifletta in specifici obiettivi e
comportamenti aziendali. Coerentemente a tale
finalità, le imprese producono bilanci sociali o di
sostenibilità, si dotano di codici etici, di carte di
missione e valori, e di specifiche politiche sociali ed
ambientali. L’autoregolamentazione diventa quindi lo
strumento tramite il quale le imprese virtuose
rendicontano alle diverse constituencies il perimetro e
gli obiettivi del proprio agire e allo stesso tempo si
autovincolano, predeterminando le ulteriori finalità da
tenere a mente per il raggiungimento del proprio
oggetto sociale.
L’attitudine a dotarsi dei menzionati strumenti e’
diventata una consuetudine granitica da parte delle
imprese “socialmente responsabili”.
In estrema
sintesi, in questi esse descrivono i propri valori di
riferimento e come questi si traducano e influenzino le
relazioni quotidiane con i lavoratori, clienti, fornitori e
comunità civile. Inoltre, descrivono le performance
11
Governance e Responsabilità Sociale
sociali raggiunte, il grado di coinvolgimento e i
rapporti con i vari Stakeholders. Ciononostante, questi
rischiano di oscurare e di mettere in secondo piano
l’altra metà del cielo dell’adozione di pratiche
responsabili, ossia quella che riguarda l’introduzione
efficace e vincolante di tematiche valoriali anche nelle
scelte strategiche e di business delle imprese, quelle
scelte cioè che più immediatamente riflettono gli
obiettivi di profitto che la società intende raggiungere.
Inoltre, la CSR ha anche una indubbia componente
strategica-reputazionale. Questo rischia di deviare, o
meglio di indirizzare, il focus delle imprese
principalmente verso la rendicontazione al mercato,
agli investitori e agli altri Stakeholders delle politiche
adottate, rischiando quindi di mettere in secondo
piano l’organizzazione interna della relativa funzione,
che viene allocata in direzioni che istituzionalmente si
occupano di ben altro. In assenza di dati empirici al
riguardo, l’assunto di partenza di questo progetto e’
stato quello di verificare in che modo le imprese che
adottano politiche e strumenti di CSR gestiscono al
proprio interno la relativa funzione e in che misura
quelle politiche influenzino le scelte gestionali c.d. di
business as usual. Il lavoro si presenta come la ideale
prosecuzione di un percorso di ricerca sulla CSR
iniziato dalla Fondazione Unipolis e che ha visto nel
2009 la pubblicazione di un primo report relativo
all’applicazione dei codici etici d’impresa in Italia. Il
prosieguo e’ organizzato nel modo seguente: nella
prima parte si descriveranno in maggior dettaglio gli
obiettivi prefissati, la metodologia utilizzata e i limiti
del lavoro, nella seconda parte si presenteranno i
risultati e nell’ultima si traggono le conclusioni
provvisorie.
2. La ricerca
2.1 Obiettivi della ricerca
Il presente lavoro si propone di analizzare la CSR
secondo una prospettiva relativamente poco
investigata nell’ambito degli studi finora condotti in
materia.
L’idea di un progetto su governance e responsabilità
sociale è nata inizialmente dalla volontà di capire se vi
fosse un certo grado di coerenza tra quanto
manifestato all’esterno da aziende virtuose e il modo
in cui le stesse gestiscono al proprio interno la relativa
funzione. L’assunto di partenza e’ stato quindi quello
di considerare come acquisita l’esistenza di buone
pratiche di rendicontazione esterna della CSR in capo
alle società selezionate, mentre l’obiettivo finale
voleva essere la verifica circa l’esistenza o meno al
loro interno di una funzione di responsabilità sociale
ben definita e strutturata e di meccanismi interni tali
da permettere un coinvolgimento effettivo del
responsabile di CSR nelle scelte strategiche e di
business delle imprese. Nel decidere le modalità
concrete di attuazione della ricerca ci si è mossi sulla
scorta di alcune premesse fondamentali.
La prima era quella della necessità di tenere in conto
le peculiarità del tessuto produttivo italiano. È ben
noto infatti come il nostro territorio sia caratterizzato
dalla presenza di imprese a spiccata vocazione
regionale e con una proprietà concentrata di stampo
prevalentemente familiare o cooperativo. La piccola
dimensione però non è sempre sinonimo di brevità di
vedute. Molte di queste imprese infatti pongono in
essere comportamenti responsabili, in maniera certo
“non convenzionale” ma pur sempre partecipativa e di
supporto alle esigenze della comunità territoriale di
riferimento. La ricerca voleva dunque fotografare
anche questo spaccato di imprese.
La seconda premessa era quella di scegliere i settori
sulla base dell’impatto che l’adozione di
comportamenti responsabili da parte dei relativi attori
economici aveva sulla comunità. Per questo, seppur
con i limiti endogeni che caratterizzano un
procedimento di esclusione di taluni ambiti, ci si è
concentrati su quelli che più direttamente influenzano
i cittadini/consumatori, ovvero il settore industriale,
finanziario e assicurativo, dei trasporti e delle
multiutility, con mirata attenzione a quelle società a
partecipazione pubblica. E’ parso coerente a tale
assunto preferire le imprese business to consumers.
La terza era il riconoscimento che, al fine di avere dei
risultati che fossero il più possibile rappresentativi
della nostra realtà di riferimento, l’attenzione doveva
focalizzarsi solo su imprese nazionali, intendendosi
come tali quelle la cui proprietà o impresa madre
fosse italiana. Ma, il cuore della ricerca voleva essere
rappresentato non solo da un’analisi di coerenza tra
proclami esterni e attenzione concreta alla CSR ma
anche dal come e se tale ultima attenzione influenzi le
scelte gestionali e operative (c.d. di business)
dell’impresa.
Questo ulteriore obiettivo è nient’altro che il corollario
logico del primo. Infatti, la funzione svolta dalla
infrastruttura interna di elaborazione ed attuazione
delle politiche di CSR dovrebbe contribuire in misura
fondamentale alla performance etica, ossia alla
integrazione nei processi decisionali e aziendali (a
livello strategico e operativo) dei criteri etici, dei
doveri fiduciari e di ESG assunti dall’impresa nei
confronti degli Stakeholders. A tal fine, il problema è
proprio di capire se, una volta soddisfatte le esigenze
degli Stakeholders per il tramite di strumenti di
rendicontazione
esterna,
la
società
sia
12
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
quotidianamente “responsabile” e quindi integri
concretamente obiettivi di CSR nelle proprie, e più
remunerative, scelte strategiche. Da qui, la necessità
di approfondire il livello dialettico tra le varie funzioni
direzionali per valutare se effettivamente le strategie
di business, i piani e le politiche aziendali attuate dalle
imprese, siano supportate dalla interazione con il
presidio di CSR.
Riepilogando, il progetto si proponeva di:
· Analizzare empiricamente l’allocazione della
funzione di responsabilità sociale all’interno della
governance dell’impresa, ai fini della valutazione
di coerenza tra rendicontazione esterna e
gestione interna delle politiche di CSR.
· Investigare la dialettica endosocietaria tra
presidio di CSR e funzione di business strategy,
piani e politiche aziendali, al fine di analizzare il
livello di integrazione e attuazione della visione
etica tra gli obiettivi d’impresa;
· Stimolare una riflessione sulla coerenza e
l’efficacia dei modelli attuati rispetto alle
caratteristiche e finalità ultime delle imprese
considerate;
· Elaborare proposte di policy.
2.2 Metodologia e campione
Come anticipato, la selezione iniziale del campione e’
avvenuta sulla base dei seguenti criteri:
1) sussistenza di politiche di CSR in capo alle imprese;
2) distribuzione territoriale e tipologica omogenea;
3) nazionalità’ italiana;
4) appartenenza al settore industriale, del credito e
assicurativo, sanitario, delle multiutility, dei trasporti e
postale;
5) di categoria business to consumer.
Le società di maggiori dimensioni, sono state
selezionate sulla base dell’adesione alle associazioni di
categoria più rappresentative (CSR Manager Network,
Impronta Etica, Sodalitas, ...) mentre per quelle di
minori dimensioni si sono considerati soprattutto
network regionali come Anima Roma, SA Rete
Toscana, i più recenti rapporti della provincia di
Bologna e della Regione Emilia-Romagna nonchè i siti
delle camere di commercio che avevano realizzato
progetti in materia di RSI.
Ricerche su internet e conoscenza diretta di casi
virtuosi hanno integrato il procedimento di selezione.
Il contatto con le aziende e’ avvenuto tramite due
questionari, differenziati in base al grado di
strutturazione dell’impresa.
Nel complesso, sono state individuate e contattate 84
imprese, il cui campione era cosi distribuito: il 55%
appartenente al settore industriale, il 15% a quello
bancario/assicurativo, il 10% trasporti, l’8%
multiutility, il 6% a quello sanitario, il 5% ai distretti
industriali e consorzi ed infine l’1% al settore postale
(Tab. 1 Campione originario – distribuzione settori).
La distribuzione giuridica del campione originario è
strutturata come da Tab. 2: il 25% Consorzi/Distretti, il
21% Aziende sanitarie, il 17% Società Responsabilità
Limitata e un altro 17% Società di Persone.
Del totale delle imprese contattate ha risposto circa il
62%. Sul totale delle imprese contattate, la
distribuzione settoriale dei rispondenti è stata
dell’85% bancario/assicurativo e multiutility, il 56%
quello industriale, il 44% settore dei trasporti, il 75%
distretti e consorzi, 100% quello postale e 20% quello
sanitario (Tab, 3 Campione originario – distribuzione
settori).
Il dato del 62% include una qualsiasi manifestazione di
volontà partecipativa. Se si affina invece l’analisi a
quanti hanno risposto al questionario, esso si riduce
fino ad arrivare al 42% se rapportato al totale del
campione e al 56% se parametrato al totale dei
rispondenti.
l campione significativo, ovvero le imprese che hanno
risposto al questionario, e’ cosi distribuito: 86%
multiutility, 85% bancario/assicurativo, 33% trasporti,
33% industriale, 0% distretti/consorzi, 0% sanitario e
postale (Tab. 6 campione significativo – distribuzione
settori).
Se invece scorporiamo il dato con riferimento al tipo di
questionario sottoposto, vediamo che ha risposto, nel
caso delle imprese strutturate e in rapporto al totale
delle imprese dello stesso settore: 86% multiutility,
85% bancario/assicurativo, 11% trasporti, 18%
industriale, 0% distretti/consorzi, 0% sanitario e
postale (Tab. 7 campione significativo questionario 1
imprese strutturate – distribuzione settori).
Se guardiamo alle imprese non strutturate, le
rispondenti hanno rappresentato, sempre con
riferimento al totale delle imprese facenti parte dello
stesso settore, il 14% quello industriale e il 22% quello
dei trasporti (Tab. 8 campione significativo
questionario 2 (pmi) – distribuzione settori.
Stante quindi la scarsa rappresentatività dei
rispondenti nella maggior parte dei settori, si e’ deciso
di limitare la successiva analisi interpretativa alle sole
imprese strutturate appartenenti a quei settori in cui
si e’ registrata l’adesione della quasi totalità degli
ovvero il bancario/assicurativo e quello delle
multiutility.
13
Governance e Responsabilità Sociale
2.3 I questionari
14
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
Il questionario indirizzato alle imprese strutturate era
composto da 43 domande a risposta chiusa e aperta, e
mirava a conoscere tre distinti ambiti del governo
della CSR. Il primo, la gestione interna. Si chiede ai
rispondenti se esiste una autonoma funzione di CSR
ovvero se sia allocata in un’altra direzione. Al fine di
capire i rapporti di gerarchia e la relativa importanza
associata alla funzione, si chiede da chi è nominato e a
chi riporta il responsabile di CSR e quali siano le sue
funzioni e attività. Per capire invece il grado di
dialettica endosocietaria, si chiede se vi siano
meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni
date dal responsabile di CSR agli amministratori, se si
quali, e se vi siano dei meccanismi strutturati di
condivisione delle informazioni tra le diverse funzioni
a cui ha accesso il responsabile di CSR. Al fine di
valutare il grado di coinvolgimento anche informativo
del top management dell’attività di responsabilità
sociale, si chiede se esista una relazione finale su
quanto svolto dal responsabile di CSR, se questa viene
inclusa in quella più generale sul governo societario e,
appunto, se vi sia una integrazione dei requisiti di CSR
nelle scelte operative e di business. In caso
affermativo, si pregano i rispondenti di fornire una
descrizione analitica.
Inoltre, sempre al fine di valutare il risalto interno che
viene dato alla funzione, si chiede se sia possibile per il
responsabile, e se si a chi e in che forma, segnalare
eventuali incongruità delle scelte gestionali dalla
politica di CSR, se esiste un organismo aziendale
appositamente collegato alle politiche di CSR (come ad
es. uno specifico comitato di sostenibilità) e quale sia
la frequenza degli incontri del responsabile di CSR con
quelli delle altre divisioni.
Il secondo ambito che si è investigato è quello
riguardante il peso, ovvero la robustezza vera e
propria della funzione. E’ sembrato che i migliori
indicatori in tal senso fossero il bilancio e il personale
dedicato. Nel primo caso, si chiede se esista un
apposito budget e se sì a quali attività è riservato. Al
fine di valutare una eventuale maggiore attenzione e
coinvolgimento in progetti di CSR nel corso degli anni,
si chiede quale sia l’evoluzione dello stesso, se cioè sia
aumentato, diminuito o sia rimasto stabile. Analoghe
richieste vengono riferite al personale, proprio per
capire quali siano le caratteristiche qualitative e
quantitative dei soggetti a supporto dell’unità di CSR,
la relativa evoluzione e se sono soggetti a programmi
di formazione continua in materia. Da ultimo, per
avere un’idea degli incentivi dei manager a porre in
essere politiche effettive di responsabilità sociale, si
chiede se costoro abbiano dei premi di produttività
collegati ai risultati ottenuti.
Il terzo ambito è quello relativo agli strumenti di CSR
adottati: lo scopo ultimo è quello di parametrare il
livello di sviluppo delle attività alla qualità della
gestione interna.
Il questionario delle non strutturate si articolava in 29
domande a risposta chiusa e aperta.
I principi ispiratori erano analoghi al primo. In questo
caso però, ci si sofferma meno in dettaglio su ruolo e
rapporti endosocietari del responsabile di R.S.I., anche
perchè si tiene conto del fatto che lo stesso sistema di
amministrazione e controllo della impresa non sia
strutturato e si presume che la figura del responsabile
coincida di per sè con una funzione di vertice
(l’“imprenditore”). Piuttosto interessa sapere quali
siano le attività che fanno capo a quest’ultimo, se
questi si avvale di un supporto operativo, e se sì quali
le caratteristiche, e quali siano gli strumenti di R.S.I.
posti in essere.
Particolare attenzione è dedicata ai rapporti con gli
enti pubblici e con il territorio, ovvero con altre
imprese: l’intento iniziale era quello di valutare se vi
fossero forme di collaborazione per la realizzazione di
progetti e iniziative nei confronti degli Stakeholders
comuni.
Da ultimo, ed in entrambi i casi, si chiede ai
rispondenti di dare un giudizio dell’impatto
sull’azienda delle politiche di responsabilità sociale e
se la stessa sia esplicitamente un elemento di
posizionamento strategico.
2.4 Limiti
Al pari di qualsiasi studio empirico, vi sono alcuni limiti
da tenere presente nel valutare la ricerca nel
complesso e i risultati nel dettaglio.
Primo fra tutti il fatto che nel corso del tempo lo
studio ha dovuto ridimensionare le proprie ambizioni.
Se inizialmente il numero di settori da considerare era
ben più ampio, successivamente questo si è ristretto a
due soli, ovvero il bancario/assicurativo e quello delle
multiutility. Inoltre si e’ stati costretti a mettere da
parte le cd. “non strutturate”. In realtà la scelta è stata
dettata da ragioni di onestà intellettuale: il numero di
rispondenti era relativamente esiguo per potersi dire
effettivamente rappresentativo di un dato settore.
Inoltre, gli stessi esiti erano troppo dispersi per essere
aggregati in maniera omogenea. Un altro limite è
rappresentato dall’oggetto l’analisi delle risposte. In
alcuni casi queste erano completamente non
pertinenti alla domanda, per cui si è dovuto in un
certo senso interpretarle. Per esempio, alla domanda:
“La
società
partecipa
abitualmente
ad
iniziative/progetti di CSR a livello territoriale avviati da
associazioni di rappresentanza o enti pubblici? Se sì, di
che tipo?”, la risposta “Dal (...) ha preso avvio la
15
Governance e Responsabilità Sociale
sperimentazione della conciliazione paritetica in
applicazione del protocollo (...) finalizzato a creare uno
strumento per la risoluzione delle controversie (...)” è
considerata come non pertinente e la si è interpretata
nel senso che non vi sono progetti di collaborazione
con la comunità di riferimento. In casi in cui forse era
la domanda che poteva trarre in inganno, come per
esempio nel caso di “C’è un organismo aziendale
appositamente collegato alle politiche di CSR?” si è
provveduto a contattare direttamente quelle società
la cui risposta è sembrata vaga.
In sintesi, seppur si sia cercato di ridurre al minimo tali
problemi è inevitabile che vi siano alcune imprecisioni.
3. Analisi qualitativa: il settore finanziario
e quello delle multiutility
3.1 La governance e il grado di strutturazione
della funzione di CSR
Si e’ detto che tra i primi obiettivi della ricerca vi era
quello di analizzare la governance interna della
funzione di CSR. Seppur i risultati di seguito presentati
sono il frutto di una riflessione generale sulla prima e
sull’ultima parte del questionario, vengono prese in
specifica considerazione le risposte ad alcune
domande, come per esempio se esista una funzione a
se di CSR ovvero se faccia parte di un’altra direzione,
da chi e’ nominato e a chi riporta il responsabile di
CSR, se vi sia un ulteriore organismo societario
collegato alla funzione e quali sono gli strumenti di
CSR adottati. Per quanto riguarda il settore finanziario,
tutte le rispondenti affermano di avere una specifica
funzione di CSR, ma la stragrande maggioranza la
alloca presso altra direzione. Non e’ poi possibile
aggregare il dato relativo a quale sia la relativa
direzione perche’ sono tutte diverse e variano da
«area socio culturale», a «comunicazione e risorse
umane» e «sviluppo e pianificazione strategica»
ovvero si trovano in staff al presidente piuttosto che al
direttore generale. Ciononostante, questo dato si
rivela di grande importanza perche’ e’ sintomatico del
fatto che a fronte di un’attenzione concreta verso la
CSR, testimoniata anche dal numero e dal tipo di
strumenti posti in essere da ciascuna e dalla presenza
compatta e attiva sul territorio, non vi e’ una
percezione condivisa su quale possa essere il locus
naturalis per la funzione. Il che a sua volta potrebbe
tradursi nella mancanza di una visione d’insieme e
generalmente accettata nella comunità di riferimento,
ovvero le società che fanno CSR in maniera
strutturata, degli scopi e della vocazione istituzionale
della Responsabilità Sociale.
Con riferimento alle attività del manager responsabile,
in un quarto dei casi queste consistono nella
facilitazione dei processi e nel monitoraggio degli
andamenti e dei risultati. Nella maggioranza assoluta
però queste includono il monitoraggio e la
facilitazione ma vanno ben oltre. Il CSR manager e’
investito di una funzione propositiva e proattiva
nell’ideazione, implementazione
e
successivo
supporto di nuove attività. In un caso, l’intera unità
supporta le Competence e Business lines nello sviluppo
di nuovi piani d’azione.
A conclusioni analoghe alle precedenti si giunge
dall’analisi del settore delle multiutility. Anche in
questo caso, la totalità delle imprese si e’ dotata di
una specifica funzione, nella stragrande maggioranza
dei casi allocata altrove.
In sintesi, se sono tutte d’accordo sul “se” farlo, non lo
sono su “come” vada gestita la responsabilità sociale
dall’interno. Il dato relativo al potere di nomina del
responsabile e al riferimento finale di quest’ultimo,
che aveva anche lo scopo di chiarire quale fosse il
grado di coinvolgimento apicale, si presenta in
maniera abbastanza disomogenea. Infatti, nel settore
bancario il responsabile e’ nominato di fatto dal top
management, mentre solo in un terzo dei casi la
nomina e’ frutto di processi decisionali interni
all’azienda. Nella stragrande maggioranza dei casi poi,
questi riporta all’amministratore delegato, alla
direzione generale, ovvero al responsabile di quella di
riferimento e in un solo caso riporta direttamente al
Presidente. Nel settore delle multiutility invece la
nomina e’ prevalentemente di competenza di
specifiche direzioni, e il CSR manager riporta
principalmente all’amministratore delegato e al
responsabile della direzione di riferimento. Letti in
maniera macroanalitica, questi dati possono essere
interpretati nel senso che il responsabile di CSR tende
a rispondere al top management, ovvero a organi
aziendali di vertice, piuttosto che agli shareholders,
ossia gli azionisti, identificabili con la figura del
presidente.
Circa le sue attività, in un solo caso queste si limitano a
facilitare i processi e a monitorarne gli andamenti e
risultati. Infatti tutti gli altri rispondenti affermano che
il responsabile di CSR e’ investito non solo di quelle
funzioni ma anche del ruolo di «pianificazione,
controllo, reporting, comunicazione di sostenibilità e
rapporti con gli Stakeholders», ovvero quello di
«valorizzare gli aspetti di sostenibilità presenti in
progetti implementati autonomamente da altre
Funzioni; di interagire con Stakeholders esterni in
merito agli aspetti di sostenibilità attuati in azienda
(ad es. questionari analisti etici), o di «gestire le
relazioni con le associazioni di rappresentanza degli
16
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
interessi; promuovere la cultura d’azienda attraverso
l’archivio storico; mantenere le relazioni con gli
analisti di sostenibilità e i fondi etici».
3.2 L’integrazione della CSR nelle politiche
aziendali
L’altro obiettivo principale della ricerca era quello di
valutare se le imprese, che abbiamo definito virtuose
per indicare l’adozione di politiche responsabili,
integrassero quei valori in modo sostanziale nelle
proprie scelte di business. Per capirlo era essenziale
non limitarsi a chiederlo esplicitamente ma investigare
i possibili strumenti tramite i quali tale integrazione
potesse realizzarsi.
Pertanto, oltre a quelle domande che più
direttamente indirizzano il problema, di particolare
interesse sono anche quelle che ne rappresentano un
prerequisito e un corollario necessario, ossia da un
lato quelle relative alla dialettica endosocietaria
dall’altro quelle circa l’esistenza di meccanismi
stringenti relativi all’adozione delle segnalazioni dei
CSR manager, e circa la possibilità di segnalare
eventuali deviazioni delle scelte strategiche dalle
politiche di CSR.
Nel settore finanziario, i due terzi dei rispondenti
ritengono la menzionata integrazione sussistente,
mentre il dato circa la frequenza degli incontri tra il
CSR manager e i responsabili di altre divisioni e’
piuttosto disperso e tende a polarizzarsi verso la
risposta “periodicamente, a cadenza variabile”.
Inoltre, la maggioranza assoluta delle imprese afferma
di avere strumenti comuni e strutturati di condivisione
delle informazioni, ma nella quasi totalità dei casi
questi non vanno oltre le riunioni, le circolari, intranet
e internet, strumenti a cui e’ abbastanza fisiologico
che abbiano accesso tutte le divisioni. Si segnala però
un caso, che sembra poter essere considerato una
pratica eccellente, in cui «sono previsti almeno due
incontri plenari all’anno con tutti i Referenti CSR, che
hanno anche lo scopo di condividere informazioni e
aggiornamenti; esiste sull’Intranet un Social Network
dedicato allo scambio di informazioni tra unità CSR e
referenti /strutture». In realtà, nel settore bancario si
segnala un’altra pratica di eccellenza che vale la pena
di essere menzionata e che riguarda le modalità di
integrazione delle politiche di CSR. Infatti, se la
maggior parte delle imprese del settore ritiene
realizzata l’integrazione tramite scelte di negata
concessione di credito verso certi settori (es.
produzione di armi) ovvero nel controllo della catena
di fornitura e nell’attenzione verso l’impatto
ambientale, un rispondente va oltre e spiega di aver
adottato «un particolare modello di gestione della
CSR, che è trasversale e relazionale.
Ogni struttura nomina un “Referente per la CSR” che,
coordinato dall’unità CSR, supporta la struttura di
appartenenza nell’integrazione degli obiettivi di CSR
all’interno delle attività della struttura stessa. Il
modello è definito dalla parte attuativa del Codice
Etico, che delinea e definisce le responsabilità
aziendali, sia di attuazione sia di controllo.
Naturalmente quando esistono policy specifiche
(ambiente, settori controversi, finanziamento di
progetti in ambito Equator Principles ecc.) queste sono
applicate e controllate nell’ambito dei normali
processi aziendali». Di fatto, ogni funzione ha un
proprio “referente per la CSR” che si occupa
specificamente di monitorare e di favorire sul campo
l’integrazione in analisi. Questa può forse
rappresentare una efficace modalità di attuazione di
politiche di business responsabili.
Nettamente orientata al “no” e’ poi la risposta alla
domanda circa l’esistenza di meccanismi stringenti che
sollecitino l’adozione delle indicazioni fornite dal
responsabile di CSR. Le uniche due società che ne sono
dotate spiegano che questi consistono in «attività di
stimolo nei confronti delle altre direzioni e
commitment apicale» ovvero sono collegati alla
funzione istituzionale svolta dal “referente CSR”
presente presso ciascuna unità.
Da ultimo, circa la possibilità da parte del CSR
manager di segnalare eventuali incongruità delle
scelte gestionali dalla politica di CSR , la totalità dei
rispondenti la ritiene sussistente. Questa e’
variamente indirizzata e attuata. Coerentemente a
quanto emerso sopra, nel primo caso il destinatario
delle segnalazioni e’ il top management e solo in uno il
Presidente, mentre circa le modalità di segnalazione,
nella maggior parte dei casi queste avvengono in
maniera informale, seppure in poche eccezioni sono
previste procedure particolari. Per esempio, può
esservi la mediazione di un comitato per la
sostenibilità il cui rappresentante a sua volta riporta ai
responsabili a livello di gruppo delle direzioni
maggiormente coinvolte, ovvero le segnalazioni
possono essere incluse all’interno del rapporto sul
monitoraggio del codice etico, oppure possono essere
inoltrate per tramite di specifiche informative.
Le multiutility invece non sono altrettanto granitiche
nell’affermare l’integrazione di politiche di
responsabilità sociale nelle scelte strategiche. Vi è
però anche qui una buona pratica: una società si è
dotata di un approccio «balanced scorecard», basato
sul collegamento tra strategia e gestione quotidiana
dell’azienda. Un approccio di questo tipo permette di
«considerare il raggiungimento degli obiettivi
strategici di sostenibilità sociale e ambientale come
17
Governance e Responsabilità Sociale
condizione per il conseguimento degli obiettivi
economico finanziari nel medio-lungo periodo».
Inoltre, le modalità tramite cui queste vengono
realizzate sembrano essere piuttosto dichiarazioni di
principio che espressione di impegno proattivo. Per
esempio, si sostiene che le decisioni operative si
fondano sui dettami del codice etico e che avvengono
nel rispetto di principi di responsabilità sociale, ovvero
che i codici valoriali del gruppo orientano, in modo
vincolante, l’agire d’impresa e che vi sono sistemi di
monitoraggio delle performance. In maniera forse più
specifica si afferma che «specifici indicatori di
sostenibilità vengono inclusi dall’unità Pianificazione
Strategica, che si affianca all’unità CSR nel
monitoraggio e nella rendicontazione della
sostenibilità aziendale, all’interno della pianificazione
strategica di gruppo».
Circa il livello di dialettica endosocietaria, nella
stragrande maggioranza dei casi gli incontri avvengono
periodicamente, a cadenza variabile. Solo un terzo dei
rispondenti invece si e’ dotato di sistemi di
condivisione delle informazioni e, se alcuni non
specificano in cosa consistano, uno di loro spiega che
si tratta di riunioni «ad hoc su specifici temi, riunioni
periodiche per la raccolta dei dati di sostenibilità con i
referenti dei contenuti, riunioni operative su specifici
progetti di sostenibilità». Coerentemente a quanto
avviene nel settore finanziario, anche qui l’esistenza di
meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni
date dal CSR manager risultano quasi del tutto assenti
e laddove presenti sembrano mancare del requisito
della incisività.
Circa la possibilità di segnalare eventuali
incongruenze, la maggior parte dei rispondenti lo
ritiene possibile, per mezzo di meccanismi più o meno
strutturati. Infatti, le segnalazioni avvengono o per il
tramite della funzione audit, o in maniera informale ai
responsabili delle direzioni ovvero tramite «function
reviews semestrali e l’identificazione annuale di aree
di miglioramento, che permette di verificare eventuali
incongruenze fra l’azione aziendale e il perseguimento
di obiettivi di sostenibilità».
3.3. La robustezza della funzione di CSR: budget
e personale
Per quanto le imprese possano essere attente alla
responsabilità sociale, se questa non viene dotata di
una struttura, di budget e di personale, adeguata a
supportarne le attività vi e’ il rischio che si trasformi
nella “cenerentola” delle funzioni. In questo senso
l’indagine su questi aspetti e’ funzionale a verificare il
grado di concretezza del commitment societario nei
confronti della CSR.
Infatti, il budget a cui si fa riferimento nella ricerca è
quello specificamente dedicato alla predisposizione e
gestione di strumenti di accountability, di certificazioni
sociali, formazione e comunicazione della CSR,
progetti dedicati agli Stakeholders e cosi via.
La quasi totalità dei rispondenti del settore finanziario
e’ dotata di autonomia di spesa mentre negli altri casi
si fa riferimento a quello generale della relativa
direzione. Inoltre, negli ultimi 5 anni il budget e’ stato
aumentato nel 73% dei casi, mentre nel restante e’
rimasto costante. Anche il personale è aumentato nel
corso dello stesso arco di tempo e per la stessa
percentuale di imprese ma, contrariamente a quanto
potesse attendersi, i due dati non sono positivamente
correlati. Questo nel senso che il personale è
aumentato indipendentemente dal budget dedicato.
Se si assume che per aumento possa intendersi tanto
l’attribuzione ex novo della gestione della CSR in capo
ad un singolo soggetto quanto l’aumento marginale
dello staff già esistente, il dato potrebbe essere indice
dell’intenzione della società di strutturare in maniera
organica la CSR ovvero del riconoscimento della
necessità di dedicarvi un numero adeguato di risorse
umane. In ogni caso, sia con riferimento al budget che
al personale è possibile affermare che le società
bancarie/assicurative hanno investito in CSR sempre di
più negli ultimi anni. Quanto al tipo di personale, i
rispondenti hanno tutti personale dedicato. Questo è
composto per il 90% dei casi da soggetti assunti a
tempo indeterminato e, seppur in minor percentuale,
ha un inquadramento professionale composito.
Quanto alle competenze, la maggioranza qualificata
delle società bancarie/assicurative impiega soggetti
con competenze specifiche ed una pregressa
esperienza in azienda. Inoltre, nel 100% dei casi il
personale è soggetto ad un percorso formativo,
seppure in maniera diversa. Infatti se è un dato
comune la partecipazione a convegni, worshop e
seminari sul tema, in un solo caso vi è uno specifico
aggiornamento interno all’azienda. Quasi del tutto
analoghi i dati emersi dal settore delle multiutility.
Anche qui la stragrande maggioranza di tali società ha
aumentato il personale, tranne che in un caso in cui è
diminuito, e il budget, tranne in un caso in cui è
rimasto costante.
Invece, al contrario del settore finanziario, tra le
multiutility vi è un maggior numero di casi in cui le
società non sono dotate di personale ad hoc. Il che,
escludendo l’ipotesi che non ce l’abbiano affatto,
lascia presumere che se ne occupano incidentalmente
i dipendenti delle direzioni di riferimento. Al pari delle
altre invece, anche qui la stragrande maggioranza del
personale dedicato è dipendente a tempo
indeterminato, inquadrato in modo composito e con
18
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
competenze specifiche e una pregressa esperienza in
azienda.
Le società multiutility sono invece qualitativamente
più attente alla formazione del personale. Questa è
prevista nella totalità dei casi ma nella metà di questi
alla tipica partecipazione a convegni e seminari si
affianca la formazione continua interna, in un caso
anche on line, e in un altro caso vi e’ la predisposizione
di un piano di formazione specifico che tenga conto
dei fabbisogni formativi.
3.4 Analisi multivariata
Prima di trarre le conclusioni pare necessario
rianalizzare lo spaccato settoriale tenendo conto
dell’insieme di più variabili. Intanto si può provare a
ricostruire la gestione complessiva della funzione. Per
quanto riguarda il settore bancario/assicurativo
sembrerebbe evincersi che il grado di strutturazione
interna non sia sempre coerente con gli strumenti di
responsabilità sociale adottati e quindi con la visione
che si offre all’esterno. Infatti, tutte le società hanno
posto in essere strumenti di CSR da almeno 10 anni, e
hanno tutte almeno il bilancio sociale/di
missione/ambientale/di sostenibilità, il codice etico/di
condotta/carta dei valori, progetti di coinvolgimento
attivo nella comunità e partnership. Nella stragrande
maggioranza dei casi, si adottano anche certificazioni
sociali, sistemi di rating ambientale e sociale e indici di
sostenibilità. Ma, e in aggiunta a quanto già detto
relativamente alla governance, solo la metà dei
rispondenti ha un comitato collegato alla funzione e
solo due prevedono anche la figura dell’Ethical Officer.
Ai manager poi manca la leva delle remunerazione,
perchè solo nel 27% dei casi sono previsti premi di
produttività collegati alla CSR.
Va poi ribadito che, tranne che in un caso, se si guarda
all’organigramma dei rispondenti, le direzioni di
riferimento si collocano tutte in linea con la direzione
generale o l’amministratore delegato. Dall’altro lato
però tutte le rispondenti ammettono che la CSR è un
elemento di posizionamento strategico: il che lascia
presumere che la stessa può avere un forte impatto
reputazionale sulla società. Inoltre, se per circa un
terzo delle imprese il fattore scatenante l’adozione di
politiche responsabili è di matrice storico/istituzionale
e per un ulteriore terzo consegue ad una
riorganizzazione interna, per il restante si è trattato di
una scelta conseguente ad un riposizionamento
strategico, quindi a possibile vocazione reputazionale.
Da ultimo, la circostanza che il 90% delle
banche/assicurazioni considera medio l’impatto della
CSR, sembra mostrare che fare CSR non è per loro
particolarmente oneroso in termini di modifiche di
processi e/o prodotti interni.
È interessante anche correlare i dati sul personale con
quelli sul ricorso a consulenti esterni. La totalità delle
società del settore vi fa ricorso, a dimostrazione che
l’esperienza e la formazione delle proprie risorse
interne non è sufficiente a dare alla funzione piena
autonomia e a poter essere gestita completamente “in
house”.
Il settore delle Multiutility per certi versi fa storia a sè
ma per altri ha dei punti di contatto con il bancario.
Anche queste si occupano di CSR da molti anni, in
media 9, e sono tutte dotate di bilancio sociale/di
missione/ambientale/di sostenibilità, di codice
etico/di condotta/carta dei valori, e di certificazioni
sociali e ambientali, nonchè partecipano a progetti di
coinvolgimento attivo nella comunità e partnership,
ma la gestione interna della funzione è forse meglio
strutturata rispetto al settore bancario. Oltre a quanto
già analizzato, qui si dica che i due terzi delle imprese
non ha un comitato collegato ma circa due terzi hanno
l’Ethical Officer.
Secondo il posizionamento nell’organigramma però, in
un solo caso la funzione di CSR può dirsi riferibile
“orizzontalmente” alla proprietà.
Inoltre, nelle multiutility i manager hanno incentivi
economici perchè, nell’ottantatre per cento dei casi, i
premi di produttività sono collegati a performances di
sostenibilità.
Non è un caso quindi che i due terzi dei rispondenti
ritenga la CSR un elemento di posizionamento
strategico e la metà ritiene che abbia un impatto alto
sull’azienda. Infatti, se da un lato le multiutility si sono
da sempre differenziate per un impegno distintivo su
tali temi, dall’altro la CSR potrebbe rappresentare
piuttosto un vincolo anche regolamentare, che le
obbliga ad organizzare la produzione secondo più
rigidi standard.
La metà di loro ha iniziato ad occuparsi di CSR a causa
di una riorganizzazione interna, mentre la restante
metà in minima parte a seguito di un riposizionamento
strategico e il residuo lo fa per una combinazione di
entrambi i motivi o per tradizione storica. Anche le
multiutility fanno tutte ricorso a consulenti esterni.
Anche per loro dunque può esservi un problema di
professionalità del personale e capacità di gestione
operativa della funzione.
4. Principali spunti emersi
La presente ricerca offre alcuni interessanti spunti di
riflessione.
Il primo si ricollega direttamente ad un suo limite.
Infatti, la scarsa partecipazione della maggioranza
delle imprese intervistate -che come si diceva ha
19
Governance e Responsabilità Sociale
costretto a limitare il campo d’indagine – e’
sintomatica di un particolare approccio alla CSR.
Questa infatti può essere intesa nel senso di
adempimento meccanico di un dovere, sia esso di
fonte legislativa o meno, oppure e’ meramente
finalizzata a soddisfare le istanze degli Stakeholders o
a non perdere possibili vantaggi competitivi. In questo
modo però la CSR non diventa parte della cultura
aziendale, non se ne apprezzano le potenzialità e
viene interpretata come un vincolo oneroso e per il
quale quindi non vale la pena spendere tempo e
risorse, per quanto minime siano, per rispondere ad
un questionario.
E’ necessario quindi che le imprese acquisiscano la
giusta consapevolezza di cosa sia veramente la CSR: a
tal fine un ruolo importante può essere svolto dalle
associazioni di categoria.
Non è infatti un caso che la maggiore partecipazione si
sia realizzata nei due settori analizzati: storicamente le
associazioni a cui questi fanno capo, sono quelle che
con più forza e lungimiranza hanno contribuito allo
sviluppo di pratiche responsabili da parte dei loro
associati.
Il secondo riguarda la gestione interna della funzione.
Come evidenziato nel corso dell’analisi, dalla
mappatura della funzione di CSR si evince che, pur
essendo le imprese virtuose e avendo nella stragrande
maggioranza dei casi una funzione ad hoc munita di
relativo personale e budget, non vi è una visione
condivisa circa l’allocazione della funzione di CSR
all’interno di specifiche direzioni. Infatti il dato circa
l’appartenenza del presidio di ESG a direzioni generali
(es. relazioni istituzionali, marketing e comunicazione,
area socio culturale, risorse umane, ovvero in staff ad
altri organi) è completamente disperso. Da qui si
deduce come il riconoscimento di autonomia e di
caratteri propri della CSR tali da poterla univocamente
considerare come meritevole di una direzione a sè
piuttosto che di esser parte di una specifica, non sia
ancora giunto a completa maturazione.
Proprio il grado di strutturazione della funzione
cambia a seconda dei settori: in quello bancario si
osserva la presenza di un ulteriore organismo
collegato alle politiche di CSR, di solito in seno al cda,
ma non vi è la figura dell’Ethical Officer, soggetto
questo al contrario presente nella maggior parte delle
multiutility laddove funge da unico supporto alla
funzione non essendoci comitati ad hoc.
Un altro possibile spunto di riflessione riguarda il
referente del responsabile di CSR.
Infatti sia nel settore finanziario che in quello delle
multiutility
questi
riporta
principalmente
all’Amministratore delegato o al responsabile della
direzione di riferimento e solo in rarissimi casi al
presidente. Da qui si inferisce che nelle dinamiche
endosocietarie il CSR manager non rendiconta alla
proprietà, che pure dovrebbe rappresentare un
importante portatore di interessi capace di esercitare
un potere di monitoring, bensì al management.
Coerentemente però, il potere di nomina del
responsabile nel settore bancario è nella maggioranza
dei casi in capo al top management.
Al contrario, nel settore delle multiutility è il frutto di
processi e di decisioni interne all’azienda. Un altro
dato degno di nota è che in entrambi i settori, nella
totalità dei casi, si fa ricorso anche a soggetti esterni
alla società, di solito consulenti e accademici. Come
anticipato, questo lascia ritenere che le imprese non
riconoscono le competenze del personale dedicato
come sufficienti o mature per poter gestire totalmente
al proprio interno tutte le fasi operative della
funzione, nonostante dai questionari emerga che gli
stessi sono soggetti a specifica formazione più o meno
continua.
Dalle risposte fornite, si evince anche come
l’integrazione delle politiche di CSR nelle scelte
strategiche e di business venga affermata nella
maggioranza dei casi, ma non sia supportata
dall’esistenza di meccanismi stringenti con riferimento
all’adozione, da parte dei responsabili di unità
operative, delle indicazioni date dal CSR manager.
Inoltre, solo nel settore bancario sono presenti sistemi
strutturati di condivisione delle informazioni che
permettono al responsabile di CSR di essere al
corrente delle scelte gestionali, cosi da poterne
valutare la coerenza con politiche responsabili. Qui si
intravede una pericolosa lacuna nell’affermazione
della menzionata integrazione. L’assenza di
meccanismi stringenti determina di fatto una
mancanza di enforcement della segnalazione che
rischia quindi di rimanere “sulla carta”. E’ necessario
che le società si dotino di strumenti efficaci ad una
concreta realizzazione delle indicazioni dei CSR
manager. Inoltre, le stesse modalità di integrazione
potrebbero essere più concrete. Infatti, nel corso
dell’analisi dei questionari non si e’ voluto forzare
l’interpretazione delle risposte perche’ si rischiava di
cadere nell’arbitrarietà, ma va evidenziato che il modo
in cui alcune società affermano di inglobare politiche
valoriali nelle scelte di business rassomiglia più ad una
dichiarazione di principio che ad un’attuazione
sostanziale.
Da ultimo, si riscontra una vistosa differenza tra
settori nella valutazione della CSR come fattore di
posizionamento strategico e in quella dell’impatto
sull’azienda.
In quello finanziario la totalità delle società ritiene che
la CSR sia esplicitamente un elemento di
20
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
posizionamento strategico e con un impatto medio
sull’impresa. Al contrario, la maggioranza delle
multiutility la considera si strategica ma ad alto
impatto interno.
reputazionale ma non incide in misura significativa
sull’organizzazione interna e sulla gestione dei
processi di business, mentre per le multiutility la CSR
rappresenti
piuttosto
un
vincolo,
anche
regolamentare, che le obbliga ad organizzare la
produzione secondo più rigidi standard.
Il punto di vista degli esperti
Nel corso del mese di ottobre 2011 a Bologna e Milano
la Fondazione ha organizzato due worshop durante i
quali sono stati presentati e discussi preliminarmente i
risultati dell’analisi condotta. Alle due iniziative hanno
partecipato: Matteo Bartolomeo (Avanzi), Carlo
Bassanini (SCS Consulting), Gianfranco Belcaro
(Anima), Ruggero Bodo (Sodalitas), Marjorie Breyton
(Impronta Etica), Francesco Peraro (Veneto
Responsabile), Giovanvincenzo Santagada (KPMG),
Alessandra Tanno (ABI).
Metodologia
Al fine di integrare l’interpretazione degli esiti della
ricerca con alcuni elementi qualitativi di scenario e di
valutazione dello stato dell’arte sono stati svolti due
worshop con esperti di CSR che interagissero
direttamente con le imprese e quindi potessero
fornire un quadro quanto più empirico della
situazione.
Il primo worshop ha coinvolto esponenti delle
associazioni di scopo che riuniscono aziende
impegnate in percorsi di CSR e che in tali associazioni
portano il contributo delle loro esperienze, quindi
sostanzialmente espressione di universi di “buone
pratiche”. Al secondo hanno partecipato consulenti di
settore che hanno maturato, in società di scopo o aree
di scopo di società, esperienze di supporto ad imprese
leader nella sostenibilità ma che al contempo si
confrontano con un insieme di imprese più laterale
rispetto ai processi.
In termini tecnici nei worshop non si è fatta alcuna
distinzione tra impegno per la sostenibilità e
comportamento CSR dell’impresa, di conseguenza
anche in questa nota i termini saranno usati in
alternativa, volendo in ogni caso indicare “politiche”.
Il che lascia presumere che per le imprese finanziarie
la CSR sia strategica perchè ha un alto valore
attività, processi e prodotti dell’impresa sviluppati nel
rispetto dei principi della responsabilità sociale
d’impresa”. Sicuramente il secondo gruppo, a
differenza del primo, si è maggiormente concentrato
sulla sostenibilità.
Ad entrambi i worshop è stato presentato e discusso il
rapporto integrale della ricerca, cercando di verificare
in particolare alcune tesi che erano emerse nel gruppo
di lavoro interno alla Fondazione. Gli ambiti di
riflessione sono stati quindi: la dimensione settoriale,
il rapporto tra governance e CSR, l’allocazione e i
compiti della funzione del CSR manager, il processo
evolutivo degli ultimi dieci anni e i principali driver.
Principali risultati emersi
In entrambi i gruppi si è riscontrata una sostanziale
condivisione dei risultati emersi, sia in merito alle
valutazioni sul campione che sulle attività censite.
Si è concordato sul tipo di evoluzione avuta negli
ultimi anni, che è stata più verticale che orizzontale:
comportando una significativa evoluzione da parte di
alcune imprese, ma al contempo una scarsa diffusione
sulla platea complessiva delle imprese.
Entrambi i gruppi, con accenti e sfumature differenti,
hanno condiviso la significativa assenza di politiche
pubbliche adeguate che fungessero da stimolo e di
matura consapevolezza nei consigli d’amministrazione
e più generalmente nella proprietà.
Le associazioni di promozione della CSR
In generale non sono emersi punti di vista
significativamente disomogenei tra i partecipanti,
quanto piuttosto si sono evidenziati interessi e
elementi d’attenzione diversificati ma mai conflittuali.
Centrale nella discussione il rapporto tra CSR e
governance.
21
Governance e Responsabilità Sociale
Storicizzazione del processo di diffusione della CSR
A fronte dell’impegno europeo, a partire dal libro
verde del 2001, in Italia lo sviluppo della CSR in questi
ultimi anni non è sicuramente stato promosso da
azioni pubbliche. I governi italiani sono stati disattenti
e poco incisivi su questo tema; limitando non solo la
diffusione della conoscenza del tema ma soprattutto
la percezione dello stesso come priorità. Come
afferma infatti Ruggero Bodo di Sodalitas “Non si
riesce a dialogare in nessun modo con le Istituzioni
italiane, mentre la Commissione Europea chiederà
presto di dotarsi di un piano” .
Questo si riscontra nella insufficiente diffusione di
consapevolezza degli azionisti per un reale
mainstreaming, dovuta in parte anche al ruolo passivo
di Borsa Italiana, che a differenza di altre omologhe
nei vari paesi, continua a ribadire la priorità della
produzione di profitto per gli azionisti. “I più critici da
convincere sono gli azionisti… secondo me dovrebbero
essere previsti appositi interventi per coltivare una
cultura della proprietà, nonché incentivarla” afferma
Giorgio Riccioni della Fondazione Ivano Barberini.
Infatti, come si esplicita meglio in seguito, è centrale in
questo worshop la relazione tra CSR e governance,
area d’indagine della ricerca.
L’Europa, viceversa, ha sicuramente sviluppato una
politica di promozione e sviluppo al riguardo, con
l’integrazione di politiche economiche, sociali e del
lavoro, ma nei fatti passano decenni prima che le
direttive europee abbiano effetti sul contesto
nazionale e, ancor meno incisive si dimostrano i libri
bianchi e le comunicazioni.
E’ opportuno specificare che la dimensione normativa
non è ritenuta la sola né tantomeno la più efficace per
rafforzare un processo di cambiamento culturale, che
si basa anche su processi di incentivazione,
promozione, testimonianza.
In assoluto, nel mondo imprenditoriale non si è
assistito ad una significativa escalation di interesse e di
diffusione delle pratiche, quanto piuttosto allo
sviluppo di buone pratiche distintive in soggetti che
avevano già intrapreso un percorso al riguardo e che
sempre di più stanno consolidando il loro approccio. In
particolare Angela Tanno di ABI sottolinea come “ si
possano riscontrare alcuni precursori che hanno
attuato un effettivo ed efficace monitoraggio di
policies e procedure in ottica CSR, ma che proprio per
la loro natura di precursori non possono che essere in
numero limitato”.
Per esemplificare questo genere di evoluzione
vengono citate buone pratiche di integrazione della
formazione CSR nei corsi di aggiornamento e
formazione ordinarie delle attività caratteristiche
in alcune banche per formare alla gestione
responsabile gli operatori ordinari. Alle debolezze
culturali e di contesto Ruggero Bodo aggiunge anche
una carenza metodologica d’impostazione di processo:
“Se non si danno delle metriche è difficile fissare degli
obiettivi… se non si misura non si può gestire”, e ciò
significa che non si può integrare.
Driver di diffusione
In particolare se si valuta quali, oltre a quelli
istituzionali, possono essere Stakeholder importanti
per la diffusione di pratiche CSR in particolare presso
la piccola e media impresa, un ruolo importante può
essere assunto dalle associazioni di categoria, come
dimostrano alcuni risultati, ma questo non può essere
sufficiente. In particolare, perché spesso alla vita
associativa partecipano i tecnici e non i decision
maker. Sicuramente i clienti rappresentano il
principale “stimolatore” di processi virtuosi, laddove
possono modificare l’offerta promuovendo una
domanda più consapevole. Ma perché svolgano
efficacemente e consapevolmente il loro ruolo devono
essere sensibilizzati e formati a dettare le regole del
gioco. La contestuale situazione di crisi che stiamo
vivendo non è stata elemento di per sè di stimolo
all’adozione di nuovi modelli di business più orientati
alla sostenibilità, ma ha sicuramente rafforzato,
laddove l’impegno era presente, più le attività
collegate al core business e quelle che portano risultati
concreti, tagliando invece in modo significativo quelle
aggiuntive e collaterali. “La crisi iniziata nel 2009
avrebbe potuto rappresentare una straordinaria
opportunità per modificare il modello economico ed
imprenditoriale rendendo la sostenibilità veramente
un elemento di competitività dello sviluppo. Ma solo
alcune imprese hanno saputo cogliere l’opportunità, le
istituzioni, le associazioni di categoria e la comunità
finanziarie
sono
rimaste
ferme,
perdendo
un’occasione” rafforza Marjorie Breython di Impronta
Etica.
Presenza, consolidamento e sviluppo della
funzione di CSR
La funzione di CSR ha incominciato a diffondersi negli
ultimi anni, anche se non è cresciuto in modo
significativo il numero di imprese che si sono
impegnate in percorsi di CSR. Quelle che avevano già
adottato un percorso però hanno affinato la funzione
di CSR, nella maggior parte dei casi coinvolgendo
manager interni a cui nel tempo è stata attribuita la
funzione in modo esclusivo. Effettivamente i profili, i
ruoli e il modello organizzativo sono molto variegati. In
alcuni casi il frutto di specifiche scelte, in altri di
casualità. Non si considera tale difformità come un
disvalore, ma piuttosto il frutto di un percorso tailor
22
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance



made, come afferma Angela Tanno: “Se assumiamo
che l’importanza è l’integrazione della CSR sul
business, il “come viene fatto” passa in secondo piano
nel senso che abbiamo esperienza di realtà con
competenze dislocate in diverse strutture con solo dei
presidi più o meno formalizzati, in cui le cose andavano
bene”.
Oggi mediamente le principali attività a carico
dell’area sono:
La rendicontazione, perché senza misurazione non
può essere gestito e migliorato alcun processo;
La formazione, che nel tempo si è andata integrando
con la formazione tecnica/ manageriale ordinaria per
facilitare i processi di integrazione della CSR nel
business;
L’innovazione di prodotti/ processi, laddove a fronte
della contrazione dei budget a disposizione, il CSR
manager ha ridotto la predisposizione e gestione di
progetti ad hoc, andando viceversa sempre più ad
intervenire sulle attività ordinarie.
Quest’ultimo aspetto è quello di maggiore
differenziazione tra un CSR integrata al business e una
più legata alla comunicazione e alla reputazione.
Integrazione CSR e Governance
Se teoricamente è fondamentale la relazione diretta
tra CSR e governance, e quindi il rapporto funzionale
e/o organizzativo tra il CSR manager ed il Consiglio
d’Amministrazione, ad oggi se ne riscontrano
pochissimi casi. Il Consiglio d’Amministrazione, in
quanto espressione della proprietà, dovrebbe essere il
luogo di definizione di strategie ed indirizzo, ed il CSR
manager fungere da facilitatore. Più delle volte invece
l’area risponde ed è di pertinenza del management.
Al riguardo i pareri dei partecipanti sono molto netti
“Nel codice di disciplina del London Stock Exchange, su
cui riponevamo molte speranze, si dice che compito del
CdA è stabilire valori e standard. Bisognerebbe
aggiungere nella ricerca quali siano le imprese che si
sono dotate di un comitato. Questo è il punto, il
comitato: è il CdA che deve dare il processo, altrimenti
si tratta solo di un cambiamento cosmetico” afferma
Ruggero Bodo; mentre Angela Tano ricorda come in
molte banche si sia assistito allo smantellamento nel
tempo del comitato dedicato per rendere il tema
trasversale ai diversi comitati in essere. In sintesi però
si condivide che il valore dell’integrazione consiste
nella capacità di far arrivare certi temi al consiglio
d’amministrazione, non quindi il “come” arrivano ma
“se” arrivano.
Allocazione della funzione
La funzione è variamente collocata nell’organigramma.
Questo però piuttosto che un disvalore deve essere
percepito come un valore. Anche a questo proposito
solo percorsi “tailor made” sono effettivamente
emblema di integrazione della CSR nella cultura e nel
modello organizzativo.
Non esistono infatti modelli ideali, ciascun modello è
frutto della storia e della cultura aziendale. Sottolinea
però Francesco Peraro di Veneto Responsabile
l’esigenza di considerare imprese che hanno nei fatti
integrato la CSR e la governance quelle che, per usare
una metafora, “in un industria che produce automobili
allochino la CSR nel settore che decide se fare una
BMW o una 500 e non nel reparto verniciatura”.
L’importante è che possa incidere su modello di
business e organizzazione, consigliabile è che sia
posizionata nell’alta direzione, o, se in ambito
gestionale, nel marketing strategico o nella
pianificazione strategica. Il che spesso non è, in
quanto tendono a prevalere allocazioni legate a
funzioni
diverse:
personale,
marketing
e
comunicazione. Nella pratica spesso la non corretta
allocazione è il frutto dell’applicazione di modelli
organizzativi standardizzati dalla direzione del
personale che ancora non ha chiaro il ruolo della CSR
“L’organizzazione della funzione di CSR nell’azienda è,
come evidente, la più disparata. E questo è dovuto
alla mancanza di una funzione di direzione che si
occupi di strategia medio lungo termine nell’impresa
allargata ai concetti di CSR” afferma infatti Gianfranco
Belcaro di Anima.
Standardizzazione del modello
Se si considera l’adozione di indirizzi CSR come un
elemento di strategia competitiva, non si può pensare
che vengano seguiti approcci standardizzati e
riconducibili ad elementi unitari. La strategia infatti
non può essere che un elemento distintivo
dell’azienda, e, in quanto tale, assolutamente non
definibile da schemi certificativi e standard. Anche se
questo pone il problema della confrontabilità e del
rapporto tra gli standard di CSR (dal Gbs al Gri) e le
specificità settoriali e aziendali.
Si condivide che per essere efficace però la CSR deve
essere dove incide sul modello di governance e su
quello di business, nelle politiche gestionali essenziali,
in particolare intervenendo:
1. sulla pianificazione strategica, nell’individuazione
degli obiettivi di medio lungo periodo all’azienda (il
bilancio integrato deve rendicontare gli obiettivi dati);
2. sul marketing strategico, nella determinazione del
prodotto;
3. sulle politiche del personale;
4. sulle politiche degli acquisti e valutazione
e selezione dei fornitori.
23
Governance e Responsabilità Sociale
Le società di consulenza sulla CSR
Il dibattito ha evidenziato approcci al tema tra loro
diversi con focalizzazioni d’interesse molto
differenziati, ma le conclusioni delle riflessioni sono
state sostanzialmente condivise. Centrale nella
discussione il rapporto tra CSR e strategia.
Storicizzazione del processo di diffusione della
CSR
La sostenibilità è di fatto un principio giovane che ha
avuto, nell’ultimo periodo, alcune spinte esterne
propositive per la diffusione in azienda, ma è, in ogni
caso, ancora distante da una cultura di management
diffusa. Si tratta di un concetto caratterizzato da una
forte difformità, con accenti più o meno rivolti a
tematiche ambientali piuttosto che sociali.
Le aziende impegnate in percorsi di sostenibilità sono
sostanzialmente le stesse negli ultimi cinque anni, la
vera diffusione rispetto al passato si è avuta nel
quinquennio precedente, ma a questo proposito non
va sottovalutato proprio l’elemento novità
concettuale che necessita di tempo per essere
metabolizzato.
La maggior diffusione di un approccio strutturato è
avvenuto proprio nelle utilities e tra le banche, settori
storicamente più attenti e che presentano politiche di
CSR più diffuse. Questo è dovuto sia al fatto che si
tratta di settori molto normati, sia perché operano in
servizi con prodotti intangibili, dove l’impatto
reputazionale sul mercato è particolarmente
significativo, e “si agisce su elementi di scelta collegati
alla percezione sulla reputazione di un’azienda” come
afferma Carlo Bassanini di SCS.
Driver di diffusione ed empowerment della CSR
Alcune associazioni di categoria hanno svolto
un’attività continuativa ed importante per coinvolgere
le loro associate a lavorare su questi temi, spesso però
operando con e per gli addetti ai lavori, invece che
sulle strutture gestionali di business. Oggi per
stimolare le imprese ad adottare seriamente politiche
di sostenibilità - se si condivide che tali politiche
supportano lo sviluppo ed il benessere - integrandole
nelle strategie, ci vorrebbe maggiore cogenza
normativa. Situazione che al momento non si verifica
vista la scarsa determinazione a perseguire tali
obiettivi da parte degli enti normativi, soprattutto in
Italia.
Di conseguenza la spinta principale per la CSR è data
sempre dal cliente. La soddisfazione del cliente è
infatti l’obiettivo prioritario di ogni azienda che abbia
obiettivi di medio periodo e storicamente le imprese
più evolute sono state di solito quelle con un rapporto
diretto e fiduciario con il cliente. Oggi però il rischio è
che ci sia uno spostamento tra le attese e i bisogni. Il
vero motore, il vero stimolo è rappresentato dai
bisogni, piuttosto che dalle attese.
Infatti la crisi ha spostato l’accento dall’attesa (cosa mi
aspetto dall’azienda) al bisogno (quali sono le mie
necessità in questo specifico frangente). L’urgenza di
rispondere al bisogno rischia di defocalizzare le
aziende dall’investimento sulla propria identità, in una
sorta di omologazione.
Oggi quindi la CSR deve essere uno strumento per
interpretare i bisogni del momento, non fornendo
proposte omologate, ma in stretta sinergia con i
processi di innovazione.
Di conseguenza, solo se l’impegno della CSR sarà
finalizzato a gestire e rispondere ai bisogni in modo
innovativo, ci sarà maggiore consolidamento ed
investimento al riguardo, in conformità ad un
approccio che punta maggiormente al lungo
periodo.“L’impresa deve infatti - afferma ancora
Matteo Bartolomeo - ripensare come essere cittadina
del territorio e rispondere ai bisogni primari,
recuperando un concetto di responsabilità sociale
d’impresa anni ’70, all’Olivetti.”
Se si guardano gli azionisti come clienti delle azioni di
un’impresa si può affermare che infatti la comunità
finanziaria in passato ha spinto molto perché le
imprese quotate si impegnassero per la responsabilità
sociale facendone un obiettivo da discutere da parte
del CSR manager con gli organi di governo, “laddove
l’ingresso nel D.J.Sustainability Index certe volte è
diventato addirittura l’obiettivo con cui misurarsi e
parlare con il board e l’Amministratore delegato”
afferma Matteo Bartolomeo di Avanzi.
Ad oggi l’Italia però è talmente marginale nella finanza
globale che tali stimoli sono venuti a cadere, o sono
comunque poco significativi. Il timore per le future
evoluzioni è che ci sia una tale conflittualità tra i
bisogni, che l’agenda CSR rischi di esserne influenzata
in modo significativo.
Presenza, consolidamento e sviluppo della
funzione di CSR
La funzione di CSR ha incominciato a diffondersi negli
ultimi anni anche se non è cresciuto in modo
significativo il numero di imprese che si sono
impegnate in percorsi di CSR. Quelle che avevano già
adottato un percorso però hanno affinato la funzione
di CSR, pur senza sviluppi particolarmente significativi.
Oggi di fatto il CSR manager può essere in primo luogo
un facilitatore di processi, grazie ad un efficiente
sistema di implementazione e controllo.
In secondo luogo può intervenire nella relazione con il
territorio, grazie all’integrazione tra strumenti tecnici
e reti relazionali, rafforzando l’aspetto reputazionale i
24
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
tali interventi. L’approccio tecnico infatti permette un
maggior e migliore dialogo con il territorio.
In termini evolutivi viceversa si iniziano a vedere,
all’estero, degli sdoppiamenti nel presidio delle
tematiche: il CSR manager è una funzione di sistema,
con presidi operativi di CSR, che gestiscono gli
strumenti di CSR ed i progetti tematici; a questo si
aggiungono delle funzioni di progetto, con budget
significativi e che interagiscono con maggior forza con
le funzioni di business (soprattutto in aziende di largo
consumo) accanto alla funzione CSR, funzioni del tipo
strategy & Stakeholder.
Più legate ai processi di innovazione che operano con
una logica di progetto più che di sistema, a differenza
dei primi. Si tratta di due funzioni e spesso di due
profili tra loro molto diversi che vengono vissuti
nell’impresa e producono risultati differenti, in una
graduale affermazione, all’estero, della “CSR delle
cose” rispetto alla “CSR degli strumenti”.
Rapporto tra CSR e Strategia
Oggi la CSR non rappresenta in azienda un elemento
strategico. Sebbene alcuni progetti potrebbero
esserlo, di fatto l’impegno per la CSR non è strategico
per i gruppi dirigenti italiani, raramente entra nelle
riflessioni del consiglio d’amministrazione e/o della
direzione e, ancor più raramente, in questi organi è
allocato un presidio sul tema con responsabilità
decisionali.
Infatti si sono fatte scelte più tattiche che strategiche
in questo periodo, mentre la CSR dovrebbe essere CSR
delle cose, nell’attività quotidiana piuttosto che la CSR
degli strumenti e delle attività ad hoc, spesso le
imprese hanno investito molto nella formalizzazione
e nella comunicazione, confidando nel valore
reputazionale della CSR piuttosto che considerarlo un
driver di posizionamento.
Di conseguenza se la CSR non è strategica difficilmente
tale responsabilità può essere allocata in funzioni
strategiche. Perché l’approccio possa essere
effettivamente
strategico
è
fondamentale
l’integrazione nelle altre attività d’impresa. A tale
scopo probabilmente bisognerebbe sperimentare un
diverso punto di partenza: “Ad oggi – afferma
Santagada di KPMG- è stata sempre adottata una
strategia top down, bisognerebbe domandarsi se
ribaltare la strategia in bottom up, coinvolgendo
l’organizzazione può aiutare a renderla strategica”
Allo stesso scopo può essere utile avviare relazioni di
Stakeholder engagement serie e strutturate, con
soggetti che possono aiutare a dare indicazioni
strategiche per l’implementazione della sostenibilità in
processi di innovazione.
Allocazione della funzione
Di fatto oggi la funzione CSR è diversamente allocata
nelle diverse aziende, e questo è sicuramente dovuto
in parte anche alla citata “giovinezza del tema”. Se
riteniamo che la sostenibilità debba essere integrata
alla visione strategica, sicuramente allocare la
funzione all’interno della direzione pianificazione e
controllo strategico potrebbe aiutare il processo.
D’altro canto, se si ritiene che la CSR debba essere
espressione della proprietà, in quanto elemento
costituente l’identità, allora tale funzione dovrebbe
essere svincolata dalla gestione per essere più neutra.
A questo proposito il gruppo non ha espresso una
visione univoca, anzi è parso quasi critico verso la
correlazione tra presenza della funzione CSR definita
ed istituzionalità e grado di sostenibilità di un’impresa.
25
Governance e Responsabilità Sociale
Il contesto europeo
Premessa
Le ricerche desk sull’esistenza di ricerche sui modelli di
integrazione della RSI nelle aziende al livello europeo o
nei paesi europei non hanno permesso di evidenziare
numerosi rilevazioni su tale soggetto.
Il confronto tra i risultati dei questionari raccolti
nell’ambito della ricerca della Fondazione Unipolis e i
modelli di governance della CSR in altri paesi europei
può prendere spunti da 4 ricerche svolte
rispettivamente da CSR Europe1, Adecco in Francia2,
3
Foretica (NPO del CSR Europe) in Spagna e Econsense
(NPO del CSR Europe) in Germania.
Occorre sottolineare la diversità dei campioni
analizzati e delle metodologie utilizzate:
-
Francia: 57 aziende del SBF 120 (prime 120
società quotate per capitalizzazione) a cui è stato
somministrato un questionario tramite intervista
telefonica e di cui alcuni CSR manager hanno
partecipato ad un’intervista approfondita. La
raccolta dei dati è stata finalizzata a luglio 2009 e
una versione aggiornata dello studio è stata
pubblicata a settembre 2012.
-
Spagna: 1032 interviste telefoniche svolte presso
rappresentati
di
Aziende
spagnole,
rappresentative dei vari settori di attività, delle
varie aree geografiche e di varie dimensioni (sia
PMI che grandi imprese). La raccolta dei dati è
avvenuta a maggio e giugno 2010.
-
-
1
CSR Europe: analisi di informazioni pubblicate da
10 aziende dei settori food ed energia aderenti a
4
CSR Europe . L’analisi è stata realizzata nel 2011 e
è stata pubblicata nella primavera 2012.
Econsense: 20 aziende membri di Econsense
hanno partecipato all’indagine. Provengono da
“A CSR Europe Issue Specific Report, CSR within companies”, CSR
Europe, bozza gennaio 2012
2
“2ème baromètre de la fonction développement durable dans les
entreprises du SBF 120”, Adecco Groupe, gennaio 2010
3
“Foretica Report, the evolution of social responsabilità among
Spanish Businesses”, 2011
4
DTEK, ENEL, Vattenfall, GDF Suez, Total, The Coca-Cola Company,
Coca-cola Entreprises, Groupe Danone, McCain Continental Europe,
Nestle
settori molto diversi (ICT, Chimica-Farmacia,
Finanza, ecc) e dimostrano una forte
strutturazione della gestione della sostenibilità. La
ricerca non specifica la dimensione delle imprese
ma si presume che sono impresi di grande
dimensione.
Visto l’ampiezza più grande dei campioni delle
ricerche francese e spagnola, l’analisi si focalizza
principalmente su di esse. Tutte due le analisi vengono
svolte periodicamente. L’analisi tedesca è stata svolta
una volta sola e si tratta di un’analisi molto sintetica
(slide powerpoint).
Risultati delle ricerche - Principali evidenze
Nei casi francesi e spagnoli, quasi la metà delle
aziende che hanno una funzione CSR hanno una
funzione CSR specifica. I due report sottolineano la
varietà dei modelli di governance della CSR. La ricerca
tedesca effettuata su un campione ridotto (20
aziende) fa emergere una realtà molto strutturata
anche se le funzioni CSR sono state create
recentemente.
Quando la funzione CSR fa parte di un’altra direzione,
viene di solito aggregata alle direzioni comunicazione
e qualità;
Il ruolo fondamentale svolto dagli organi politici nella
definizione della strategia di CSR:
- Nei report francese e tedesco: 60 % dei CSR
manager intervistati riportano ad organi politici
(presidente o direttore generale);
-
Nel report spagnolo: per quanto riguarda le
aziende che stipulano una politica di CSR, la
redazione del piano strategico sulla CSR viene
realizzata dal direttore generale (CEO) nel 44,5 %
dei casi e dal consiglio di amministrazione nel
25,4% dei casi.
Funzioni del CSR manager: i risultati delle tre indagini
sono molto diverse tra di loro. In Francia le principali
missioni del CSR manager sono il reporting, l’ideazione
e la raccolta di indicatori, e la diffusione interna degli
obiettivi di sostenibilità attraverso la formazione e la
sensibilizzazione dei dipendenti. L’elaborazione delle
26
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
strategie di sostenibilità è invece l’ultima missione
citata dai CSR manager intervistati.
In Germania i principali compiti della funzione CSR
sono lo sviluppo della strategia CSR/di sostenibilità, il
dialogo con gli Stakeholder, la selezione di KPI per il
bilancio di sostenibilità / redazione del bilancio di
sostenibilità, il coordinamento delle attività di
sostenibilità. Si nota una forte attenzione al tema della
catena di fornitura (valutazione della sostenibilità dei
fornitori, sostegno all’applicazione della sostenibilità
all’interno della catena di fornitura).
In Spagna la formulazione di codici di condotta,
l’ideazione di indicatori per la balance scorecard, le
attività di reporting di sostenibilità e il controllo della
CSR nella catena di fornitura sono le attività meno
implementate.
Gestione della sostenibilità:
La ricerca tedesca evidenzia che 90 % delle aziende (18
aziende su 20) ha un “comitato direttivo o organismo
analogo” interno all’azienda che coordina le attività di
sostenibilità. Per metà del campione, tale comitato si
riunisce 3 o 4 volte all’anno. In alcune aziende ci sono
diversi gruppi di controllo che si incontrano con
frequenza variabile. 7 aziende (su 20) hanno anche un
comitato direttivo o organismo analogo composto da
Stakeholder esterni (università, ONG) che dà impulsi
sui temi inerenti alla sostenibilità.
Nessuna delle analisi approfondisce il tema
dell’integrazione dei requisiti di CSR nelle decisioni
operative e di business ne il tema dell’esistenza di
meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni
date
dal
responsabile
CSR
agli
amministratori/manager.
intervistate a interrompere le attività di sostenibilità
che svolgevano. Si tratta in particolare di piccole
imprese.
Per quanto riguarda le medie o grandi imprese, sul
33% di aziende che hanno fatto dei tagli nelle attività
di sostenibilità svolte, per l’80% di loro si tratta di una
riduzione parziale delle attività (mentre per l’altro 20%
si tratta di un abbandono completo delle attività
svolte).
Risultati delle ricerche - Dettaglio:
GOVERNANCE
Esistenza di una specifica funzione di CSR
Nell’analisi francese, 78 % delle aziende del SBF 120
hanno una funzione CSR.
Nell’analisi tedesca, 85 % delle aziende intervistate
(ovvero 17 aziende su 20) hanno una funzione CSR. 55
% delle aziende hanno creato la divisione CSR
recentemente, ovvero dopo il 2008. Un’azienda sola
ha creato la funzione CSR prima dell’anno 2000.
Nell’analisi spagnola, il 5% delle aziende intervistate
(1032 imprese del campione) implementano la CSR
attraverso politiche e procedure strutturate.
Per quanto riguarda le aziende che hanno una
funzione CSR, le analisi sottolineano la diversità dei
modelli di governance della CSR. Il report francese
sottolinea che su un campione di 57 aziende, ci sono
32 diverse intestazioni per il responsabile per la CSR.
Funzione
CSR
specifica
Robustezza della funzione CSR:
In media, la funzione CSR delle aziende francesi
intervistate impiega 5,5 persone. Nella ricerca
tedesca, 60 % delle aziende intervistate ha una
funzione CSR con uno staff di più di 10 persone
(un’azienda ha una funzione CSR con più di 50
persone). Impatto della crisi economica: Il report
francese evidenzia che la crisi economica si traduce
nel blocco delle assunzioni all’interno della funzione
CSR e in restrizioni budgetarie. In Spagna, la crisi
economica ha portato un terzo delle aziende
Francia
Spagna
44 %
45 %
Funzione CSR
parte
di
un’altra
direzione (con
riferimento
alla CSR o no)
42 %
17 %
Organi
trasversali
sulla CSR
14%
26
%
(creazione
di comitati o
gruppi
di
lavoro
ad
hoc)
27
Governance e Responsabilità Sociale
Se la funzione CSR fa parte di un’altra direzione,
viene di solito aggregata alle seguenti direzioni:
Francia
Spagna
Comunicazione, marketing, gestione
dei rischi, QHSE (qualità igiene
sicurezza ed ambiente)
Comunicazione,
risorse
umane,
qualità
1- A chi riporta il responsabile di CSR
L’analisi francese evidenzia che :
-
-
60 % dei CSR manager intervistati riportano ad
organi politici (presidente o direttore generale):
la percentuale è stabile in confronto alla ricerca
che era stata svolta nel 2007;
40 % riportano ad organi “funzionali” : 15% alla
direzione della comunicazione (in particolare le
imprese del CAC 40) 5, 23 % ad altre direzioni (in
particolare direzione acquisti, direzione qualità
sicurezza ed ambiente,
direzione delle
operazioni, direzione dei rischi, ecc), 2 % alla
direzione delle risorse umane.
Direzione generale
e Presidente
23%
Direzione della
comunicazione
2%
15%
60%
Direzione delle
risorse umane
Altre direzioni
Il 75 % dei CSR manager intervistati sono presenti o
sono rappresentati negli organi decisionali della loro
azienda, in particolare:
-
5
12 % ha un accesso diretto agli organi
decisionali;
12 % sono membri degli organi decisionali;
Il CAC 40 è l'indice che rappresenta una misura basata sulla
capitalizzazione dei 40 valori più significativi tra le 100 maggiori
capitalizzazioni di mercato della Borsa di Parigi.
-
46 % sono rappresentati negli organi decisionali
per via gerarchica.
L’analisi tedesca evidenzia dei risultati simili:
45 % delle aziende hanno collocato la funzione
CSR presso gli organi politici (cda, ceo).
Negli altri casi, la funzione CSR è collocata nella
divisione ambiente (25% delle aziende),
comunicazione, strategia.
60% dei CSR manager riportano agli organi politici
(board, CEO); 25 % ad altri direzioni (Ambiente, Salute
e Sicurezza, Comunicazione); 10 % ad un “Corporate
Sustainability Board”.
L’analisi spagnola non analizza gli organi a cui si
riporta il CSR manager ma evidenzia che, per quanto
riguarda le aziende che stipulano una politica di CSR, la
redazione del piano strategico sulla CSR viene
realizzata dal direttore generale (CEO) nel 44,5 % dei
casi e dal consiglio di amministrazione nel 25,4% dei
casi.
2- Funzioni del responsabile di CSR
La ricerca francese evidenzia che le principali missioni
citati dai CSR manager sono:
Il reporting, l’ideazione e la raccolta di
indicatori;
La diffusione interna degli obiettivi di
sostenibilità attraverso la formazione e la
sensibilizzazione dei dipendenti;
L’elaborazione della strategia di sostenibilità è invece
l’ultima missione citata dai CSR manager intervistati.
La ricerca tedesca ha delle evidenze molto diverse.
Sottolinea che tutte le aziende del campione hanno
come compito per la funzione CSR lo sviluppo della
strategia CSR/di sostenibilità.
Gli altri compiti principali della funzione CSR sono:
Dialogo con gli Stakeholder;
Selezione di KPI per il Bilancio di Sostenibilità
Redazione del bilancio di sostenibilità;
Coordinamento delle attività di sostenibilità;
Valutazione della sostenibilità dei fornitori.
Quasi la metà del campione cita anche corporate
citizenship e volontariato d’impresa (corporate
volunteering). Tra le altre attività citate ci sono anche
lo sviluppo di reti, sostegno all’applicazione della
sostenibilità all’interno della catena di fornitura,
28
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
sostenibilità negli appalti, analisi/monitoraggio della
sostenibilità, investimenti sostenibili.
La ricerca spagnola che le attività di CSR più diffuse
sono legate a temi quali salute e sicurezza sul luogo di
lavoro, protezione ambientale ed efficienza
energetica, conciliazione vita-lavoro e diversity
management, ambiti che sono strettamente normati o
che vengono percepiti come area di riduzione dei costi
e di miglioramento della produttività. E’ invece
interessante sottolineare che le tematiche trasversali
come la formulazione di codici di condotta, l’ideazione
di indicatori per la balance scorecard, le attività di
reporting di sostenibilità e il controllo della CSR nella catena di fornitura sono le attività meno
implementate.
Nessuna delle analisi approfondisce il tema
dell’integrazione dei requisiti di CSR nelle decisioni
operative e di business nè il tema dell’esistenza di
meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni
date dal responsabile CSR agli amministratori/
manager.
GESTIONE
Il report francese sottolinea che le direzioni con cui i
CSR manager interagiscono maggiormente sono le
risorse umane, gli acquisti, la direzione qualità, igiene,
sicurezza ed ambiente, il marketing e la
comunicazione. Interazioni con la direzione
amministrativa e finanziaria vengono raramente
citate.
La ricerca tedesca evidenzia che le altre direzioni che
seguono anche tematiche legate alla sostenibilità
sono: comunicazione; personale; società controllate o
entità regionali dell’azienda; investor relations,
acquisti, corporate development.
Nessuna ricerca analizza la frequenza degli incontri del
responsabile di CSR con quelli delle altre divisioni,
l’esistenza di sistemi strutturati di condivisione delle
informazioni tra le funzioni gestionali/operative e la
funzione di staff di CSR, ne la possibilità per il CSR
manager di segnalare eventuali incongruità delle
scelte gestionali dalle politiche di CSR.
Il report francese evidenzia che 85% dei rispondenti
dispone di un network di riferenti per la sostenibilità
all’interno dell’azienda. Il funzionamento di questi
network e la frequenza degli incontri varia da
un’azienda all’altra. Spesso tuttavia, tali referenti si
candidano in modo volontario e tale responsabilità si
aggiunge più o meno ufficialmente alla loro carica,
senza che ci sia una valorizzazione finanziaria ne una
formazione specifica sui temi della sostenibilità. Esiste
quindi un forte turn-over dei referenti.
La ricerca tedesca evidenzia che 90 % delle aziende
(18 aziende su 20) ha un “comitato direttivo o
organismo analogo” interno all’azienda che coordina
le attività di sostenibilità. Per metà del campione, tale
comitato si riunisce 3 o 4 volte all’anno. In alcune
aziende ci sono diversi gruppi di controllo che si
incontrano con frequenza variabile. Le aree che sono
rappresentate in questi comitati direttivi sono:
personale e comunicazione (per metà del campione),
ambiente/sostenibilità,
Membro del Consiglio, corporate development,
investor relations, marketing,
7 aziende (su 20) hanno anche un comitato direttivo o
organismo analogo composto da Stakeholder esterni
(università, ONG) che dà impulsi sui temi inerenti alla
sostenibilità.
ROBUSTEZZA
L’analisi francese evidenzia che più del 50 % dei CSR
manager che hanno risposto all’indagine lavorano
nell’azienda da più di 10 anni. Per l’80% dei
rispondenti, i due posti occupati in precedenza non
erano legato al tema della sostenibilità.
In media, la funzione CSR impiega 5,5 persone6. Ci
sono tuttavia delle grandi differenze tra le aziende:
Il 17 % delle aziende ha uno staff di più di 10
persone che lavorano nella funzione CSR;
Il 54 % delle aziende ha uno staff compreso tra
2 e 10 persone;
Il 29 % delle aziende ha una funzione CSR con
una sola persona.
Quindi il 83% delle aziende ha una funzione CSR con
uno staff di 10 persone o meno.
L’assunzione di personale nella funzione CSR si
effettua nella maggior parte dei casi al’interno
dell’azienda. Molto spesso, si tratta di persone che
non hanno competenze specifiche sulla sostenibilità
nel momento in cui prendono il loro posto nella
funzione CSR.
C’è un turn-over molto basso del personale della
funzione CSR. La crisi economica si traduce nel blocco
delle assunzioni all’interno della funzione CSR e in
restrizioni budgetarie.
6
Più precisamente, la funzione CSR dispone di 5,5 “equivalenti fulltime”.
29
Governance e Responsabilità Sociale
L’analisi tedesca evidenzia una robustezza forte della
funzione CSR in termini di staff impiegato nella
funzione:
40 % delle aziende (8 aziende su 20) ha una
funzione CSR con uno staff compreso tra 1 e 10
persone (35% delle aziende ha una funzione
CSR con uno staff di meno di 5 persone);
45 % delle aziende ha una funzione CSR con
uno staff compreso tra 10 e 20 persone;
15 % delle aziende ( 3 aziende su 20) ha una
funzione CSR con uno staff di più di 20 persone
(tra cui un’azienda che ha una funzione CSR con
uno staff di più di 50 persone).
imprese non sono in grado di stare sul mercato. La
sostenibilità oggi è un elemento strutturale del
Quindi il 60 % delle aziende ha una funzione CSR con
uno staff di più di 10 persone.
In Spagna, la crisi economica ha portato un terzo delle
aziende intervistate a interrompere le attività di
sostenibilità che svolgevano. Si tratta in particolare di
piccole imprese. Per quanto riguarda le medie o grandi
imprese, sul 33% di aziende che hanno fatto dei tagli
nelle attività di sostenibilità svolte, per l’80% di loro si
tratta di una riduzione parziale delle attività (mentre
per l’altro 20% si tratta di un abbandono completo
delle attività svolte).
Seminario Governance d’impresa e
Responsabilità Sociale
Un rapporto in evoluzione tra scelte
volontarie e nuove regole societarie
Il 29 marzo 2012, nella Sala delle Armi della Facoltà di
Giurisprudenza, si è svolto il seminario di
presentazione della ricerca. Di seguito i principali
interventi.
Maurizio Chiarini, Amministratore Delegato del
Gruppo Hera e Presidente di Impronta Etica
Negli ultimi dieci anni in Italia e da circa venti anni per
i Paesi anglosassoni la cultura della sostenibilità, intesa
in senso lato ambientale e sociale, si è ampiamente
diffusa, basti osservare come sono mutate le scelte dei
consumatori nell’acquisto di beni e servizi sempre più
orientati ed attenenti alle componenti ambientali,
etiche e sociali.
Tra i Soci della CSR Europe emergono grandi marchi:
Coca Cola e Toyota ad esempio. La Toyota in
particolare è riuscita ad imporsi sul mercato grazie
anche alle sue scelte strategico/sociali investendo da
oltre dieci anni nel settore delle auto elettriche,
questa è stata una scelta di successo che gli ha
consentito di imporsi sul mercato e di diventare la più
grande casa automobilistica al mondo. Questo è un
sistema culturale. Se le imprese non si accorgono che
la cultura aziendale è cambiata, significa che le
business delle aziende di successo. Se le aziende non
colgono questo messaggio, sarà il mercato stesso nei
prossimi anni ad escluderle. C’è stato un cambiamento
completo del concetto di CSR che è dietro a quello di
business, cioè è mutata totalmente la visione futura di
impresa.
Mi piace citare sempre due articoli di Michael Porter,
grande studioso teorico del vantaggio competitivo,
che prima nel 2006 e poi nel 2011 scrisse: “il mega
trend per le imprese del futuro è la sostenibilità e
questo trend è simile alla rivoluzione che portò
all’introduzione dell’informatica nelle imprese. Le
imprese che si sono adeguate per tempo sono rimaste
sul mercato, quelle che non si sono adeguate sono
state espulse”. Il pensiero di Porter, da me condiviso,
evidenzia il trend di cambiamento e la direzione in cui
sta andando il mercato. Pensate alle aziende di
prodotti alimentari: le scelte dei consumatori sono
sempre più sostenibili e responsabili ed orientate
verso i prodotti biologici certificati ed ai mercati a “km
zero”. Ho riportato questo esempio perché mi preme
sottolineare che se un’impresa, qualunque sia essa di
beni o di servizi, non comprende il cambiamento
fondamentale che per fortuna c’è stato in questi anni,
rischia di perdere i propri clienti.
30
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
La fotografia che è emersa da questa ricerca
sinceramente mi hanno sorpreso, perché significa che
le imprese sono ben lontane dall’aver capito che cosa
sta succedendo. Se il sistema delle nostre imprese
ritiene ancora che la CSR sia una componente di
abbellimento dell’azienda, che viene dopo i processi
produttivi, dopo il budget, dopo la pianificazione
strategica e si limiti a prendere atto di quello che fa
l’impresa e a farne una vetrina per l’esterno, siamo
lontani dall’aver compreso il cambiamento culturale. I
Paesi anglosassoni lo hanno già capito. La CSR deve
essere considerata una componente totalmente
integrata con il business, per qualsiasi tipologia di
impresa. Qualunque azienda che oggi non abbia
ancora incorporato al suo interno la CSR, non potrà
affrontare il mercato nei prossimi anni.
Porto ovviamente l’esempio del Gruppo HERA che,
fortunatamente, da questo punto di vista ha
anticipato un po’ i tempi. Come si fa ad evitare che la
CSR sia una vetrina per l’esterno e non una
componente strutturale della gestione dell’impresa?
Seguendo alcune regole fondamentali:
 La prima, evitare che il CSR manager sia un
dipendente che provenga dalla comunicazione,
perché fa presumere un’idea sbagliata di che cosa
sia la CSR per quell’azienda (nel Gruppo HERA il
CSR manager si è occupato di controllo di gestione,
quindi è un uomo che ha gestito dall’interno il
governo dell’impresa).
 La seconda, deve essere una direzione come per la
Finanza, il personale, il commerciale. In Hera, la
Direzione CSR risponde all’Amministratore
Delegato, colui cioè che ha le principali
responsabilità gestionali dell’azienda.
 La terza: gli strumenti del CSR Manager devono
avere un ruolo strutturato con il business, affinché
possano intervenire in maniera decisiva nella
definizione delle politiche aziendali.
Nel Gruppo Hera i due momenti fondamentali di
pianificazione, il piano industriale e il budget, sono
costruiti dalla direzione pianificazione strategica e
dalla direzione amministrazione finanza e controllo,
assieme alla direzione Corporate Social Responsibility
così che possa contribuire nella definizione degli
obiettivi di lungo periodo. Nel Piano Industriale sono
declinati non solo gli obiettivi economici, finanziari e
industriali ma anche sociali ed ambientali. Anche il
budget economico e finanziario si costruisce
parallelamente al Bilancio di Sostenibilità, che non è
uno strumento che prende atto di quello che è
successo, ma anzi enuclea chiaramente che cosa si
deve fare, identificando i principali obiettivi
dell’azienda e li declina in progetti, azioni, indicatori
ecc... L’Azienda approva contestualmente, in Consiglio
di Amministrazione e poi in Assemblea, i due
documenti, Bilancio Consolidato e
Bilancio di
Sostenibilità.
Il Gruppo ha inoltre deciso di introdurre un strumento
molto innovativo nella definizione ed assegnazione di
obiettivi a tutta la classe dirigente, mi riferisco sia ai
quadri sia ai dirigenti: il Sistema Balanced Scorecard
che è un sistema di controllo strategico che collega la
strategia alla gestione traducendo la strategia in
obiettivi e attività quotidiane. Il Sistema BSC
costituisce il sistema incentivante del management del
Gruppo. Gli obiettivi assegnati sono sintetizzati nella
mappa strategica aggiornata tutti gli anni sulla base
delle strategie declinate nel Piano industriale e
coerentemente con il budget. Il Sistema introduce ed
assegna a fianco degli obiettivi economico-finanziari e
dello sviluppo commerciale, anche obiettivi ambientali
e sociali. Sulla base della mappa strategica sono stati
individuati, per l’anno 2011, 44 progetti prioritari che
vengono monitorati trimestralmente in Comitato di
Direzione. Nel 2011 gli obiettivi correlati alla qualità,
ambiente e CSR sono pari a circa il 25%. I Progetti
obiettivo vengono assegnati attraverso delle schede
individuali ai quadri e ai dirigenti. Queste schede
individuali andranno ad accostare ad obiettivi
economico-finanziari anche quelli organizzativi, sociali,
ambientali e di sviluppo. Questo strumento innovativo
ha consentito di introdurre la sostenibilità nella
gestione quotidiana. A fine anno il CSR manager
supporta il vertice aziendale nella verifica del
raggiungimento degli obiettivi assegnati ad inizio anno
e si traduce poi nell’erogazione del premio di risultato
alla classe dirigente. Questo processo ci ha consentito
di sviluppare e promuovere la cultura della
sostenibilità tradotta attraverso l’approccio multiStakeholder, adottando politiche aziendali finalizzate a
soddisfare le esigenze dei diversi portatori di
interesse, non più indirizzate solo per la creazione di
valore per gli azionisti ma rivolti a tutti quei soggetti
coinvolti nella gestione: i dipendenti dell’azienda,
valutando le condizioni in cui essi svolgono la propria
attività; i clienti e i fornitori, che sono quelle categorie
di soggetti esterni con le quali l’azienda si interfaccia
immediatamente; la comunità locale a cui vengono
offerti i servizi dell’impresa, ecc…. Si traducono le
aspettative di questi soggetti in obiettivi che verranno
introdotti nella gestione quotidiana. La CSR è una
componente strutturale del business e quindi ancor di
più deve far parte degli obiettivi assegnati al gruppo
dirigente, altrimenti credo che si rimarrà qualche
passo indietro rispetto all’evoluzione del mercato.
Pensiamo soltanto ai Paesi in via di sviluppo, oppure
alla Russia, Cina, Brasile che si stanno approcciando
all’impatto ambientale, alla sostenibilità, stanno
31
Governance e Responsabilità Sociale
sostenendo ingenti investimenti nello smaltimento
rifiuti, nella raccolta differenziata, nell’emissione degli
impianti industriali, stanno riconvertendo gran parte
del loro potenziale economico adottando prassi e
comportamenti orientati alla sostenibilità. Credo
quindi che un’impresa eccellente, per essere
considerata tale, debba cogliere questo messaggio.
Paolo Migliavacca, docente Università Bocconi e
Amministratore Delegato Vita No Profit
Nei circa 10 anni in cui ho svolto prevalentemente
l’attività di ricerca e di didattica ho sempre cercato di
supportare
la
dimensione
strategica
della
responsabilità sociale di impresa, nella misura in cui
questo strumento ha una sua razionalità dal punto di
vista del DNA delle imprese, essendo in grado,
secondo determinate prospettive e determinati
strumenti di misurazione, di creare una positiva
differenza tra le imprese. Mi sono confrontato con un
notevole numero di studi, con centinaia di illustri
ricercatori, principalmente di natura anglosassone,
che hanno cercato di correlare la performance in tema
di social compliance con le performance di natura
finanziaria, andando a scontrarsi, molte volte, con
risultati ambigui, dove la forzatura del dato molto
spesso era la ragione per la quale questo legame in
qualche modo emergeva. Partendo da questo, un altro
punto che vorrei portare alla discussione problema sul
tema della Corporate Social Responsability, è quello di
considerare la compliance come un’attività isolata dal
resto delle attività delle imprese e che genera di per sé
un effetto benefico. Nella misura in cui la Corporate
Social Responsability riguarda, influenza, modifica le
linee strategiche e poi le linee esecutive delle relazioni
dell’impresa rispetto al suo sistema di Stakeholder,
allora è possibile ottenere risultati quantificabili,
tangibili e intangibili, di segno positivo.
Faccio qualche esempio: la Corporate Social
Responsability ha mosso i primi passi nell’ambito del
dipartimento risorse umane, in particolare negli Stati
Uniti. Un effetto positivo dell’attitudine sul rapporto
delle risorse umane è sicuramente, ad esempio, il
bene stesso della risorsa umana, la soddisfazione delle
persone rispetto all’opera prestata e con evidenti
conseguenze positive sugli aspetti motivazionali.
Questo può valere per tutte le altre categorie di
Stakeholder, con i clienti ad esempio, un
atteggiamento disponibile e di ascolto può
determinare effetti positivi sulla fiducia, la
reputazione, ma anche l’identificazione del cliente con
l’azienda che gli presta il sostegno. Quindi, prima di
tutto è importante non approcciare la Corporate Social
Responsability come una scatola nera, ma viceversa
declinarla nei suoi aspetti operativi. Secondariamente
chi si è mosso in anticipo lavorando sulla Corporate
Social Responsability (ed è questo il caso dell’Italia),
ha aperto volontariamente (o involontariamente) un
laboratorio di azione, di innovazione che penso
tornerà molto utile in un contesto in cui alcuni modelli
o alcune esasperazioni di modelli di fare impresa
stanno mostrando le corde. Vi segnalo un esempio
interessante negli Stati Uniti: è partito da un anno e
mezzo il movimento della cosiddetta Certified B
corporation, una certificazione richiesta da aziende
che stanno modificando di fatto il proprio statuto,
incentrando la finalità d’impresa non più soltanto sulla
produzione di profitto, ma anche sugli obiettivi di
impatto positivo sulla società. Sono aziende anche di
grandi dimensioni (per tutti il famoso marchio
Patagonia).
L’ultimo punto che mi preme evidenziare rispetto alla
ricerca proposta si sostanzia in un auspicio. A Milano
in questi giorni è presente Richard Sennet, famoso
sociologo americano, autore di diversi libri, l’ultimo si
chiama “Insieme. Rituali, piaceri, politiche della
collaborazione”7 ed è dedicato alla cooperazione,
intesa come tessuto di relazioni personali. Un
passaggio di questo libro è particolarmente
interessante, quando Sennet ricorda la sua esperienza
di orchestrale in gioventù, prima di diventare
sociologo, e descrivendo la vita degli orchestrali dice:
“Anche se conoscono perfettamente la propria parte,
durante le prove devono imparare l’arte dell’ascolto,
che manda l’ego in pezzi perché obbliga a rivolgersi
verso l‘esterno”. Mi pare questo un ulteriore
ingrediente fondamentale: non solo organizzazione e
inserimento nella pianificazione operativa
della
corporate social responsability, ma anche ascolto,
dialogo e apertura a forme di relazione innovative
verso gli Stakeholder che circondano l’impresa. Questo
dal mio punto di vista può generare nel tempo valore
differenziale.
Valter Serrentino, Responsabile CRS – Staff CEO
Intesa San Paolo
Lo studio pone all’attenzione un tema particolarmente
importante che traduco in una domanda: qual è il
senso profondo della Corporate Social Responsibility in
una fase di crisi (in particolare quella iniziata nel
2007), quando un modello, basato quasi
esclusivamente sulla remunerazione del capitale, sulla
creazione di valore per gli azionisti, sembra crollare?
Potrebbe essere il momento in cui si propongono gli
7
Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Richard
Sennet, Feltrinelli, 2012
32
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
assi portanti della CSR per fare una piccola autocritica,
per essere più utili alla società, per vedere le aziende
più integrate nella società e per rispondere alle
aspettative e alle domande degli Stakeholder.
L’indagine presentata avrebbe dovuto essere
realizzata nel 2006, oggi i risultati sono
particolarmente deprimenti e avviliscono chi si occupa
di CSR. Il lavoro di chi si occupa di CSR è
estremamente importante, perché rappresenta una
sorta di coscienza critica dell’azienda; un numero
sempre più vasto di aziende accettano questa
riflessione al loro interno. Ciò è un notevole passo in
avanti. Però ritengo che questi passi forse sono ancora
insufficienti per rispondere in maniera strutturale, alla
crisi che stiamo vivendo. Una crisi che è anche
culturale, è una crisi di modello, direi soprattutto
occidentale, rispetto alla quale non intravediamo altri
modelli più avanzati. Viviamo una situazione di
instabilità, soprattutto nel pensiero.
Se analizziamo questa ricerca e la confrontiamo con le
pratiche dell’azienda in cui lavoro (Intesa Sanpaolo),
potrei sentirmi orgoglioso. Nella nostra banca esiste
una significativa integrazione delle tematiche CSR
all’interno del business, come ufficio abbiamo
partecipato all’elaborazione del piano di impresa,
siamo in staff al Consigliere Delegato, rispondiamo al
Consiglio di Sorveglianza, presentiamo periodiche
relazioni al Comitato di Controllo. Lavoriamo con due
cruscotti che ci permettono di controllare quanta
distanza esiste tra le enunciazioni e il realizzato; i
risultati sono portati a conoscenza degli organi di
Governo della banca e degli azionisti. Gli Stakeholder
engagement sono periodici e frequenti, confrontiamo
quanto emerge dalla customer satisfaction con le
nostre risultanze. Su questioni strategiche (per
esempio, sulla policy ambientale) operiamo attraverso
un sistema di gestione controllato direttamente dalla
nostra struttura; esplicitiamo gli impegni e
rendicontiamo le realizzazioni non solo con il bilancio
sociale, ma anche attraverso pubblicazioni
specializzate. Potremmo essere soddisfatti. Perché
allora vedo il bicchiere ancora mezzo vuoto? Perché
mi rendo conto, ci rendiamo conto, noi che lavoriamo
in questo confine tra la società, la comunità e
l’impresa, di quanto nel concreto in situazioni di crisi,
le nostre attività possano essere marginali, oppure
non sufficientemente incisive. Faccio due esempi.
Il primo riguarda il ruolo di una banca nei confronti dei
propri clienti. Si parla di credit crunch, cioè
dell’insufficiente credito che le banche danno alla loro
clientela in una fase di crisi economica. È un tema di
responsabilità sociale? Normalmente non sembra
rientrare fra le tematiche di responsabilità sociale, ma
solo in quelle di business. Questa è un’insufficienza
culturale, non solo di strumenti. Responsabilità sociale
– in questa visione riduttiva – spesso consiste
nell’avvalorare un certo numero di indicatori, richiesti
dagli analisti che si occupano di sostenibilità, limitati al
microcredito (un’attività importante, ma che può
diventare uno specchietto per le allodole).
Il secondo esempio: in questo periodo la nostra banca
è oggetto di una campagna sul tema del consumo del
territorio. Noi siamo tra i principali finanziatori di
opere infrastrutturali, in particolare in Lombardia, e
alcune organizzazioni ci accusano di essere
responsabili della “distruzione del territorio”. Siamo
noi di CSR che dobbiamo rispondere a questa
domanda o è la struttura di business, che deve porsi
questi problemi? Noi riportiamo ovviamente queste
tematiche all’interno, ma in che modo le ragioni del
business riescono a comprendere le ragioni della
comunità?
Penso che questa ricerca sia stimolante, perché vuole
stabilire qual è l’effettivo dialogo tra gli argomenti
della CSR e quelli del business. La distanza che tuttora
permane è causa di insoddisfazione, già espressa da
altri relatori. Volendo mettere una ciliegina sulla torta
del pessimismo, aggiungo che non mi sembra che nella
situazione attuale, il governo italiano, l’Unione
Europea o le grandi organizzazioni internazionali – nel
concreto delle loro politiche – ritengano questi temi
importanti, quindi rischiamo di perdere un’occasione.
Cerchiamo di fare di tutto per non perderla, ma
rischiamo davvero di perderla. A favore di chi? Non lo
sappiamo. Contro di chi, invece, lo comprendiamo
molto bene.
Francesco Vella, Università di Bologna
La ricerca oggi presentata, svolta in collaborazione con
l’Università di Bologna. analizza il “come” i sistemi di
responsabilità sociale si integrano nelle strutture
operative delle imprese, si lega a doppio filo ad un
precedente lavoro del 2009, sempre della Fondazione
Unipolis, dal titolo “Governance e responsabilità
sociale. Analisi sull’applicazione dei Codici Etici
d’impresa in Italia”.
La prima ricerca rivelava una certa asimmetria tra
l’adozione di un sistema di responsabilità sociale e la
sua concreta applicazione nelle realtà imprenditoriali
(tipico il caso della diffusione dei codici etici e della
scarsità di segnalazioni arrivate).
La seconda, in un solco di continuità con i risultati
raggiunti nel 2009, mette in risalto una scarsa
permeabilità delle strutture e degli assetti
organizzativi e di governance con quei principi di
responsabilità sociale che si promuovono all’esterno.
33
Governance e Responsabilità Sociale
Un sistema valoriale, in altri termini, che mira a
qualificare l’impresa sul mercato, ma che non sempre
viene adeguatamente “declinato” nella organizzazione
interna.
La sensazione è quella di assetti di governance ancora
immaturi per recepire a pieno le istanze della
responsabilità sociale: non vi è dubbio, sarebbe
sbagliato non riconoscerlo, che molti passi avanti sono
stati fatti, ma la strada verso una piena coerenza con
le migliori prassi in materia è ancora lunga.
Esistono ancora problemi relativi alla creazione di
adeguati flussi informativi, di strutture di controllo
interno di verifica e monitoraggio circa l’applicazione
delle regole di responsabilità sociale, dotate dei
necessari presidi di autonomia, di un maggior
enforcement delle norme di autoregolamentazione.
Continuo ad essere convinto, infatti, che la
responsabilità sociale debba essere il terreno di
elezione per la self regulation e che da questo terreno
debba rimanere fuori la norma imperativa e
prescrittiva. Ma una regola, ancorchè adottata su base
volontaria, è pur sempre una regola e chi la produce
deve non solo farla propria, recependone i principi in
essa espressi, ma dimostrare all’esterno la capacità di
farla valere con adeguato apparato sanzionatorio in
caso di violazione.
E’ su questo che si regge il valore aggiunto della
eticità di un’impresa. E per farla valere è necessario
dotarsi di un supporto organizzativo interno che,
analogamente a quanto avviene per gli altri sistemi
normativi cui l’impresa aderisce, garantisca una seria
ed efficiente “conformità” ai valori etici adottati.
La prospettiva, allora, è quella di iniziare una seria
sperimentazione su questo terreno. A titolo di mero
esempio, e senza nessuna pretesa di completezza,
occorre immaginare che la funzione di responsabilità
sociale rifletta un modulo organizzativo inserito a
pieno titolo nella catena dei controlli interni. E quindi
con una struttura di compliance che verifichi la filiera
della produzione alla luce dei criteri individuati dalle
carte etiche o dai codici di autodisciplina, una
interlocuzione costante con gli organi di gestione e di
sorveglianza, una articolazione di accountability e di
rendicontazione verso soci e Stakeholder.
Ed è evidente che queste competenze possono essere
assolte solo in presenza di un adeguato grado di
autonomia e indipendenza, ed anche di una reale
capacità e volontà delle imprese nell’investire risorse
in questo settore.
Spesso nel passato l’etica ha rappresentato una sorta
di “bella fotografia” nella quale le imprese cercavano
di mettersi in posa per offrire un’immagine, peraltro
meritoria, degli impegni da esse assunti sul terreno
dell’impegno sociale; il futuro è, invece, rappresentato
dalla definitiva acquisizione della responsabilità
sociale come elemento caratterizzante del dna
imprenditoriale e in grado di permeare con continuità
l’organizzazione e l’attività produttiva. E’ una sfida che
richiede ambizione e coraggio, ma sulla quale si
misurerà
quel
capitale
reputazionale
oggi
indispensabile per uscire dalle difficoltà che ci
circondano.
34
Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Perché investire su etica e responsabilità sociale
di Giorgio Riccioni
E’ opinione largamente condivisa che la soluzione
della crisi che ha investito l’economia globale non
possa prescindere da profondi cambiamenti della
cultura economica e con essa della natura dell’impresa
e dei modelli di governance.
Vale comunque la pena sottolineare come, almeno
fino a questo momento, non sia possibile osservare
significativi cambiamenti nel comportamento delle
imprese. Si notano, al contrario, pericolosi ritorni a
prassi strategiche che sono state le cause principali
della crisi.
Etica di’impresa e responsabilità sociale sono i fattori,
universalmente accettati, su cui fondare i processi di
cambiamento e le due ricerche prodotte da Unipolis
sono state ispirate da questo assunto. Ampliare il
grado di conoscenza all’interno del vasto campo delle
dinamiche evolutive della governance d’impresa è
stato quindi scelto come obiettivo di lavoro calibrato
sulla realtà imprenditoriale italiana.
Condurre a termine queste ricerche ha presentato non
poche difficoltà imputabili soprattutto alla reticenza,
manifestata da molte delle imprese interpellate a
fornire risposte esaurienti ai quesiti posti. E’ chiaro
che una simile reticenza, in particolare sui temi della
responsabilità sociale, deve essere messa in relazione
alla parziale o assoluta mancanza di strumenti dedicati
e di comportamenti conseguenti all’interno della
struttura di gestione.
La quasi totalità delle imprese interpellate ha invece
adottato un codice etico. Una simile scelta, come è
noto, non è il derivato di una cultura dell’etica radicata
nell’impresa bensì, nella maggioranza dei casi, dalla
gestione degli obblighi e delle opportunità ricomprese
nella Legge 231. Sono infatti pochissime le imprese
che si erano dotate di un codice etico prima
dell’entrata in vigore di questa legge.
Ciò ha finito per produrre una evidente discrasia fra i
contenuti dei codici etici e la pratica gestione degli
impegni assunti attraverso l’adozione degli stessi
codici.
La conseguenza più evidente è stata quella di rendere
questi strumenti, inseriti spesso in modo solenne nel
campo della governance, una semplice, seppur nobile,
testimonianza.
In definitiva il lavoro di analisi condotto dimostra
ampiamente l’enorme ritardo con cui la cultura
dell’etica e della responsabilità sociale trova una sua
coerente affermazione all’interno del sistema
imprenditoriale italiano. Gli effetti devastanti della
crisi economica stanno comunque producendo un
positivo mutamento di sensibilità verso questa nuova
cultura. Una sensibilità che appena sfiora l’impresa,
ma che sta investendo con forza la società civile e le
sue espressioni organizzate.
Sempre di più infatti viene posto l’accento sui pericoli
che un sistema economico senza regole rappresenta
per gli equilibri sociali e per la stessa democrazia e
quindi sulla necessità di una profonda trasformazione
dei protagonisti dell’economia. Si sta facendo strada la
coscienza che non sia più sufficiente il semplice
rispetto delle leggi e del diritto societario, ma che
l’esercizio dell’impresa non possa più prescindere da
processi di autoregolamentazione fondati sull’etica dei
comportamenti, sulla responsabilità sociale e sulla
sostenibilità.
Storicamente, infatti, il processo di produzione del
valore si è evoluto in parallelo alle leggi che ne fissano
regole e ne sanzionano le trasgressioni. Regole e
sanzioni come strumenti di composizione dei conflitti
fra le componenti che direttamente o indirettamente
partecipano alla produzione e redistribuzione della
ricchezza. E’ quindi lo stato che, attraverso le leggi, si è
proposto come mediatore dei conflitti fissando i limiti
all’interno dei quali la libertà d’impresa è in grado di
esprimere la propria missione e le proprie strategie.
Il mondo delle imprese è comunque sempre stato in
grado di condizionare a proprio vantaggio le scelte
della politica e solo in tempi recenti, complici i
mutamenti intervenuti nella società civile e
determinati da un più facile e diffuso accesso alla
conoscenza ed alla informazione, ha posto in atto i
primi timidi tentativi di autoregolamentazione dei
processi di creazione della ricchezza.
E’ prevedibile che, nel prossimo futuro, l’impresa sarà
sempre più chiamata a rendere conto delle proprie
scelte in questo campo; proprio perché nella società
civile si va facendo più forte il convincimento che la
produzione del valore non è il derivato esclusivo
dell’azione d’impresa e che i fattori di produzione
esterni all’impresa non possono essere remunerati
solo con la fiscalità.
L’impresa deve oggi confrontarsi non solo con il
mercato, ma con un’opinione pubblica più attenta, più
informata, più sensibile e sempre meno disponibile ad
accettare meccanismi di sviluppo e di produzione del
35
Governance e Responsabilità Sociale
profitto avulsi da processi di promozione sociale o
peggio, in grado di attivare fenomeni di distruzione di
fattori non rinnovabili come il clima, l’ambiente, il
paesaggio e così via. Prendere atto di questa realtà
significa, per l’impresa, inserire, fra i propri riferimenti,
nuovi protagonisti fra cui, in primo piano, la società
civile e le sue espressioni organizzate. Una simile
cultura non è a priori nemica del profitto, del mercato,
della competizione, ma semplicemente ne regola la
produzione e l’esercizio sulla base di principi generali
che la società civile considera irrinunciabili. E
l’obiettivo implicito nell’affermarsi di questa cultura è
certamente quello di fare assumere definitivamente
etica di impresa e responsabilità sociale al rango di
veri e propri fattori della produzione.
La creazione di un percorso che porti al radicamento di
questa
cultura,
e
contemporaneamente
all’affermazione di una logica di mercato in cui la
variabile
reputazionale
ed
i
contenuti
dell’autoregolamentazione possono rappresentare
una componente non secondaria del valore,
richiamano il ruolo dello Stato, le istituzioni
sovranazionali, delle organizzazioni imprenditoriali di
rappresentanza.
Il lavoro di ricerca condotto da
Unipolis fornisce alcune importanti indicazioni sugli
approfondimenti necessari per produrre proposte
capaci di far evolvere una situazione che, in assenza di
stimoli e di confronto, rischia la più completa
immobilità.
Fra i temi da approfondire appaiono di particolare
attualità:
1. la ricerca di modelli di riferimento in grado,
almeno, di attenuare la confusione esistente nelle
filosofie ispiratrici, nei linguaggi, nelle strutture di
gestione;
2.
il rapporto con gli Stakeholders e quindi il ruolo
pro-attivo degli strumenti dedicati;
3.
l’evoluzione delle strutture di governance e quindi
dell’autoregolamentazione.
Fondamentale in questo campo un mutamento di
rotta nella qualità e quantità delle risorse dedicate,
nella partecipazione attiva della proprietà, nella
chiarezza della rendicontazione.
Ciò pone il problema di monitorare in maniera
sistematica i cambiamenti che certamente
interverranno in questo campo in parallelo
all’evolversi di questa cultura all’interno dell’impresa.
La costituzione di un osservatorio permanente
sull’etica e sulla responsabilità sociale d’impresa
potrebbe rappresentare un utile strumento per
perseguire questo obiettivo.
36
SECONDA PARTE
Governance
e Responsabilità sociale
“Analisi sull’applicazione dei Codici Etici
d’impresa in Italia”
37
Governance e Responsabilità sociale
38
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
1. Introduzione
1.1 Obiettivi della ricerca
Per governance si intende l’insieme di regole, processi,
relazioni e consuetudini che sottendono al sistema di
gestione e controllo di un’organizzazione, sia questa
parte del settore no-profit (associazione, fondazione,
impresa o cooperativa sociale) o del settore profit
(impresa privata, pubblica, quotata o non quotata,
cooperativa).
I sistemi di governance sono centrali per una buona,
corretta
e
trasparente
conduzione
delle
organizzazioni, specialmente in contesti sociali ed
economici come quelli attuali dove esiste una
spropositata influenza dei mercati finanziari,
globalizzati
e
ad
elevata
interdipendenza,
sull’economia reale, che rende sempre più complessa
l’efficacia della corporate governance ossia il
controllo, da parte dell’assetto proprietario, delle
deleghe, delle responsabilità e dei ruoli attribuiti agli
organi di amministrazione, la gestione e supervisione
delle imprese affinché il cosiddetto “fiduciary duty”1
sia correttamente esercitato.
Tali sistemi, tuttavia, pur rispondendo alle migliori
indicazioni degli organismi di vigilanza, delle banche
centrali o della giurisprudenza, corrono il rischio di
rimanere meri meccanismi formali se non sono
immersi in un contesto culturale che, pur avendo
molto chiaro l’interesse della proprietà, qualsiasi essa
sia, promuova il concetto di “Stakeholder company”. Si
tratta del tentativo di allineare l’interesse della
proprietà con quello degli altri Stakeholder
(dipendenti e collaboratori, comunità o territorio,
ambiente e società) poiché in questi casi si può
instaurare un volano virtuoso tra interesse individuale
e collettivo, tra creazione di valore economico e
sociale.
Contesto di riferimento
Negli ultimi quindici anni, le imprese hanno
cominciato a dotarsi, al fine di rispondere a una
sempre maggior richiesta di responsabilità sociale, di
uno strumento di auto-regolamentazione già utilizzato
in alcuni paesi anglosassoni: il Codice Etico,
documento che contiene i valori, le linee guida e i
criteri di comportamento che devono orientare le
relazioni verso e tra gli Stakeholder dell’impresa
(management, dipendenti e collaboratori, clienti,
fornitori).
1
Il dovere fiduciario è l’obbligo di agire nel miglior interesse di
coloro che hanno delegato alcuni dei loro poteri, ad un’altra
controparte
Ad oggi, però, in Italia non si conoscono ancora gli
effetti prodotti dall’introduzione di questo strumento
di governance sulla gestione e sulla cultura d’impresa.
Alcuni si stanno ancora chiedendo se il Codice Etico
funzioni davvero o sia solo un “pezzo di carta” appeso
alle bacheche o messo in un cassetto, senza alcun
reale potere di intervento sull’applicazione dei principi
scritti alla realtà dell’impresa.
Obiettivo della ricerca
Lo studio, al fine di sostenere una discussione molto
attuale nel nostro paese che però – almeno fino ad ora
– non si è basata su dati e ricerche empiriche, intende
analizzare l’impatto che ha avuto l’introduzione dei
Codici Etici in Italia e rispondere ai seguenti quesiti:
 l’adozione di tali strumenti ha migliorato la
gestione e i sistemi di verifica interna
dell’impresa?
 L’applicazione del Codice Etico promuove di fatto
comportamenti virtuosi e penalizza atteggiamenti
devianti all’interno dell’impresa?
 L’introduzione dei Codici Etici ha favorito
l’adozione di comportamenti socialmente più
responsabili da parte dell’impresa in relazione agli
Stakeholder interni ed esterni?
 Dopo
quindici
anni
di
attività volta
all’introduzione di strumenti di responsabilità
sociale, è cambiata e come la cultura d’impresa?
Metodologia
 La ricerca analizza i Codici Etici di imprese private
e cooperative con sede sul territorio nazionale,
focalizzandosi sui seguenti ambiti:
 rapporto con il sistema di governance;
 presenza del Comitato Etico, ruolo e funzioni, da
chi viene nominato, a chi risponde e come è
composto (numero dei membri, interni/esterni,
esecutivi/non esecutivi);
 sistema di attuazione, controllo e verifica del
rispetto dei valori, principi, linee guida e criteri di
comportamento definiti dal Codice Etico
(responsabile, a chi risponde, modalità delle
segnalazioni – firmate o anonime − quante
segnalazioni sono inviate annualmente, gravità
delle segnalazioni, da quali Stakeholder
provengono le segnalazioni relative a quali
interlocutori, a quante segnalazioni corrisponde
un provvedimento, tipologia del provvedimento).
39
Governance e Responsabilità sociale
La ricerca è stata sviluppata in una prima fase come
analisi dei documenti disponibili sui siti web delle
aziende e successivamente come interviste strutturate
telefoniche o faccia-a-faccia con i referenti dei Codici
Etici delle singole imprese.
1.2 Limiti dello studio
La ricerca realizzata risente di alcuni limiti dovuti ai
seguenti fattori: scarsità dei dati pubblici rintracciabili
nei siti web delle imprese campione, o nei loro Bilanci
di Sostenibilità, relativi ai documenti che compongono
il Sistema di Governance della Responsabilità Sociale
d’Impresa. Infatti, ogni impresa sembra aver adottato
scelte diverse su quali documenti e informazioni
rendere pubblici, causando difficoltà di raffronti
omogenei sugli stessi dati per diverse aziende. Questo
spiega le ragioni dell’utilizzo della dicitura “dato non
disponibile”. In particolare, sono state riscontrate
difficoltà a reperire i seguenti dati:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
data di entrata in vigore e data di aggiornamento
del Codice Etico;
numero dei componenti dell’Organo/Figura
garante del Codice Etico, numero dei componenti
interni ed esterni, organo che nomina tali
componenti e a cui deve rispondere;
Stakeholder a cui viene data la possibilità di
effettuare segnalazioni;
numero delle segnalazioni ricevute all’anno,
modalità di invio delle segnalazioni, tipologie delle
segnalazioni ritenute fondate, valutazione ed
esito delle segnalazioni;
pur essendo consapevoli che il Codice Etico ed il
Codice di Comportamento o Codice di Condotta
non siano esattamente la stessa cosa − ove nel
primo sono contenuti i principi etici di ispirazione
della Responsabilità Sociale d’Impresa, nel
secondo si definiscono le norme e i
comportamenti da attuare per promuovere la
correttezza negli affari − si è scelto di considerarli
sinonimi per adeguarsi alla prassi prevalente;
difficoltà nell’identificare e reperire le persone da
intervistare;
mancanza di informazioni ottenute dagli
intervistati, i quali non erano a conoscenza o in
possesso di tutti i dati necessari per rispondere
esaustivamente all’intervista faccia-a-faccia o
telefonica (per esempio dati relativi ai percorsi di
informazione/formazione realizzati, al numero
delle segnalazioni ricevute, ai criteri oggettivi e/o
soggettivi di valutazione della segnalazione, alla
possibilità di irrogare sanzioni);
l’intervista è stata realizzata con un componente
dell’Organo/Figura garante del Codice Etico
(membro o Presidente del Comitato per il
Controllo Interno, Responsabile Unità CSR,
Responsabile Internal Audit, Legale Societario,
Responsabile del Bilancio di Sostenibilità ecc.), ma
per avere un quadro d’insieme più completo
sarebbe stato necessario intervistare una
molteplicità di figure dirigenziali quali il Direttore
delle Risorse Umane, della Comunicazione Interna
ed Esterna, l’Amministratore Delegato, ecc.
2. La Responsabilità Sociale d’Impresa tra
autoregolamentazione e legislazione
Nella conduzione della ricerca si è partiti dalla
seguente definizione “La Responsabilità Sociale
d’Impresa è il contributo delle imprese al
raggiungimento dello sviluppo sostenibile” 2 e,
pertanto, la sua importanza risiede nella
consapevolezza che essa è uno strumento che rende
l’impresa migliore e permette a chi la gestisce di fare
al meglio il proprio lavoro – ossia produrre valore per
se stesso e per la propria comunità (locale e globale).
Ma come si discerne se un’impresa sta attuando una
strategia di responsabilità sociale? È possibile
delineare una serie di condizioni ed azioni la cui
presenza evidenzia la volontà dell’impresa di
perseguire un percorso di responsabilità sociale:
 l’esistenza di una visione, di una missione e di
valori d’impresa esplicitati;
 un Codice Etico, integrato nelle valutazioni di
performance dello staff e nel raggiungimento
degli obiettivi a fine anno;
 la definizione di cosa significhi responsabilità
sociale per quella particolare azienda;
 l’identificazione degli impatti più rilevanti
dell’impresa (materiality principle)3 ;
 la rendicontazione della propria performance
ambientale, sociale ed economica tramite alcuni
indici di tipo quantitativo e qualitativo identificati a
livello internazionale, adattandoli alla propria
dimensione e contesto;
 la pubblicazione di un Bilancio Sociale o di
Sostenibilità. Il percorso così caratterizzato,
delineato nella seguente tabella, prevede un
impegno da parte delle imprese che si inserisce
anche nella pianificazione strategica aziendale e in
concrete pratiche quotidiane che dirigenti e
dipendenti sono chiamati a porre in essere nello
svolgimento del proprio lavoro.
Il tracciato strutturato in questo modo richiede un
impegno chiaro dell’azienda sia internamente sia
esternamente. La dimensione interna concerne la
capacità di integrare, gestire e misurare nel core
business l’impatto ambientale, sociale ed economico
40
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
delle proprie attività, mentre la dimensione esterna
riguarda la facoltà di comunicare e rendere conto della
propria visione, gestione aziendale e impatto sulla
società, ai diversi portatori di interesse.
La relazione tra etica, responsabilità sociale e legge
“Il principio fondamentale dell’impresa deve diventare
fare la cosa giusta perché è giusto, non perché paga.
Se vogliamo preservare il meccanismo più efficace che
la storia umana abbia conosciuto per la produzione di
beni e servizi – l’economia di mercato e l’impresa di
pubblica utilità a responsabilità limitata che ne è il suo
strumento principale – allora tale sistema deve farsi
portatore di principi. Il fallimento finanziario può
distruggere alcune imprese. Il fallimento morale
distruggerà il capitalismo.” Sir Geoffrey Chandler, exdirigente di Shell ed ex-rappresentante di Amnesty
International Business Group “Io sostengo che
un’impresa seria deve avere nei suoi progetti normali, nel
suo dna, la responsabilità sociale. Non è altra cosa la
responsabilità sociale rispetto al fare impresa. Non si
cambia un’impresa cattiva che nel weekend fa una
donazione o qualche atto di responsabilità sociale
riconciliandosi col mondo. L’impresa, la buona impresa,
quella che poi dura nel tempo, è costruita su valori che
ruotano tutti intorno alla responsabilità sociale. Quando io
sento dire che è qualcosa di altro o che persino l’attenzione
alla sicurezza sul lavoro è frutto di progetti speciali, (mi è
capitato di leggere anche questo!) debbo gridare che è
un’idiozia. Dare attenzione a questi valori della
responsabilità, della sicurezza, della comunità, non è avere
il timbro di impresa socialmente responsabile. È il timbro di
un’impresa seria.”
Marco Vitale, consulente aziendale “L’etica è
innanzitutto un filtro attraverso il quale passano il
pensiero e l’agire umano che influenza anche l’agire
d’impresa la quale non è solo un luogo economico ma
anche sociale e politico poiché l’azienda esprime, nella
sua organizzazione e nei suoi comportamenti una
cultura valoriale...L’etica degli affari si pone come
forma di autoregolamentazione delle imprese
alternativa rispetto al diritto, in quanto ispirata non
soltanto alla lettera della legge (la legalità) bensì allo
spirito più profondo di quest’ultima (la moralità).”
Andrea Farinet in Corporate Responsibility
Come ben descritto dalle frasi riportate e dal grafico
presentato2, l’etica non coincide necessariamente con
i principi della Responsabilità Sociale d’Impresa. In
realtà, non esiste una sola etica d’impresa ma una
pluralità, poiché l’etica rimanda a principi morali
diversi e in continua trasformazione che dipendono
dal contesto socio-culturale e storico, ma anche
individuale, a cui si fa riferimento. È innegabile, però,
che negli ultimi quindici anni nella cultura d’impresa si
sia affermata l’etica della responsabilità sociale
proprio perché successivi e frequenti “fallimenti del
mercato”, nonché scandali finanziari e aziendali,
hanno riportato a un ruolo preminente la dimensione
dei valori e della loro influenza sul comportamento
umano, quale elemento essenziale per il buon
funzionamento dell’impresa e di qualsiasi sistema
sociale ed economico.
A questo approccio etico alla Responsabilità Sociale
d’Impresa, volontario ed autoimposto, che ha
caratterizzato il suo primo sviluppo, nel tempo si sono
affiancate opinioni e considerazioni provenienti
soprattutto da organizzazioni no-profit ambientaliste o
di rappresentanza della società civile che hanno
proposto la codifica in legge della Responsabilità
Sociale d’Impresa. Queste diverse tendenze
evidenziano delle questioni di fondo che rimangono
tuttora irrisolte:
 le leggi non possono cambiare i valori, vale
2
Il grafico presentato si è ispirato a quello proposto dallo stesso
Andrea Farinet nell’articolo “Etica e mercato: alcune considerazioni”
pubblicato in Corporate Responsibility, 2008
41
Governance e Responsabilità sociale
piuttosto il contrario e il sistema dei valori
influenza il corpus legislativo. Considerando,
perciò, che l’etica non si può normare ma copre
ambiti che vanno oltre la legge, è bene pensare alla
Responsabilità Sociale d’Impresa all’interno di
principi etici o morali?
 Nella storia umana gli approcci etici, una volta
accettati da un numero cospicuo di cittadini, hanno
influenzato la creazione di nuove leggi. È questo,
forse, un periodo storico che potrebbe permettere
alla Responsabilità Sociale d’Impresa di ispirare
una nuova ondata normativa?
Il Codice Etico d’impresa, soprattutto per come si è
evoluto nel contesto italiano, ha in sé queste
contraddizioni. È considerato uno strumento di
responsabilità sociale che rimanda a principi eticomorali e dal 2001 è altresì promosso all’interno di un
decreto legislativo. Anche dalle prime analisi
effettuate per questa ricerca, è risultato evidente che
la maggior parte dei Codici Etici adottati dalle imprese
italiane sono stati realizzati come strumenti di
compliance del decreto legislativo 231.
Tuttavia, far rientrare il Codice Etico, strumento di
responsabilità sociale, all’interno di una legge nata per
combattere i reati societari e la criminalità economica,
rischia di avvalorare il concetto che in Italia la
Responsabilità Sociale d’Impresa sia utilizzata per
portare le imprese a rispettare le leggi più che ad
adottare comportamenti virtuosi che vadano oltre le
leggi stesse. È certo che un contesto permeato
dall’etica e ispirato ai principi della Responsabilità
Sociale d’Impresa dovrebbe proteggere dai
comportamenti illeciti, permettendo un più
agevole rispetto delle regole e una maggior
fiducia. Ma è estremamente complesso valutare
quando un’impresa stia effettivamente praticando
la responsabilità sociale poiché non sembra essere
sufficiente la presenza di un Codice Etico o di un
Bilancio di Sostenibilità per garantirne l’effettiva
realizzazione. Enron, Parmalat e altre imprese che
hanno commesso dei reati, avevano adottato,
anche se solo sulla carta, un Codice Etico.
2.1 Il Codice Etico e il Comitato Etico
Il
Codice
Etico
è
uno
strumento
di
autoregolamentazione attraverso cui un’impresa
afferma e declina i Valori, i Principi e gli standard
comportamentali che dovrebbero ispirare l’agire
proprio e degli Stakeholder. Nella sua interpretazione
più ampia dovrebbe rappresentare una “carta
costituzionale” aziendale da cui discendono poi
molteplici indicazioni che ispirano la gestione
dell’impresa. “Esso consiste, pertanto, in una vera e
propria dichiarazione etica, una sorta di ‘tavola della
legge’ avente ad oggetto il credo dell’impresa, i
principi-guida, gli obiettivi di fondo, le aspirazioni
sociali, i valori e le istanze culturali cui l’impresa
intende aderire. Si tratta, in sostanza, di un
documento che raccoglie organicamente norme di
comportamento per i manager e i dipendenti ed
orienta sugli atti da compiere nello svolgimento delle
differenti funzioni in cui si estrinseca l’attività
d’impresa”3.
In tale logica, i Codici non sostituiscono le pratiche di
dialogo sociale e contrattazione collettiva, ma sono
uno strumento del tutto volontario che si integra alla
normativa vigente, andandovi oltre, e la cui valenza è
correlata al livello di conoscenza e condivisione che ne
accompagna la diffusione all’interno dell’azienda.
In sintesi, il Codice Etico è uno strumento di:
 governance e indirizzo culturale che permette di
promuovere
in
maniera
strutturata
la
Responsabilità Sociale d’Impresa;
 gestione strategica che integra i principi
dell’impresa con i comportamenti dei propri
Stakeholder,
traducendoli
in
criteri
di
comportamento e obiettivi da raggiungere per i
collaboratori (identificabili anche attraverso la
definizione di key performance indicator di impatto
ambientale e sociale);
 supporto alla gestione delle relazioni tra l’impresa
e i suoi interlocutori principali in cui l’azienda
esplicita responsabilità, impegni, diritti e doveri nei
confronti degli Stakeholder interni ed esterni
(soci/azionisti/proprietà, dirigenti, dipendenti,
collaboratori,
consulenti
esterni,
agenti/procuratori, clienti, fornitori, sindacati,
settore
no-profit,
ambiente,
finanziatori,
comunità).
La struttura del Codice Etico si distingue in una prima
parte in cui sono descritti i valori e i principi, a cui
seguono delle linee guida che orientano i rapporti con
i principali portatori di interesse e i meccanismi
necessari ad attuare, monitorare e diffonderne il
rispetto e la conformità del comportamento (sistema
di segnalazioni). Interessante sottolineare che,
soprattutto nei confronti dei fornitori, a seguito
dell’adozione del Codice Etico, l’impresa può prevedere
l’inserimento di clausole risolutive nei contratti di
fornitura che facciano esplicito riferimento al rispetto dei
principi e dei comportamenti declinati nel Codice stesso,
pena la risoluzione del contratto. Questa opzione
rappresenta una leva di diffusione della Responsabilità
3
A. Farinet, “Etica e mercato: alcune considerazioni”, in Corporate
Responsibility, 2008
42
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
Sociale d’Impresa molto rilevante poiché inserisce criteri
quali la riduzione dell’impatto ambientale e il rispetto di
un livello minimo di qualità del lavoro (che può essere
certificato attraverso la SA8000) 4 all’interno dei contratti
di fornitura, attraverso specifiche clausole, le quali
possono anche estendersi agli eventuali sub-fornitori,
instaurando un circolo virtuoso che pervada tutta la
catena di fornitura e sub-fornitura.
Il Comitato Etico è un organo aziendale dotato di
indipendenza ed autonomia, formato da componenti
esterni e interni, nominato dal Consiglio di
Amministrazione a cui risponde. Esso valorizza le
iniziative di Responsabilità Sociale d’Impresa, garantisce
il rispetto del Codice e ne promuove la conoscenza sia
internamente sia esternamente all’azienda.
Le funzioni principali svolte dal Comitato Etico sono:
 monitorare e verificare l’Attuazione del Piano di
Implementazione del Codice Etico, rendicontando
tutte le attività realizzate in un Rapporto Annuale
da sottoporre al Consiglio di Amministrazione;
 diffondere i contenuti del Codice e promuoverlo
allo staff attraverso il controllo e la valutazione del
piano di comunicazione e formazione;
 verificare il rispetto del Codice Etico, deliberando
relativamente ai comportamenti che si discostano
dagli standard definiti ed individuando misure
adeguate nel caso siano accertati comportamenti
non conformi, fatta esclusione per ogni forma di
esercizio del potere disciplinare che viene riservato
ai competenti organi aziendali;
 predisporre delle revisione periodiche.
I limiti del modello di governance con
Codice Etico e Comitato Etico
Pare opportuno, a questo punto, sottolineare che il
Codice Etico, pur promuovendo un sistema per
indirizzare e diffondere certe tipologie di
comportamenti ispirati alla Responsabilità Sociale
d’Impresa, non è vincolante per la legislazione italiana
sul lavoro. Questo significa che l’unico sistema di
sanzioni applicabile è quello definito dal Codice Civile
oppure dallo Statuto dei lavoratori e dal contratto
collettivo nazionale, quindi, possono essere puniti solo
i comportamenti ivi descritti, a meno di ricondurre
4
Social Accountability 8000 (SA8000) è uno standard internazionale
elaborato nel 1997 dall’ente americano Social Accounting
International per controllare la qualità del lavoro in paesi, come
quelli in via di sviluppo, ove non esiste una legislazione sulle
condizioni di lavoro. L’obiettivo è scongiurare comportamenti delle
imprese di eccessivo sfruttamento della mano d’opera, evitare il
coinvolgimento di lavoro minorile e la non retribuzione degli
straordinari, garantire un salario minimo, l’associazionismo
sindacale, la disparità di trattamento uomo/donna o per razza,
religione, ecc.
certe azioni alla violazione dell’obbligo di diligenza o
fedeltà aziendale.
Inoltre, anche il Comitato Etico, non essendo un
organo incluso nella nostra legislazione o richiesto
dagli organismi di controllo come Consob, Banca
d’Italia o Borsa Italiana, non ha poteri diretti ma può
agire solo attraverso il Consiglio di Amministrazione
oppure per mezzo dei competenti organi aziendali nel
caso in cui le segnalazioni richiedano l’esercizio del
potere disciplinare. Il Comitato Etico è un organo de
facto molto limitato nei suoi poteri diretti, ma con la
propria presenza e relazione con gli altri organi può
agire come promotore dei principi definiti nel Codice
Etico e come agente “morale”.
2.2 Il decreto legislativo 231/2001
Il decreto 231 nasce a seguito della ratifica di alcuni
trattati internazionali tra i quali:
 Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità
Europee, firmata a Bruxelles il 26/07/1995;
 Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione
dei funzionari delle Comunità europee o degli Stati
membri dell’Unione Europea, firmata a Bruxelles il
26/05/1997;
 Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei
pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni
economiche internazionali, firmata a Parigi il
17/09/1997;
 Legge di ratifica degli Atti internazionali n. 300 del
29/09/2000 (con la quale è stato delegato il
Governo a disciplinare in materia di responsabilità
amministrativa).
Il decreto si inserisce in una serie di riforme legislative
che lo hanno preceduto e si sono susseguite, tutte
tese a un maggior controllo delle attività d’impresa.
Già nel 1998, il Testo Unico sull’intermediazione
finanziaria (D.Lgs. 58/1998) aveva portato a termine
una riforma in materia di controlli, rafforzando i
requisiti d’indipendenza dei sindaci e imponendo alle
società quotate la programmazione di un sistema di
controllo interno. La riforma societaria del 2003 ha poi
innovato
la
disciplina
degli
amministratori
differenziando compiti e responsabilità degli
amministratori con deleghe da quelli senza deleghe,
ha imposto un controllo contabile anche per le società
non quotate e inserito modelli di governo societario
alternativi al sistema tradizionale in cui il controllo
sulla gestione è affidato ad organi diversi dal Collegio
Sindacale. Influente, infine, la legge sul risparmio (L.
262/2005) con cui sono stati rafforzati profili di
indipendenza dei gestori e controllori ed è stata
introdotta la nuova figura del dirigente preposto alla
redazione dei documenti contabili, nonché la
normativa sul Codice di Autodisciplina delle Società
43
Governance e Responsabilità sociale
Quotate (ultima modifica del 2006).
L’obiettivo del decreto legislativo 231, attraverso
l’introduzione di sistemi di monitoraggio dell’attività
aziendale al fine di realizzare controlli preventivi sulla
gestione, è quello di rendere responsabili gli enti degli
illeciti (anche penali) che vengono commessi nel loro
interesse o a loro vantaggio e sono resi possibili dalle
carenze della struttura organizzativa e di controllo
degli enti stessi. Da tenere presente che la disciplina
sulla responsabilità amministrativa da reato è in
costante ampliamento, tanto che nel corso degli anni
le fattispecie di reato previste sono aumentate
notevolmente, includendo anche casi molto
eterogenei e non tutti collegabili direttamente e per
tipicità all’attività d’impresa.
La legge sulla responsabilità amministrativa degli enti
ha una finalità preventivo-repressiva. Secondo il
decreto, per la punibilità dell’ente, il reato deve essere
commesso nell’esclusivo interesse dell’ente o a suo
vantaggio5 da persone:
 “che rivestono funzioni di rappresentanza, di
amministrazione o di direzione dell’ente o di una
sua unità organizzativa dotata di autonomia
finanziaria e funzionale, nonché da persone che
esercitano, anche di fatto, la gestione e il
controllo dello stesso” (i così detti soggetti
apicali);
 “sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei
soggetti di cui alla lettera a)” (soggetti sottoposti
alla direzione o alla vigilanza dei soggetti apicali).
Il Modello Organizzativo e Gestionale (MOG)
Il MOG è un sistema organico di elementi, azioni, strumenti
e responsabilità i quali interagiscono al fine di assicurare
che l’adempimento di una serie di procedure previste dal
decreto 231/2001 consenta di escludere la responsabilità
dell’ente.
Una volta adottato (usualmente con delibera del
Consiglio di Amministrazione), il MOG deve
rispondere, tra le altre cose, alle seguenti esigenze
(art. 6):
 individuare le attività nel cui ambito possono
essere commessi reati;
specifici
protocolli
diretti
a
 prevedere
programmare la formazione e l’attuazione delle
decisioni dell’ente in relazione ai reati da
prevenire;
 individuare modalità di gestione delle risorse
5
Giuridicamente, per “interesse” si intende la finalizzazione del
reato senza il conseguimento dell’utilità con un giudizio ex ante. Il
“vantaggio” fa riferimento alla concreta acquisizione di un’utilità
economica per l’ente e deve essere valutato con un giudizio ex post
(Corte di Cassazione 30 gennaio 2006).
finanziarie idonee ad impedire la commissione dei
reati;
 prevedere obblighi di informazione nei confronti
dell’organismo
deputato
a
vigilare
sul
funzionamento e l’osservanza dei modelli;
 introdurre un sistema disciplinare idoneo a
sanzionare il mancato rispetto delle misure
indicate nel modello.
Gli elementi qualificanti del MOG disciplinati dalla
legge stessa sono:
 sistema di analisi del rischio: si realizza attraverso
l’individuazione delle minacce e dei fattori di
rischio, la valutazione ed attribuzione del livello di
rischio, la classificazione delle attività aziendali in
base al rischio potenziale;
 piano di miglioramento: dalla mappatura del
rischio si passa a individuare i piani di
miglioramento del sistema di controllo interno
(processi e procedure);
 Organismo di Vigilanza (OdV): deve essere un
organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e
controllo;
 sistema disciplinare: oltre al sistema disciplinare
aziendale, si possono prevedere delle sanzioni
specifiche per le violazioni del MOG;
 flussi informativi verso l’OdV: l’Organismo di
Vigilanza di tutte le società deve rendere conto
all’organo di gestione.
Gli elementi qualificanti del MOG non indicati dalla
legge ma dalle Linee Guida delle Associazione di
categoria (Confindustria, Ania, ABI) sono i seguenti:
 Codice Etico (o di Comportamento);
del
personale
ed
adeguata
 formazione
informazione: le modalità di comunicazione del
modello devono essere tali da garantirne la piena
pubblicità, al fine di assicurare che i destinatari
siano a conoscenza sia delle procedure che devono
seguire per adempiere correttamente alle proprio
mansioni sia della possibilità di segnalare in caso di
sospetta violazione del MOG;
 adeguamento del Codice: il costante aumento
delle ipotesi di reato pone il problema
dell’aggiornamento dei modelli, compito affidato
all’Organismo di Vigilanza.
L’Organismo di Vigilanza (OdV)
L’Organismo di Vigilanza, disciplinato dall’art. 6 del
decreto 231/2001, è dotato di poteri autonomi
e ha il compito di vigilare sul funzionamento e
l’osservanza dei Modelli Organizzativi e Gestionali,
nonché di curare il loro aggiornamento.
Secondo il Tribunale di Milano (ordinanza del 2004),
un OdV efficiente dovrebbe essere dotato di
44
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
indipendenza, professionalità (con la presenza di
almeno un esperto legale) ed autonomia(i componenti
dovrebbero avere specifiche capacità professionali in
tema di attività ispettive e di consulenza).
Le Linee Guida di Confindustria specificano che
requisiti ulteriori di professionalità sono previsti per i
preposti alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, i
quali dovrebbero cooperare con l’OdV per consentirgli
di esercitare efficacemente le sue funzioni.
Il decreto non fornisce alcuna indicazione in ordine
alla composizione dell’Organo, perciò sono da
considerare validi i primi orientamenti della dottrina,
della giurisprudenza e delle associazioni di categoria,
secondo cui l’OdV deve essere interno all’azienda
(anche se possono far parte soggetti esterni), può
avere una composizione collegiale (per le società di
capitale, vista la delicata funzione, non dovrebbe
coincidere con un organo sociale) e, secondo le Linee
Guida di Confindustria, può coincidere con la funzione
di Internal Audit.
Il Tribunale di Roma (Ordinanza del 2003) ritiene che i
membri dell’OdV non dovrebbero appartenere agli
organi sociali poiché, se l’OdV dovesse partecipare alle
scelte in ordine all’attività dell’ente, potrebbe esserne
pregiudicata l’obiettività di giudizio al momento delle
verifiche di azioni che avrebbe contribuito a rendere
operative.
Nelle società di piccole dimensioni, la legge prevede
che i compiti dell’Organismo di Vigilanza possano
essere svolti direttamente dall’organo dirigente (art. 6,
comma 4).
L’OdV deve essere libero di accedere a tutte le
informazioni rilevanti per l’esercizio delle sue funzioni
ed è l’organo in grado di recepire segnalazioni di
malfunzionamenti del modello. È lo stesso MOG, del
resto, che prevede lo scambio delle informazioni
rilevanti per le rispettive funzione tra OdV, Internal
Audit, preposti al controllo interno e revisore
contabile.
L’OdV avrà l’obbligo di riferire periodicamente al
Consiglio d’Amministrazione e al Collegio Sindacale
sull’attività svolta e, di volta in volta, in caso di
violazioni delle procedure contenute nel modello. Le
Linee Guida di Confindustria, in tal senso,
suggeriscono di porre l’OdV in posizione gerarchica
elevata, prevedendo il riporto solo ai vertici societari e
non attribuendogli alcun compito operativo.
Citando testualmente le Linee Guida di Confindustria:
“La posizione dell’Odv nell’ambito dell’ente deve
garantire l’autonomia dell’iniziativa di controllo da
ogni forma d’interferenza e/o di condizionamento da
parte di qualunque componente dell’ente (e in
particolare dell’organo dirigente). Tali requisiti
sembrano assicurati dall’inserimento dell’Organismo in
esame come unità di staff in una posizione gerarchica
la più elevata possibile e prevedendo il ‘riporto’ al
massimo Vertice operativo aziendale ovvero al
Consiglio di Amministrazione nel suo complesso.”
Sempre secondo Confindustria, al momento della
formale adozione del Modello, l’Organo Dirigente
dovrà disciplinare gli aspetti principali relativi al
funzionamento dell’Organismo (es. modalità di
nomina e revoca, durata in carica) e ai requisiti
soggettivi dei suoi componenti, nonché dare
comunicazione
alla
struttura
dei
compiti
dell’Organismo e dei suoi poteri, prevedendo, in via
eventuale, sanzioni nel caso in cui esso manchi di
collaborazione.
Anche i compiti e le competenze dell’OdV non sono
dettagliati dal decreto, ma, tenuto pure conto delle
Linee Guida di settore e della prassi, le sue attività
possono essere così raggruppate:
 verificare l’efficienza ed efficacia del MOG rispetto
alla prevenzione e all’impedimento della
commissione dei reati previsti dal D. Lgs.
231/2001;
 controllare il rispetto delle procedure ed accertare
gli eventuali scostamenti da esse;
 effettuare periodici esami sul modello e proporre
aggiornamenti;
 segnalare agli organi dirigenti gli opportuni
provvedimenti in caso di violazioni accertate dal
modello;
 informare periodicamente gli organi dirigenti e di
controllo sul tema della legge 231.
Il Codice Etico, il D. Lgs.vo 231 e le Linee Guida
delle associazioni di categoria
L’analisi intendeva soffermarsi sull’applicazione dei
Codici Etici d’impresa in Italia, al fine di approfondire
la relazione tra governance e responsabilità sociale,
intesa come una serie di azioni che vanno, per sua
definizione, oltre la legge. A seguito di un primo esame
dei Codici Etici esistenti, abbiamo rilevato che si era
creata qualche confusione tra l’adozione di strumenti
volontari di promozione di valori e principi etici di
responsabilità sociale e strumenti proposti da una
prima interpretazione del decreto legislativo 231,
pertanto richiesti dalla legge. In realtà, come si vedrà
dalla ricerca, la maggior parte dei Codici Etici sono
stati introdotti come strumenti di compliance del
decreto
legislativo
231
e,
dunque,
non
necessariamente con la volontà di promuovere una
cultura della Responsabilità Sociale d’Impegna intesa
come una serie di impegni che vanno oltre la legge.
Il decreto legislativo 231 all’art. 3 fa riferimento
all’adozione di un Codice di Comportamento con il
quale si intende “un insieme di regole che definiscono
45
Governance e Responsabilità sociale
le responsabilità ed i comportamenti per individui o
organizzazioni (come per esempio i codici deontologici
o i codici che garantiscono la correttezza nello
svolgimento degli affari)”. Al contrario, nelle Linee
Guida di Confindustria relative all’adeguamento al
decreto legislativo 231, si propone l’adozione, come se
fossero la stessa cosa, di un Codice Etico o di un
Codice di Comportamento, promuovendo questo
strumento come uno degli elementi qualificanti del
Modello Organizzativo e Gestionale (MOG).
Le Linee Guida di Confindustria affermano infatti che:
“L’adozione di principi etici rilevanti ai fini della
prevenzione dei reati ex D. Lgs. 231/2001 costituisce
un elemento essenziale del sistema di controllo
preventivo. Tali principi possono essere inseriti in un
Codice Etico (o Codice di Comportamento).”
Confindustria, inoltre, indica quello che potrebbe
essere considerato un contenuto minimo del Codice in
relazione alla prevenzione dei reati ex D. Lgs.
231/2001 così schematizzabile:
 pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti
in tutti i paesi in cui l’impresa opera;
 corretta registrazione, autorizzazione, verifica,
legittimazione, congruità e coerenza di operazioni e
transazioni;
 dettagli in ordine ai rapporti con gli interlocutori
dell’ente (pubblica amministrazione, pubblici
dipendenti, interlocutori commerciali privati).
Anche nelle Linee Guida emanate da Ania risulta
opportuno che l’ente sia dotato di Codice Etico (in
ottemperanza a circolari dell’Isvap 366/D e 577/D) al
fine di “promuovere all’interno delle imprese la
correttezza operativa ed il rispetto dell’integrità e dei
valori etici da parte di tutto il personale e di prevenire
condotte devianti di cui l’impresa può essere chiamata
a rispondere ai sensi del D. Lgs. 231/2001”. Queste
interpretazioni rischiano, però, di creare confusione
poiché all’interno del MOG il Codice (di Condotta o
Etico) è rilevante non come strumento di
responsabilità sociale tout court, ma in quanto
influenza e determina delle procedure che si
inseriscono all’interno del Modello e, perciò, saranno
controllate dall’Organismo di Vigilanza con un
approccio meramente legale e di controllo di
conformità, anziché con un interesse etico o di
responsabilità sociale che spetterebbe invece al
Comitato Etico.
Considerare il Codice di Condotta come un Codice
Etico e, pertanto, equiparare uno strumento proposto
per legge a uno che risponde unicamente a un
processo di autoregolamentazione societaria, rischia
di far coincidere la correttezza negli affari con la
Responsabilità Sociale d’Impresa e di abbinare il
rispetto della legge a un comportamento socialmente
responsabile.
46
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
3. La ricerca: analisi quantitativa e qualitativa
3.1 L’analisi quantitativa
3.1.1 La metodologia
L’analisi quantitativa è stata realizzata selezionando
un campione di 96 imprese che a settembre 2008
avevano adottato un proprio Codice Etico. Ai fini della
ricerca, sono state analizzate tutte le informazioni di
dominio pubblico accessibili dai siti internet delle
suddette imprese e, in alcuni casi, tali informazioni
sono state approfondite acquisendo ulteriori
documenti richiesti per telefono. La ricerca dei dati su
cui si basa l’analisi è stata effettuata tra i mesi di aprile
e settembre 2008. Data la rilevanza della dimensione
campionaria e il criterio di selezione sostanzialmente
casuale delle imprese analizzate, la significatività dei
risultati, dal punto di vista statistico, può essere
ritenuta sufficientemente adeguata con errori
campionari complessivamente inferiori al 10%.
L’analisi condotta sui dati raccolti è stata suddivisa in
quattro aree tematiche:
 profilo del campione delle aziende selezionate;
 caratteristiche generali dei Codici Etici analizzati
(tipologia, anno di entrata in vigore ed eventuali
aggiornamenti, analisi dei contenuti rispetto al D.
Lgs. 231/2001);
 analisi degli Organi garanti che si occupano della
verifica e dell’applicazione del Codice Etico
(classificazione, analisi delle tipologie di
governance aziendale, profilo e ruolo dei
componenti, nomina, compiti);
 studio delle procedure di segnalazione e verifica a
supporto dell’attuazione del Codice Etico (soggetti
che possono segnalare, chi procede alla verifica
delle segnalazioni pervenute, modalità e tipi di
segnalazioni accettate).
3.1.2 L’analisi dei dati
3.1.2.1 Profilo
selezionate
del
campione
di
aziende
Il campione delle 96 aziende è stato individuato a
partire da una ricerca dei soggetti che pubblicavano il
proprio Codice Etico su internet. Partendo dal
presupposto che ormai la quasi totalità delle imprese
oltre una certa dimensione ha un proprio sito web, il
procedimento di ricerca seguito potrebbe essere
sostanzialmente paragonato alla selezione di un
campione casuale di aziende tra la popolazione
complessiva delle imprese che si sono dotate di un
Codice Etico. Ciò garantisce, quindi, un sufficiente
livello di attendibilità dei risultati. Il profilo del
campione è stato analizzato a posteriori sulla base di
alcune caratteristiche generali: la forma giuridica, il
settore di attività e la quotazione in borsa. Per quanto
riguarda la forma giuridica, il campione è composto
principalmente da società di capitale (83,3%) – tutte
società per azioni – seguite da cooperative (10,4%),
consorzi (2,1%) e organizzazioni registrate con altre
forme giuridiche (4,2% associazioni e fondazioni).
Considerando invece i settori di attività, le aziende del
campione risultano più numerose nei servizi (60,4%)
rispetto a quelle di produzione (39,6%). In particolare,
tra i settori dei servizi spiccano le banche/assicurazioni
(17,7%), le società di servizi energetici e ambientali
(14,6%) e le aziende del terziario (14,6%), mentre per
l’industria si sottolinea l’incidenza dei settori della
metalmeccanica (9,4%), dell’elettronica (7,3%) e delle
costruzioni (7,3%). Il 59,4% delle aziende selezionate è
quotata in borsa.
3.1.2.2
Etico
Caratteristiche generali
del Codice
Nel corso dell’analisi, come già sottolineato nel paragrafo
1.3, sono stati considerati sia i Codici Etici sia i Codici di
Comportamento adottati dalle imprese, assumendoli come
equivalenti. Per circa un quarto dei Codici analizzati non
si è riusciti ad ottenere l’anno di entrata in vigore del
documento, mentre il 25% delle aziende ha adottato il
Codice Etico solo negli ultimi 2 anni, il 43% negli ultimi
3-6 anni (dal 2002 al 2005) e appena il 6% delle
imprese da 7 anni o più.
47
Governance e Responsabilità sociale
Responsabilità Sociale d’Impresa che andava ben oltre
le richieste del decreto. Tra questi ultimi si è distinto
tra i Codici che non facevano espressamente
riferimento al decreto (presumibilmente perché
redatti prima della sua approvazione o perché
prevedevano un altro Codice che rispondesse solo ai
dettami di legge) e quelli che lo menzionavano,
avendo perciò scelto di adottare un Codice che
rispondesse contemporaneamente alle richieste di
legge e alle strategie di Responsabilità Sociale
d’Impresa.
I risultati indicano che:
 il 21% dei Codici Etici analizzati presenta contenuti
che vanno oltre a quanto previsto dalla 231, senza
menzionarla;
 il 47% dei Codici Etici riporta contenuti che vanno
oltre, facendo però espliciti riferimenti alla 231 e/o
al MOG;
 il 28% dei Codici Etici rispondono a quanto previsto
dal decreto;
 il 4% dei Codici Etici non fa alcun riferimento al
decreto né va oltre a quanto da esso previsto.
Focalizzando
l’attenzione
sul
periodo
di
aggiornamento, è interessante osservare come i
Codici Etici il cui ultimo rinnovo risale al 2001 o agli
anni precedenti – ovvero prima dell’entrata in vigore
della 231 – superino quanto previsto dal decreto
nella maggioranza dei casi (67%), mentre dal 2002 i
Codici Etici tendono quasi sempre a riferirsi in modo
esplicito alla 231, anche quando contengono principi
che vanno oltre quelli previsti dal decreto (40-50%
dei casi).
Un ulteriore aspetto da sottolineare riguarda l’analisi
per macrosettore, la quale evidenzia come le aziende
di servizi tendano ad adottare Codici Etici che vanno
oltre a quanto previsto dal decreto, molto più spesso
rispetto alle imprese di produzione che sono, invece,
prevalentemente orientate al semplice adeguamento
alla normativa.
Si evidenzia, inoltre, che di tutte le 96 aziende
analizzate solo 17 segnalano esplicitamente un
aggiornamento del Codice Etico (dal 2003 ad oggi).
Si è poi proceduto ad analizzare i vari Codici Etici
rispetto al D. Lgs. 231/2001, ossia si è voluto
evidenziare quanti Codici Etici rispondevano de facto
alla 231, facendone espressamente menzione, e
quanti invece erano espressione di una strategia di
48
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
In sintesi, la proporzione di Codici Etici i cui contenuti vanno
oltre a quanto previsto dal decreto legislativo 231/2001
risulta nel complesso prevalente per tutti i tipi di imprese,
quello che distingue le società di capitali - soprattutto quelle
quotate in borsa - dalle cooperative è la maggiore tendenza
delle prime a fare in ogni caso esplicito riferimento al decreto.
Nel confronto tra società quotate e non quotate emerge,
inoltre, come tra le prime siano relativamente più diffusi i
Codici Etici che rispondono semplicemente alla 231 (30,4%)
rispetto alle seconde (20,8%).
3.1.2.3
Per quanto riguarda l’analisi dei contenuti dei Codici Etici
rispetto alla tipologia delle aziende, la quota di società di
capitali i cui Codici Etici vanno oltre la 231 senza farvi
riferimento esplicito è pari al 19,6% per le quotate e al
16,7% per le non quotate, dunque, decisamente inferiore
rispetto al 30% riscontrato per le cooperative. Viceversa, tra
le società di capitali è molto elevata l’incidenza dei Codici
Etici che vanno oltre al decreto facendovi riferimento
esplicito (48,2% per le quotate e 54,2% per le non quotate),
laddove per le cooperative tale quota diminuisce al 30%.
Infine, si evidenzia che la quota di imprese i cui Codici Etici
rispondono semplicemente alla 231, senza andare oltre,
risulta più elevata tra società di capitali quotate (30,4%) e
cooperative (30%), mentre per le società di capitali non
quotate diminuisce al 20,8%.
Gli Organismi garanti del Codice Etico
La ricerca ha evidenziato una grande varietà di Organi e
Figure aziendali garanti del Codice Etico, ovvero preposte
alla sua verifica e attuazione, sintomo di un contesto
italiano in cui non esistono ancora modelli di riferimento
prevalenti o condivisi.
Il grafico proposto nella tabella 11 le diverse tipologie garanti
del Codice Etico riscontrate nei 96 casi aziendali analizzati. A
fronte dell’estrema frammentazione, si è ritenuto opportuno
cercare di proporre un criterio di classificazione in base
all’Organo a cui viene affidato il ruolo di Garante del Codice,
che ha portato all’individuazione di 3 tipologie di modello di
governance del Codice Etico:
 Modello classico: l’incarico è affidato a un Organo che
svolge già altre funzioni all’interno dell’impresa (es.
Comitato per il Controllo Interno, Responsabili Business
Unit, Amministratori, Auditing, Legali societari);
 Modello 231: il compito è assegnato all’Organo
proposto dalla legge (Organismo di Vigilanza o
Compliance Officer);
6
 Modello CSR (Corporate Social Responsibility) :
l’impresa pone particolare attenzione al tema della
responsabilità sociale, tanto che a garanzia del Codice
Etico
è
istituito
un
organo
ad
hoc
(Comitato/Commissione Etica).
Analizzando le tipologie di governance degli
Organi/Figure istituiti a garanzia dell’applicazione del
Codice Etico (Tab. 12), si evidenzia come le società di
capitali quotate tendano a istituire prevalentemente
governance di tipo 231 (53,6% dei casi), mentre per le
società di capitali non quotate e le cooperative
aumentano in proporzione gli Organi con governance
di tipo CSR, presenti rispettivamente nel 37,5% e nel
40% dei casi, anche se le governance 231 continuano
comunque ad essere prevalenti. I dati mostrano,
pertanto, come soprattutto le società di capitali
quotate si siano allineate rispetto alle richieste
6
Nella presente ricerca, come da prassi, si utilizza il termine
Responsabilità Sociale d’Impresa per esteso mentre come acronimo
si preferisce utilizzare quello che fa riferimento al termine inglese
Corporate Social Responsibility (CSR).
49
Governance e Responsabilità sociale
contenute nel decreto. Per quasi un terzo delle
imprese selezionate non è stato possibile reperire il
numero dei componenti dell’Organo garante. Nella
maggioranza dei casi, comunque, il numero varia da 1
a 3 componenti (39%) e solo nell’11% dei casi è
superiore alle 5 unità.
Un altro aspetto rilevante concerne il profilo dei
componenti dell’Organo garante del Codice Etico. Le
figure più diffuse sono i “responsabili di funzioni e/o
business unit interne”, vale a dire soggetti il cui incarico di
componente dell’Organo garante si va ad aggiungere ad
altri ruoli operativi interni all’azienda.
Si tratta spesso dei responsabili della funzione di audit
interna o dell’area risorse umane. La presenza di “esperti
esterni” è quasi sempre circoscritta a professionisti in
materie legali e/o societarie, seguiti da amministratori
esterni e indipendenti. Più in generale, l’incidenza dei
componenti interni negli Organi garanti del Codice Etico
risulta fortemente predominante rispetto a quella degli
esterni. Anche per quanto riguarda l’identificazione
degli organismi societari che nominano l’Organo
garante del Codice Etico e a cui esso deve rispondere,
le informazioni desumibili dai Codice Etici non sempre
sono esaustive. Nella stragrande maggioranza dei casi,
l’Organo garante è nominato dal Consiglio di
Amministrazione (CdA) e ad esso solitamente
risponde.
Tra gli altri organi societari a cui l’Organo garante del
Codice Etico può dover rendere conto – per esempio
inviando la propria relazione d’attività – si segnala:
 Organismo di Vigilanza;
 Comitato per il Controllo Interno;
 Organo di Controllo Gestionale;
 Direzione Pianificazione e Controllo;
 Comitato Esecutivo;
 Assemblea dei Soci;
 Collegio Sindacale;
 Amministratore Delegato;
 Collegio Revisori.
Per la quasi totalità delle società analizzate, le funzioni
e i poteri dell’Organo garante del Codice Etico sono:
consultivi, ispettivi, di ricerca, di indagine e controllo.
Quando coincide con l’Organismo di Vigilanza,
l’Organo garante si adopera per soddisfare tutti i
compiti previsti dal decreto.
3.1.2.4 Procedure di segnalazione e verifica a
supporto dell’attuazione del Codice Etico
L’esistenza di procedure aziendali in base a cui
possano essere segnalati i casi di potenziale
violazione del Codice Etico e che indichino come e
50
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
da chi saranno verificate e gestite tali
segnalazioni, costituisce un ambito di analisi
importante al fine di poter discriminare tra Codici
Etici la cui applicazione rappresenta un intervento
sostanziale oppure un fatto di natura
prevalentemente formale.
Il primo aspetto analizzato riguarda l’identificazione
degli Stakeholder7 che possono effettuare le
segnalazioni di possibile violazione dei Codici Etici
(Tab. 14). Sebbene anche su questo aspetto non siano
state fornite indicazioni esplicite in circa un terzo dei
Codici Etici analizzati, nella maggioranza dei casi (50%)
tutti gli Stakeholder possono farlo. Si sono, inoltre,
riscontrati casi meno frequenti in cui le procedure di
segnalazione risultano espressamente rivolte a
categorie specifiche di Stakeholder, per esempio il
“personale” (7%), i “dipendenti, amministratori,
sindaci, partner, fornitori e collaboratori” (6%).
Nella maggioranza dei casi, i soggetti che ricevono le
segnalazioni di possibile violazione del Codice Etico
coincidono con gli stessi Organi garanti, a cui si
aggiungono
eventualmente
anche
i
responsabili/referenti gerarchici o le funzioni di
audit/controllo interno.
Analizzando i canali tramite cui è possibile inviare le
segnalazioni delle potenziali violazioni del Codice Etico
(Tab. 15), nella maggior parte dei casi (55%) si
riscontra che essi non vengono esplicitamente indicati.
Nei casi in cui le modalità di invio delle segnalazioni di
violazione siano state specificate nei Codici Etici,
prevale la possibilità di segnalare sia in forma scritta
sia tramite e-mail (36%), mentre per l’8% dei casi
viene indicata solo la prima opzione.
Va comunque sottolineato che, pure laddove sono
accettate solo segnalazioni firmate, in genere viene
specificato che i segnalanti verranno tutelati da
possibili atti di ritorsione e/o discriminazione.
Un altro aspetto correlato al precedente riguarda le
tipologie di segnalazioni accettate.
La casistica riscontrata prevede sia casi in cui è
necessario che le segnalazioni di possibili violazioni
debbano essere firmate (26%, di cui per il 9% è
necessaria allegare un’adeguata documentazione) sia
situazioni nelle quali sono consentite anche
segnalazioni anonime (19%, di cui un 6% richiede
un’adeguata documentazione).
In ultima analisi, i Bilanci Sociali o di Sostenibilità 2007
In cui è stata riscontrata qualche informazione in
merito al numero di segnalazioni annue pervenute
sono appena 12 (che corrisponde al 12,5% del
campione), in 4 casi viene indicata la ricezione di
almeno una segnalazione, mentre nei restanti 8
“nessuna segnalazione”. Del tutto trascurabili sono,
infine, i casi (solamente 2) in cui vengono fornite
ulteriori informazioni in merito al processo di
valutazione delle segnalazioni arrivate durante l’anno
e all’esito delle stesse, riportando il numero delle
segnalazioni respinte, risolte o ancora in fase
istruttoria.
7
Gli Stakeholder sono: soci/azionisti/proprietà, dirigenti,
dipendenti, collaboratori, consulenti esterni, agenti/procuratori,
clienti, fornitori, sindacati, settore non-profit, ambiente,
finanziatori, comunità.
51
Governance e Responsabilità sociale
3.2
L’analisi qualitativa
3.2.1 La metodologia
L’analisi qualitativa è stata svolta nei mesi da giugno a
settembre 2008, realizzando 20 interviste faccia a
faccia, telefoniche e via email con altrettanti
componenti degli Organi garanti preposti alla verifica e
all’applicazione dei Codici Etici nelle rispettive aziende,
ovvero componenti di Organismi di Vigilanza, dei
Comitati per il Controllo Interno, dei Comitati Etici o
responsabili della Funzione di Internal Audit.
La scelta del campione delle 20 aziende, selezionate
dal gruppo delle 96 analizzate nella ricerca
quantitativa, è avvenuta all’insegna di obiettivi di
rappresentatività per settori di attività economica,
contenuti del Codice Etico e tipologia di governance.
I criteri utilizzati per effettuare la selezione delle 20
aziende hanno, dunque, permesso di poter garantire
un buon grado di affidabilità dei risultati ottenuti
rispetto ai vari aspetti indagati e hanno consentito, al
contempo, di individuare alcuni casi emblematici di
particolare interesse.
Ogni intervista è stata realizzata seguendo uno
schema comune, sottoponendo una serie di domande
aperte che hanno garantito massima libertà
d’espressione. Le interviste hanno consentito di
approfondire e dettagliare meglio i vari argomenti
considerati, anche alla luce delle carenze informative
riscontrate effettuando le ricerche via internet e
analizzando i Codici Etici aziendali.
Il questionario è stato suddiviso in cinque sezioni
tematiche:
 informazioni aziendali (forma giuridica, numero di
dipendenti, ruolo dell’intervistato, ecc.);
 ruolo, funzione ed impatto del Codice Etico
(motivazioni che hanno spinto l’azienda a dotarsi
del Codice Etico, rapporti Codice Etico/MOG/231;
percorsi di informazione e formazione relativi al
Codice Etico, impatto del Codice Etico sulla
governance);
 approfondimenti sull’Organo garante;
 sistema di segnalazione;
 punti critici e buone prassi.
3.2.2 L’analisi dei risultati
3.2.2.1 Il campione delle aziende e gli intervistati
Le 20 aziende coinvolte nell’analisi qualitativa sono 13
Società di Capitali, 6 Cooperative e 1 Consorzio. Si
tratta di imprese che hanno tutte dimensioni rilevanti:
la maggioranza (11) hanno più di 1.000 dipendenti. Gli
intervistati ricoprono i ruoli definiti dalla seguente tabella:
Tipologia e ruolo dei
referenti aziendali intervistati
Referente dell’Organismo di Vigilanza
Totale
3
Responsabile dell’Audit interna
3
Responsabile dell’Audit interna ed Ethics
Officer
2
Responsabile Legale societario
2
Presidente del Comitato Etico
2
Membro del Comitato Etico
1
Responsabile dell’Unità CSR e
Coordinatore
Ethics Officer
Responsabile Compliance
1
1
Esperto di Etica aziendale
1
Direttore delle Risorse Umane
1
Responsabile del Bilancio di Sostenibilità
1
Responsabile di Comunicazione e
Corporate Identity
1
Vice Presidente
1
Totale aziende intervistate
20
3.2.2.2 Ruolo, funzione e impatto del Codice
Etico
Il primo importante aspetto analizzato durante le
interviste riguarda le motivazioni che hanno spinto le
aziende a dotarsi di un Codice Etico. I motivi dichiarati
dagli intervistati presentano una certa variabilità che
deriva dalle singole storie aziendali, tuttavia è stato
possibile individuare alcune tipologie prevalenti:
 in 10 casi il principale motivo che ha portato
all’adozione del Codice Etico è riconducibile a una
volontà di “cristallizzare valori e principi già esistenti”,
“condividere valori e mission dell’azienda con
collaboratori, clienti ed altri Stakeholder” oppure “si
tratta di valori che sono sempre esistiti in azienda, ma
che si è sentito l’esigenza di consolidare”;
 in 5 casi la motivazione addotta è stata quella di
52
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
voler “adeguare l’organizzazione dell’azienda in
seguito all’entrata in vigore del D. Lgs. 231/01”
oppure “Il nostro codice etico ha rappresentato la
prima fase per arrivare alla completa applicazione
delle disposizioni del D. Lgs. 231/2001”.
Nel corso delle interviste si è voluto indagare su quali
siano effettivamente i soggetti che le aziende
considerano come propri Stakeholder di riferimento.
In particolare si sottolinea come la maggior parte delle
imprese tendano a riconoscere come propri
Stakeholder soprattutto i portatori di interesse
primari, ossia coloro che influenzano e/o sono
influenzati direttamente dalla performance economica
aziendale (dirigenti, dipendenti, soci/azionisti,
collaboratori, fornitori e clienti), mentre è
decisamente inferiore la quota di intervistati che
hanno indicato anche gli Stakeholder secondari (o
indiretti) come i sindacati, comunità, ambiente e
settore no-profit.
Per quanto riguarda, invece, le attività di informazione
e formazione riferibili al Codice Etico, 15 aziende su 20
(75%) hanno dichiarato di avere già avviato un
percorso specifico di comunicazione e formazione,
mentre negli altri 5 casi (25%) non vi è ancora stata
alcuna attività in questo senso. Tre intervistati hanno
comunque dichiarato che tale attività è in fase di
attuazione.
In linea di massima si sono potuti osservare due
diversi approcci: il primo in cui l’azienda punta molto
sulla
formazione
ritenendola
un
doveroso
investimento per promuovere la cultura della
responsabilità sociale, il secondo nel quale il Codice
Etico viene vissuto semplicemente come una “nota
aziendale” sulla quale “non è opportuno perdere
tempo e denaro”.
La formazione si rivolge in genere a figure interne
all’azienda come dirigenti, soci/azionisti/proprietari,
dipendenti e collaboratori. Solo in un caso sono stati
menzionati i sindacati e la comunità.
Per i neoassunti è solitamente prevista la consegna del
Codice Etico alla stipula del contratto (talvolta viene
fatto anche firmare un documento per l’avvenuta
consegna). Gli eventuali aggiornamenti/variazioni
possono essere inseriti in opuscoli allegati alla busta
paga o in alcuni casi spediti via posta. Qualche società
fa sottoscrivere una dichiarazione d’accettazione delle
clausole contrattuali che riguardano i principi in esso
contenuti, specificando il dovere di segnalare ogni
volta sia necessario (anche se tale sottoscrizione non
libera l’azienda dalla responsabilità del fatto
commesso da un proprio dipendente).
L’azienda che investe molto sulla formazione di solito
prepara corsi differenziati a seconda degli Stakeholder
a cui si riferisce e procede con processi a cascata.
Nel complesso la valutazione dell’impatto del Codice
Etico sulla governance è stata ritenuta “positiva” dalla
maggioranza degli intervistati (14 imprese su 20), in 3
casi addirittura molto positiva. In particolare uno degli
intervistati ha voluto sottolineare come l’impatto sia
stato in effetti “estremamente positivo a livello
direzionale, per i consulenti esterni ed i Sindaci interni.
Per il resto pressoché nullo…..ha stimolato il confronto
tra management, capi di II livello e manovalanza..i
dipendenti si riconoscono nel Codice, strumento
vissuto più come un’opportunità che un vincolo”.
All’estremo opposto, non deve comunque passare
inosservato come per quasi 1 azienda su 3 l’impatto
del Codice Etico sia stato valutato “minimo” o
“irrilevante” (2 casi). In specifico, coloro che hanno
valutato l’impatto “irrilevante” hanno giustificato tale
affermazione sostenendo che il Codice Etico ha in
effetti cristallizzato valori/principi già esistenti e fatti
propri dalla compagine aziendale, per cui il
“documento non ha suscitato grande interesse e non
ha cambiato la vita di nessuno” .
Altri ritengono il Codice Etico niente più che uno
strumento per risolvere i problemi tra dipendenti e
dirigenti. Un intervistato ha chiarito che “dalle indagini
di clima che si susseguono in azienda è emersa la
necessità di coerenza tra quanto la classe dirigente
enuncia e le azioni che vengono in concreto realizzate.
È emersa la necessità di coinvolgere tutti dando spazio
a forme di responsabilità individuali nonché il timore di
ritorsioni a causa della segnalazione. In Italia non
piacciono coloro che possono essere etichettati come
‘spioni’, per questo l’impatto del Codice nella
governance è stato così poco importante”.
3.2.2.3 Approfondimenti sull’Organo garante
del Codice Etico
Attraverso le interviste realizzate si sono voluti
approfondire alcuni argomenti per capire se le attività
svolte dall’Organo garante del Codice Etico vengano in
qualche modo documentate, e per valutare se esse
abbiano in effetti qualche tipo di impatto sui vertici
aziendali e l’organizzazione interna.
In particolare, il seguente grafico illustra la quota di
Organi garanti del Codice Etico che rendicontano le
proprie attività elaborando una relazione annua,
incrociando inoltre i risultati anche rispetto ai
contenuti del Codice Etico e al tipo di governance
dell’Organo stesso.
Nel complesso, risulta che gli Organi garanti del Codice
Etico rendicontano la propria attività in un documento
formale in 3 casi su 4, tuttavia, si nota come la
propensione a redigere la relazione di attività aumenta
all’86% nei casi in cui la governance dell’Organo sia di
53
Governance e Responsabilità sociale
tipo CSR. Viceversa, quando la governance dell’Organo
è di tipo classico, l’elaborazione della relazione di
attività si riduce al 50% dei casi. La relazione d’attività
dell’Organo garante del Codice Etico viene inviata al
Consiglio di Amministrazione, prevedendo eventualmente
un invio congiunto anche ad altri Organi, per esempio, il
Collegio Sindacale, il Comitato per il Controllo Interno, il
Consiglio di Gestione, il Comitato Esecutivo e, in alcuni casi,
anche i settori aziendali dove si sono verificate segnalazioni
di violazione.
Per ciò che concerne il numero di volte in cui i membri
dell’Organo garante del Codice Etico si riuniscono ogni
anno, dalle interviste è emerso che in 8 casi su 20 non
vengono superate le 5 riunioni annue, in 5 casi il
numero di riunioni è maggiore (solo in 1 caso si
riscontra una riunione ogni mese), mentre negli ultimi
7 casi le riunioni avvengono “al bisogno oppure
quando c’è l’occasione”, dunque senza alcuna
pianificazione. L’ultimo aspetto approfondito nel corso
delle interviste riguarda l’impatto che ha avuto il
Codice Etico sulla governance aziendale e/o
sull’organizzazione interna. La maggior parte degli
intervistati ritiene che l’adozione del Codice Etico non
abbia avuto alcun impatto sostanziale, mentre per
circa il 35% degli intervistati si è trattato di un impatto
valutato positivamente. Approfondendo, è emersa
un’interessante chiave di lettura: le aziende che hanno
valutato positivamente l’impatto dell’Organo garante
del Codice Etico sulla governance aziendale e/o
sull’organizzazione interna, sono state soprattutto
quelle che hanno adottato il Codice Etico per un
esclusivo adeguamento alla 231 (67%) con una
governance dell’Organo garante di tipo 231. Citando
testualmente, il MOG ha “migliorato la definizione di
compiti, funzioni e responsabilità e contribuito al
riesame delle deleghe ed al rafforzamento dei punti di
controllo nelle procedure operative”, nonché
“facilitato i flussi informativi e la misurazione di
quanta fiducia venga riposta nel sistema aziendale”.
3.2.2.4 Il sistema di segnalazione, verifica ed
attuazione
Nel corso dell’analisi qualitativa si è appurato che il
processo di verifica delle segnalazioni viene gestito, in
linea di massima, dall’Organo garante del Codice Etico,
con l’eventuale supporto della funzione di
audit/controllo interno nelle fasi preliminari di
indagine. Ai massimi organi della governance
aziendale
(Consiglio
D’Amministrazione,
Amministratore Delegato, Presidente, Direttore
Generale) spetta comunque l’ultima parola in
merito agli eventuali provvedimenti proposti
dall’Organo garante del Codice Etico.
Con le interviste qualitative si sono voluti
approfondire ulteriori aspetti che riguardano le
procedure di segnalazione e verifica, analizzando in
particolare i criteri in base ai quali le segnalazioni sono
giudicate fondate, il numero e l’esito delle
segnalazioni pervenute, nonché i punti critici
riscontrati nel Codice Etico.
Per quanto riguarda i criteri utilizzati per valutare la
fondatezza delle segnalazioni di possibile violazione
del Codice Etico, essi sono risultati non codificati. I
criteri di valutazione più diffusi si basano in generale
su “riscontri possibilmente oggettivi” .
Alcuni degli intervistati hanno espresso pareri
discordanti in merito all’effettiva opportunità di
declinare formalmente i tipi di sanzioni da far
corrispondere ai vari casi di violazione del Codice
Etico, poiché “l’etica non può essere ingabbiata in una
legge e la sanzione sarebbe inutile” e del resto il
Codice Etico è “uno strumento culturale e propositivo
che deve essere considerato uno stimolo per la
promozione culturale” e che “non deve prevedere
sanzioni, ma un approccio costruttivo teso a sanare i
problemi attraverso interventi formativi”.
In genere, tutte le segnalazioni pervenute vengono
archiviate e conservate, così come il giudizio di
fondatezza e le attività svolte nella fase istruttoria.
Inoltre, solitamente non si pubblicano gli esiti delle
eventuali sanzioni applicate. Solo un intervistato ha
segnalato che l’impresa aveva scelto di pubblicare sul
Bilancio di Sostenibilità alcune informazioni generiche
riguardanti un caso di denuncia.
Per ciò che concerne il numero di segnalazioni di
possibili violazioni del Codice Etico ricevute nell’anno
2007, la metà degli intervistati ha dichiarato che la
propria azienda non ha ricevuto alcuna segnalazione,
in 5 casi su 20 aziende (25%) sono pervenute fino a 10
segnalazioni, mentre in altre 4 aziende (20%) sono
giunte più di 10 segnalazioni.
Considerando le 9 aziende alle quali è pervenuta
almeno una segnalazione si evidenzia, in particolare,
che 8 casi si riferiscono ad aziende il cui Codice Etico
54
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
va oltre a quanto previsto dalla 231 e che tutte le 9
aziende hanno dichiarato di avere provveduto alla
verifica di ogni segnalazione pervenuta.
Per quanto riguarda l’esito della verifica delle
segnalazioni e l’emanazione delle eventuali sanzioni
per quelle ritenute fondate, 2 delle 9 aziende hanno
ritenuto fondate tutte le segnalazioni verificate, altre 2
aziende solo il 90% delle segnalazioni, 3 meno del 50%
e, infine, 2 aziende hanno valutato infondate tutte le
segnalazioni pervenute.
In definitiva, risultano 7 su 9 le aziende che, in seguito
alle verifiche, hanno considerato fondata almeno una
delle segnalazioni pervenute. In 1 caso tale fondatezza
si è tramutata nell’applicazione di una sanzione di
licenziamento, avvenuto prima dell’attesa della
conclusione del giudizio penale.
In effetti, le aziende che decidono di procedere
direttamente al licenziamento sono pochissime e solo
in casi del tutto estremi, preferendo quasi sempre far
giungere all’interessato un più discreto “invito ad
andarsene”. Questo atteggiamento aziendale “soft”
viene in genere preferito proprio in virtù della
consapevolezza di non poter andare oltre le sanzioni
disciplinari previste dalla legge e dai Contratti
Collettivi Nazionali del Lavoro. Un solo intervistato ha
richiamato alla memoria un caso grave in cui era stata
ventilata l’ipotesi di emissione di una lettera di
censura ed espulsione per un socio dell’azienda,
ipotesi che non è stata poi portata a termine. La
maggior parte delle aziende concordano che gli
interventi sul personale si limitano al semplice
richiamo verbale.
Le interviste effettuate hanno posto in risalto due
tipologie di imprese a cui si possono riportare tutte le
altre. La prima tipologia risponde alla filosofia “è
meglio lavare i panni sporchi in famiglia” in cui le
violazioni gravi portano alla richiesta di dimissioni,
senza effettuare alcuna denuncia, e pertanto
reintroducono nella società e nel circuito lavorativo
persone che hanno commesso atti gravi senza alcun
azione che porti a discredito o punisca tali
comportamenti. La seconda tipologia, estremamente
rara e di cui abbiamo trovato un solo caso eccellente,
denuncia il reato anche presso l’autorità giudiziaria e,
senza attenderne l’esito, licenzia il collaboratore
correndo il rischio di vedersi impugnare il
licenziamento di fronte al giudice del lavoro.
3.2.2.5. I punti critici e le buone prassi
Secondo uno degli intervistati il Codice Etico è un
“documento che sta vivendo un momento involutivo” e
se inizialmente si è sentita l’esigenza di realizzare un
codice molto dettagliato che non rappresentasse “una
semplice dichiarazione di principi” ma fosse
“sufficiente per avere un minimo impatto aziendale”,
oggi l’aver un codice troppo circostanziato rischia di
“ingessare l’azienda e di rendere troppo rigide le
procedure”.
Alcuni intervistati hanno sottolineato che gli Organi
Garanti del Codice Etico dovrebbero essere composti
da membri esterni per garantire de facto indipendenza
e libertà nella valutazione delle segnalazioni. Altri
hanno affermato che c’è poca chiarezza sui ruoli di tali
Organi e su quali comportamenti adottare poiché
“manca una relazione interna semestrale legata al
rispetto dei principi etici ed un regolamento interno
che dettagli compiti e poteri dell’Organo che si occupa
di Responsabilità Sociale”.
Ci sono anche responsabili dell’attuazione del Codice Etico
che non credono più molto nel Codice stesso e affermano
che è solamente uno tra i tanti strumenti di marketing di cui
l’azienda fa uso per promuovere la propria immagine
aziendale “il Codice Etico è una moda, una spinta
massmediatica alla luce degli ultimi imbarazzanti scandali
societari. La Responsabilità Sociale d’Impresa è una
possibile risposta ad alcune campagne mediatiche che
contengono comunque quel po’ di sostanza che porta ad un
buon risultato”.
L’ultima questione posta agli intervistati verteva sulla
capacità del Codice Etico di essere considerato uno
strumento adeguato alla promozione della
responsabilità sociale.
Moltissime risposte sono state affermative, anche se
con qualche precisazione:
“è importante dare l’esempio nei comportamenti da
seguire, essere corretti e meritocratici, questa è la vera
cultura della responsabilità sociale”;
“è importante come viene usato perché spesso è
strumentalizzato a livello di strategie di vendite”;
“va attuato, non deve essere considerato solo un formale
adeguamento ad una previsione, neppure obbligatoria, di
legge, ma al contrario, quale importante e concreto
strumento da utilizzare per diffondere tra gli Stakeholder
una vera cultura etica, ispiratrice dell’operatività”;
“solo se lo si considera un punto di partenza senza il
quale nessuna cultura aziendale avrebbe avuto il suo
inizio. E’ necessario tradurlo in uno strumento vero e
serio, usato soprattutto da coloro che ricoprono
posizioni apicali affinché ne facciano un esempio. Non
deve essere semplicemente un mezzo di
comunicazione. Sono i modelli di governance a creare
la cultura della responsabilità sociale, il codice ne è
solo il punto di partenza”;
“solo se i soggetti che ricoprono posizioni apicali non lo
vivono come un dovere burocratico da compiere e
danno il buon esempio (un po’ come viene vissuto il
Codice della strada: una sorta di documento
burocratico che contiene solo una lista di divieti)”;
55
Governance e Responsabilità sociale
“serve come serve la Costituzione italiana e funge da
collante con tutte le certificazioni aziendali”.
Coloro che hanno risposto “no”, hanno dichiarato che
per l’azienda il Codice Etico è uno strumento
“indifferente” e che si tratta di una “scocciatura. C’è poco
di interessante nelle segnalazioni e la soluzione viene
cercata mettendo le persone a confronto, valutando la
situazione, risolvendola pacificamente con le parole e
magari con qualche sgridata”.
Molto interessante la conclusione di un intervistato:
“La sfida di ogni azienda è quella di rendere libere le
persone di esprimere un’opinione, di non ottemperare
ad un ordine che non ritengono giusto o lecito o
legittimo”. Il Codice Etico è senz’altro uno strumento
di promozione della responsabilità sociale, è quasi
ovvio: “… è un po’ come chiedere se la democrazia è
un buon sistema di governo, è sicuramente il migliore
che ci sia! Individuare il discrimine tra valore del
Codice Etico e l’attività di controllo aziendale è una
vittoria per ogni azienda”.
Riassumiamo alcune buone prassi aziendali tratte dalle
interviste effettuate:
 affiancare al Codice Etico un documento che dettagli i
comportamenti da applicare attraverso esempi concreti
e semplici, al fine di contribuire a chiarire gli stili
aziendali richiesti;
 allegare copia del Codice Etico al contratto di
assunzione e far firmare una ricevuta di consegna
(che non ha valore legale ma psicologico per il
neoassunto);
 allegare le modifiche e gli aggiornamenti apportati
al Codice alla busta paga;
 istituire delle regole chiare di risposta alle
segnalazioni. Per esempio, in alcune imprese si
dichiara che l’Organo ricevente le segnalazioni
dovrà dare comunicazione di ricezione della
segnalazione al segnalante entro le prime 48 ore e
del risultato della prima indagine sulla fondatezza
della segnalazione entro un tempo determinato
(30-60 giorni). Dopo un ulteriore periodo di tempo
(60-90 giorni), l’Organo deve aver deciso se
archiviare la segnalazione o se procedere;
 pubblicare la dichiarazione di censura verso alcuni
comportamenti ritenuti inadeguati, in forma
anonima, all’interno dell’azienda;
 istituire una help-line;
 attribuire al Comitato Etico non solo il ruolo di valutare
unicamente le segnalazioni “negative” di scostamento
dai principi enunciati nel Codice Etico ma anche una
funzione propositiva su azioni di responsabilità sociale
che l’azienda può adottare.
56
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
4. Alcuni modelli di governance della
Responsabilità Sociale d’Impresa
Il presente capitolo ha l’obiettivo di evidenziare
differenti modalità di applicazione di modelli di
governance attraverso la presentazione di 11 schemi
elaborati sulla base delle informazioni acquisite
durante la ricerca.
4.2 Modello 231
Esempio 2 = Modello 231 Semplice
4.1 Modello Classico
Esempio 1 = Modello Classico
Il Modello 231 Semplice aderisce in toto alle Linee
Guida sul decreto legislativo 231/2001 delle
Associazioni di Categoria. Tre membri del Consiglio di
Amministrazione formano il Comitato per il Controllo
interno, di cui due sono indipendenti e quest’ultimo
deve relazionare la sua attività al Collegio Sindacale.
In questo schema, l’impresa ha adottato un Modello di
governance classica in cui degli amministratori non
esecutivi, membri del Consiglio di Amministrazione,
compongono il Comitato per il Controllo Interno. Esso
prende decisioni in materia di violazioni del Codice
Etico di significativa rilevanza segnalate dal
Responsabile della funzione audit, organo monocratico
che fa le veci dell’Organismo di Vigilanza. L’Internal
Audit si occupa della raccolta delle segnalazioni
verificandone la fondatezza, dell’analisi e della
valutazione dei processi di controllo dei rischi, della
diffusione e conoscenza del Codice e, inoltre, propone
al Comitato per il Controllo Interno le modifiche e le
integrazioni da apportare al Codice Etico.
Il Modello Organizzativo e Gestionale comprende il
Codice Etico, la cui applicazione e verifica è di
competenza dell’Organismo di Vigilanza. L’OdV è
nominato dal CdA, è composto da 2 membri (di cui 1
esterno con funzioni di Presidente e l’altro interno nel
ruolo di Responsabile Funzione Internal Auditing), e
risponde unicamente al Comitato per il Controllo
interno.
57
Governance e Responsabilità sociale
Esempio 3 = Modello 231 OdV centrico
Apparentemente più complesso è il Modello di
governance 231 OdV centrico nel quale tutto ruota
attorno all’organismo definito dal Decreto che,
nominato dal CdA, deve rendere conto a una
molteplicità di organi del proprio operato. L’OdV è
composto da 5 membri (2 esterni e 3 interni - un
legale, un direttore del personale e l’Internal Audit) ed
è parte del Modello Organizzativo e Gestionale. Del
suo operato deve rispondere al Collegio Sindacale
composto da 7 Sindaci, al Presidente del CdA,
all’Amministratore Delegato e al Comitato per il
Controllo Interno (composto da 4 membri indipendenti
non esecutivi) che, a sua volta, deve relazionare al
Collegio Sindacale.
Esempio 4 = Modello 231 COMPLESSO
Il Modello di governance 231 Complesso presenta una
fitta rete di relazioni tra il Modello Organizzativo e
Gestionale e gli altri organi della governance.
Il Comitato per il Controllo Interno, formato da 3
consiglieri del CdA indipendenti, riceve la relazione
annuale del Responsabile del Controllo Interno
sull’applicazione del Modello di Organizzazione e
Gestione adottato dalla Società (che include anche il
Codice Etico e di Condotta) e valuta l’opportunità di
proporre al Consiglio eventuali aggiornamenti e/o
modifiche al MOG, nonché alle sue modalità di
applicazione.
L’Organismo di Vigilanza svolge attività di controllo sul
funzionamento e sull’osservanza del Modello di
Organizzazione e Gestione adottato dalla Società. E’
composto da 3 membri: un Amministratore
indipendente, il Responsabile della Direzione Affari
Legali e Societari ed il Preposto al Controllo Interno.
L’OdV è nominato dal Consiglio di Amministrazione
(CdA) e a questo risponde. Un membro del Comitato
per il Controllo Interno fa parte anche dell’Organismo
di Vigilanza.
Il Preposto al Controllo Interno riveste anche la
qualifica di Responsabile di Internal Audit, è nominato
dal CdA, risponde del suo operato all’Amministratore
Delegato, al Comitato per il Controllo Interno ed al
Collegio Sindacale.
58
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
Esempio 5 = Modello 231+CSR NON INTEGRATO
4.3 Modello CSR
Esempio 6 = Modello CSR+231
Nell’impresa analizzata, il Modello di governance
231+CSR non integrato prevede la presenza di un
Codice Etico che risponde alla 231, controllato
dall’OdV, e un CdA che ha costituito un Comitato per la
Responsabilità Sociale, composto da 5 membri di cui 2
indipendenti, che si occupa di promuovere la
Responsabilità Sociale d’Impresa e della redazione del
Bilancio Sociale, ma non ha nessun ruolo legato
all’applicazione del Codice Etico 231.
Il Comitato per il Controllo Interno, composto da 4
membri di cui 3 indipendenti, è legato da un
componente all’Organismo di Vigilanza, formato a sua
volta da 3 membri interni (Direttore Affari Legali
Pianificazioni, il Responsabile Audit e il Presidente del
Comitato per il Controllo Interno, membro non
esecutivo dell’OdV). Il Presidente del Comitato per il
Controllo interno (consigliere del CdA) è anche
membro non esecutivo dell’Organismo di Vigilanza che
viene nominato dal Consiglio di Amministrazione e
deve rispondere del suo lavoro al Comitato per il
Controllo Interno ed al Collegio Sindacale.
Quest’ultimo grafico mostra il Modello di governance
CSR+231 ove sono presenti: il Codice Etico, che
contiene principi di Responsabilità Sociale d’Impresa e
criteri di comportamento per evitare che si verifichino
reati sanzionati dal decreto, inserito all’interno del
Modello Organizzativo e Gestionale (MOG), il Comitato
Etico e l’Organismo di Vigilanza. Mentre l’Organismo
di Vigilanza si occupa di verificare l’efficacia ed il
corretto funzionamento della 231, il Comitato Etico ha
il compito di monitorare la diffusione e l’attuazione del
Codice, nonché di ricevere le segnalazioni.
Il CdA nomina sia l’OdV, composto da 3 soggetti
indipendenti (di cui 1 esterno e 2 interni) sia il
Comitato Etico, formato da 3 unità (di cui 2
indipendenti non esecutivi).
59
Governance e Responsabilità sociale
Esempio 7 = Modello CSR
Esempio 8 = Modello CSR Costituzionale
In questo modello, l’Assemblea dei Soci elegge il
Controllo Contabile, il Collegio Sindacale, il Consiglio di
Amministrazione e la Commissione Valori e Regole
(formata da 9 membri di cui un Presidente esterno, 5
rappresentanti dei soci e 3 rappresentanti di interessi
collettivi esterni).
Nell’impresa analizzata, il MOG contiene il Codice
Etico, che corrisponde quasi ad una carta
costituzionale, e la Commissione Etica – garante del
Codice - coadiuvata dall’ausilio del Responsabile Etico,
nominato da CdA ed esterno all’impresa. La
Commissione Etica, formata da 5 membri esterni,
relaziona al CdA (alle cui sedute è sempre invitata) e
all’Assemblea dei Soci in merito all’applicazione dei
principi etici nella gestione quotidiana dell’impresa.
La Commissione Valori e Regole redige una relazione
annuale sulla Responsabilità Etica e Sociale (inserita
nel Bilancio di Sostenibilità), verifica la rispondenza dei
comportamenti con i principi della Carta dei Valori e
del Codice di Responsabilità Etica e Sociale, controlla
l’attuazione della democrazia elettiva nei vari organi
sociali e valuta l’impegno operativo delle cariche
assunte da ciascun amministratore nel CdA.
L’OdV, composto da 3 consiglieri di amministrazione, è
l’organo deputato esclusivamente al controllo del
MOG e si relaziona costantemente con la Commissione
Etica sugli argomenti che vedono i due organi
coinvolti.
L’Organismo di Vigilanza invece è l’organo deputato al
controllo del Modello Organizzativo e Gestionale
adottato ai sensi del D. Lgs. 231/2001 ed è composto
da 5 unità di cui 2 componenti con funzioni di controllo
(già membri del Collegio sindacale e della
Commissione Valori e Regole).
60
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
Esempio9 = Modello CSR+231+Corporate Governance
Esempio 10 = Modello CSR Ethics Officer
Nel Modello CSR+231+Corporate Governance sono
presenti i seguenti organismi: Comitato di Corporate
Governance; Comitato Rischi, avente in comune un
membro con l’Organismo di Vigilanza; Comitato per il
Controllo Interno, formato da 4 membri non esecutivi e
indipendenti (tra i quali 3 consiglieri del CdA), il cui
Presidente è membro del Comitato per il Controllo
Interno.
Nell’ultimo Modello analizzato al Comitato per il
Controllo interno, formato da tre amministratori non
esecutivi del Consiglio d’Amministrazione, è stato
attribuito il ruolo di OdV ai sensi della 231.
L’Organismo di Vigilanza, strumento del MOG, è
composto da 4 membri: il Presidente (che è anche il
Presidente del CdA), il Presidente del Comitato per il
Controllo Interno, un membro del Comitato Rischi e un
Responsabile Revisione Interna del Gruppo.
Il Codice Etico è parte integrante del Codice di
Corporate Governance ed è gestito dal Comitato
Codice Etico, nominato dal CdA, e formato da 4
membri (risorse umane, revisione interna di gruppo,
affari legali e societari, funzione compliance), avente le
funzioni di esaminare le problematiche di applicazione
del Codice, emanare le disposizioni di applicazione e
proporne gli aggiornamenti. Il Comitato Codice Etico
coopera con l’Organismo di Vigilanza e risponde
direttamente al CdA.
Il Codice Etico non è parte integrante del Modello
Organizzativo e Gestionale ma fa capo al Comitato
Etico, (formato da 7 membri di cui 6 interni – tra i quali
un consigliere del CdA – ed uno esterno che
corrisponde al Presidente) e all’Ethics Officer.
Quest’ultimo, nominato dal Comitato per il Controllo
interno da cui gerarchicamente dipendente, relaziona
al Comitato Etico e dipende funzionalmente dal
Direttore Pianificazione, Controllo e Sistemi (che a sua
volta risponde al CdA).
61
Governance e Responsabilità sociale
4.4 Proposta di Modello di Governance CSR
A seguito di un’attenta analisi dei molteplici modelli di
governance di Responsabilità Sociale d’Impresa
sviluppati nelle aziende italiane, si pensa che un
modello più coerente con i ruoli dei diversi organi e le
diverse funzioni dei Codici Etici e di Condotta dovrebbe
avere le seguenti caratteristiche: dividere le funzioni e i
significati sottesi al Codice Etico – strumento di
responsabilità sociale - ed al Codice di Condotta – che
invece ha come obiettivo quello di prevenire i reati;
non sovrapporre una gestione etica di responsabilità
sociale con un’azione di prevenzione e controllo degli
illeciti definiti dalla 231; creare due organi con
competenze distinte ma in relazione.
62
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
5. Commenti
5.1 Sintesi del seminario interno svoltosi a
febbraio 2009
Rapporto tra 231 e Codice Etico
All’interno della 231 si sta inserendo di tutto: il tema
della sicurezza, è prevista entro metà del 2010
l’introduzione della materia ambientale, la salute, lo
stress dei lavoratori. Tuttavia, poiché in Italia le
questioni sono considerate rilevanti e ci si adegua solo
se imposte dalla legge, il decreto 231 ha avuto in
questo senso molto successo, soprattutto dopo la
comparsa sui giornali di articoli che comunicavano le
condanne per violazione della legge suddetta. Le
prime due sentenze sono state efficaci nel convincere
sempre più imprese ad adeguarsi alla 231 e introdurre
anche il Codice Etico. Non sorprende il fatto che
quest’ultimo non abbia sollevato grandi problemi e
cambiamenti. Molte aziende, anche di notevoli
dimensioni, inseriscono nei propri documenti il Codice
Etico al fine di dare una parvenza più soft e illuminata
al MOG e, dunque, alla 231.
tendenza internazionale già estremamente diffusa. Il
legislatore avrebbe potuto limitarsi a questo aspetto
sanzionatorio, come fatto in molti Paesi europei (in
Francia, con il Codice Penale del 1994 è stata
introdotta la responsabilità degli enti e non si è
tentato di andare oltre, se non individuando una serie
amplissima di reati per i quali possono rispondere le
persone giuridiche), ma ha compiuto un passo
ulteriore (gesto estremamente apprezzabile sotto certi
profili): quello di individuare dei criteri di imputazione
(penalisticamente parlando) di queste fattispecie di
reato, stabilendo quando e sulla base di quali criteri le
imprese rispondono dei comportamenti dei soggetti in
posizione apicale o subordinata. Il legislatore ha voluto
creare un’idea di colpevolezza dell’organizzazione,
concetto nuovo di cui si era parlato solo in dottrina,
seguendo il modello che veniva dagli Stati Uniti
sebbene in termini differenti. Questo concetto di
colpevolezza dell’organizzazione (stabilire quando a
un’impresa può essere mosso un rimprovero perché si
è tenuto un comportamento illecito) doveva
presupporre una diffusione ampia dei Codici Etici e
della cultura della Responsabilità Sociale d’Impresa
che non c’era in Italia – infatti, la ricerca ha mostrato
come solo il 6% delle imprese fosse dotato di Codici
Etici prima dell’entrata in vigore del decreto 231 nel
2001. Quindi, il legislatore italiano ha dovuto
assumere una funzione promozionale e di
orientamento culturale, ritenuta da alcuni impropria.
Tutto questo apparato formato da Modelli di
Organizzazione, Codici di Comportamento e sistema
sanzionatorio potrebbe essere visto, dunque, come
una forma di promozione della Responsabilità Sociale
d’Impresa, cosa che sta molto al di là dell’orizzonte di
questa legge.
Nella ricerca, il decreto 231 emerge talvolta come un
fattore
di
confusione
che
determina
la
sovrapposizione tra Codici Etici, Codici di Condotta e
MOG. I suoi limiti fondamentali sono legati
all’eccessiva ambizione laddove la legge ha una
funzione sanzionatoria inevitabilmente confusa, e a
volte sovrapposta, con un compito generale di
promozione dell’orientamento culturale. La funzione
sanzionatoria della 231 è in realtà chiara: si trattava di
superare il vecchio principio societas delinquere non
potest e introdurre una forma di responsabilità da
reato delle persone giuridiche, in particolare delle
imprese. L’Italia si allineava così, con un notevole
ritardo e dopo una serie di impulsi europei, a una
Ciò rappresenta il limite genetico della 231: un
sovraccarico di funzioni che non potevano essere
assolte dalla legge. D’altro canto, il legislatore
scontava da un lato l’obbligo di adeguarsi alle
iniziative sovranazionali, dall’altro l’assenza di alcuni
presupposti sul piano della cultura d’impresa che
rendessero il contesto adeguato all’inserimento di un
meccanismo sanzionatorio di questo tipo. La
conseguenza è stata un sovraccarico di funzioni che ha
determinato un’estrema complessità, una forte
tendenza alla burocratizzazione di tutti questi
organismi e la confusione già sottolineata tra i Codici
di Comportamento, considerati elementi del Modello
Organizzativo e Gestionale (MOG), e i Codici Etici.
Il 17 febbraio 2009 è stato organizzato presso la
Fondazione Unipolis un workshop al fine di discutere i
risultati evidenziati dalla ricerca con i seguenti
partecipanti: Stefano Cavazza (SCS Consulting), Danilo
Devigili (RGA), Walter Dondi (Fondazione Unipolis),
Luigi Foffani (Università di Modena), Paola Lanzarini
(Fondazione Unipolis), Marisa Parmigiani (Accda
Coop), Giorgio Riccioni (Coop Adriatica), Elisabetta
Righini (Università di Urbino), Lorenzo Sacconi
(Università di Trento), Lamberto Santini (UIL), Pierluigi
Stefanini (Fondazione Unipolis), Francesco Vella
(Unipol Gruppo Finanziario), Mario Viviani (DTN
Consulenza), Marco Zanchi (Unipol Merchant), Silvia
Furfaro (Fondazione Unipolis).
Di seguito i punti chiave emersi nella discussione.
63
Governance e Responsabilità sociale
Un altro grave limite potenzialmente evitabile è
l’assenza di un’idea chiara sull’ambito di applicazione
della 231, ossia la questione dei reati presupposti.
Inizialmente, la legge delega si riferiva coerentemente
a fattispecie di criminalità d’impresa alle quali legava il
meccanismo 231, inserendo solo i reati di corruzione e
frode nelle pubbliche sovvenzioni come reati
presupposti.
Successivamente, invece, si
è
scoperchiato il vaso di pandora e sono arrivate le
novelle legislative più disparate: dalla tratta di esseri
umani ai reati societari, dalle mutilazioni genitali
femminili agli abusi di mercato, ecc. Come
giustamente sottolineato nella ricerca, l’eterogeneità
dei reati rischia di addossare all’ente funzioni di
controllo estranee a quelle tipiche legate al rischio
d’impresa. Ciò costituisce un limite serio e grave al
quale il legislatore dovrebbe porre rimedio con una
ridefinizione organica e sistematica basata su criteri
certi.
Esiste un’interferenza a diversi livelli tra Codice di
Comportamento e Codice Etico. I Codici di
Comportamento della 231, elementi del MOG con
funzione preventiva di una serie di reati, devono
individuare dei comportamenti da prevenire precisi e
tassativi (come corruzione e infedeltà patrimoniale).
Rispetto a tutto questo, invece, i Codici Etici hanno
una funzione di promozione culturale generale che
può portare all’individuazione delle zone grigie e,
quindi, la loro violazione non può essere confusa con
l’illecito penale dal quale nasce eventualmente la
responsabilità dell’impresa. Viceversa, i Codici di
Comportamento devono avere la funzione più
specifica e modesta di prevenzione di specifici
comportamenti penalmente rilevanti.
Il Codice Etico dovrebbe far parte degli strumenti che
tendono ad aumentare l’efficacia e l’efficienza
dell’impresa rispetto al raggiungimento di obiettivi
economici e sociali. Sebbene la loro introduzione sia
stata interessante in termini di sviluppo della cultura
d’impresa, non si può affermare che abbia avuto un
gran successo in termini di risultati raggiunti. I Codici
Etici rappresentano dei momenti problematici nello
sviluppo dell’impresa che avvengono in un contesto
complicato. Nelle imprese più serie o convinte, il
Codice Corporate Social Responsibility e il Codice 231
si innestano all’interno di un sistema normativo
differenziato e complesso. È necessario partire dal
presupposto che le imprese stanno vivendo molti
vincoli dal punto di vista normativo, nel caso migliore
essi diventano dei gravi oneri dal punto di vista
organizzativo, e nel caso peggiore dei meccanismi di
tipo burocratico. C’è un florilegio di regole normative
vissute positivamente solo dai soggetti che riescono a
interpretarle, ma viste come un peso da molte
organizzazioni.
Si assuma che l’organizzazione abbia una serie di
ambiti normati che costituiscono un complesso di
regole e permettono il suo funzionamento (per
esempio pari alla Costituzione Italiana). Quando essa
si struttura, alcuni di questi ambiti normati hanno
bisogno di approfondimenti di carattere specifico (per
esempio sull’applicabilità di Codice Civile, Codice
Penale, Diritto Societario, ecc.). All’interno di
un’impresa, un Codice Etico dovrebbe sostanzialmente
essere figlio di una specie di ripensamento generale di
quella che abbiamo chiamato la base normativa. Esso
dovrebbe essere quello che unifica i comportamenti e
rende coerente le specificità che si sono prodotte, un
elemento che, insieme ad altri strumenti, renda più
unificata e coerente la base normativa formale e
culturale che determina il buon funzionamento
dell’organizzazione.
L’auto-regolamentazione funziona?
Oggi la maggior parte dei Codici rappresenta il
fallimento dell’autoregolamentazione, vi è un plesso
normativo che ha avuto scarsa efficacia, come
mostrato nelle interviste della ricerca. Il plesso che si
prefigura di intervenire prima che agisca la legge non
ha funzionato bene e ciò significa che il contenuto di
quelle norme non è corretto e c’è stato, quindi, un
errore nella loro elaborazione. La riflessione iniziale
deve vertere, dunque, su come modificare quelle
norme intervenendo su 3 aspetti:
1. definizione delle sanzioni;
2. definizione della giurisdizione da applicare;
3. definizione di chi fa le indagini sull’applicazione di
queste sanzioni.
Si tratta di questioni sulle quali è opportuno fare una
ricerca
approfondita,
poiché
comportano
problematiche pratiche di non poco rilievo. Per
esempio, giacché la violazione di principi etici
comporta che la segnalazione debba essere qualificata
e non anonima, si pone il problema di come agire nel
caso ne arrivasse una non firmata. In ambito 231, è
necessario
prenderla
in
considerazione
obbligatoriamente perché non può non essere
analizzata se è rapportata a un evento sospetto. Ci
sono una serie di problematiche molto specifiche al
fine di identificare come le norme di
autoregolamentazione etica possano permeare tutta
l’attività dell’impresa.
Altra questione è se sia necessario proporre interventi
normativi superiori che facciano da collante oppure sia
meglio lavorare sul terreno della volontarietà
(considerato che in molte realtà non esiste neanche
64
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
un accenno alla Responsabilità Sociale d’Impresa). In
questa fase, sembra essere prevalente il secondo
approccio. Ciò non toglie che, come dimostra la storia,
quando crescono esperienze e realtà che spingono in
certe direzioni, si forza anche l’assetto normativo. Un
indirizzo su cui concentrare gli sforzi è legato alla
realtà della crisi: o si torna a una logica statale oppure
si costruiscono delle modalità che consentono di
tutelare il bene comune attraverso un contratto
sociale – il quale contempera esigenze e interessi dei
diversi Stakeholder – a partire da una base volontaria
e costruendo meccanismi di partecipazione non più
limitati all’azienda singola.
Per quanto concerne l’autoregolamentazione e il suo
rapporto con la governance societaria, oggi
l’ordinamento offre la possibilità, sfruttando
l’autonomia statutaria, di muoversi sul terreno
dell’autoregolamentazione. Esistono addirittura forme
di autoregolamentazione sulle quali l’ordinamento
stesso chiede una rendicontazione esterna (es. il
Collegio Sindacale deve rendicontare sull’adesione dei
Codici di Autoregolamentazione delle Società e
originariamente esisteva anche una norma, in seguito
eliminata, che imponeva alla Consob di controllare).
Quindi, le imprese si danno una norma e di questa
norma diventano responsabili: per esempio, se il CdA
di un’impresa approvasse il proprio Bilancio Sociale o
di Sostenibilità, e quest’ultimo al suo interno
contenesse notizie false, gli amministratori
risponderebbero delle informazioni che hanno
divulgato. È necessario andare avanti sul terreno delle
norme che valutano i criteri di revisione dei Bilanci
Sociali. Anche in questo caso, bisogna elaborare nuove
misure tecniche per farlo, ma come diceva Natalino
Irti, “quando un soggetto privato si da una norma,
come tale lo vincola e lo responsabilizza”. In altri
termini, c’è il rischio di un intervento statale molto
invasivo che può essere evitato solo se le imprese
intervengono in modo pro-attivo sul piano
dell’autoregolamentazione, conquistando terreno.
Infine, un altro tema interessante è quello del
rapporto con la governance. La responsabilità verso
l’azionista rimane quando ci si colloca sul mercato.
Sicuramente
nulla
vieta
che
in
seguito
all’autoregolamentazione
si
acquisiscano
responsabilità ulteriori e che quindi ci possa essere
una forma di convivenza. Il vero pericolo attuale è che
si ripresenti la confusione tra Stato regolatore e Stato
proprietario, con tutti i rischi di conflitti di interesse
notoriamente poco considerati in Italia.
Quale governance per un’impresa responsabile
La situazione attuale di crisi, non di liquidità ma di
equità, determina la necessità di ragionare su diversi
modelli di governance:
1. oligarchia manageriale, in cui non esiste un
controllo terzo poiché il Consiglio di
Amministrazione è debole e parcellizzato e i
manager de facto gestiscono;
2. controllo statale, poiché le imprese hanno ricevuto
dei finanziamenti governativi, lo stato diventa il
garante degli interessi di tutti gli Stakeholder;
3. esiste l’opportunità, in questo contesto, di
proporre come terza via un modello di governance
allargata agli Stakeholder, nel quale sia possibile
esprimere una sana contrapposizione degli
interessi. Dal punto di vista contrattualistico,
infatti, si possono normare determinate questioni
ma, alla fine, è necessario trovare la sintesi,
all’interno dei modelli di gestione, tra gli interessi
contrapposti
di
azionisti,
rappresentanti
dell’ambiente, ecc., attraverso forme di
rappresentanza varie.
Forse, è giunto il momento storico per ripensare a un
modello che incida sulle domande di fondo che il
sistema capitalistico si porta dietro da duecento anni:
equità, giustizia, creazione di un valore condiviso nel
rispetto delle istanze di tutti i portatori di interesse.
I numerosi fallimenti ai quali si assiste sono imputabili
alla scarsa attenzione data all’etica in diverse
esperienze aziendali. Soprattutto negli ultimi venti o
trent’anni, con il prevalere dell’ideologia liberista, il
concetto di impresa ha contemplato la realizzazione
del profitto come scopo primario. Alla luce di ciò, è
importante riconsiderare il rapporto sia tra etica e
impresa sia tra etica ed economia. La sintesi tra valori
e diritto si può trovare nella Costituzione Italiana. Il
dibattito potrebbe determinare un ripensamento
dell’art. 41 della Costituzione che recita “L’iniziativa
economica privata è libera. Non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana
[…]”. Questo secondo comma sintetizza il concetto di
responsabilità sociale e da esso potrebbe partire una
discussione feconda per integrare questa norma con
nuove esigenze di ordine economico e sociale, una
riflessione non più basata sulla contrapposizione tra
Stato e mercato ma su nuove forme di democrazia.
Tutto ciò potrebbe essere interessante sia a livello
giuridico per interpretare le norme esistenti sia come
spunto per un dibattito di più ampio raggio.
Allineamento tra valori e comportamenti
Non esistono molti metodi di misurazione delle
performance legate ai sistemi di motivazione e
incentivazione dei dipendenti che consentono alle
comportamentali del Codice Etico e della governance
di tradursi in comportamenti. Questo determina una
65
Governance e Responsabilità sociale
caduta verticale dello strumento e un’ulteriore perdita
di credibilità: si pensi ai sentimenti di un dipendente
che si sente fare certi discorsi dal CdA per poi vedere i
consiglieri comportarsi sempre allo stesso modo,
senza attuare i comportamenti decantati e di cui si
sono vantati. Ciò non aiuta certamente la
competitività delle imprese e la sincerità forse paga di
più, se non altro nella chiarezza delle intenzioni.
Infatti, questa situazione di confusione rischia di
creare una sorta di disillusione che non aiuta la
competitività dell’impresa basata sul capitale umano.
In questo modo, si spengono le passioni di milioni di
persone (non sono solo le motivazioni economiche ma
anche le passioni a muovere le persone), anziché
stimolarle per trovare delle soluzioni creative in
risposta a situazioni senza precedenti.
5.2 Il rapporto tra Codice
Responsabilità Sociale d’Impresa
Etico
Per capire meglio cosa si intende è opportuno
analizzare uno di questi sistemi e la funzione che in
esso svolge il Codice Etico.
È essenziale lavorare mediante un’azione di profondo
respiro culturale ed etico, affinché persone di realtà
diverse e con responsabilità differenti diventino
progressivamente
virtuose
ed
etiche
nei
comportamenti concreti, ispirandosi ai valori che sono
alla base dell’attività economica e collettiva.
Nel tempo, l’importante non è tanto avere sanzioni da
erogare o meno, quanto rendere questi principi
concreti nei comportamenti quotidiani delle persone
(posta comunque la difficoltà di misurare questi
fenomeni) e lavorare per una maggiore connessione
tra regole e valori.
e
di Marisa Parmigiani
L’adozione di un Codice Etico è, nella letteratura sulla
Responsabilità Sociale d’Impresa, considerato uno
degli elementi del percorso, di per sé condizione
necessaria ma non sufficiente, allo sviluppo di
politiche e processi socialmente responsabili.
In particolare se ci si rifà ad alcuni modelli strutturati
di declinazione di percorsi di Responsabilità Sociale
d’Impresa (Q- Res, Sigma project) la declinazione dei
valori e dei principi ai quali l’organizzazione si inspira
e, soprattutto, la loro traduzione in comportamenti e
norme verificabili rappresenta il punto di partenza per
un processo di ripensamento della Missione aziendale
e per il suo coerente funzionamento.
Tali modelli attribuiscono una progressività definitoria
e strumentale a quelli che potremmo chiamare gli
“attrezzi” che vengono selezionati ed identificati a
partire da un’ipotetica “cassetta” che raggruppa tutto
ciò che ad oggi è stato definito per supportare,
guidare e controllare il percorso di un’impresa verso la
propria responsabilità sociale.
Il “modello Q-res”8 è il frutto di un lavoro pluriennale
di ricerca teorica e benchmarking sulle pratiche al
quale hanno preso parte diversi soggetti coinvolti sin
dall’inizio sui temi della responsabilità sociale
d’impresa. L’elemento caratterizzante il Q-Res è
l’approccio sistemico, basato sul ciclo di Damien (PlanDo-Check-Act), che prevede da un lato la stesura delle
linee guida, dall’altro la definizione, sulla base delle
stesse, di una norma certificabile da parte terza. La
prima suggestione è che nessuno strumento è da solo
sufficiente a supportare la gestione responsabile dell’
impresa se la si vuole affrontare nel suo complesso. Le
linee guida definiscono per l’impresa un percorso
ideale, che prevede:
 la definizione della Visione Etica;
 l’adozione di un Codice Etico;
 la formazione etica ai manager;
 la costruzione di un sistema di rendicontazione (il
Bilancio Sociale);
 l’adozione di sistemi organizzativi di attuazione e
controllo (Auditing, Ethical Officer);
 la verifica e la certificazione esterna.
Il Codice Etico è considerato il “luogo” dove si esplicita
il contratto sociale con gli Stakeholder e vi si
Marisa Parmigiani, Segretario generale di Impronta Etica
8
Liuc Paper n. 95, Serie Etica, Diritto e Economia 5, Ottobre 2001
66
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
bilanciano i diversi interessi, per questo si declina in
norme etiche e standard di comportamento, ma
soprattutto prevede la declinazione di apposite
procedure che garantiscano “nel tempo e nello spazio”
la conformità dei comportamenti. Per la sua
implementazione si prevede figura apposita di
controllo, e il Bilancio Sociale come strumento più
complessivo di verifica dell’efficacia.
La seconda suggestione è quindi quella che l’efficacia
del Codice Etico non si misura con il numero di volte in
cui è stato attivato per procedure sanzionatorie ma
con il grado di miglioramento complessivo della
performance dell’azienda: cioè verificando quanto i
diversi Stakeholder sono stati trattati in modo equo, e
di questo sono soddisfatti.
Per concludere l’organo multiStakeholder, più
laicamente noto come Commissione Etica, è in questo
caso inteso come strumento di integrazione della
responsabilità sociale nel processo di gestione
dell’organizzazione in una logica di governance
allargata.
La riflessione in questo contributo vuole però
ripensare le conclusioni proposte dal modello Q-res
alla luce delle esperienze pratiche che si sono
maturate e dei risultati della ricerca appena svolta.
Per questo la riflessione sulla cogenza di un Codice
Etico in un percorso di Responsabilità Sociale
d’Impresa non può che partire dalla attribuzione di
significato alla responsabilità sociale stessa.
Si intende, in questa sede, un’impresa socialmente
responsabile se lo è il modo in cui produce valore e
non solo quello come lo ridistribuisce9. Si considera
inoltre il tema della responsabilità appannaggio non
solo delle grandi multinazionali (le “corporate”
appunto)
ma
di
tutte
le
organizzazioni,
indipendentemente dalle loro dimensioni, dalla loro
natura sociale e missione.
Questo significa, da un lato, rifarsi all’analisi della
catena del valore promossa da Porter e Kramer
(2006)10, dall’altro recepire l’innovazione concettuale
di Freeman11 che estende il campo di applicazione
della Responsabilità Sociale d’Impresa enfatizzandone
la componente di relazione con gli Stakeholder.
Già la teoria di Porter12 degli anni ottanta, collocando
l’impresa nell’ambiente, e non solo nel mercato,
introduce aspetti caratterizzanti la Responsabilità
9
“Per una responsabilità sociale d’impresa che sia elemento
strutturale dello Sviluppo sostenibile”, Manifesto Impronta Etica,
novembre 2003
10
M. Porter, M. Kramer, Strategy & Society: the link between
Competitive advantage and CSR, New York, 2006,
11
R.E. Freeman, S.R. Velamuri, A New Approach to CSR: Company
Stakeholder Responsibility, 2005
12
M. Porter, Competitive Strategy, Free Press, New York, 1980
Sociale d’Impresa (Stakeholder, cultura, valori) nel
processo di definizione della strategia d’impresa. Con
l’articolo del 2006 Porter sviluppa e argomenta come:
 oggi la strategia sociale di un’impresa sia la sua
strategia competitiva, dal momento che solo la
valutazione ed inclusione dei diversi impatti sociali
ed ambientali nell’analisi della catena del valore
permettono di valutarla correttamente;
 oggi l’analisi del contesto competitivo debba, per
essere efficace, includerne gli aspetti sociali in una
logica di sostenibilità, non solo per l’analisi della
domanda e della concorrenza, ma anche per quella
degli input e delle imprese partner.
All’interno quindi di un quadro concettuale che fa
della strategia sociale13 la strategia tout court per
un’organizzazione in quanto elemento determinante
della sua competitività, è evidente come la
componente normativa del Codice Etico diventi
sostanzialmente marginale.
La norma e soprattutto il suo controllo dovrebbero
essere superati dalla consapevolezza sull’opportunità
dei comportamenti, dal momento, infatti, che essere
socialmente responsabile viene interpretato come
un’opportunità per un impresa. Un’opportunità
connessa non tanto ad elementi commerciali, di
difficile misurazione e di scarsa risultanza, quanto alla
ricchezza di valori intangibili ad essa connessa, che
rafforzano,
consolidano
e
arricchiscono
l’organizzazione in se e nel suo rapporto con gli
Stakeholder.
In particolare in merito a questi ultimi è interessante
osservare la centralità di una buona relazione con loro
per la competitività d’impresa secondo quanto
sviluppato da Freemann, che infatti afferma “avere un
‘approccio per Stakeholder’ agli affari significa
idealmente agire integrando il business, l’etica e
considerazioni sociali. La Stakeholder theory riguarda
la creazione di valore e lo scambio – è una teoria
manageriale su come funzionano le aziende”.
In questa logica, se il Codice Etico è il luogo del
bilanciamento degli interessi tra gli Stakeholder, allora
rispettare il proprio Codice Etico, reale o virtuale,
diventa condizione essenziale di un’impresa per
produrre valore nel medio periodo. In una dimensione
evoluta quindi non ci dovrebbe essere nessun sistema
di controllo, ma il Codice dovrebbe rappresentare
l’elemento di consolidamento culturale per
antonomasia.
La centralità del Codice Etico per una buona gestione
dell’impresa e per il suo concorso allo sviluppo
sostenibile è quindi da ricollegarsi soprattutto alla sua
13
M. Porter, op. citata, 2006
67
Governance e Responsabilità sociale
funzione educativa. Non a caso nell’indagine
qualitativa della ricerca realizzata dalla Fondazione
Unipolis emerge come in 10 casi su 20 il principale
motivo che ha portato all’adozione del Codice Etico è
sostanzialmente riconducibile ad una volontà di
cristallizzare valori e principi già esistenti oppure di
condividere valori e mission dell’azienda con
collaboratori, clienti ed altri Stakeholder. In questo
caso, quindi, il processo di costruzione del Codice
determina la bontà del Codice stesso. Se infatti
l’efficacia del Codice per la gestione sostenibile
dell’impresa si misura nel grado di consapevolezza
culturale che è riuscito a determinare, e quindi, negli
indirizzi gestionali che è riuscito ad influenzare, allora
bisogna meglio capire e valutare come questi stessi si
inducono.
Passando dalla teoria alla pratica, si registra in primo
luogo che nella maggioranza delle “buone pratiche di
RSI” l’ordine degli strumenti adottato dall’impresa non
ha seguito la teoria: la definizione del Codice Etico non
ha infatti rappresentato la fase fondante di un
percorso, ma viceversa, è stata la manifestazione di un
bisogno di consolidamento e diffusione di un percorso
in essere, ed in alcuni casi, molto avanzato. Anche nei
casi dove lo stesso era già presente l’organizzazione,
una volta individuata una strategia RSI adeguata ed
efficace, e averne sperimentato gli strumenti che
meglio rispondevano alle esigenze specifiche, ha
sentito il bisogno di ripensarlo.
L’esigenza era quindi non di avere la carta
costituzionale ma uno strumento che rendesse noti,
intelligibili, e quindi diffondibili i principi, i valori, e i
comportamenti, a cui l’organizzazione si ispira.
Il Codice Etico quindi come strumento di creazione di
linguaggi condivisi, di consolidamento di cultura
aziendale. Niente di più lontano dal ruolo del MOG,
che pure è solitamente presente nelle “buone
pratiche” della CSR e che in Italia ha sicuramente
concorso in modo significativo allo sviluppo dei codici
etici.
Infatti dalla ricerca quantitativa realizzata emerge
come solo il 6% aveva adottato il codice prima del D.
Lgs. 231 e contestualmente che dal 2002 in poi i
contenuti dei Codici Etici tendono quasi sempre a
riferirsi in modo esplicito al D. Lgs. 231/01 e/o ad
essere parte integrante del MOG aziendale (70-80%
dei casi).
Perché invece l’adozione di un codice sia efficace per il
consolidamento culturale due processi diventano
essenziali:
 il processo di costruzione del Codice;
 il processo di diffusione.
Il primo deve essere un processo maieutico, di
estrapolazione
dei
valori
dall’interno
dell’organizzazione, per produrre uno strumento utile
a contaminare, che sia quindi rispondente alla realtà
dell’azienda, ne colga gli aspetti critici, le aree di
rischio, gli Stakeholder sensibili e deboli. Perché il
processo sia di per se stesso strumento di diffusione, e
perché il prodotto sia ritagliato sull’impresa, questo
deve essere partecipato e trasversale.
Un Codice Etico con contenuti dati, frutto di un
percorso parallelo e non integrato nell’organizzazione,
difficilmente sarà efficace. Un Codice Etico che non sia
noto non sarà d’altro canto efficace neanche come
deterrente normativo. Il processo di diffusione, la
sensibilizzazione, la formazione etica declinata sul caso
aziendale sono gli elementi più importanti di un
percorso di “acculturamento” valoriale. Elemento
confermato dall’indagine qualitativa nella quale 15
aziende su 20 (75%) hanno dichiarato di avere già
avviato un percorso specifico di comunicazione e
formazione, mentre negli altri 5 casi (25%) non vi è
ancora stata alcuna attività in questo senso, di cui tre
hanno comunque dichiarato che tale attività è in fase
di attuazione.
Per consolidare una cultura aziendale orientata ai
valori bisogna però contestualmente declinare in
modo chiaro tali valori ed incarnarli nell’esempio
manageriale. I comportamenti delle figure apicali e le
scelte strategiche, gestionali ed organizzative
dell’impresa sono fondamentali per avvalorare e
consolidare percorsi di formazione etica.
Dentro l’organizzazione, ancor più di fuori, sono noti i
processi di produzione del valore, per questo è
fondamentale definire un Codice Etico solo quando già
nei fatti si sono adottate strategie e comportamenti
socialmente responsabili, per quanto questo possa
essere contrario sia alla dottrina neo-contrattualista14
sia relazionale15.
Essere socialmente responsabili non implica
necessariamente, secondo questa interpretazione che
parte dai processi e dalle procedure caratteristiche
dell’organizzazione, dotarsi di un Codice Etico. Aziende
di ridotte dimensioni o con un alto grado di
partecipazione interna possono non aver mai bisogno
di adottare un Codice Etico, così come quelle i cui
riferimenti normativo-valoriali sono già dati ed
ampiamente
condivisi.
Aziende
multisito,
multiprodotto e con catene di governo molto
articolate, difficilmente potranno fare a meno di un
Codice Etico per garantire che le intenzioni etiche si
traducano in gestione sostenibile.
14
L. Sacconi, Etica degli affari. Individui, imprese e mercati nella
prospettiva dell’etica razionale, Il Saggiatore, Milano 1991
15
S. Zamagni, L’economia del bene comune, Roma, Città Nuova,
2007
68
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
Altra cosa è l’adozione di un Codice all’interno di un
MOG in conformità al D. Lgs 231. Quest’approccio si
conferma di fatto, anche nell’analisi empirica, che
dimostra lo sviluppo delle esperienze più significative
tra le aziende di servizio, per il cui svolgimento
dell’attività rapporto con il cliente, reputazione e
fiducia sono elementi essenziali, e tra le cooperative,
che fondano sull’appartenenza culturale e valoriale la
loro identità. Emerge infatti nella ricerca quantitativa
che le aziende di servizi tendono ad adottare Codici
Etici che vanno oltre a quanto previsto dal D. Lgs.
231/01 molto più spesso rispetto alle imprese di
produzione, le quali sono invece prevalentemente
orientate al semplice adeguamento rispetto alla
normativa (17% vs 45%) e che il 40% delle cooperative
nel campione non fanno riferimento nel Codice alla
231 rispetto al 25% del totale del campione. Solo
un’attenta analisi dei processi, delle relazioni con gli
Stakeholder, delle azioni e dei progetti in essere aiuta
l’organizzazione a scegliere e adottare gli strumenti,
all’interno della cassetta degli attrezzi, più opportuni
ed efficaci per la propria strategia sociale. D’altro
canto, come per ogni strumento, se si decide di
adottarlo, devono esserne chiare le motivazioni, le
utilità, i vincoli per un funzionamento efficace e lo
stesso deve essere periodicamente mantenuto,
affinché rappresenti, nei fatti, il contratto vigente tra
l’impresa e i suoi Stakeholder.
5.3 Il Codice Etico per una governance
multi-Stakeholder della Responsabilità
Sociale d’Impresa
di Lorenzo Sacconi
La ricerca è interessante e mette in luce un concetto
molto chiaro: la forte ambiguità nel modo con il quale
viene utilizzato il Codice Etico nelle imprese, tra l’idea
che sia la testa di un sistema di gestione per la
responsabilità sociale e qualcosa invece che viene
introdotto perché previsto da una norma giuridica per
prevenire o comunque consentire di non incorrere in
sanzioni amministrative a carico dell’impresa.
Non ci dobbiamo stupire di questo, poiché esistono
due modelli diversi e la ricerca li descrive chiaramente.
Si poteva pensare che l’uno aiutasse l’altro, ma anche
che l’uno potesse elidere l’altro. Secondo me sono
vere entrambe le cose. C’è un problema di diversa
estensione dei contenuti tra chi richiama quelli della
231 e chi ha un approccio più orientato a stabilire
regole di comportamento nei confronti degli
Stakeholder, e c’è anche una questione sulle forme
organizzative di attuazione ove si riscontri eccedenza o
non eccedenza rispetto ai contenuti definiti dalla legge
231. Trovo comunque che l’introduzione dell’idea
della “governance CSR del Codice Etico“ sia anch’essa
un po’ ambigua. Non è chiaro se si parla di un’impresa
che ha una governance orientata alla CSR, di cui fa
secondo un principio di CSR.
Lorenzo Sacconi insegna Politica economica all’Università di Trento
dove dirige la Laurea specialistica DEIRS - Decisioni Economiche
Impresa e Responsabilità Sociale e il LASER - Laboratorio di Ricerca
in Scelta Razionale, Etica e Responsabilità Sociale. È inoltre
direttore del centro interuniversitario EconomEtica, presso
l’Università Milano-Bicocca.
Un’altra questione non chiara è cosa sia una
governance CSR legata al Codice, perché voi
identificate tale tipologia con le imprese che hanno un
organo ad hoc dedicato al controllo dell’adempimento
del codice. Ma mi domando: è questo un modello di
governance CSR dell’impresa? Io ho qualche dubbio.
Però è importante e chiaro il punto: volete distinguere
quelle imprese in cui c’è un’attenzione specifica alla
CSR da quelle in cui il tema del codice si mescola con
l’attuazione della 231.
Che ci sia questa confusione si poteva predire fin dal
principio perché lo sviluppo significativo dei Codici
Etici in Italia aveva cominciato ad esistere prima della
231, ma esattamente come negli Stati Uniti, quando è
stato introdotta la legge su ispirazione delle Federal
Sentencing Guidelines, molte più imprese si sono
dotate di tale strumento. E questo ha prodotto una
giuridicizzazione del Codice Etico ed una sua più ampia
adozione seguendo lo slogan “per stare lontani dai
guai”. È a questo punto che arrivano gli avvocati,
adottando una logica del tutto diversa da chi si pone il
problema del disegno del modello di governo
d’impresa e della responsabilità sociale verso gli
Stakeholder,
preoccupandosi
invece
della
responsabilità legale degli amministratori e dei danni a
carico dell’azienda. Da un lato l’intervento degli
avvocati dimostra che questi strumenti possono
diventare essenziali per alcuni interessi vitali per
l’impresa (portando il codice etico fuori dall’ambito
della comunicazione ma più vicino al potere), dall’altra
69
Governance e Responsabilità sociale
parte però crea ambiguità, poiché il Codice Etico
dovrebbe essere ispirato dalla definizione di principi
guida dell’impresa che influiscono sulla condotta
strategica e che ne definiscono l’impegno verso gli
Stakeholders. Non è detto che le due cose debbano
essere in conflitto, è chiaro però che se l’idea del
Codice Etico è quella di uno strumento per giustificarsi
di fronte al tribunale, quest’ultimo sarà gestito in
modo diverso da un Codice adottato per promuovere
la CSR. Vorrei chiarire meglio il rapporto tra Codice etico e
diritto, tra etica e governance: se non abbiamo un
approccio al Codice Etico come parte di un sistema di
gestione della responsabilità sociale, l’aggancio con la
governance è del tutto strumentale ed occasionale. La
questione essenziale è invece quella di promuovere un
modello di governo dell’impresa esteso, nel senso che i
doveri fiduciari si estendono nei confronti dei molteplici
Stakeholder. Qual è la relazione con il diritto? E se questo
tipo di governance può essere realizzata (come sostiene
Denozza e molti giuristi) nel contesto di iure conditio o se
implica un approccio di iure condendo, cioè se richiede una
riforma. E probabilmente è così: se noi introduciamo dei
Codici Etici che affermano l’estensione dei doveri delle
imprese di capitale nei confronti degli Stakeholder e, ad
esempio, un socio agisse con un’azione di responsabilità
civile nei confronti di un manager perché gli ha offerto una
remunerazione di capitale inadeguata a causa delle risorse
dedicate a un piano di salvaguardia ambientale, chi
avrebbe ragione? Forse l’azionista. Verosimilmente, in
un contesto giuridico come l’attuale, noi perciò non
abbiamo un supporto legale ad usare il Codice Etico in
questa maniera mentre esiste un incentivo al suo
utilizzo per prevenire i reati. Il Codice Etico dunque ha
preso la strada che l’incentivo giuridico gli dava: la
prevenzione dei reati piuttosto che una modalità di
costruzione dell’insieme dei principi e delle norme
fondamentali per orientare l’impresa nel senso di una
gestione strategica e di un governo multiStakeholder.
Esiste altrove una tendenza evolutiva della disciplina
giuridica della corporate governance (ad esempio nella
legislazione inglese oltre che a livello OCSE) che
estende i doveri fiduciari degli amministratori delle
società. Si tratta di norme generali che, introducendo
questi doveri estesi, necessitano poi di una specifica
forma di autodisciplina, per precisare quali doveri
fiduciari verso gli Stakeholder e in che proporzione
l’impresa intenda effettivamente assegnare ai suoi
amministratori. Il Codice Etico potrebbe riempire questo
spazio,
divenendo
norma
fondamentale
dell’organizzazione: in altri termini, data quella norma
giuridica generale, noi specifichiamo i doveri fiduciari di
chi governa l’impresa, e di questi essi devono rispondere
(ad esempio, producendo, tra l’altro, un appropriato
social report che si rivolge agli Stakeholder come coloro
che hanno il diritto di sapere come i doveri nei loro
confronti sono stati adempiuti). Questo permetterebbe di
agire contro quell’amministratore che non si attiene alle
disposizioni del Codice, non rispettando dunque
l’interpretazione che, a livello statutario o di assemblea
dei soci, si è voluto dare a quella norma giuridica
generalissima. La situazione che stiamo vivendo ora, e le
recenti riforme del diritto societario italiano, invece, non
hanno certo migliorato la situazione dal punto di vista
della governance multiStakeholder in Italia. Tutta la nostra
evoluzione va nella direzione dell’adozione dello
shareholder value e della governance mono-Stakeholder
(anche nel caso della sottolineatura della mutualità
interna, con i soci, nel caso delle cooperative) e quindi
tende a farsi ingoiare dal vortice nel quale è finita
l’economia americana, focalizzando l’attenzione solo sul
governo mono-Stakeholder basato sul valore per gli
azionisti. In ogni caso, la differenza tra l’uso del Codice
Etico per la legge 231 oppure per la CSR è quella che
intercorre tra, in un caso, la creazione di un modello di
governo esteso in cui l’impresa assume impegni di
natura fiduciaria verso molteplici Stakeholder (e il
codice etico specifica tali doveri fiduciari molteplici), e,
nell’altro caso, garantire, con azioni preventive, la
commissione di reati. Ovviamente il modello
multiStakeholder e la CSR entrano nella sfera della
discrezionalità manageriale, come conseguenza
dell’incompletezza dei contratti, quindi una sfera
tecnicamente oltre la verifica della conformità alla
norma giuridica concreta. Se noi potessimo infatti
garantire tutti gli interessi degli Stakeholder con
norme giuridiche concrete, i due modelli
coinciderebbero, ma non è così: noi abbiamo invece
un ambito di discrezionalità manageriale non
colmabile né con norme giuridiche concrete
strettamente cogenti, né contrattualmente – e questo
è l’ambito della discrezionalità e dell’autorità
manageriale e imprenditoriale, associata all’esercizio
del dritto residuale di controllo. Se avessimo contratti
completi e norme complete non avremo nessun
bisogno di CSR, ed invece abbiamo contratti
incompleti e norme che non possono disciplinare ogni
dettaglio e che rendono necessaria l’autorità
manageriale. Ma siccome questa può dare adito ad
abuso, non solo verso gli azionisti o i soci di
minoranza, ma anche verso gli Stakeholder, si
richiedono doveri fiduciari multi-Stakeholder per
vincolarla, e di qui viene la necessità di principi
generali e regole precauzionali di CSR che – a parte la
norma generale di copertura che abbiamo detto devono essere specificati da codici etici e sistemi
formalizzati di gestione. Di qui ne discende anche che
la struttura del Codice Etico dovrebbe prevedere la
regolamentazione di questi rapporti, dei principi che li
70
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
ispirano, del contratto sociale tra gli Stakeholder e
della autorizzazione che gli Stakeholder danno
all’impresa di agire influendo in vario modo sui loro
investimenti e sulle loro aspettative di benessere.
Ogni impresa può specificare il modello come
desidera, ma occorre comunque una “visione” del
rapporto tra l’impresa ed i suoi Stakeholder, che
definisce l’equilibrio tra i vari interessi, occorre
un’analisi di aree critiche, ove “area critica” non è una
fattispecie di reati, ma i possibili comportamenti
opportunistici sia che siano illegali o semplicemente
non etici, e poi un insieme di regole di condotta che
evidenziano che in quegli ambiti sono rispettati i
principi sia con regole precauzionali sia con divieti di
comportamenti tipici. Allora, se si ragiona così, è
chiaro che si cerca di rendere riconoscibili delle
condotte che vanno al di là delle azioni che violano la
legge. Tipicamente, questo è anche funzionale alla
prevenzione del reato, perché cattura l’area “grigia” di
comportamenti che, se vengono previsti e prevenuti,
escludono il compimento di reati. Quindi la mia tesi è
che il rapporto tra queste due materie nella pratica sia
un rapporto di inclusione. In altre parole, il modello
“Codice Etico per la CSR” che parte da un’ispirazione
culturale, che potrebbe avere sviluppi sul fronte
giuridico che non sono solo relativi alla disciplina della
231, ma che potrebbero andare nel senso della
riforma inglese, in realtà include operativamente
come sottoinsieme il modello 231. Infatti, se abbiamo
un insieme di principi dai quali discende
l’identificazione di aree critiche come aree di
comportamento opportunistico, e delle regole di
condotta che evidenziano che non abbiamo agito
opportunisticamente in quelle aree, stiamo anche
prevenendo comportamenti in aree grigie, aree che
vengono prima del reato o che sono quella parte dei
comportamenti che possono provocare il reato,
oppure che sono la parte visibile di un
comportamento illecito, che rimane nascosto. Una
disciplina del conflitto di interessi “potenziale” o
“apparente” previene anche un conflitto di interessi più
grave, che può sfociare nella corruzione, ed avere quindi
rilevanza giuridica penale. Quindi ci sono una serie di
norme preventive su comportamenti in “area grigia”, che
possono anche essere funzionali a questo scopo. Perciò il
contenuto del Codice Etico è più ampio, ed anche il
linguaggio non può che essere diverso, perché tutta la
parte di visione etica e di principi ha il linguaggio proprio
dell’etica normativa, e non del codice di disciplina o del
regolamento. Benché quando si definiscono le aree e poi
si stabiliscono le regole di condotta e i protocolli di
comportamento vi possa essere un linguaggio quasigiuridico, tuttavia vi è una parte generale di visione e di
principi che parlano più il linguaggio dell’etica normativa,
della filosofia politica o della filosofia morale, che peraltro
soddisfano, o dovrebbero soddisfare, precisi requisiti di
significato normativo condivisi in parte dal diritto
(universalizzabilità, prescrittività, soverchianza, secondo
Richard Hare). Un altro aspetto che distingue
significativamente dal punto di vista dei contenuti le
due prospettive, è l’inclinazione a considerare il codice
231 come un regolamento di disciplina delle persone
che lavorano nell’impresa, cioè più come una
disciplina di doveri dei dipendenti che di diritti degli
Stakeholder (tra cui i collaboratori). Il fine è la
protezione della proprietà, del patrimonio,
dell’informazione, il che si ottiene imponendo ai
dipendenti, agli amministratori e a tutto il personale
aziendale degli specifici doveri di non violazione delle
leggi. Un codice orientato verso la CSR viceversa, parte
dagli impegni dell’impresa verso gli Stakeholder
(comprese le persone che lavorano nell’impresa). Da
considerare è che gli impegni verso gli Stakeholder è
l’organizzazione aziendale stessa che li deve adempiere
per prima. Ne discendono dunque dei doveri per i membri
dell’organizzazione, e non sembra esserci differenza con il
codice 231, ma non è così. È ben diverso un codice etico
inteso come regolamento di disciplina rispetto ad un
Codice Etico in cui queste stesse persone sono tra i fini del
Codice stesso (è del tutto chiaro il riferimento a Kant del
“regno dei fini”). Poiché le persone sono il “regno dei fini”,
sono tra i fini del Codice Etico. Questa in realtà è una
differenza di contenuto che si riflette anche su una
differenza di struttura: avere un codice etico 231 significa
avere un documento iniziale di richiamo generalissimo di
carte dei diritti. Completamente diverso è un Codice Etico
che comincia con una visione etica d’impresa che
definisce qual è la visione di rapporti tra Codice Etico e
Stakeholder, che definisce i principi dei rapporti di
ciascuno Stakeholder in modo bilanciato, i principi di
ordine generale, poi disciplina separatamente nel
dettaglio i principi verso ciascun Stakeholder. Da questo
discenderanno poi delle norme di comportamento che
diverranno doveri per l’organizzazione, dai quali a sua
volta discenderanno doveri per le persone e quindi
saranno definiti, strato dopo strato, ai vari livelli. È una
differenza significativa: la quota parte 231 del Codice Etico
CSR è inclusa nel Codice Etico CSR e ciò non toglie che
anche un codice CSR contenga una parte di disciplina dei
doveri dei dipendenti, ma nei confronti degli Stakeholder.
La raccomandazione che si dovrebbe dare è proprio
questa: in nessun modo bisogna separare le due
questioni, ma avere un approccio che renda il Codice 231
parte di un sistema di norme interne più ampio di cui
questo è una componente. A questo punto è
interessante riflettere su come debba essere un
modello di “governance” basata sul Codice Etico
coerente con l’idea di CSR. Ragionando in maniera
71
Governance e Responsabilità sociale
ideale si potrebbe pensare ad un modello di governo
dualistico riformato oppure ad un modello monista
con dei consiglieri indipendenti, che anziché essere
azionisti potrebbero essere selezionati in quanto
particolarmente competenti nel rappresentare il
punto di vista degli Stakeholder. La gestione del Codice
Etico nell’approccio CSR sarebbe oggetto degli organi
di governo dell’impresa. Se così ciò implicasse la
rappresentanza di tutti i vari Stakeholder - è chiaro che
il numero di casi effettivamente osservabili di questo
tipo è vicina allo zero - ma potrebbe avvicinarsi ad una
cooperativa sociale o a una cooperativa
multiStakeholder. La mia esperienza di certe imprese
cooperative è che, ad esempio, la commissione soci può
essere composta per avere la rappresentanza oltre che
dei territori, anche degli Stakeholder, e si tratta di un
organismo ordinario della governance d’impresa. Una
volta istituito questo organismo, è verosimile avere anche
un Comitato ad hoc che sia di rappresentanza del
management, assieme ad una rappresentanza più ampia
degli Stakeholder con funzioni di valutazione
dell’attuazione del Codice e di raccomandazione delle
sanzioni ecc. In questo caso, io vedrei l’Organismo di
Sorveglianza subordinato ad un Comitato Etico di questo
organo più ampio. E quindi non penserei affatto ad un
modello di governo in cui abbiamo da una parte il
Consiglio con l’Organo di Sorveglianza e dall’altra un
Comitato etico perché questo significa la separazione
della materia etica dalla struttura di comando
dell’impresa, che non incarna un modello di CSR. Non mi
sentirei inoltre di escludere che questa idea di separare le
due funzioni in realtà sia rifiutata per una ragionevole
preoccupazione di non avere un sistema con due teste
completamente separate, con da una parte l’etica nel
senso di responsabilità sociale e dall’altra della
prevenzione dei reati. Io credo che esista nel mondo
dell’impresa gente che avverte l’esigenza di incastrare un
elemento dentro l’altro, per non moltiplicare le
responsabilità, i compiti, le autorità interne e può darsi
che il fatto che a voi risulti piccola la componente di
governance del Codice nell’approccio CSR possa anche
riflettere una cosa ragionevole, cioè che le due cose non
devono essere separate. Sodalitas, una delle
organizzazioni che si occupano di CSR con sede a Milano,
propone invece la creazione della Commissione Etica che
abbia la funzione di organo consultivo che serve ad
ottenere una rappresentanza degli Stakeholder all’interno
dell’azienda e che valuta le violazioni del Codice Etico e
rimanda per l’irrogazione delle sanzioni agli organi interni
all’azienda. Quello di cui diffiderei di più nell’analisi sono
quelle imprese che non ripensano al disegno organizzativo
ma aggiungono un Comitato ad hoc, perché lo prevede la
legge, senza variazioni sostanziali, solo per dimostrare al
magistrato giudicante che si è fatto qualcosa. Di solito il
magistrato si rende conto che si tratta di specchietti per le
allodole. Un ridisegno organizzativo che incorpora il
modello CSR nelle strutture di governo ordinarie
dell’impresa potrebbe essere l’approccio più serio. Allo
stesso modo perciò io vedrei bene quelli che inseriscono
nella struttura di governo ordinaria il Comitato etico
piuttosto che considerarlo semplicemente un orpello.
Molto interessante è la considerazione di quanti membri
indipendenti di varia natura, non interni diciamo così alla
struttura manageriale, sono coinvolti in questi organi.
Questo potrebbe essere un successivo aspetto da
analizzare. L’idea di base è quella della
complementarità tra diritto e CSR. Non bisogna
contrapporre il tema dell’intervento giuridico con il
discorso della volontarietà dell’autoregolamentazione.
Ma la complementarietà giusta non è dal lato del tema
231. Per sfruttare la complementarietà bisogna partire
da norme abilitanti dal punto di vista del diritto
societario
che,
attraverso
una
forma
di
autoregolamentazione, le imprese possono darsi ad
esempio attraverso un Codice Etico nel senso CSR che
abbia validità di norma interna. Quindi esiste il
problema dell’estensione dei doveri fiduciari degli
amministratori delle società quotate, che in Italia non
c’è ancora, e che pertanto aprirebbe la strada a norme
di autoregolamentazione che diventano cogenti. Un
altro tema rilevante è come inserire la valutazione
della CSR all’interno della valutazione d’impresa, temi
a cavallo tra autodisciplina e qualcosa che deve avere
uno spazio all’interno della disciplina giuridica del
diritto societario. Io condivido la tesi per cui non
dobbiamo riproporre modelli statalisti privi di ratio. È
necessario uno strumento che definisca qual è
l’equilibrio tra Stakeholder e la conseguente funzione
obiettivo dell’impresa, altrimenti il manager non è
accountable. Non ci può essere una discrezionalità
assoluta, per questo è importante l’autodisciplina: uno
ha il diritto di pretendere di essere giudicato alla luce
di questo insieme di impegni e della loro misurabilità.
Ecco che allora è importante la rendicontazione,
perché rende misurabile l’osservanza degli impegni nei
confronti degli Stakeholder rendendo accountable chi
gestisce. È necessario inoltre capire se l’evoluzione
della disciplina di cui si parla sia nel senso di una
nuova specie di “controllo pubblico” o della creazione
di una forma di autonomia privata. Cioè, si va nel
senso di un contrattualismo allargato oppure si va nel
senso di un potere pubblico che impone un interesse?
Questo è un punto cruciale, perché si può profilare il
pericolo di un interventismo discrezionale tipico del
“Tremonti statalista” seconda maniera, oppure, una
forma di autonomia dei soggetti privati, in una cornice
giuridica che abilita una forma nuova di democrazia
economica, che è esattamente l’opposto.
72
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
5.4 I Codici Etici nei sistemi normativi delle
imprese
di Mario Viviani
Questo scritto si basa su di una metafora.
Correntemente, si parla di “corpus normativo” per
intendere una raccolta vasta e coerente di testi
giuridici; è molto evidente – legata alla parola ‘corpo’ un’idea fisica, un’impressione di spazio occupato, di
peso, di volume. Ragionerò dunque del sistema
normativo di un’impresa proprio come se si trattasse
di una costruzione fisica all’interno di un determinato
spazio, provvista di massa e densità, dotata di un
baricentro e di un equilibrio statico più o meno stabile.
L’obiettivo
è
di
trattare
delle
regole
dell’organizzazione - e più in particolare di Codici Etici mettendomi dalla parte di un ipotetico “progettista di
sistemi
normativi”, o di
un “progettista
dell’organizzazione”, oppure di un “responsabile della
governance” considerando tutti questi termini
equivalenti, o quanto meno assai attinenti16.
Tra i molti strumenti normativi di più o meno recente
introduzione i più significativi ed emblematici sono certo i
Codice Etico, veri crocevia tra fattori giuridici, espressioni
della cultura organizzativa, arnesi organizzativi-gestionali.
Mi concentrerò sui Codici per la loro capacità di
rappresentare l’attuale momento di evoluzione delle
imprese, sedotte da forze opposte: da una progressiva
sensibilità verso i fattori sociali (dunque da una maggiore
elasticità, complessità e “morbidezza” delle intenzioni
imprenditoriali), ma anche, a volte, da illusioni ordinative
e ingegneristiche di antico richiamo tayloristico.
Sosterrò che la parte migliore dei Codici (l’utile, il
buono) non è tanto nella loro immediata capacità di
regolare i comportamenti dei soggetti, quanto in ciò
che essi inducono e sedimentano nelle loro coscienze. È
proprio quando termina il loro uso “tecnico” che inizia
a provarsi il loro valore: quando dall’obbligo imposto si
passa a quello scelto, quando i soggetti rimangono soli
a decidere, quando non possono rivolgersi a nessuno
per risolvere i dilemmi piccoli o grandi. È allora che i
Mario Viviani è Amministratore delegato di DTN Consulenza.
16
Su chi sia il progettista, costruttore e manutentore del sistema
normativo si potrebbe ovviamente aprire un ricco dibattito. Nella
concezione che fa da sfondo a questo scritto non si allude tanto a
una figura professionale specifica, quanto al governo dell’impresa,
considerando che la sua funzione è sempre meno quella di compiere
direttamente le scelte operative gestionali, ma di produrre e
adattare il sistema valoriale, che a sua volta informa i
comportamenti dei partecipanti indirizzandoli verso gli scopi
condivisi (che sono la vera radice dello stesso sistema valoriale).
Codici possono avviare, sostenere, orientare la
responsabilità individuale (e dunque quella sociale
dell’impresa). I codici erano apparsi con una certa
baldanza all’inizio degli anni ’90, ma erano poi scivolati
nell’oblio, a differenza dei loro stretti parenti: i Bilanci
Sociali. Recentemente si è visto un ritorno di fiamma.
Il merito principale è di una legge, il D. Lgs 231 del
2001 “sulla responsabilità amministrativa delle
persone giuridiche”, che ne sollecita l’adozione. Si
potrebbe però allora dubitare sulla buona fede delle
imprese: che esse cioè adottino i Codici perché la
legge li prevede, più per convenienza che per vero
convincimento. A caval donato non si guarda in bocca,
si potrebbe dire. Non stiamo a discettare sulle
motivazioni, osserviamo i risultati: un bel numero di
imprese si è dotato di regole che fortificano
l’osservanza della legge, evitando così differenti tipi di
illeciti, con i connessi rischi civili e penali. Tutto questo
è certo un bene, ma non corrisponde sempre a un vero
sviluppo della responsabilità sociale, né a uno sviluppo
dell’efficienza. Si sa: le leggi possono essere rispettate in
modo sostanziale e convinto, ma anche in modo
formalistico, utilitaristico. Il fatto di rispettare la legge è una
sicura premessa alla responsabilità sociale, ma è solo una
premessa. Mi soffermerò così sull’esigenza che i Codici
si integrino col sistema normativo più complessivo,
formato da corpi diversi: leggi, contratti, regolamenti,
disposizioni organizzative, tradizioni dell’impresa e del
suo ambiente. Tenterò di ragionare sull’equilibrio dei
sistemi normativi, che devono possedere un
baricentro, un luogo dove si incrociano e si uniscono
gli interessi imprenditoriali, le dinamiche sociali e i
principi etici che informano i comportamenti. Questo
ruolo di connettore - questa funzione baricentrica - è
ciò che io credo debba caratterizzare i Codici Etici, che
devono dunque essere sostanzialmente connessi con
l’intera gamma delle pratiche che, giorno per giorno,
configurano la specifica Responsabilità Sociale
dell’Impresa. Ciò non significa certo che i codici “figli
della 231” siano per forza solo una specie di
assicurazione contro possibili rischi civili e penali, un
modo un poco ipocrita dell’impresa - dei suoi dirigenti
e amministratori – di “coprirsi le spalle”. È però certo
che la pura esistenza del codice non garantisce che
quell’impresa possieda e manifesti una responsabilità
sociale, che è tessuta con ben altro filo. Né significa
che il fatto di disporre di un Codice aumenti di per sé
l’efficienza e la coerenza dei comportamenti
manageriali.
73
Governance e Responsabilità sociale
Definizioni
Per “sistema normativo” intendo il complesso delle
regole di condotta prescritte a una determinata
comunità umana. Esso può essere costituito da regole
formali, ove esista un apposito e legittimo potere a
emanarle, oppure informali, ove invece non vi sia tale
potere, ma le norme derivino dalle consuetudini o da
patti originari la cui radice si è disciolta nella coscienza
d’ognuno. Non è detto che la forza di una regola
dipenda dalla sua veste formale, o dalla sua origine.
Possono esistere regole tradizionali e non scritte assai
più potenti di quelle emanate da un’autorità
appositamente costituita. Quasi mai i sistemi
normativi sono costituiti interamente da regole
formali oppure – all’opposto – solo da consuetudini.
Sono quasi sempre invece un mix di entrambi i tipi.
Ogni comunità umana è dotata di regole che ne
determinano il funzionamento e l’espressione. A
seconda della natura e dei caratteri della comunità, il
complesso di regole (il sistema normativo) varia
notevolmente. Più la comunità è specializzata
(indirizzata a perseguire uno scopo, o pochi scopi) più
il corpo normativo è definito e specifico. Più una
comunità è ampia e despecializzata, più il sistema
normativo è vasto, plurimo, composto, segmentabile.
Dato che le comunità umane sono sovente integrate
ed interconnesse, succede che i sistemi normativi si
integrino alla pari delle comunità a cui si riferiscono.
Ciò avviene secondo un principio di massima per cui la
comunità più ristretta e specialistica costituisce e
specifica il suo quadro normativo all’interno di quello
(più generale) della comunità più vasta cui appartiene.
Così – per esempio – le norme che regolano la vita di
un comune o di una provincia si formano all’interno di
quelle più generali dello stato; oppure le norme che
riguardano un’impresa – il suo statuto, i suoi
regolamenti, le sue regole organizzative - si
costituiscono nel rispetto della legge dello stato. Lo
stesso vale per le regole informali: i vincoli culturali e
sociali che formano la struttura normativa di una
comunità producono sempre effetti anche sui suoi
segmenti più specifici, all’interno di un’impresa –
sempre per esempio – si dice “buon giorno” o “buona
sera” come fatto di ordinaria cortesia allo stesso modo
in cui ci si comporta tra vicini di casa. Per questi gruppi
sociali vige la stessa regola di buona educazione, che
infatti appartiene alla comunità più larga di cui
entrambi fanno parte. Una cosa è certa: più aumenta
la complessità sociale (cioè le manifestazioni
particolari che si generano all’interno di una comunità
e ne rappresentano il divenire) più il sistema
normativo diviene complesso e articolato. Si possono
indicare i vari e differenti aspetti che devono essere
regolati all’interno di una comunità per permetterne il
funzionamento come ambiti normativi: si tratta degli
aggregati di fenomeni che richiedono specifiche regole
per i comportamenti da tenere in determinate
occorrenze. Tra complessità sociale e ambiti normativi
non c’è totale congruenza, anche se c’è inevitabile
relazione: non è automatico che l’aumento di
complessità comporti immediatamente la produzione
– formale o meno – di regole specifiche; anzi, esiste
sempre una parte del funzionamento sociale che non
è ancora regolata, in quanto nuova, di frontiera.
Tuttavia – dato che le società aperte ed evolutive
tendono a divenire più complesse (il nuovo che si
aggiunge è assai superiore al vecchio che si perde o
che non serve più) – c’è una naturale attenzione a
fornire di regole il nuovo che si presenta. Se fino a
poco tempo fa – per esempio – Internet era una
campo totalmente privo di regole, ora sempre più si
tenta di definire delle norme per il suo funzionamento.
Oltre a specifiche leggi degli stati, sta - per esempio prendendo corpo quella che, con significativo
neologismo, viene indicato come “netiquette”19, cioè
regole di condotta non legalmente vincolanti, ma
considerate dalla comunità specifica (la comunità del
Web) come necessarie. In sostanza, a un certo grado
di sviluppo di una comunità si producono basi
normative di carattere generale. Ciò capita per
sanzionare l’esistenza di una identità comune (o di una
“nuova” identità comune) ed è necessario
sottoscrivere un patto sociale che la definisca. Il caso
classico è quello della promulgazione di una nuova
costituzione in ambito statale, oppure quello della
sottoscrizione di un patto di integrazione o
federazione tra stati, oppure – in scala assai più ridotta
– la costituzione di un’impresa o di un’associazione. Il
carattere generale di queste basi normative ne
garantisce (o facilita) la durata nel tempo: si tratta
infatti di principi “fondanti”, cioè espressione e
rappresentazione diretta di una determinata
sensibilità sociale, o di una esigenza generale. Ho fino
a ora adoperato queste categorie:
 sistema normativo: l’intero complesso delle regole
di condotta prescritte a una comunità;
 base normativa: le norme fondanti, che
definiscono l’identità e il funzionamento basale di
una comunità (si tratta dunque del “nocciolo duro”
del sistema normativo);
 ambiti normativi: particolari gruppi di fenomeni
sociali a cui corrisponde una specifica
regolamentazione;
 complessità sociale: l’insieme (incrementale) delle
occorrenze, dei fenomeni che costituiscono la
società, che si stratificano sopra quelle precedenti.
74
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
Uno schema di riferimento
È possibile descrivere graficamente questi primi spunti
con il disegno n. 1: si tratta di un sistema cartesiano in
cui crescenti livelli di complessità sociale sono messi in
relazione con gli ambiti normativi.
Questi ultimi – disposti sull’asse delle ascisse uno di
seguito all’altro - toccheranno vari aspetti funzionali e
relazionali. Essi si saranno costituiti gradualmente,
man mano se ne è manifestata la necessità e in un
determinato momento si saranno integrati tra di loro,
costituendo la base normativa.
coerente, sufficiente a dar forma all’entità sociale, e
dunque a determinare l’esistenza e le caratteristiche di
quella comunità.
Il punto x sull’asse delle ordinate indica, come si è
detto, un certo livello di complessità sociale e il
momento del riconoscimento di sé da parte della
comunità, che ha portato alla definizione della base
normativa. Essa è ora, necessariamente, “bassa e
larga”, costituita cioè solamente da quei principi e
regole che permettono ai soggetti di riconoscersi, di
fissare
un’identità
collettiva,
di
assumersi
reciprocamente degli obblighi.
I diversi elementi che costituiscono la base normativa
(gli ambiti normativi) saranno quelli strettamente
necessari a rendere riconoscibile e funzionante la
comunità, ma non potranno mai contenere tutte le
possibilità – occorrenze, opportunità, difficoltà - che i
soggetti incontreranno nello sviluppo della loro
relazione.
Per esempio, immaginiamo di trattare di una associazione
sportiva, o di volontariato sociale. Prima i (futuri) membri
si sono trovati d’accordo rispetto a uno o più obiettivi, ma
questo è successo perché – ancor più a monte –
condividevano una certa visione delle cose, un certo
interesse e probabilmente un certo stile di relazione.
Via via, i membri si sono riconosciuti reciprocamente
sempre meglio, individuando con crescente precisione
gli interessi comuni. Avranno infine deciso di sancire
questo reciproco riconoscimento e - a un certo
momento del loro interagire, a un dato livello della
complessità delle loro relazioni (indicato con x sull’asse
delle ordinate) - avranno deciso per la costituzione
formale della loro associazione. Il patto – sotto forma,
per esempio, di atto costitutivo e statuto – è la base
normativa, che contiene e riassume i principali ambiti
normativi necessari alla vita e al funzionamento di
quell’associazione. Questo è certo un esempio piccolo,
ma le cose non sono molto diverse nel caso si tratti
della costituzione di uno stato, di una società
commerciale, di un matrimonio.
In tutti questi casi una decisione con inevitabili
contenuti sociali prende in considerazione una pluralità
di ambiti normativi e li sistema in un corpo unitario e
La base normativa avrà dunque presto la necessità di
essere meglio articolata e specificata, soprattutto se la
comunità che si è costituita manifesterà caratteri di
forte evoluzione. Appariranno nuove esigenze, nuovi
casi che la base normativa generale non aveva preso
in considerazione. Le manifestazioni sociali si
differenzieranno e a ciò dovranno corrispondere
nuove e specifiche regole di relazione. La comunità
cambierà nella sua dinamica e nel suo costrutto, ma
non tanto da perdere la sua identità, manifestata
ancora efficacemente dalla base normativa generale.
Le specificazioni si poggeranno dunque sulla base
normativa generale, ma solo su di una sua porzione
ristretta, “specificamente” ristretta, mentre si
addentreranno
nella
complessità
sociale,
corrispondendo a un determinato e più alto livello
d’ordinata.
Nel disegno n. 2, osserviamo tre differenti corpi
normativi che si dipartono dalla medesima base di tipo
generale. Mettiamo per esempio che si tratti del
Codice della strada (ambito a), del Codice civile
(ambito b) e della Legge per la tutela del risparmio
(ambito c). Ciascuna di queste leggi, nel nostro Paese,
poggia sui principi rappresentati dalla Costituzione, ma
prende in considerazione solamente alcuni dei suoi
argomenti, che sono però sviluppati con grande
approfondimento e corrispondono - sull’asse delle
ordinate - a determinati livelli di complessità sociale.
75
Governance e Responsabilità sociale
Un altro esempio – rappresentabile con lo stesso
disegno - potrebbe essere quello dell’esigenza, arrivati
a un determinato livello di sviluppo delle città e di
complessità urbana, di disporre di regole urbanistiche
e di norme edilizie, oppure, in presenza di un certo
sviluppo del mercato capitalistico, dell’industria e del
mercato finanziario, di regolare le attività di borsa,
assieme o in parallelo alle norme riguardanti la
governance delle società commerciali, eccetera.
Il disegno n. 2 denuncia però,
implicitamente, almeno due problemi:
per
quanto
1.
tra i differenti corpi normativi (figure che hanno
come altezza un determinato grado di complessità
sociale e per base uno specifico ambito normativo) si
possono aprire spazi o “vuoti normativi”, cioè
mancanza di regole nelle eventuali relazioni tra essi.
Potrebbe dunque darsi che tra regole urbanistiche,
norme edilizie e regolamenti di borsa – tanto per
rimanere all’interno dell’ultimo esempio – vi siano
vaghezze o addirittura contraddizioni. Così come
potrebbero manifestare difficoltà di relazione tra
Codice civile e Codice della strada;
2.
più un ambito normativo è specifico e riferito a
un’alta complessità sociale (più è alta e stretta la
figura che rappresenta un determinato corpo
normativo), più la sua stabilità e il suo equilibrio sono
precari; c’è insomma il rischio che il determinato
corpo normativo non sia adeguatamente integrato al
sistema normativo generale (non sufficientemente
“embedded”) e che si presenti dunque come un corpo
relativamente estraneo alla coscienza giuridica – o
semplicemente alla cultura – della comunità.
Questi due fenomeni – possibilità di vuoti normativi e precario
equilibrio dei corpi specialistici, sinteticamente illustrati nel
disegno n. 3 – producono i due fondamentali problemi dei
sistemi normativi, tanto più evidenti quanto più la complessità
sociale si incrementa:
- quello della possibile incoerenza tra le parti
specialistiche che li compongono;
- quello della instabilità dei corpi specialistici, ovvero
della difficoltà del sistema normativo complessivo a
rappresentare efficacemente (“sistematicamente”) la
natura e il funzionamento sociale, ovvero la
complessità sociale.
Perché questi problemi non divengano esiziali, è
fondamentale che il processo normativo sia concepito
come una ragionevole stratificazione, con l’obiettivo
dunque che le specificazioni normative siano
fortemente integrate (“agganciate”) con la loro base e
che il passaggio tra un livello normativo e l’altro
avvenga con gradualità.
76
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
Il sistema normativo dovrebbe insomma svilupparsi
con una progressione di corpi fortemente connessi,
con successive basi d’appoggio solide e vaste, in modo
da garantire sempre stabilità e congiunzione, proprio
come si allude nel disegno n. 4, dove si osserva una
forma vagamente piramidale di progressive basi
normative che seguono lo sviluppo della complessità
sociale e che formano un’intelaiatura connettiva che
mette in relazione tra loro e puntella i corpi normativi
specialistici.
È questo – a mio avviso – il compito da assegnare nelle
imprese ai Codici Etici.
Diviene fondamentale insomma che la base normativa
generale sia periodicamente aggiornata e adeguata al
livello crescente di complessità. Questo sviluppo non
eliminerà mai l’esigenza di corpi specialistici di regole,
ma farà in maniera che essi non si sviluppino in
solitudine, isolati gli uni dagli altri, pericolosamente
introdotti nella complessità pur poggiando su
ristrettissime basi.
I sistemi normativi delle imprese
Possiamo ora passare da questi concetti generali a un
ragionamento riguardante più direttamente le
imprese. L’impresa ha preso vita all’interno di una
determinata comunità e ne condivide la base
normativa generale. Questa base normativa serve
egregiamente le esigenze dell’impresa per l’avvio della
sua vita, ma non è sufficiente per il suo sviluppo.
Conviene esemplificare subito.
Se trattiamo di una impresa di costruzioni (disegno n. 5) si
avranno diverse componenti normative che si integrano e
si specificano gradualmente. I livelli 1 e 2 costituiscono la
base di tipo generale, nel nostro caso rappresentata dalla
Costituzione e dal Codice civile (che definiscono in
generale la legittimità dell’iniziativa economica, il ruolo e il
costrutto dell’impresa, i caratteri della forma istituzionale
“società”).
Anche il blocco normativo superiore (nel disegno si allude
alle norme sugli appalti, alle norme ambientali e a quelle
riguardanti la sicurezza sul lavoro, ma ovviamente i corpi
normativi che entrano nel gioco sono molti di più) è di
tipo molto generale e di derivazione legislativa. A seconda
del luogo in cui l’impresa svilupperà la sua attività
entreranno poi nel gioco le leggi e i regolamenti locali, che
avranno certamente significativi effetti sulla sua azione.
Tutto ciò costituisce il più o meno solido e coerente
piedestallo su cui si sviluppa poi l’attività normativa che si
potrebbe definire “specifica e interna”.
Queste norme specifiche e interne entrano direttamente
nei particolari di “quella impresa”, o di quella categoria di
imprese. Anche queste norme possono avere varia natura:
ve ne saranno di formali e impegnative nei confronti dei
terzi (lo statuto, i contratti), di formali ma valide
unicamente per i partecipanti (regolamenti, procedure,
norme di condotta, disposizioni organizzative), infine di
informali e frutto di consuetudine (si dice, in generale, la
“cultura organizzativa”).
Il ragionamento è volutamente semplificato ma è
sufficiente a descrivere le dinamiche fondamentali:
 la base normativa è destinata ad articolarsi e
differenziarsi nel tempo, arriverà però il momento
in cui la stessa norma giuridica (e valida erga
omnes) non sarà più sufficiente a indirizzare i
comportamenti dell’impresa;
 appariranno infatti delle specificità riguardanti
proprio “quella” impresa a cui le regole generali
non potranno più dare risposta, appariranno dei
fenomeni complessi e particolari che dovranno
essere interpretati e regolati solo da “quella”
impresa;
 a regolare questi sempre nuovi e specifici ambiti di
relazione vi saranno prima i contratti – che hanno
ancora un forte carattere di generalità – poi man
mano appariranno regole ancor più particolari e
minuziose che riguardano proprio “quella” impresa
o – al suo interno – gruppi ancor più ristetti di
soggetti.
Contratti, regole interne e ambiti discrezionali del
management
L’attività di diretta produzione normativa dell’impresa
inizia con lo statuto e si sviluppa con i contratti. A
differenza degli strati normativi inferiori (la base
normativa) i contratti non sono regole generali (anche
se spesso a esse si richiamano), ma impegnano
specifici soggetti relativamente ad argomenti specifici.
I contratti sono tuttavia equiparati alle leggi, non solo
perché da esse derivano e sono tutelati, ma perché si
tratta di patti che impegnano e coinvolgono una
pluralità di interlocutori ed hanno dunque sanzione
sociale, tutela di legge.
Dai contratti “in su” si apre il vero e proprio capitolo
77
Governance e Responsabilità sociale
dei sistemi normativi interni. I sistemi normativi interni
possono essere costituiti da corpi assai variegati e di
differente costrutto formale: assimilati ai contratti in
alcuni casi, scritti, non scritti, facilmente modificabili,
sostanzialmente rigidi, di matrice fortemente
razionale, di derivazione più generalmente culturale,
dovuti a una specifica tradizione organizzativa,
mutuati dall’ambiente di riferimento, ecc.
Si tratta però sempre di istituti (convenzioni, regolamenti,
apparati semantici, procedure, liturgie, eccetera) che, nei
fatti, strutturano e indirizzano i comportamenti verso esiti
“ritenuti giusti”, in grado di mantenere l’orientamento degli
avvenimenti
verso
gli
scopi
fondamentali
dell’organizzazione.
Nel disegno n. 6 questi concetti sono simboleggiati
molto semplicemente: sull’asse delle ordinate tra il
punto 0 e il punto 0 si manifestano i tratti generali e
basali
del
sistema
normativo,
costituito
principalmente dalle leggi e dai contratti. La
complessità sociale – che pure si eleva rispetto al
fatidico (e sostanzialmente virtuale) punto 0 – è
relativamente bassa, almeno se confrontata con le
particolarità dell’organizzazione e con i suoi bisogni
normativi.
Dal punto 01 in avanti – dove inizia la normazione
interna - si entra in ambiti più particolari e specifici,
che devono essere affrontati in modo sempre più
intensamente connesso con le particolarità
dell’organizzazione. Dal punto 01 in avanti la base
normativa si restringe, proprio perché ora si tratta
squisitamente di “quella” impresa.
Il complesso delle norme generali (il più delle volte
formali) che occupano lo spazio tra 0 e 01 non può
coprire tutte le esigenze normative delle imprese che
– col passare del tempo e con la stratificazione delle
loro esperienze – hanno l’esigenza di ulteriori e più
mirati criteri per indirizzare il comportamento dei
soggetti operanti nel suo seno.
Questo
concetto
merita
un
minimo
di
approfondimento.
Uno degli effetti più evidenti dell’evoluzione
tecnologica e sociale sul mondo delle imprese è
l’aumento del potere discrezionale (e dunque della
responsabilità) dei soggetti dell’organizzazione. Le
moltissime informazioni disponibili, la rapidità di
movimento, le reti della comunicazione, hanno di
molto aumentato la gamma delle alternative
disponibili per coloro che devono compiere le scelte.
Sono parimenti aumentati i dubbi e i dilemmi
conseguenti. A queste tendenze molto generali si
aggiungono poi altri due fondamentali fattori:
 l’economia dei servizi: come è noto, nei paesi più
sviluppati le attività terziarie concorrono alla
produzione globale di valore in modo
preponderante. Si tratta di attività nelle quali – a
differenza di ciò che avviene nell’industria
tradizionale – il processo produttivo si realizza
all’interno di una relazione (necessaria) tra
fornitore e cliente. Ciò fa aumentare le possibili
alternative, di pari passo con la personalizzazione
del rapporto;
 l’impresa piatta: l’esigenza per l’impresa di
accorciare i tempi di adattamento rispetto alle
mutazioni del mercato comporta una necessaria
maggiore responsabilità e discrezionalità della
front-line, che – in carenza di specifici presidi potrebbe ridurre le coerenze nei comportamenti
organizzativi dei soggetti dotati di discrezionalità,
tutti parimenti autorizzati a compiere scelte
autonome.
Tutto ciò comporta l’esigenza di garantire congruenza
ai comportamenti organizzativi, in modo che le
maggiori autonomie siano compensate da una più
forte condivisione degli obiettivi finali e da un più
riconoscibile stile unitario dell’impresa, soprattutto
rappresentato dai comportamenti manageriali. Non si
tratta di cosa facile, né perseguibile con i tradizionali
strumenti organizzativi quali le procedure, le
disposizioni, gli standard, sia perché gli strumenti
tradizionali contrastano con il costante bisogno di
accorciare i tempi, sia per ragioni ancora più connesse
all’evoluzione delle imprese e alla modifica dei loro
confini.
Infatti, le attività standardizzabili – dunque normabili
“una volta per tutte” – tendono a essere sempre più
regolate con contratti d’esternalizzazione. Se una
attività deve portare a un esito specifico è molto più
conveniente realizzarla attraverso contratti che
definiscano in modo certo l’output atteso. I processi
standardizzabili non possono essere più considerati il
vero e proprio cuore dell’impresa, che è costituito
invece proprio dalla sua stessa variabilità, dalla sua
indeterminatezza, dalla sua capacità di trattare
creativamente
e
efficacemente
proprio
78
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
l’indeterminabile. Sono questi ambiti incerti che
devono essere governati non tanto da procedure
(l’indeterminabile per definizione non è sottoponibile
a procedure), ma da un complesso di principi
d’orientamento riferiti ai fini, all’etica, al patto sociale
che presidia l’esistenza dell’organizzazione.
Il cuore dell’organizzazione è dunque costituito dai suoi
valori di riferimento e dalla sua capacità di trasferirli
efficacemente
nelle
differenti
fattispecie
non
predeterminabili. Il cuore dell’organizzazione è nella sua
capacità di produrre configurazioni sempre nuove del suo
core-business, legate tra di esse dal sistema valoriale e
normativo, che dunque rappresenta il nucleo più forte della
formula imprenditoriale. Il compito del manager è di
costruire, nelle varie fattispecie con cui egli si dovrà
misurare, delle configurazioni imprenditorialmente efficaci
del nucleo valoriale e normativo che rappresenta la
specificità dell’impresa. Rimangono dunque all’interno delle
organizzazioni - rappresentandone il cuore - le attività e le
competenze non fungibili, necessariamente connesse con
amplissimi margini di discrezionalità. Tali “competenze non
fungibili” - a loro volta e proprio perché tali - impongono
sistemi di temperamento, ovvero di stabile richiamo alla
missione condivisa, o alle intenzioni originarie. Tutti questi
sono argomenti che costituiscono una parte delle
ragioni d’esistenza dei Codici Etici, ma solo una parte.
Contemporaneamente ai fenomeni appena accennati
ne è infatti apparso un altro, pervasivo e incerto, ma
destinato gradualmente a precisarsi e a crescere. Si
tratta del grande processo-problema della
responsabilità sociale, cioè dell’assunzione (o della
scoperta) di “nuovi” obblighi per l’impresa, dovuti ai
maggiori condizionamenti esterni, a loro volta prodotti
dall’aumento della complessità sociale. Il manager e
l’amministratore dell’impresa si trovano dunque di fronte a
questi elementi che stanno rivoluzionando le sue competenze
e responsabilità rispetto ad appena un paio di decenni fa:
 sviluppo tecnologico: comunicazione, velocità,
movimento, variabilità,
 evoluzione verso l’economia terziaria;
 modifiche nella forma delle imprese appiattimento delle organizzazioni, aumento della
responsabilità (e discrezionalità) delle posizioni di
front-line;
 esternalizzazione delle funzioni fungibili e gestibili
attraverso contratti;
 nascita e crescita della Rsi.
Anche solo accennando a questi argomenti appare
evidente che i sistemi di regole debbono adattatasi a
queste novità, che però è pleonastico indicare solo come
“novità”, perché in effetti si tratta di una vera e propria
rivoluzione, un vero e proprio cambiamento di natura
dell’impresa, e dunque del suo sistema normativo.
Ed è proprio a questo punto che ha iniziato a svilupparsi la
pratica dei Codici Etici: apparentemente soltanto una nuova
categoria di regolamenti, ma in effetti il sintomo, non
sempre colto appieno, di questa rivoluzione in corso.
Il ruolo dei Codici Etici nel sistema normativo
La peculiarità dei Codici Etici rispetto agli altri tipi di
regolamenti è la loro forte caratterizzazione etico-morale, il
cui rilievo supera di gran lunga quello – pur esistente - di
tipo funzionale o organizzativo. Qualunque sia il momento
della loro apparizione, i Codici manifestano sempre una
natura quasi costituzionale. Il loro costrutto (contenuti,
linguaggio, ispirazione) richiama spesso la “base normativa
generale” e la loro funzione ha rilevanti caratteri fondativi o
ri-fondativi. I Codici infatti di solito rappresentano in modo
sintetico e unitario il complesso di intenzioni, di riferimenti
etici, di principi razionali che inquadrano l’esistenza
dell’organizzazione e ne spiegano il senso.
Come si è detto, spesso i Codici prendono vita dopo altri
apparati di norme – regolamenti, procedure organizzative,
standard di qualità – proprio perché tali apparati costituiti
in tempi diversi possono manifestare una certa
disomogeneità, oppure perché non sono più sufficienti
a fornire gli indirizzi necessari alla maggior
complessità. In questo caso i Codici servono come
revisione e completamento del sistema normativo
esistente, o come rilettura e coordinamento tra le sue
varie parti. I codici rappresentano dunque
contemporaneamente la parte estrema del sistema
valoriale e la parte iniziale del sistema normativo più
specifico dell’impresa (regolamenti, standard di
servizio, manuali di qualità e organizzativi, protocolli
ed altro). A questo allude il disegno n. 7.
Infine, l’impresa viene normalmente concepita come
un unico soggetto dotato di propria responsabilità, ma
si tratta di una semplificazione. Dentro l’impresa ci
sono infatti i soggetti umani ed è proprio a loro che i
Codici si rivolgono. I Codici trattano sempre di
comportamenti, costituendo la base valoriale in grado
di orientare quelli non definibili a monte – dunque
normabili - per la loro particolare natura, specificità,
mutevolezza; per orientare dunque i comportamenti
della nuova configurazione di quell’impresa “incerta”,
a cui si è accennato al precedente paragrafo.
Ecco la più importante funzione dei Codici: rendere
sostenibile - per i soggetti che operano nell’impresa –
la variabilità e l’indeterminatezza oggi così crescenti e
pervasive. Questo ambito “non normabile” in modo
preventivo è quello della responsabilità individuale.
79
Governance e Responsabilità sociale
Codici Etici, responsabilità, fiducia
In questo ultimo paragrafo tenterò di chiudere il
cerchio dei rapporti tra Codici Etici, sistema normativo
e responsabilità individuale, argomentando sul fatto
che proprio lo sviluppo della responsabilità individuale
è lo scopo elettivo dei Codici Etici.
Come si è già detto, esistono fatalmente nelle imprese
delle aree di relazione sociale non normate o non
ancora normate. Questo spazio si espande
costantemente per effetto della complessità
crescente, come se i confini si allargassero man mano,
toccando zone mai esplorate. Non è affatto detto che
in questi spazi debba valere la discrezionalità assoluta,
ove ognuno possa fare ciò che vuole. Esisterà sempre
una parte delle relazioni sociali non ancora normata e
dunque la questione diventa: è possibile rendere
vivibile, ordinato, produttivo, “etico”, questo spazio
nuovo e crescente, o ci dobbiamo rassegnare a poter
regolare unicamente il campo conosciuto, già
processato da valutazioni, analisi, patti e convenzioni?
Dobbiamo richiuderci nel fortino munito della regola
formale o possiamo pensare di poter inoltrarci nel
terreno ancora sconosciuto con una bussola efficace?
La mia risposta è – come si sarà già capito – ma certo
che possiamo inoltrarci: un campo non ancora
normato è certamente marcato dalla discrezionalità
dei soggetti, ma ciò non significa che esso debba
essere proprio privo di regole. Significa invece che è
quella stessa discrezionalità che deve corrispondere a
una regola. La parte non ancora normata (generata
dalla complessità) deve essere affidata alla
responsabilità dei soggetti e “civilizzata” dal carattere
fiduciario delle relazioni sociali. Tale carattere
fiduciario delle relazioni deve essere generato da basi
normative generali, poi da ulteriori regolamentazioni
specialistiche e infine da impegni liberamente assunti
dai soggetti e nutriti da principi di interpretazione e
comportamento rappresentati – ecco il punto – dai
Codici Etici. In sostanza deve esistere una progressione
di ruolo degli strumenti normativi:
 alla base del sistema normativo devono esistere le
leggi, i contratti, i regolamenti. Essi rappresentano
il livello minimo su cui si costruisce l’identità delle
organizzazioni e su cui si sviluppano le loro
fondamentali manifestazioni sociali, interne ed
esterne;
 un livello ulteriore di regolamentazione è costituito
dai Codici Etici che rappresentano da un lato
l’aggiornamento delle basi normative richiesto
dalla complessità e dall’altro lato il puntello su cui
si può sviluppare la responsabilità degli attori.
 il terzo e ultimo livello di questo sistema è
rappresentato proprio dalla responsabilità dei
soggetti, che si nutre dei precedenti livelli. La
responsabilità, in questa accezione, è anch’essa
una modalità di normazione, soprattutto ove essa
si manifesti in modo relazionale - cioè dialettico e
negoziale - tra i soggetti, generando forme di
relazione pattuite e ripetibili;
 esiste infine un quarto livello, ed è quello che
apparentemente potrebbe apparire privo di
specifiche forme di regolazione, che è quello della
fiducia. Si deve intendere la fiducia reciproca dei
soggetti come un elemento di regolazione, dato
che intendiamo la fiducia come “ragionevole attesa
che gli attori facciano la propria parte”, ovvero
come “affidamento di proprie risorse ad altri nella
ragionevole attesa che esse saranno impiegate con
maggior mutuo vantaggio”. Certo, il livello
normativo della fiducia è difficilmente indicabile
come vero e proprio “campo normato”, dato che
non è definibile a priori, ma si manifesta
unicamente alla prova dei fatti. Eppure è
nell’esperienza di noi tutti l’aver constatato quanto
la fiducia reciproca possa in diversi casi apparire
come l’unica regola efficace a determinare una
certa configurazione dei comportamenti sociali.
Il disegno n. 8 sintetizza il concetto: i differenti corpi
normativi si sistemano progressivamente, inoltrandosi
nella complessità sociale. Al vertice del sistema si
collocano rispettivamente la responsabilità degli attori e le
relazioni fiduciarie che ne sono il prodotto. L’esito
progressivo del sistema normativo è così di costituire un
ambiente sociale contrassegnato dalla fiducia (reciproca)
degli attori. Si tratta dunque anche in questo caso di un
ambito anch’esso normato, anche se non in modo
formale: ciò che lo rende tale è la fiducia.
Consideriamo ora i medesimi argomenti secondo
criteri più analitici. I sistemi normativi possono
derivare da due concezioni assai differenti, che – in via
allusiva – chiamerò “a direzione discendente” e “a
direzione ascendente”:
1. quelli “a direzione discendente” funzionano come
una grande coperta normativa, una struttura
adeguatamente articolata che “ricopre” tutte le
80
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
possibilità, i casi e le occorrenze, determinandone
a priori le possibili configurazioni;
2. si tratterà invece di un sistema normativo “a
direzione ascendente” quando il funzionamento è
esattamente opposto e il sistema si interpreta
come una base, una progressiva costruzione che
“sostiene” le scelte, che si articola nei vari corpi
normativi che affrontano fattispecie ed
occorrenze, ma che soprattutto è in grado di
manifestarsi nel vasto campo dell’imprevisto o del
non definibile, che – in altre parole - funge da
sostegno o piedestallo alla responsabilità
individuale.
Il fatto che un sistema normativo sia a direzione
ascendente o discendente non è immediatamente
svelato dalla sua configurazione. Dunque non lo
capiamo semplicemente osservando la sua immagine
statica, di quali documenti è fatto, di quali tradizioni,
di quali convenzioni, di quali supporti materiali. Lo
capiamo solo osservandolo in funzione.
I sistemi normativi “a direzione discendente”
richiamano il classico comportamento burocratico: la
norma deve trattare tutte le fattispecie e dunque tutte
le possibilità in modo esaustivo. Tutto deve essere
previsto e regolato e ciò che non è esplicitamente
normato lo deve essere per assimilazione (dunque in
via giurisprudenziale o dottrinaria), la qual cosa
prevede la presenza di interpreti accreditati: giudici,
esperti, specifiche magistrature. Si tratta di una
concezione in fondo velleitaria, dato che è impossibile
operare sempre per assimilazione, proprio perché la
situazione sociale è in continuo cambiamento e si
manifesta in forme non solo nuove, ma spesso non
riferibili al paradigma precedente. L’esito probabile
sarà dunque di rallentare l’evoluzione sociale,
addirittura di contrastarla, proprio per la forzosa
stabilità del paradigma di riferimento. L’altra modalità
– quella “a direzione ascendente” – parte invece
dall’assunto che i vari corpi normativi – formali o
informali che siano – devono mirare a orientare,
definire, sviluppare la responsabilità degli attori, non
sostituendosi al loro discernimento, ma costituendone
gli assunti principali. Il concetto da cui si muove questa
impostazione normativa è che in una società in
evoluzione deve esistere un costante aggiornamento
delle basi normative.
La base normativa deve corrispondere all’evoluzione
sociale (se possibile anticiparla) e le trattazioni
specifiche devono solamente esplicitare questa
evoluzione, non essendo in grado – per la loro natura
– di interpretarla compiutamente. Ecco dunque il
ruolo dei Codici Etici nelle imprese: essi non hanno
solamente una funzione normativa diretta o specifica,
anzi: il loro principale ruolo è di tipo generativo e
basale, cioè di influsso – il maggiore possibile – sullo
spazio discrezionale dei soggetti, proporzionalmente
alla responsabilità di cui dispongono.
Ogni soggetto sociale, nella scelta dei comportamenti,
tiene inevitabilmente conto di due aggregati di variabili: il
sistema normativo e il contesto sociale, con la sua
evoluzione. In altre parole deve collegare le norme
esistenti ai casi sociali in cui è coinvolto. Se il grado di
complessità sociale è basso il sistema normativo sarà ben
in grado di fornire tutti gli indirizzi per i comportamenti
dei soggetti, se il grado di complessità è alto il sistema non
sarà in grado di regolare le manifestazioni dei livelli più
avanzati di complessità. L’influsso della sua base
normativa sarà gradualmente più debole man mano ci si
sposterà in alto nel sistema cartesiano costituito dagli
“ambiti normati” e dalla “complessità sociale”.
Il sistema normativo delle imprese (e delle organizzazioni
in genere) man mano ci si addentra nella complessità
sociale è necessariamente meno definito. Appaiono allora
corpi specialistici di norme che si addentrano come
avanguardie nell’area inesplorata della complessità.
Questi corpi possiedono una base d’appoggio ristretta e
sono solitamente poco collegati tra di loro, con inevitabili
vuoti normativi tra un corpo e l’altro, e a volte con rischi di
sovrapposizioni e conflitti.
A ciò si alludeva già nel disegno n. 3, dove i corpi
normativi specialistici si alzavano come stalagmiti dalla
base normativa comune all’interno dell’area non
normata. Gli spazi vuoti tra un corpo e l’altro significano le
molte possibilità di azioni, transazioni e scelte prive di
regole specifiche. Ci si dovrà dunque affidare
all’assimilazione o – assai più probabilmente –
all’autonoma responsabilità dei soggetti. Nel disegno n. 3
le prospettive di stabilità dei corpi normativi che si
dipartono dalla base comune appaiono quantomeno
incerte. Il loro appoggio è ristretto, sostenendo un esile
corpo che si inoltra nella complessità sociale.
81
Governance e Responsabilità sociale
Risulta altrettanto evidente l’isolamento tra i corpi
specialistici: tra un corpo e l’altro vi possono essere infatti
dei rilevanti vuoti, con i rischi a cui si è già accennato. Un
primo indirizzo generale per il progettista e il manutentore
del sistema normativo è dunque quello di costruirlo e
plasmarlo in modo che le sue successive espressioni (i
successivi corpi che nasceranno e si svilupperanno nel
tempo) siano il più possibile promananti in modo graduale
dalla base normativa generale. Ciò significa che le
normazioni progressive devono essere ben ancorate
(“distese”) alla base generale, in modo che la costruzione
normativa sia solida. A questo si alludeva anche nel disegno
n. 8, in cui le successive forme normative si sviluppavano
dalla base con una modalità “a piramide”.
Ci si deve dunque domandare se la specifica regola,
norma o dispositivo organizzativo siano veramente
“ben saldi” sulla base di tipo generale, senza vuoti tra
essi, senza sovrapposizioni contrastanti. Ovviamente
questo criterio comporta anche la verifica se la base
normativa sia adatta a sostenere le progressive
costruzioni specialistiche. Come dire insomma che la
produzione di norme sempre più introdotte nella
complessità sociale dovrebbe sollecitare il senso critico
relativamente al sistema normativo di cui si dispone.
Per quanto l’azione del progettista e manutentore del
sistema normativo sia efficace, esisteranno tuttavia
degli inevitabili vuoti normativi, dovuti da un lato al
fatto che la norma non corrisponde mai appieno alla
complessità sociale e dall’altro al fatto che trattando
di fattispecie sempre più “fini”, i complessi normativi
tendono ad assottigliarsi, in proporzione appunto al
loro specialismo. Rimangono insomma delle aree
necessariamente non normate, a cui si allude, nel
disegno n. 8, con l’area tratteggiata. C’è dunque una
inevitabile area della discrezionalità degli attori, in cui si
deve esprimere la responsabilità dei soggetti.
Un “vero” sistema normativo non dovrebbe dunque
tendere illusoriamente a trattare tutte le fattispecie
possibili di relazione tra soggetti, ma a produrre una più
alta possibilità di congruenza tra corpi normativi diversi e
dunque una maggiore possibilità di integrazione e
sviluppo tra comportamenti di attori diversi. Chiameremo
generalmente quest’area sociale, non specificamente
normata, ma ispirata da sistemi normativi diversi,
“fiducia” o “area della fiducia”.
Si deve intendere con essa la presunzione
generalizzata che i diversi attori - sulla base del
sistema normativo generale, dei corpi normativi
specifici e sulla base della rispettiva responsabilità
istituzionale e individuale - si comporteranno in ogni
contingenza secondo un criterio etico condiviso ed
esplicito (ecco il codice) o che – in altri termini –
“facciano in ogni occorrenza la propria parte”.
82
Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia
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