RU-486 (20.10.09) - Centro Cattolico di Bioetica

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Si protraggono in questi giorni le polemiche che da sempre hanno accompagnato la commercializzazione
della pillola abortiva RU-486. Approdata nel 2005 anche nel nostro paese, ha suscitato un acceso dibattito
che ha coinvolto sia gli addetti ai lavori sia l’opinione pubblica. L’ultimo atto di questa battaglia è di queste
ultime ore. L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha formalizzato quanto già deciso il 30 luglio 2009, dando il
via libera alla sua commercializzazione. L’aborto chimico è stato introdotto come facilitazione del metodo
chirurgico e consiste nella somministrazione di un prodotto a base di mifepristone, un potente antiormone
che interrompe l'annidamento dell'embrione nell'utero. Trascorsi tre giorni, si somministra una seconda
sostanza (misoprostol) che induce le contrazioni uterine e provoca l'espulsione dell'embrione. Tali sostanze,
di là dalle mistificazioni linguistiche, non possono essere definiti farmaci; non servono, infatti, a curare una
patologia, ma hanno lo scopo di distruggere la vita. Come già espresso in un comunicato congiunto, firmato
dall’Ufficio per le Comunicazioni Sociali dell’Arcivescovo e dalle diverse realtà cattoliche della Diocesi, la
nostra posizione rimane immutata. In primis, non convincono le verifiche scientifiche e tecniche effettuate
dalla casa farmaceutica che produce il mifepristone e protrattesi per oltre 700 giorni, come neanche le
molte restrizioni formali imposte al suo utilizzo. Sono, infatti, ampiamente documentate le già 29 morti
causate dalla pillola RU-486 e i 637 casi nei quali si sono verificati significativi effetti collaterali, quali
infezioni ed emorragie. Inoltre, l’Aifa prevede, in linea con la legge 194, la somministrazione della pillola
solo in ospedale, sotto stretto monitoraggio, entro e non oltre la settima settimana di gestazione.
Demanda, però, alle singole Regioni le disposizioni per il suo utilizzo. Ciò costituisce un serio problema, in
quanto, da un lato vi sono coloro che ritengono indispensabile ricoverare la donna fino alla fine del
processo abortivo e dall’altro, coloro che propendono per un uso più limitato della degenza riducendola ad
un semplice day hospital. È ovvio – scrive Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato
Nazionale della Bioetica – che l’ospedale non è un carcere e se la donna chiede di essere dimessa nessuno
la può fermare. Il rischio di aborto a domicilio permane ed in tal modo vengono messi in discussione gli
articoli 8 e 15 della legge 194/1978 che prevedono la totale ospedalizzazione per le pratiche abortive. Viene
il sospetto che dietro la scelta dell’aborto chimico vi siano chiare volontà allocative delle risorse volte alla
riduzione della spesa sanitaria. Un aborto chirurgico costa in media 2000 euro mentre una pillola ne costa
circa 100. In tale direzione non sono pochi coloro che vorrebbero addirittura sganciare questa forma
d’aborto dalle strutture ospedaliere, rendendola completamente domiciliare e riducendo in tal modo
ulteriormente i costi, ma lasciando sempre più drammaticamente la donna sola con il “suo” aborto. Di
fronte a tali posizioni è doveroso, come cristiani, porre un fermo rifiuto che per gli operatori sanitari si può
e si deve concretizzare nell’obiezione di coscienza. La recente Istruzione Vaticana Dignitas Personae
ribadisce quanto già dichiarato dall’Evangelium vitae: «l'aborto procurato è l'uccisione deliberata e diretta,
comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il
concepimento e la nascita» (EV, 58). L’atto abortivo, infatti, comunque sia posto, diventa una strada
apparentemente facile, ma di fatto impervia e dannosa che mina profondamente la dignità della donna,
della coppia e della società in toto, non favorendo al contempo una corretta educazione alla cultura della
vita. Ne è prova la situazione della Francia ove l’RU-486 è in uso dal 1988. Si assiste in questa Nazione ad un
progressivo aumento e banalizzazione dell’aborto che ha raggiunto la ragguardevole cifra di circa 200mila
(uno ogni tre nascite) e dei quali il 30% è chimico. Appare quindi fuori luogo l’entusiasmo di chi ritiene che
la commercializzazione dell’RU-486 sia una vittoria. Non sono fugati i dubbi circa i rischi per la salute delle
donne ed anche il pieno rispetto della legge 194 appare problematico. Non solo è infranta l’etica della vita
con l’imposizione di “forcipe chimico” che distrugge quell’embrione che a suo tempo fummo tutti noi, ma
anche la legge volendo unicamente soddisfare le regole di mercato, perseguendo falsi miti di libertà ed
alimentando in realtà una cultura di morte.
Enrico Larghero
Giuseppe Zeppegno
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