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IMMAGINI FEMMINILI NELLA FOTOGRAFIA DI MODA
La nostra società è invasa dalle immagini. In un famoso saggio degli anni
Ottanta Simulacri e simulazioni Baudrillard riflette sulla proliferazione delle
immagini nel capitalismo avanzato, sull’espansione delle merci e sul costante progredire delle tecnologie di visualizzazione e simulazione. Egli offre una descrizione più precisa del nostro modo di valutare, sul piano culturale, la relazione tra
immagine e realtà e, in proposito, cita il racconto di Borges in cui i cartografi di
un potente impero tracciano una mappa così dettagliata da riprodurre esattamente il territorio dell’impero, una mappa che poi si consuma e si disintegra, anticipando simbolicamente il declino dell’impero che rappresenta in modo perfetto.
Oggi, afferma Baudrillard, il racconto potrebbe essere capovolto: non è più il territorio a fornire il modello per la mappa, ma è la mappa a definire il territorio ed è
proprio il territorio «a disintegrarsi e a marcire lentamente sulla mappa». Più
avanti afferma che ciò che oggi è andato perduto è precisamente la distinzione tra
il territorio e la sua mappa, tra realtà ed apparenza che continuamente si mescolano in una specie di melma che Baudrillard chiama «iperrealtà». Si tratta di una
sfera in cui le simulazioni, cioè delle visualizzazioni senza un preciso riferimento
alla realtà, si mischiano alla vita reale in modo tale che gli individui rinunciano a
distinguere tra i vari livelli e così facendo contribuiscono alla loro confusione.
Al di là di questa visione un po’ apocalittica di Baudrillard, che però mette a
fuoco alcuni tratti caratteristici della postmodernità, è ancora ovviamente possibile ricostruire la genesi delle immagini trattandole come nulla più che oggetti culturali che esistono solo in virtù dell’azione creatrice di individui. Come ci insegna
molto bene la semiotica, le immagini sono in definitiva dei testi, cioè dei portatori
di messaggi che viaggiano nel tessuto sociale, emergendo da qualche parte per
diffondersi poi in una pluralità di modi e per raggiungere diversi obiettivi.
I - IMMAGINI DI MODA E IDENTITÀ
Come molta della comunicazione prodotta nella società di massa, e certo
come la maggioranza dei comunicati pubblicitari, anche le immagini/testi della
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pubblicità di moda, su cui questo contributo intende concentrarsi, quando ci si
presentano nella loro immediatezza, sono messaggi «in cerca d’autore»; quando ci
guardano attraenti dalle pagine delle riviste o dai cartelloni sparsi per le città,
mostrano inequivocabilmente la loro appartenenza ad un proprietario (il cui
nome e logo aziendale di solito campeggia ai margini dell’immagine), ma poco o
nulla ci dicono sul loro autore, su colui o colei che quell’immagine l’ha avuta
almeno parzialmente in testa prima del trasferimento su carta patinata, che ha
concepito «l’idea» di quel messaggio, dando poi inizio anche al procedimento per
realizzarla.
Naturalmente la nostra ingenuità non arriva a concepire la produzione delle
pubblicità come un processo simile alla produzione di un’opera d’arte, ad esempio, un quadro. Siamo infatti ben consapevoli che si tratta di un’operazione commerciale in cui collaborano e si intersecano varie competenze e sensibilità, accomunate però dall’esigenza di soddisfare un cliente, in questo caso l’azienda titolare del marchio. In altre parole chi lavora nella pubblicità di qualsiasi tipo, anche
quelli che ricoprono i ruoli più «creativi» non si trovano mai a inventare da zero, a
comporre immagini libere da qualsiasi vincolo e slegate da qualsiasi imperativo di
contestualizzazione. In più, le immagini di moda costituiscono da un certo punto
di vista degli ipertesti, in quanto oggetti culturali che hanno per tema altri oggetti
culturali: a volte un prodotto-moda specifico, a volte un brand, più spesso entrambi. Il fatto di «contenere» incorporati altri oggetti culturali portatori a loro volta
di significato costituisce una caratteristica saliente delle immagini di moda, un
tratto che può essere limite o risorsa, ma che, certo, rappresenta un punto di riferimento del processo creativo della campagna. Come in settori contigui, ad esempio il design e l’auto, le nuove immagini vanno create tenendo conto della storia e
delle caratteristiche dell’azienda o del brand; a differenza dei prodotti di quei settori però le immagini di moda sembrano essere ancora più «delicate» perché,
come è stato ampiamente dimostrato da studi svolti soprattutto in ambito psicologico, esse divengono, perlomeno per il pubblico femminile, un importante punto
di riferimento per la costruzione della propria immagine e di un’importante parte
del proprio self.
Si può ipotizzare che questo accada per il carattere peculiare dell’oggetto
vestito che, rispetto all’auto o agli oggetti d’arredo, occupa sia spazialmente che
idealmente una posizione molto più vicina all’individuo, costituendo un vero e
proprio filtro tra la persona e il mondo sociale circostante. Ai vestiti, molto più
che ad altri oggetti, è delegato il compito di rappresentarci, di esprimere (si
potrebbe dire «rivestire») le modalità con cui ogni individuo si affaccia e partecipa ai contesti sociali, di esternare per gli altri la nostra personalità e il nostro
approccio al mondo. La pubblicità ha naturalmente recepito la forza del legame
tra vestito e identità personale: infatti nelle immagini i vestiti compaiono (quasi)
sempre indossati e spesso inseriti in vere e proprie scenografie più o meno realistiche. Come spesso viene sottolineato dagli addetti ai lavori, il ruolo di modelle e
modelli diventa dunque quello di interpretare il vestito e di comunicare una serie
di messaggi che suggeriscono di solito l’adesione a certi stili di vita e la creazione
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di particolari atmosfere. Il loro ruolo è quindi paragonabile a quello di attori e
attrici di cinema e televisione con la differenza che essi forniscono un materiale
identificatorio probabilmente maggiore. Mentre è infatti facile percepire la distanza tra noi e i personaggi dello schermo, protagonisti di situazioni spesso estremizzate e con pochi riscontri nella vita quotidiana, non è altrettanto semplice distinguere tra noi e quelle immagini di donne che indossano i vestiti che abbiamo deciso di regalarci per la nuova stagione. È facile dunque comprendere come le ragazze che ci sorridono dai cartelloni possano almeno potenzialmente diventare incarnazione dell’ideale corporeo di una società in un certo momento storico.
A supporto di questa tesi, recenti studi (Hermes 1995, Tseelon 1995, Van
Zoonen 1994) sono giunti alla conclusione che l’immagine visiva si situa proprio
al centro dell’idea che le donne hanno di sé e che tale idea viene formata soprattutto ricavando materiali dalle fotografie e rappresentazioni visuali proposte dalle
riviste femminili di vario genere, tra cui quelle di moda occupano un posto importante. In altre parole, pare che le donne tendano a considerare le immagini delle
riviste come una sorta di standard in riferimento al quale esse giudicano la loro
apparenza e spesso fanno progetti per modificarla. A questo proposito, è interessante notare che, se da un lato le immagini di moda offrono alle lettrici un ampio
raggio di opzioni e alternative di autoespressione, proponendo diverse soluzioni
di abbigliamento, trucco, pettinature e accessori, dall’altro sembrano invece molto
categoriche rispetto alle dimensioni del corpo: tanto quanto sono ammesse svariate combinazioni di stili di abbigliamento, al contrario non si deroga rispetto alla
forma corporea e alla taglia. La snellezza del corpo viene proposta come uno standard inderogabile, implicitamente negando quelle svariate possibilità di espressione
alle donne che non si allineano allo standard 1.
II - LA FOTOGRAFIA DI MODA TRA ARTE E INDUSTRIA
La fotografia di moda è stata tradizionalmente considerata come la parte leggera e «frivola» della pratica fotografica. Il suo stretto rapporto con un’industria
che si identifica con il cambiamento incessante porta a qualificare la fotografia di
moda come immagine transitoria per eccellenza. Per alcuni critici (ad es. Radner
1995) la fotografia utilizzata a fini commerciali rappresenta infatti uno svilimento,
una decisiva caduta di tono:
a differenza dell’arte, la fotografia di moda agisce in un mercato che serve a vendere i vestiti.
Solo ultimamente la fotografia di moda si vende come arte, quasi in seguito ad un ripensamento (Rander 1995:131)
1
Alcune ricerche di ambito psicologico (cfr., ad es., Grogan 1997) sostengono che lo standard
irrealistico di snellezza proposto dalle immagini di moda abbia l’effetto di diminuire l’autostima delle
lettrici che si confrontano con le modelle e che questo contribuisca a innescare nei soggetti predisposti patologie del comportamento alimentare.
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Tuttavia le foto pubblicitarie di moda, con la loro capacità di comunicare ideali, standards e taboo, da un lato, invogliano i consumatori ad acquistare prodotti,
dall’altro producono in loro anche l’illusione di poter aderire ad un certo stile di
vita o di poter modificare la loro identità attraverso il possesso di certi prodotti.
Le riviste di moda sono le principali fonti di diffusione di tali immagini.
Attraverso le foto di moda, queste pubblicazioni mostrano e mediano gli ideali
estetici (e non solo) di un’epoca. D’altra parte è stato spesso sottolineato come il
loro ruolo di diffusione e soprattutto l’influenza che esercitano sul grande pubblico possano diventare problematici e produrre effetti negativi a vari livelli.
Finkelstein (1998) descrive alcune di queste funzioni «insidiose» individuandole
soprattutto nel carattere didattico delle riviste. Molte di queste acquisiscono una
grande popolarità proprio perché adempiono un ruolo solo apparentemente innocuo: quello di descrivere le nuove tendenze e i modi per seguirle. In realtà le riviste non si limitano a presentare le nuove mode, ma istruiscono le loro lettrici nella
creazione della propria immagine e rappresentazione del self. Pertanto sono spesso percepite dal pubblico, soprattutto femminile, come strumenti e validi aiuti per
immaginare e poi per costruire concretamente le «migliori» e le «più desiderabili»
versioni di sé: «rendere il proprio corpo di moda equivale a rendere di moda il
proprio self» (Finkelstein 1998: 50). Attraverso l’abbigliamento vengono forgiate
identità a tutto tondo: la percezione sociale di ricchezza, appartenenza di classe,
gusto e personalità sono tutte convogliate nella, e mediate dalla, presentazione del
corpo; l’abbigliamento costruisce il self e l’individuo ritratto nella fotografia incorpora questo self e lo rende permanente.
La pubblicità di moda ha avuto una parte rilevante nella diffusione e nel consolidamento di standard corporei e di stili molto difficilmente raggiungibili dal
grande pubblico. Gli annunci pubblicitari danno indicazioni su come perseguire e
godere di certi piaceri e offrono uno sguardo su stili di vita fantastici per suscitare
nel consumatore tutta una serie di desideri: la pubblicità dunque, «destabilizza le
pratiche quotidiane per reinventarle» (ibid.: 46). In altre parole le immagini di
questi ambienti desiderabili ha l’effetto di turbare la piatta routine attraverso proposte di nuovi stili. Rispetto però alle fantasie che possono essere suggerite dalla
lettura di un romanzo, nel caso delle immagini commerciali la novità è presentata
come immediatamente disponibile in quanto qualcosa che si può comprare, vendere e trovare negli oggetti e nei comportamenti, anche i più comuni.
Ovviamente la pubblicità deve la sua efficacia al piacere visivo del guardare e
fornisce al recettore l’attraente possibilità di venire in contatto (sempre visivo) con
cose nuove, di moda, rischiose o sexy che in ogni caso suscitano curiosità, meraviglia, invidia, disgusto o combinazioni di tutti questi fattori. D’altra parte, poiché
ha come scopo la vendita dei prodotti, la pubblicità lavora attivamente per ridurre
la percezione (da parte del recettore) della distanza tra i mondi ideali che propone
e la vita reale. Quando il sottile equilibrio tra seduzione e accessibilità viene raggiunto, le immagini pubblicitarie hanno come effetto collaterale l’«indottrinamento» dei
lettori. Nel caso della pubblicità di moda questo avviene quando le immagini
impiantano nella mente dei lettori: concezioni di bellezza e standard di presenta-
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zione del self che sono spesso irrealizzabili per gli individui comuni. Pubblicità di
questo tipo si trovano ovunque e possono assumere due forme principali nella
presentazione commerciale.
Da un lato ci sono le pubblicità dei marchi della moda, dall’altro i redazionali
di moda.
Il redazionale è un servizio fotografico che viene elaborato dalla redazione di
un giornale di moda. Viene realizzato a partire da un «concetto» ideato dal team
di creativi secondo i temi della stagione e sviluppato in modo da mostrare al lettore le linee moda e le nuove tendenze. Di solito suggerisce anche un’interpretazione di quanto viene proposto dalle grandi case di moda. Elemento caratteristico
del redazionale è la costruzione di una storia, una narrazione per immagini, in cui
contestualizzare gli abiti realizzati da diversi stilisti e selezionati dai creativi. Le
sequenze del redazionale tendono a creare un mondo intero, un ambiente con una
trama che desta l’interesse del fruitore delle immagini.
Invece, nelle pubblicità ufficiali di un marchio, si punta di solito a far vedere i
capi di abbigliamento in modo più chiaro, per esempio per mostrarne la foggia,
oppure qualche dettaglio particolarmente interessante. Di solito la campagna pubblicitaria si presenta con immagini più immediate, con una forte visibilità e pertanto in grado di colpire il consumatore, anche se recentemente alcuni marchi
hanno prodotto campagne realizzate con caratteristiche più simili ai redazionali.
Infatti si sta affermando una tendenza ad adottare anche in pubblicità lo stile narrativo tipico dei redazionali, per esempio giustapponendo le immagini su diverse
pagine consecutive, oppure non mostrando per nulla i capi di abbigliamento ma
puntando a creare un’ambientazione su cui campeggia il logo aziendale. In ogni
caso, e al di là delle differenze tra questi due tipi di immagine, sia le pubblicità
che i redazionali trovano un obiettivo comune nella vendita dei prodotti, mentre
ad un livello più culturale, entrambi offrono al consumatore medio l’accesso ad
un mondo immaginario e pieno di glamour.
L’iconografia della moda rintracciabile soprattutto sulle riviste specializzate,
insieme alle immagini prodotte da altri media (ad es. il cinema e la televisione),
costituiscono delle rappresentazioni molto significative del gusto e dell’estetica di
una determinata epoca. Pertanto la storia della fotografia di moda può essere esaminata come traccia del cambiamento del gusto estetico corrispondente a vari
periodi storici. Limitando lo sguardo alla seconda metà del Novecento, è dunque
possibile individuare una periodizzazione della storia della fotografia di moda che
riflette in certa misura i diversi climi culturali che l’Occidente ha attraversato 2.
Come sostiene un’opinione condivisa, nei decenni Ottanta e Novanta e ancora
attualmente, il mondo della moda e le sue convenzioni sono diventate più frammentate e de-centralizzate3; per contrasto, i decenni Cinquanta, Sessanta e Settanta
2
Per quanto i confini di ciascuna «epoca» siano spesso difficili da fissare.
Alcuni critici ritengono che, proprio in quegli anni, si sia verificata nel mondo della moda una
crisi di innovazione e di creatività a cui le aziende hanno tentato di riparare puntando su una comunicazione eccessiva, sfrontata, intesa a «schoccare» e scandalizzare il pubblico.
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sono stati considerati dei periodi cruciali e importanti nella storia della fotografia
di moda, ma anche, più in generale, per tutto il settore.
Ciascun decennio sembra infatti aver prodotto un proprio ideale di bellezza
femminile diffuso attraverso la comunicazione presso il grande pubblico: se nella
prima metà degli anni Cinquanta la donna della pubblicità è decisamente un
«angelo del focolare», nella seconda metà del decennio viene di nuovo ritratta al
di fuori delle mura domestiche, in comportamenti meno passivi e in ambientazioni più varie. La nuova figura femminile di moda negli anni Sessanta rappresenta
poi una donna indipendente, attiva e dinamica, dotata di una identità più decisa e
sicura di sé. Negli anni Settanta l’ideale femminile è meno definito, anche se, in
genere, le donne mostrate nelle pubblicità ostentano distacco, freddezza e, a volte,
assumono atteggiamenti apertamente seduttivi.
Nel suo recente testo dedicato alla moda, Diana Crane ([2002] 2004) distingue diversi periodi nella fotografia di moda. Per esempio, nota come nella seconda metà degli anni Cinquanta, le modelle vengano spesso ritratte mentre fissano
direttamente l’obiettivo in atteggiamenti che indicano vulnerabilità e uno stato di
inferiorità (cfr. anche Goffman 1976). In questo periodo, afferma Crane, il fuoco
principale delle foto di moda è dato ancora dai capi di abbigliamento. Un decennio dopo, la stessa rivista analizzata da Crane, l’edizione americana di «Vogue»,
mostra primi piani di modelle in costume da bagno in cui viene enfatizzata soprattutto la loro giovinezza; è in questo periodo che la foto di moda comincia a ritrarre donne molto diverse da quelle comuni e nasce quindi la figura della supermodel
o top model.
Dopo la metà degli anni Settanta sia le pubblicità che i redazionali appaiono
orientati ad uno sguardo maschile, mentre sempre più frequentemente figure
maschili vengono incluse direttamente nelle immagini insieme a gruppi di donne.
Le modelle guardano direttamente l’obiettivo, spesso in atteggiamenti infantili
(ibid.). Secondo Crane ([2002] 2004:234) «la maggioranza delle immagini non
sono contestualizzate» e l’obiettivo della macchina fotografica di solito è posto o
più in alto o più in basso rispetto all’oggetto da ritrarre. La differenza tra uno stile
e l’altro è quindi molto spesso determinata dalla prospettiva da cui la fotografia
viene scattata, cioè dal punto di vista della macchina fotografica. Al di là comunque delle differenze negli stili di ciascun periodo, lo sguardo della macchina fotografica o della macchina da presa continua, anche secondo Crane, a rinforzare
ruoli e aspettative tradizionali riguardo al sesso di appartenenza.
Il concetto di sguardo è un tema molto dibattuto nell’ambito degli studi culturali, specialmente quelli relativi all’arte. L’atto del guardare, la relazione tra
oggetto e spettatore nel contesto dell’immagine, è involontaria e inevitabile: qualcuno è in mostra, mentre qualcun altro osserva. Lo spettatore può attribuire a ciò
che vede i suoi propri significati, mentre il soggetto ritratto è passivo e vulnerabile. La fotografia di moda è un ambito in cui lo sguardo è di primaria importanza
per comprendere la costruzione, contestualizzazione e presentazione dei soggetti
fotografati. Ancora attualmente sembra possibile affermare che le immagini dei
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corpi nella foto di moda, siano essi maschili, femminili, presuppongono uno
sguardo maschile e sono ad esso orientate. Quindi anche nella fotografia di moda,
dove le spettatrici sono quasi sempre donne e le immagini pubblicitarie sono create per un audience femminile, il loro processo di costruzione è tale da indurre le
donne ad assumere un occhio maschile nel guardarle. Questa osservazione è suggerita già da Berger che, nel suo classico studio degli anni Settanta, afferma:
Gli uomini agiscono le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne si guardano mentre vengono guardate. Questo fatto è determinante non solo nelle relazioni tra
uomini e donne ma anche nel rapporto delle donne con se stesse. Lo sguardo di una donna
su se stessa è maschile: l’oggetto dello sguardo è femminile. Perciò la donna trasforma se
stessa in oggetto, in particolare l’oggetto di una visione, uno spettacolo4.
Per quanto tale tesi non sia univocamente accettata e condivisa (per es., esprimono pareri diversi Byars 1991, Fuss 1992,Williams 1984 e, più recentemente,
Bruzzi - Gibson 2002;), e pur ammettendo che «lo sguardo» attivato da consumatori/consumatrici di immagini può essere pensato anche come «non-maschile» e
addirittura non connotato dal genere 5, rimane comunque il fatto che, nella contemporanea iconografia di moda, si rileva una decisa enfatizzazione del corpo che
assume una centralità anche maggiore dei capi di abbigliamento che lo rivestono.
Se si guarda alla storia della fotografia di moda, ci si accorge che non è stato sempre così. Agli inizi, negli anni Trenta, era il vestito l’elemento su cui concentrarsi,
mentre il corpo era piuttosto nascosto, marginalizzato. Le modelle ritratte non
rivendicavano alcuna indipendenza, lo loro corporeità era resa astratta o del tutto
negata. Questa situazione prosegue fino alla seconda metà degli anni Sessanta,
quando invece si afferma l’importanza del corpo che, da allora in avanti, diventa
l’oggetto cruciale da esibire.
Come notano alcuni autori (cfr., per es., Joblin 1999), durante gli anni Settanta
il corpo femminile incomincia ad essere a volte rappresentato addirittura come
oggetto di desiderio feticistico nell’opera di alcuni famosi fotografi, come, per esempio, Helmut Newton. Parallelamente (cfr. anche Crane 2004) aumenta anche l’esposizione della nudità mostrata spesso in situazioni a sfondo erotico anche di tipo
omosessuale. Sempre secondo Joblin, questa tendenza si accentua negli anni
Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, un periodo in cui si riafferma in
modo ancora più esplicito il fatto che la fotografia di moda è sottesa da un profondo
interesse e orientamento per le questioni che riguardano il corpo e innegabilmente
anche il sesso, sia nella sua forma eterosessuale che nella sua forma omossessuale.
4
Traduzione mia dall’edizione originale inglese (Ways of seeing, BBC - Penguin Books, London
1972, p. 47) La traduzione italiana dell’opera è: Del guardare; Sestante, Ascoli Piceno 1995.
5 Occorre a questo proposito distinguere tra lo sguardo nel senso semiotico del termine, che si
riferisce allo sguardo immaginato o presunto da chi produce l’immagine e lo sguardo o meglio la
gamma di sguardi che possono essere effettivamente attivati dal pubblico. Per quanto riguarda le
pubblicità di moda, mi pare che tuttora la tesi del male gaze in senso semiotico possa essere utilmente
chiamata in causa.
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In altre parole, e per riassumere, quando, verso la fine degli anni Settanta, la
centralità si sposta dai vestiti ai corpi che li indossano, contemporaneamente si
innesca la tendenza a caricare le immagini di moda di significati e connotazioni di
tipo sessuale. In questo quadro le immagini femminili diventano sempre più spesso simboli di bellezza sessualmente provocanti in linea con l’osservazione secondo
cui (Lakoff - Scherr 1984: 106) «la bellezza moderna è profondamente improntata
da politiche sessuali, in cui la donna recita fantasie maschili, impegnata in una
provocazione intenzionale»: veramente questa mi sembra una descrizione adeguata di molte delle immagini di moda attualmente circolanti.
In questo quadro sembra difficile essere d’accordo con le posizioni di alcune
autrici postfemministe secondo cui le immagini di donne sessualmente provocanti, lungi dall’essere create in sudditanza al male gaze, sarebbero al contrario simboli di empowerment, segni che le donne hanno raggiunto il controllo della loro
sessualità (Myers 1987), Skeggs 1993)6. Tra l’altro, se questo fosse vero, si tratterebbe dell’acquisizione di una forma di potere del tutto simile alle pratiche messe
in atto per secoli dagli uomini, cioè un potere che discrimina e che esclude porzioni molto vaste di persone, a partire da tutte quelle donne (sicuramente la maggioranza) che non si conformano ai canoni estetici proposti dalle immagini.
III - IMMAGINI DI MODA E RESPONSABILITÀ SOCIALE
Le considerazioni fatte fino a questo punto sembrano delineare lo scenario
della società occidentale contemporanea come un contesto in cui le immagini
hanno sempre maggiore diffusione e potere e dove i media rappresentano i più
pervasivi comunicatori di cultura, nonché diffusori di stereotipi e ideali. In questo
ambito la pubblicità (che costituisce una voce importantissima del patrimonio iconografico circolante), e in particolare la pubblicità di moda, ci presenta figure
femminili seguendo modalità a rischio di ricadute sociali negative soprattutto per
due ordini di motivi.
In primo luogo, negli ultimi anni, si registra la tendenza ad utilizzare modelle
la cui figura è molto distante dalle misure femminili standard. Dalle riviste di
moda emerge un ideale corporeo in cui la snellezza esasperata si impone come
una conditio sine qua non dell’attrattiva fisica. Parecchi studi (Bordo 1997,
Tseelon 1995, Gemov - Williams 1996) testimoniano che una buona parte del
pubblico delle lettrici non mette in discussione questo assunto e accetta dunque la
magrezza come un ideale da perseguire a costo di grandi sacrifici. Tale ideale è
interiorizzato a tal punto che, molto spesso, sono le donne stesse a stigmatizzare le
altre donne che non corrispondono a questa immagine standard. Usando il con-
6 Questa posizione è condivisa da quel filone di studi che vede nella cantante Madonna un
emblema del controllo femminile sulla propria sessualità.
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cetto foucaultiano di relazioni di micro-potere, Gemov e Williams scrivono nel
loro studio sulle donne a dieta:
è l’interiorizzazione delle norme patriarcali, più che una coercizione esterna, la forma
dominante delle relazioni di potere. Questo risulta nella auto-regolazione e auto-disciplina
del corpo femminile nel perseguimento dell’ideale di magrezza. La dispersione e l’anonimità del potere patriarcale ottenute attraverso l’interiorizzazione, rende difficilissimo sradicare l’ideale di magrezza: i demoni sono all’interno e il potere si esercita attraverso e da
parte di quegli stessi individui che ne sono le vittime (Gemov - Williams 1996: 642).
La seconda questione, forse ancora più fondamentale, sollevata dallo scenario
delineato riguarda il fatto che le pubblicità di moda mostrino il corpo femminile
ritratto come corpo-oggetto sottoposto ad uno sguardo maschile e dunque presentato o come oggetto di desiderio sessuale, o in atteggiamenti di vulnerabilità e
inferiorità, oppure a volte mortificato e degradato, quasi a presumere uno sguardo
misogino. Quello che ci sembra preoccupante non è comunque tanto il modo in
cui questo corpo-oggetto compare, bensì la continua reiterazione dell’equivalenza
tra femminilità e corporeità, del legame tra la donna e il suo aspetto fisico, come
se, dopo decenni di lotte e di dibattiti, ciò che veramente conta per le donne fosse
sempre, soltanto e ancora una volta, la piacevolezza fisica.
Per quanto il rapporto tra gli stereotipi di femminilità diffusi dai media e lo
sviluppo di alcuni disturbi del comportamento alimentare e altri segnali di disagio
psichico sia stato molto analizzato nell’ambito sociologico e dei cultural studies,
più raramente si è cercato di indagare quale sia il livello di consapevolezza che gli
operatori della comunicazione, coloro che creano le immagini mediatiche dimostrano su questo tema. In altre parole, chi produce le immagini tiene conto delle
reazioni potenzialmente pericolose che esse possono avere soprattutto sulle parti
più deboli del pubblico? E, in secondo luogo, come si concilia il rispetto per il
mondo femminile dichiarato da gran parte di questi professionisti della moda e
della comunicazione con le rappresentazioni spesso «degradate» o perlomeno
oggettificate che essi/e ne danno con i risultati del loro lavoro? Su questo aspetto
la riflessione accademica si è rivelata più lenta dell’opinione pubblica. Soprattutto
negli Stati Uniti infatti, la consapevolezza di queste dinamiche, almeno presso le
fasce più sensibili del pubblico femminile, è già piuttosto elevata, traducendosi
anche nella formazione di network di opposizione e di denuncia del fenomeno7.
Nelle ricerche che ho effettuato non ho trovato realtà analoghe in Italia. La consapevolezza riguardo alle conseguenze potenzialmente negative di un’iconografia
così lontana dalla realtà e così poco rispettosa nei confronti delle donne non sembra essere stata per nulla messa a fuoco dal pubblico femminile; al contrario dai
media ci arriva sempre più spesso la proposta di modelli femminili del tutto giocati
7
A questo proposito è molto interessante la consultazione del sito di About face (www.Aboutface.org) che si autodefinisce così: «A San Francisco based non-profit group, About face combats
negative and distorted images of women in the media».
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(e, mi si permetta, appiattiti) sulla avvenenza fisica. L’esempio più lampante è rappresentato in questo periodo dalle «veline» televisive che da semplici figure ancillari sono ormai diventate protagoniste di programmi a loro interamente dedicati.
In Italia dunque non solo c’è scarsa consapevolezza di queste problematiche, ma
addirittura sembra esistere una tolleranza se non un incoraggiamento da parte
dell’authority alla mercificazione del corpo femminile che evidentemente viene
ritenuto a tutt’oggi un veicolo di incremento dell’audience.
IV - REALTÀ E SIMULAZIONE NELLA CREAZIONE DELLE IMMAGINI DI MODA:
UNO STUDIO EMPIRICO
Per quanto riguarda più specificamente la pubblicità di moda, la situazione
italiana si allinea ai trends generali: anche qui si prediligono modelle molto esili,
mentre le figure femminili in genere vengono presentate come oggetti, ritratte in
pose eccentriche e in situazioni assolutamente straordinarie.
A partire da questo scenario emergono quasi spontaneamente alcuni interrogativi riguardanti da un lato la distanza tra le immagini presentate dalla pubblicità
e l’esperienza quotidiana dei loro pubblici maschile e femminile, dall’altro le
ragioni che inducono i creatori della comunicazione a produrre un tipo di iconografia tutto sommato «aliena» e a volte «alienante» per la maggior parte della loro
audience.
Su questi aspetti la letteratura sociologica italiana è molto limitata8. Negli
ultimi anni un’équipe di ricerca del Centro per lo studio della moda e della produzione culturale dell’Università Cattolica di Milano ha condotto due studi consecutivi che si concentrano appunto su questa questione a partire da due punti di vista
diversi. Il primo studio, realizzato negli anni 2000-2001, prendeva in considerazione soprattutto le modalità di ricezione delle immagini di moda da parte delle consumatrici, mentre il secondo studio, appena concluso, si concentra sui processi di
produzione delle immagini pubblicitarie al fine in primo luogo di comprendere
attraverso quali meccanismi esse assumono l’importante ruolo sociale che le contraddistingue e quanto questo sia l’effetto non voluto di una combinazione di contingenze oppure l’obiettivo più o meno esplicito degli operatori che contribuiscono alla loro creazione.
La prima ricerca aveva messo bene in evidenza la distanza tra le immagini, le
persone e le situazioni della pubblicità e le donne reali, mostrando, tra l’altro,
come questa situazione potesse causare conseguenze negative in termini di frustrazione e di caduta di autostima nelle parti più fragili del pubblico femminile.
Inoltre essa aveva anche rilevato come le interpretazioni delle immagini da parte
degli addetti ai lavori (PR, giornalisti/e specializzati, professionisti dell’immagine,
eccetera) fossero estremamente più articolate di quelle messe in atto dal grande
8
Cfr. però il saggio di Cremonesini - Izzi (2003)
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pubblico, da cui deriva che l’impatto delle fotografie sui consumatori finali risulta
molto diverso dai criteri, dalle motivazioni e dalle scelte che portano alla costruzione di alcune immagini piuttosto che di altre.
In particolare la costruzione delle immagini sembra contraddistinguersi come
il risultato di un lavoro di équipe molto frammentato che se, da un lato, migliora la
qualità estetica (e spesso il contenuto di creatività) e il potenziale di impatto delle
fotografie, dall’altro determina l’impossibilità di risalire ad una authorship definita
per l’immagine stessa. Si rileva infatti come, nel processo di produzione di pubblicità di moda, la presenza di molte figure professionali e dei molteplici significati
culturali di cui esse sono portatrici finisca per frammentare nei creativi la consapevolezza di essere produttori responsabili di tali immagini.
Partendo dunque dalla constatazione, solo incidentale nella ricerca precedente, che il codice simbolico del testo pubblicitario di moda è il prodotto di logiche
differenti (preferenze culturali, esigenze economiche, osservanza di canoni estetici
e potenziale tecnico), il lavoro appena concluso è penetrato più a fondo nell’indagine del processo di produzione delle campagne pubblicitarie. Attraverso lo studio in profondità delle campagne primavera-estate 2004 realizzate da tre aziende,
la ricerca ha inteso precisare tutte le tappe di realizzazione di tali campagne, a partire dal concetto iniziale all’immagine pubblicata e di individuare le varie culture
professionali e i vari codici simbolici che intervengono nelle fasi di lavorazione per
vedere in quali modi essi si sintetizzano nel risultato finale. In altre parole il lavoro
si propone di descrivere il meglio possibile in che cosa consiste e come si svolge il
«lavoro di squadra» che produce le immagini pubblicitarie e di capire quanto sia
diffusa negli addetti ai lavori la consapevolezza del forte impatto sociale determinato dalle immagini di moda.
4.1. Osservazioni e narrazioni: il metodo della ricerca
Indagare il processo di costruzione delle campagne pubblicitarie equivale a
indagarne il significato/i attraverso le tappe del suo farsi ad opera di tutti quegli
operatori che in qualche modo intervengono nell’itinerario di produzione. La
ricerca si qualifica quindi come un’indagine tipicamente culturale che si propone
di esaminare e, se possibile, distinguere, almeno analiticamente, le componenti
che danno vita a quel famoso «lavoro di squadra» da cui dipendono i risultati
finali nonché di identificare il tipo di contributo fornito da ciascuna di tali componenti.
Per realizzare tale obiettivo, abbiamo ritenuto che le interviste individuali con
le varie figure professionali non fossero sufficienti: pensiamo infatti che, prima di
sondare le varie interpretazioni degli attori coinvolti, sia necessario osservare
direttamente le pratiche attraverso cui il lavoro viene svolto nelle sue varie fasi.
Solo attraverso un field work diretto è infatti possibile andare oltre alle singole
interpretazioni dei fenomeni forniti dalle figure coinvolte, acquisendo una compe-
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tenza di prima mano delle tappe di svolgimento del lavoro. In altre parole non ci
bastava «farci raccontare» come si costruisce una campagna pubblicitaria, ma
abbiamo voluto esserne testimoni, partecipando nel ruolo di osservatori al lavoro
dell’équipe tutte le volte che ciò era ritenuto possibile dalle aziende. Per il field
work abbiamo scelto come metodo principale quello dell’osservazione etnografica.
Si tratta di un metodo qualitativo di origine antropologica (cfr. Gobo 2001)
che consiste nell’immergersi direttamente nelle situazioni in cui le attività che
caratterizzano le culture sotto indagine vengono concretamente svolte. Spesso
viene anche designata come osservazione partecipante e prevede che il ricercatore
vada sul campo e assista di persona allo svolgimento delle pratiche per raccogliere
le informazioni necessarie. Il ricercatore deve mantenere un atteggiamento aperto
per riuscire a scoprire gli elementi che danno vita ai segnali e agli strumenti che le
persone utilizzano nelle loro interazioni con gli altri e con l’ambiente. Per segnali
intendiamo le rappresentazioni del mondo, o le aspettative normative, ma anche
le risorse linguistiche e paralinguistiche a cui viene fatto ricorso nel contatto con
l’ambiente.
Nell’ambito degli studi etnografici occorre distinguere tra quelli in cui si
mantiene un’apertura ai nuovi dati e quelli in cui le attività individuali sono studiate tenendo conto di rigide tracce compilate dal ricercatore prima del lavoro sul
campo. Per quanto in teoria il primo tipo di metodo sia preferibile, poiché mette
al centro dell’attenzione i fenomeni concreti nel loro farsi e non prende decisioni
a priori sull’importanza relativa di alcuni elementi rispetto ad altri, questo metodo
ha lo «svantaggio» di richiedere tempi molto lunghi e l’impiego di notevoli risorse.
Per questo l’approccio che abbiamo adottato nel lavoro di ricerca si avvicina di più al
secondo tipo descritto: i ricercatori si sono recati sul campo con le idee già abbastanza chiare riguardo ai fenomeni e agli aspetti della situazione che più interessava rilevare, cioè il contributo specifico che le varie figure professionali impegnate nella
situazione fornivano nel lavoro di produzione dell’immagine pubblicitaria.
Successivamente al lavoro etnografico, sono state condotte alcune interviste
in profondità con quelle che erano emerse come figure chiave nel processo di
costruzione delle immagini.
Questa tecnica di intervista9 permette non solo di sondare le opinioni degli
intervistati riducendo al minimo le interferenze dovute a domande dirette, che
possono influenzarlo ed orientarne le risposte, ma anche di osservare tutta una
serie di comportamenti non verbali, quali le esitazioni, le espressioni facciali e gli
imbarazzi; inoltre permette di ricostruire la logica dei ragionamenti, i significati
condivisi, gli aspetti «dati per scontati» che difficilmente emergono con tecniche
di ricerca di altro tipo (ad es. con questionari strutturati, dove le informazioni che
si mira ad ottenere sono costruite a priori dai ricercatori, e quindi non prevedono
la raccolta di notizie ulteriori o diverse).
9
L’intervista viene di solito registrata e successivamente «sbobinata», cioè trascritta per intero,
in modo da poter essere riletta dai ricercatori.
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In questo modo le interviste permettono di raccogliere una serie di informazioni che spesso vanno al di là di quelle preventivate nelle ipotesi di ricerca, che
devono quindi essere continuamente verificate e rimodellate tramite il confronto
con i dati empirici; questo procedimento viene definito circolare o riflessivo (cfr.
Mora 1997), in quanto i presupposti teorici e scientifici vengono continuamente
rivisitati per adattarsi alle rilevazioni sul campo, così da valorizzare la produzione
quotidiana di senso che emerge dai discorsi degli intervistati.
Per quanto la traccia predisposta fosse piuttosto dettagliata, la pratica del
lavoro empirico ci ha ancora una volta dimostrato che ogni intervista rappresenta
un caso a sé: da un lato, la sua riuscita dipende da numerosi fattori, solo alcuni dei
quali risultano controllabili dall’intervistatore; dall’altro, spesso il dialogo imbocca
direzioni impreviste rispetto alla traccia, ma comunque interessanti, mentre lascia
magari scoperte altre tematiche che invece la traccia prevedeva. Non sempre è
possibile, né consigliabile «forzare» l’intervista in direzioni non spontanee solo
per «riempire» i punti della traccia. Una tale operazione infatti rischia di compromettere il clima della conversazione rendendo lo strumento di indagine per certi
versi più simile ad un questionario di tipo standard (ma meno maneggevole), mentre rischia di far perdere informazioni preziose e spesso innovative per le interpretazioni del fenomeno.
Nel finale del lavoro sono stati anche realizzati dei focus group con le potenziali consumatrici di diverse fasce di età; sono stati realizzati sulla base della constatazione che la ricezione dei testi pubblicitari costituisce un momento importante nella costruzione dei loro significati. Come sottolineano molto bene alcune correnti della semiotica e gli autori dei cultural studies (per es. Fiske 1989, Hall
1981), il significato di un testo è dato anche dalle modalità della/e sua/e ricezione/i, il significato non è stabilito a priori da chi produce il messaggio (o l’oggetto
culturale), ma è tema di negoziazione con i fruitori del messaggio stesso. Per questo, dopo aver analizzato come avviene la costruzione di un certo testo pubblicitario, ci è parso utile e interessante vedere come questo viene recepito da parte di
coloro a cui il messaggio (almeno in teoria) è indirizzato.
4.2. Ideale femminile e mercato in tre campagne pubblicitarie
Tenendo sullo sfondo lo scenario concettuale fin qui delineato e gli interrogativi emersi dalle riflessioni sulla letteratura di riferimento, la nostra indagine si è
svolta sulle campagne pubblicitarie di tre aziende di moda italiane: Piazza
Sempione, Gattinoni e Iceberg.
4.2.1. Piazza Sempione
Da alcuni anni Piazza Sempione segue una strategia di comunicazione che
potremmo dire non-standard rispetto alle altre case di moda nel senso che ormai
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da alcune stagioni affida le campagne ad artisti e non a fotografi di moda. Questo
trend è iniziato nel 1996-1997, con la campagna realizzata da Sharon Lockard,
un’artista californiana che si esprime con fotografie e video, che con Piazza
Sempione fa la sua prima esperienza in un progetto commerciale. Dopo il successo
di questa campagna, anche per quelle successive vengono scelti altri artisti e
soprattutto artiste.
Descrivendo questo percorso, la responsabile della comunicazione dice:
all’inizio non è un caso, devo dire all’inizio cercavamo di lavorare con artiste donne, però
diventa sempre più difficile trovare le persone giuste...
Così nelle campagne seguenti vengono utilizzati anche artisti uomini scelti in
base al criterio fondamentale che le loro immagini mostrino una sensibilità «adatta alla moda», cioè «una sensibilità, una capacità di espressione, un’estetica [...]
molto forte, molto incisiva, che è capace [...] veramente [...] di colpirti». Una tale
scelta produce indubbiamente risultati diversi da quelli che potrebbe dare il lavoro con un fotografo di moda. Soprattutto l’immagine femminile protagonista della
campagna acquisisce uno stile diverso; su questo aspetto la responsabile dice:
ritraggono queste donne in maniera più dura, perché non hanno tutte quelle sottigliezze
che il mestiere di fotografo ti insegna, però in effetti sono delle immagini di grande impatto.
Un particolare interessante da sottolineare è che, perlomeno nella campagna
che abbiamo seguito, le fotografie non vengono sottoposte a rielaborazione elettronica. Certo esse vengono modificate dall’intervento dell’artista, ma sempre solo
con tecniche manuali, tramite il disegno o il transfer con il pirografo10. Come
molte ricerche mettono in evidenza, è invece pratica comune modificare al computer, anche sostanzialmente, l’immagine della modella per eliminare i difetti, le stonature, il dettaglio imperfetto, al fine di ottenere sulla pagina il ritratto di una
donna perfetta, ma di fatto irreale 11.
La scelta di lavorare con degli artisti risponde ad una strategia comunicativa
che tiene conto, sia pure da un punto di vista soprattutto estetico, dell’influenza
che le immagini di moda esercitano sul grande pubblico. Si tratta infatti di una
scelta dettata non tanto dal desiderio di avvicinare la moda all’arte per nobilitare
la prima, quanto dalla necessità di ricercare un «segno» di natura diversa e di fare
10 Si tratta di una tecnica artigianale di transfer fotografico in cui l’artista fotocopia le fotografie
e poi ricalca una parte dell’immagine (che decide lui anche seguendo suggerimenti degli altri) su carta
tramite un attrezzo chiamato pirografo.
11
Naturalmente anche in questo caso si è cercato di eliminare i difetti; per esempio in alcune
foto, poiché la modella era veramente magrissima, risultavano troppo evidenti le ossa del collo e allora si decideva che l’artista, ricalcando la foto, tralasciasse quel particolare. L’elaborazione elettronica
può essere infatti un’operazione molto invasiva perché potenzialmente ricostruttiva; essa non si limita
a togliere, ma attivamente corregge i tratti della modella ritratta costruendo un’immagine ideale che
rinuncia, in nome della perfezione estetica, al suo aggancio con la realtà.
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comunicazione utilizzando un linguaggio simbolico che si discosta dal cliché del
«far apparire il prodotto su una donna bellissima».
Si tratta, spiega la manager, di:
cercare, richiedere al mondo dell’arte un simbolismo, un’estetica [...] forse più [...] più
civile, universale, meno commerciale [rispetto ad un panorama di immagini pubblicitarie]
un po’ inflazionate, con queste fotografie, queste immagini tutte uguali e poi, alla fine,
senza sostanza.
Per quanto riguarda l’effetto sul pubblico, i ricettori finali dell’immagine, l’obiettivo di Piazza Sempione è di cercare di incuriosire, di spingere il lettore a indagare quell’immagine che si presenta un po’ strana per cercare di capire che cosa
c’è sotto; dunque è un tipo di comunicazione che richiede un intervento attivo da
parte delle consumatrici, che le spinge ad interrogarsi sulla natura di ciò che vedono e che si esprime con un simbolismo a cui forse non sono abituate dalle altre
immagini di moda. Si intravede anche in questa filosofia di comunicazione, forse
nel suo codice meno esplicitato, un tentativo di contribuire all’educazione del
gusto del grande pubblico, rivestendo così il ruolo che Bourdieu (1983) aveva
individuato come tipico degli intermediari di cultura (cfr. Bovone 1994).
Nel caso di Piazza Sempione, sembra dunque di poter dire che esiste tra gli
strateghi della comunicazione, perlomeno nella responsabile, una spiccata consapevolezza del proprio potenziale di influenza sul grande pubblico a cui si intende
proporre messaggi composti in un vocabolario simbolico elaborato al di fuori dei
soliti circuiti della moda. C’è insomma chiara l’idea che, come le immagini prodotte dall’arte, anche (e a volte in misura maggiore) le immagini commerciali
diano un contributo determinante nella formazione di un immaginario collettivo
che la curatrice della campagna connota però essenzialmente come immaginario
estetico. Nella strategia comunicativa di Piazza Sempione è chiaramente implicita
la consapevolezza che nella società contemporanea non ha senso cercare di distinguere in modo netto ciò che è arte dalle immagini prodotte ed usate per fini commerciali: tra i due mondi ci sono (ed è inevitabile) continue interferenze, rimandi
e collegamenti. Frequentemente le stesse immagini vengono utilizzate in entrambi
i circuiti, con l’arte che spesso prende spunto dalle merci per elaborare discorsi
propri, e viceversa il mercato che attinge ispirazioni dall’arte per comunicare
meglio i propri prodotti, oppure anche per cercare nuove ispirazioni creative. Tra
i creatori della campagna di Piazza Sempione l’idea della commistione tra arte e
mercato sembra diffusa tra tutti i professionisti coinvolti e viene da loro percepita
non come un problema, ma come una crescita delle possibilità espressive di
entrambi i settori.
La campagna primavera-estate 2004 oggetto del nostro studio è affidata ad
un artista milanese, definito come «un artista concettuale» cioè che lavora a partire da tematiche ed idee astratte e cercando di esprimerle nelle proprie opere. In
particolare, per questo artista l’idea di «varietà» riveste una grande importanza in
quanto rappresenta per lui una delle caratteristiche dominanti del mondo e della
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nostra società. Per questo la creazione di immagini in modo mirato gli sembra
un’attività del tutto superflua, mentre considera interessante raccogliere immagini
già esistenti oppure prodotte per caso:
io faccio tutte e due le cose: produco sia la varietà di partenza che mi interessa – o me la
trovo già pronta, mi vanno bene tutte e due le strade – e quando produco questa varietà
spesso mi metto nella condizione in cui queste cose avvengano spontaneamente [...] E sia
lavoro sul discorso di selezionare cosa mi interessa all’interno di questa grande variabilità
che si è prodotta accidentalmente. Sicuramente l’accidente, il contingente mi interessa
molto...[...] il caso creatore, il caso variatore, il caso proliferatore mi interessa moltissimo...
Nel lavoro fatto con Piazza Sempione il caso creatore e proliferatore ha assunto le sembianze dell’artista stesso che ha scattato personalmente tutte le foto per la
campagna, assumendo durante lo shooting il ruolo di fotografo, ma impersonandolo in modo assolutamente alternativo rispetto al fotografo di moda tradizionale.
Innanzitutto il suo rapporto con la modella mi è immediatamente parso inusuale.
Nonostante il gran numero di foto scattate, sia in pellicola che in digitale, l’artista
non ha mai dato input alla modella sulla posizione da prendere o sul modo di
atteggiarsi. Il suo obiettivo non era infatti quello di ottenere un determinato tipo
di immagine, di convogliare un messaggio preciso, bensì di produrre il più ampio
spettro possibile di immagini diverse. In un certo senso questo atteggiamento
assunto è l’opposto di quello tipico del fotografo professionista che lavora cercando di produrre un’immagine conforme ad un’idea, ad un concetto, ad un’immagine ancora virtuale che ha in testa.
Per quanto riguarda in generale la filosofia comunicativa di Piazza Sempione,
la responsabile la definisce come ispirata ad una certa sobrietà ed eleganza, per
colpire un pubblico fatto di donne che «non si vestono per gli altri, ma soprattutto per se stesse». Non sembra esserci quindi il tentativo di imporre un particolare
ideale di donna, ma di offrire dei prodotti che vanno bene per qualsiasi donna che
condivida il gusto estetico e la filosofia dell’azienda. L’idea di creare una moda
adattabile a molti tipi fisici diversi pare un po’ insita nel DNA dell’azienda che,
infatti, nelle prime campagne pubblicitarie, decide di non utilizzare delle modelle,
ma donne normali fotografate mentre si trovano al bar per un caffé o camminano
per strada. Successivamente anche Piazza Sempione inizia a lavorare con professioniste (mai però molto conosciute) sulla base della considerazione che le modelle
hanno un impatto visivo più forte rispetto alle altre donne. Non pare però ci sia il
tentativo di imporre un solo ideale di bellezza, né tantomeno di proporre il corpo
di questo donne in forma oggettificata. Anzi le modelle di Piazza Sempione sono
spesso ritratte in situazioni o indefinibili e astratte, oppure in posizioni naturali e
quotidiane.
Nella campagna che abbiamo studiato, la modella prescelta risponde sicuramente ai canoni estetici attuali: è molto alta ed esilissima, a tal punto che spesso
occorre puntare i vestiti che indossa con grosse spille da balia per renderli un po’
più aderenti al suo corpo. La scelta della modella è stata fatta in collaborazione tra
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la responsabile comunicazione, l’artista e la stylist, una professionista spagnola freelance che collabora con varie riviste e parecchie aziende milanesi e dice in proposito:
io ho dato dei nomi di donne che stavano uscendo, nuove facce [...] in base alle ultime sfilate che visto [...] io e la responsabile della comunciazione abbiamo deciso quello che
poteva essere meglio in base al prodotto, in base all’azienda12
Sicuramente la figura della modella è molto elegante, in un certo senso, se
paragonata alle figure ritratte da altre aziende (p. es. Iceberg, un altro «nostro»
caso), una figura anti-glam. D’altra parte queste caratteristiche sono ulteriormente
enfatizzate dal trucco («mi hanno chiesto di enfatizzare la carnagione bianca» dice
il truccatore) e dalla pettinatura.
Le fotografie che ne escono sono immagini che potremmo definire «molto
tranquille», non dissimili da quelle che tutti potremmo produrre da dilettanti,
fotografando i nostri parenti o amici. Infatti, dai focus group realizzati con consumatrici di diverse fasce di età, le pubblicità di Piazza Sempione sono molto apprezzate soprattutto per la loro disponibilità a farsi perni di un processo identificatorio.
Sicuramente, al di là del maggiore o minore apprezzamento estetico, sembra
esserci accordo tra le consumatrici nel ritenere che l’immagine femminile presentata nella campagna di Piazza Sempione sia rispettosa del ruolo della donna e proponga un modello molto più vicino alla loro realtà rispetto allo standard delle
pubblicità di moda:
questa ritrae una persona che potremmo essere tutte noi [...] è una persona normale
qui, dietro questa immagine [nella pubblicità di Piazza Sempione] c’è più considerazione
della donna
lo stile di Piazza Sempione si rivolge ad una donna di tutti i giorni, che va a lavorare, che
ha del tempo libero [...] comunque una cosa possibile anche per noi.
4.2.2. Gattinoni
Nel caso di Gattinoni siamo di fronte ad un’azienda che presenta una storia
ed una attuale organizzazione che risultano illuminanti per comprendere meglio la
strategia comunicativa.
12
Interrogata direttamente sul motivo della scelta di una modella così magra, la stylist diventa
decisamente reticente. Afferma brevemente e senza convinzione che la magrezza non ha pesato sulla
scelta, dovuta invece ad altre caratteristiche. Inoltre sostiene che la ragazza non è assolutamente anoressica, ma «proprio così di natura», un’affermazione che pare smentita dal comportamento della
ragazza a tavola, durante il pranzo a cui noi ricercatrici siamo state invitate. La responsabile della
comunicazione invece è anche lei perplessa di fronte alla magrezza della modella: la scelta, ribadisce è
stata fatta su suggerimento della stylist tra alternative equivalenti. Nell’immagine finale, tra l’altro, la
figura della modella risulterà solo accennata.
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Gattinoni nasce infatti come maison di alta moda negli anni Quaranta ad
opera della fondatrice Fernanda e si afferma negli anni successivi anche grazie alle
creazioni realizzate per il cinema. Il pret-à-porter viene affiancato alla produzione
sartoriale soltanto negli anni Ottanta, quando Raniero Gattinoni (il figlio di
Fernanda) incomincia a imprimere un nuovo stile creativo ai prodotti trasformando di fatto la maison in un’azienda moderna. Alla scomparsa di Raniero, la direzione artistica della griffe viene affidata ad un giovane creativo venezuelano,
Guillermo Mariotto, che dal 1994 si occupa della creazione di tutte le linee
Gattinoni, sia nell’ambito della couture sia nel pret-à-porter, supportato da un efficiente ufficio stile. Dal punto di vista produttivo, l’azienda produce all’interno
solo l’alta moda, mentre le linee del pret-à-porter sono affidate a licenziatari che si
occupano della produzione e della distribuzione dei capi che mantengono il marchio Gattinoni. Questa struttura organizzativa produce delle conseguenze sull’impostazione della campagna pubblicitaria, che deve innanzitutto tener conto delle
diverse esigenze espresse dalle aziende licenziatarie che differiscono per modalità
distributive e target di pubblico.
Il piano di massima, come spiega l’art director responsabile della comunicazione, è quello di arrivare ad avere dieci scatti finiti, uno per ogni azienda licenziataria, e poi di organizzare la diffusione delle immagini su diversi tipi di testate, a
partire dalle riviste specializzate più patinate come «Vogue», «Elle», «Marie
Claire», ai settimanali di più larga diffusione come gli allegati del «Corriere della
sera» e «Repubblica», fino a quelli con un target più popolare come «Oggi»,
«Gente», «Chi». La presenza di immagini delle varie linee sulle riviste è sempre
ragionata in riferimento al target. Naturalmente in sede di shooting fotografico, le
foto scattate sono moltissime e l’onere della scelta spetta al direttore artistico che
provvede da solo a questa funzione redazionale:
Oramai dopo tanti anni che faccio questo lavoro, chiaramente, non so come scatta una
molla, per cui [...] nella scelta ti colpiscono cinque-sei scatti, che tu metti da parte e [...]
alla fine scegli definitivamente quello che ti sembra il più comunicativo, cioè quello dove
c’è un compromesso tra ciò che tu vuoi [...] mettere [...] e quello che è tutto l’allure della
donna che lo sta indossando [...] diciamo alla fine è un processo quasi magico che, dalle
difficoltà iniziali [...] è quasi un divertimento. Riesci quasi a scegliere una sola immagine e
sei sicuro che comunque è quella l’immagine che volevi.
La scelta dell’immagine da pubblicare viene fatta anche pensando alla consumatrice finale soprattutto nel senso che la strategia comunicativa, perlomeno per
le linee di pret-à-porter, punta a mostrare chiaramente il prodotto. Il concetto di
base è che le immagini pubblicitarie possano anche essere usate dalle consumatrici come idee per abbinamenti e nuovi look, quindi quasi con quella funzione
didattica che si trova sottolineata anche in letteratura.
L’immagine pubblicitaria deve comunque scaturire e legarsi a un’idea, a un
tipo di ispirazione che, lo ripetono tutti, deve mostrarsi coerente con lo stile e la
filosofia del marchio, oltre che con la creatività dello stilista. In questo caso,
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abbiamo già detto, lo stile di Gattinoni sembra a tutt’oggi meglio espresso nell’alta
moda, il settore che autenticamente si lega alla storia dell’azienda. Comunque
anche le linee pret-à-porter si ispirano ad alcuni temi specifici che però di solito
tendono ad essere circostanziati e riferiti ad una sola stagione piuttosto che
costanti di uno stile che è giunto a maturazione solo nell’alta moda.
Descrivendo l’ispirazione per la campagna da noi studiata l’art director dice:
Le campagne nascono da una sinergia, da [...] appunto da un brain storming che [...] solitamente facciamo insieme [...] chiaramente lui è lo stilista, io mi occupo dell’immagine [...]
il tema di quella campagna era un omaggio all’Africa [...] Mariotto si riferisce sempre a dei
temi sociali, quando vuole lanciare un messaggio [...] in questo periodo era molto viva
questa polemica, sulla condizione sociale in Africa e specialmente quella della donna.
Questa tematica segna tutta quanta la collezione 2004, a partire già dalle sfilate, fino poi alle immagini pubblicitarie. Già infatti in sede di sfilata, alcuni mesi
prima della realizzazione della campagna, l’Africa aveva costituito il leitmotiv
della comunicazione aziendale, poi recepito e diffuso dalla stampa specializzata.
In quest’ottica si giustifica anche la scelta della modella protagonista della campagna pubblicitaria: una top model afro-americana (Debra Shaw) di cui il direttore
artistico dice:
Fisicamente Debra Shaw ricorda la silhouette degli sketch di moda, cioè degli schizzi che
gli stilisti fanno quando iniziano a proporre le collezioni, per cui sono sempre dei disegni
un po’ deformati, nel senso che la proporzione è [...] viene un po’ esagerata, [...] queste
figure sono estremamente slanciate e questa donna, diciamo, naturalmente, riprende quei
canoni che sono del disegno di moda.
Nella campagna da noi studiata, la figura della modella emerge come un elemento centrale e caratterizzante nel processo di costruzione del messaggio pubblicitario. Già riflettendo sulle impressioni ricavate sul campo, nelle note prese «a
caldo», avevamo rilevato il ruolo cruciale che la modella assume nella realizzazione degli scatti fotografici. Anche qui, come nel caso di Piazza Sempione, il fotografo fornisce pochissimi input, non impone affatto posizioni o atteggiamenti nel
tentativo di ottenere un certo tipo di immagine. A differenza che nel caso di
Piazza Sempione, però, qui la modella lavora in un modo molto diverso, sicuramente più attivo; per certi versi ricorda addirittura un’attrice, che posa davanti
alla macchina interpretando a ruota libera dei ruoli che lei stessa si sceglie, assumendo gli atteggiamenti più vari, quasi stesse recitando a soggetto. Così si ottiene
un «effetto diva-figurino» di fronte a cui al fotografo è richiesto di diventare un
cronista che si limita a riprendere quello che accade, naturalmente cercando di
valorizzare quel particolare gesto o movimento che ritiene più interessante.
Nella strategia comunicativa di Gattinoni si fa riferimento più o meno esplicitamente ad un certo ideale di donna che forse muta, da una campagna all’altra,
ma si esprime sempre entro un quadro di coerenza rimasto stabile fin dai tempi
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della fondazione della maison ad opera di Fernanda Gattinoni. La donna
Gattinoni non è però concepita sul modello di una donna reale, una che si può
incontrare per strada, che fa una vita normale; al contrario, come afferma il direttore artistico:
la donna Gattinoni è la donna del sogno [...] le persone ci dicono «Ah, ho visto le vostre
cose [...] son le cose che uno sogna che, diciamo, vorrei essere vestita così».
In effetti, guardando le immagini di Gattinoni, anche i modelli presentati
nelle sfilate oltre che quelli della pubblicità, si coglie una certa allure un po’ fiabesca che, qualche volta, è dovuta all’ambientazione, ma più spesso (e certo nelle
campagne a sfondo bianco) è dovuta essenzialmente al tipo di vestiti e all’interpretazione delle modelle. È un approccio che si coglie anche andando a rivedere
documenti risalenti alle stagioni passate e che quindi emerge come una caratteristica distintiva di un’azienda che affonda le sue radici in un passato di grandeur, in
cui Fernanda Gattinoni confezionava gli abiti di alta moda per celebri attrici e
signore del bel mondo. Siamo molto lontani dal riferimento alle donne normali e
alla loro vita di tutti giorni; piuttosto qui la donna vagheggiata è una donna dell’élite che non deve badare molto alla comodità nel vestire, ma può invece dilettarsi
a giocare con la sua immagine. Però, a nostro avviso, non è tanto dalle campagne
pubblicitarie che esce questo ideale femminile. Sicuramente la filosofia estetica di
Gattinoni ha ancora un suo codice espressivo preferenziale nell’alta moda, mentre
il pret-à-porter, pure ormai più importante dal punto di vista economico, sembra
vivere un po’ di luce riflessa.
Nonostante la scelta di una top model come interprete, infatti, il fuoco delle
immagini pubblicitarie non è sulla donna, ma molto più sui capi di abbigliamento.
L’immagine femminile volutamente ricorda i figurini disegnati dagli stilisti quando
«schizzano» i nuovi modelli e probabilmente contiene lo stesso messaggio: invita a
guardare appunto i vestiti, il loro taglio, la foggia, i dettagli sartoriali e non tanto a
osservare chi li indossa.
Questo messaggio di impersonalità viene recepito anche da parecchie delle
consumatrici intervistate nei focus groups. L’immagine proposta viene percepita
come il ritratto di una donna molto lontana dalla quotidianità, che ha un’espressione fredda, distaccata e che quindi non invita assolutamente all’identificazione.
D’altra parte le consumatrici si rendono molto bene conto che spesso l’obiettivo
perseguito dalle pubblicità di moda non è tanto quello di favorire l’identificazione, ma forse all’opposto di incuriosire, «schockare», spesso proprio di far sognare
proponendo abiti e personaggi lontani dalla quotidianità. In questo intento la
campagna di Gattinoni colpisce nel segno, dal momento che non innesca mai nel
pubblico (almeno nella parte da noi intervistata) dinamiche di identificazione.
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4.2.3. Iceberg
Nel caso di Iceberg il nostro lavoro di ricerca si è svolto utilizzando solo delle
interviste in profondità, senza il lavoro sul campo nella sede dello shooting. La
mancanza di questo tassello si riflette nel fatto che le informazioni raccolte su
Iceberg si riferiscono alla loro filosofia di comunicazione in generale e alle strategie
utilizzate negli anni per realizzarla e non si focalizzano, come gli altri casi, su una
campagna particolare.
Mentre dunque la parte su Piazza Sempione e Gattinoni si propone di ricostruire il processo di produzione specifico della campagna P/E 2004, la trattazione di Iceberg si configura più come una ricostruzione della storia delle campagne
dell’azienda dagli anni Ottanta ad oggi fatta attraverso le parole di alcuni personaggi che ne sono stati i protagonisti. Il nostro è quindi un racconto di secondo
ordine relativo all’elaborazione e allo sviluppo di una particolare filosofia di
comunicazione per immagini a cui possiamo aggiungere soltanto un diverso punto
di vista tratto dai feed back sulle pubblicità di Iceberg che abbiamo raccolto
durante i focus groups con le consumatrici.
Dalle parole degli intervistati si ha la netta impressione che la storia del prodotto Iceberg e la storia della sua comunicazione vadano di pari passo. Verso la
fine degli anni Settanta Iceberg si affaccia sul mercato del casual wear con l’idea
assolutamente nuova di produrre capi con decorazioni tratte dal mondo dei
fumetti. Occorre precisare che Iceberg è il nome della linea di maglieria realizzata,
accanto ad altre linee, dall’azienda Gilmar. Negli anni Settanta, appunto, la cofondatrice di Gilmar, in collaborazione con un giovane stilista francese poi divenuto famoso, Jean Charles de Castelbajac, lancia questa linea di maglieria che
abbina dei filati pregiatissimi e innovativi con delle grafiche molto forti e colorate
tratte appunto dai cartoni animati.
Per comunicare questo prodotto così innovativo, viene lanciata all’inizio degli
anni Ottanta una campagna pubblicitaria, anch’essa realizzata sulla base di un’idea del tutto inedita per i tempi, almeno in Italia. Insieme all’allora semisconosciuto Oliviero Toscani, la famiglia Gerani decide di lanciare una campagna che
ritrae su uno sfondo grigio e piuttosto anonimo una serie di personaggi famosi italiani e stranieri in una sorta di «galleria» di ritratti (I contemporanei) che comprende: Andy Warhol, Carla Fracci, Franco Moschino, Vivienne Westwood e altri che
indossano questi capi Iceberg divertenti e per i tempi stravaganti. Uno dei leitmotiv
della collezione e di riflesso anche della campagna pubblicitaria è il collegamento
con la pop art, soprattutto quella di matrice americana rappresentata da Warhol e
Lichtenstein, quest’ultimo notoriamente molto ispirato dal mondo dei fumetti.
Dopo il grande successo di una campagna decisamente alternativa, come
quella dei «contemporanei», l’azienda decide di cambiare e sceglie per la comunicazione una strategia meno dirompente, più tradizionale, in apparenza sicuramente meno rischiosa, dal momento che vengono chiamati fotografi di moda affermati
e modelle famose. Il risultato però è meno positivo: nel complesso, la comunicazione
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diventa meno distintiva, più banale, in parallelo, va detto, ad una «normalizzazione» anche del prodotto determinata da vari fattori.
In primo luogo senz’altro il clima culturale e le tendenze estetiche minimaliste di metà anni Novanta non sono in sintonia con un prodotto chiassoso e ironico come le maglie con i fumetti; inoltre, sul versante interno si sta verificando un
cambio generazionale, con le consegne che passano al figlio dei fondatori.
Insomma nel complesso si assiste ad un periodo un po’ di silenzio di Iceberg che
non significa necessariamente che il prodotto fosse in crisi di vendite, ma semplicemente che aveva perso la sua distintività e personalità più autentica e originaria.
Tra la fine degli anni Novanta e il 2000 la strategia comunicativa viene rivista
per renderla adatta alla pubblicizzazione di un prodotto profondamente segnato
dalla sua storia. Di nuovo l’idea è quella di affidarsi a un grande fotografo che sia
in sintonia e quindi sappia interpretare la filosofia del marchio. Viene individuato
un fotografo americano, David La Chapelle, che era stato lanciato da Andy
Warhol qualche anno prima e si stava affermando come uno dei talenti più originali di questi anni.
La collaborazione tra Iceberg e La Chapelle, durata tre anni, segna profondamente la storia della comunicazione di Iceberg, riportando l’azienda all’avanguardia delle più recenti tendenze nella pubblicità di moda. Come accennavo più
sopra, nel campo delle immagini di moda è attualmente in atto un processo di dedifferenziazione tra pubblicità e redazionali che rende ancora più fitta la sovrapposizione tra le due forme di comunicazione. Tradizionalmente, infatti, lo specifico del redazionale era appunto quello di svolgersi come racconto, di procedere
per immagini legate in successione da una trama narrativa, al contrario della pubblicità giocata su immagini a sé stanti. Con La Chapelle invece Iceberg incomincia
a fare anche le pubblicità presentandole come dei racconti, puntando molto ad
esempio su ambientazioni accuratamente descritte, ricostruendo scenari adatti ai
personaggi, in una parola, raccontando:
Uno stile di vita, perché è importante ragionare entro stili di vita, dare dei messaggi chiari
al consumatore di chi è il marchio, che vibrazioni emana, eccetera.
Naturalmente, rispetto ai redazionali, si tratta di «racconti» diversi, perché
diverse sono le finalità. Nella fase esplorativa della nostra ricerca, in cui si stava
definendo più chiaramente il progetto, abbiamo condotto anche un piccolo studio
pilota su un redazionale realizzato per «Io Donna» e uscito nel febbraio 2003.
Avendo assistito allo shooting fotografico, qui svolto in tre giornate, siamo state in
grado di fare parecchie osservazioni sul processo di costruzione del redazionale,
che sono state molto utili per comprendere, a volte per similitudine, a volte per
contrasto, le dinamiche di lavorazione delle campagne pubblicitarie.
Mentre in queste ultime la figura più determinante sembra essere quella del
responsabile di comunicazione che, di fatto, rappresenta l’azienda committente e
quindi ha forse un maggior potere decisionale rispetto a tutti gli altri professionisti
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coinvolti, nel caso del redazionale le due figure cruciali sono il fotografo e il/la
fashion editor che hanno, a nostro avviso, margini di libertà decisamente più ampi
pur entro i limiti tracciati a priori di solito dal direttore della testata. In questo
contesto è assolutamente essenziale che tra modella e fotografo si instauri un’intesa tale per cui ciascuno riesce a interpretare i desideri e la personalità dell’altro.
Naturalmente anche qui sono importanti i vestiti, ma ancora più importante è riuscire a dare l’idea del filo rosso del racconto, in modo forse non dissimile da un
film, ma senza l’aiuto dei dialoghi. In tale racconto consiste di fatto un significato
(forse il principale) della sequenza visuale proposta, anche se è ovviamente importante mantenere una coerenza con lo stile della testata.
Invece nel caso della pubblicità strutturata come un racconto, occorre infondere un significato ulteriore che in questo caso è probabilmente il più importante:
le immagini devono esprimere la filosofia del marchio di appartenenza, devono
suggerire uno stile di vita di cui quel marchio intende farsi portavoce, devono
legarsi alla cultura dell’azienda che le propone. Per questo la trama narrativa risulta sempre un po’ più debole rispetto ai redazionali e nel complesso le campagne
cosiddette «di immagine» sono più difficili da realizzare di quelle tradizionali e
implicano maggiore dispendio di risorse umane e finanziarie.
Ma tornando all’ispirazione pop dell’immagine di Iceberg, come si traduce
nelle immagini femminili proposte nelle campagne? Secondo gli intervistati, la
donna di riferimento per Iceberg è giovane (non tanto anagraficamente, ma di spirito), ama il colore e desidera sempre essere alla moda. Per definire l’immagine
femminile di Iceberg il titolare dell’azienda ricorre alla metafora delle colonne:
quando mi chiedono chi è Iceberg, io uso sempre dire che ci sono quattro [...] colonne
intorno alle quali viene costruita la casa, una colonna di Iceberg è certamente l’ essere
sportivo, la seconda colonna è essere colorata, la terza colonna è essere [...] sexy, e la quarta è un riferimento costante e continuo ad un mondo pop, proprio pop nel senso del termine pittorico, quindi [...] della cultura [...] dell’arte popolare americana, degli anni fine
Cinquanta inizio Sessanta, e quindi [...] Che poi la pop si coniuga bene con il colore, quindi colore e pop [...] diciamo che sono due pilastri ma potrebbe essere anche un pilastro
unico. Io voglio riuscire a comunicare questo stile qua, a chi sfoglia un giornale.
I suoi riferimenti tendono dunque ad essere piuttosto artistici, mentre l’ex
responsabile della comunicazione esprime idee più definite sulla consumatricetipo di Iceberg:
una donna che si mette una roba di Iceberg, cioè delle cose colorate, kitschone, anche se,
per certi versi raffinatissime e con una façon eccezionale, non è evidentemente la stessa
consumatrice di Trussardi, che è una consumatrice bon-ton, borghese, che è una delle cose
che comunichino un uso rassicurante. Beh, Iceberg è la stessa donna di Dolce & Gabbana,
di Cavalli, etc. etc.
Tra le consumatrici da noi intervistate nei focus group, le campagne di Iceberg
(sono state mostrate principalmente quelle realizzate da David La Chapelle) sono
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state le più criticate, ma sicuramente in vari momenti hanno monopolizzato l’attenzione delle partecipanti. Se si eccettuano gli apprezzamenti di alcune delle
intervistate più giovani, in tutti gli altri casi abbiamo rilevato reazioni forti e spesso scandalizzate Le immagini vengono infatti considerate molto trasgressive e, in
alcuni casi, addirittura offensive, perché mostrano, secondo alcune, scene situate
in ambienti equivoci, al limite della legalità, popolati da gente un po’ depravata.
Le consumatrici di mezza età hanno spesso sottolineato il potenziale diseducativo
di queste foto, altre si sono soffermate sulla distanza di questi stili di vita dalla
normalità:
queste immagini così trasgressive, però, a furia di vederle, ti portano poi ad accettare dei
tipi di modelli ai quali tu non eri abituata
allora mia figlia cercherei di farla approcciare in modo diverso
queste foto mi danno la sensazione di gente sporca, di gente trasandata, di gente scialba
in queste figure la più negativa è quella femminile [...] io sfoglierei le pagine senza nemmeno soffermarmi perché non c’è niente che personalmente mi possa attirare. Quindi anche
se il vestito tolto da questo contesto può essere gradevole, la presentazione è sicuramente
di rottura e può essere respingente.
In qualche caso invece le consumatrici hanno apprezzato l’impegno nella
costruzione delle immagini e hanno trovato delle giustificazioni al loro aspetto
così trasgressivo:
questo tipo di abbigliamento è decisamente molto teatrale e va bene per uno che ha la
capacità di sostenere questo tipo di vita
secondo me lo scopo di questa pubblicità è di farsi guardare nel bene e nel male, perché
noi infatti di tutte queste cose stiamo parlando esclusivamente di questo Iceberg, perché ci
ha colpito, non in senso positivo, ma ci ha molto colpito. Talvolta la pubblicità serve solo a
quello, a far parlare.
Nel gruppo delle consumatrici più giovani si attenua il tono scandalizzato, ma
lo stesso l’immagine di Iceberg non ha molto successo:
questa del film [...] è carina come idea, è bella la fotografia, però secondo me è un po’
troppo manierista, molto pesante, io cambierei subito pagina: troppi colori, troppo spreco
è troppo ricca di particolari [...] cioè uno si perde dentro questa foto [...] non è chiara
secondo me per quanto riguarda la composizione dei vestiti.
L’immagine femminile che emerge dalle immagini di questi film pubblicitari è
percepita quasi sempre come volgare, un modo di ritrarre le donne come se fossero
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veramente degli oggetti, un rilievo che peraltro accomuna Iceberg a Gattinoni,
mentre a salvarsi è veramente solo Piazza Sempione.
V - OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
L’iconografia di moda svolge un ruolo sociale e culturale che va ben al di là
della funzione informativa riguardante i nuovi modelli di vestiti e accessori. A differenza della pubblicità di altri prodotti, che spesso tende a riprodurre modelli e
comportamenti tradizionali e condivisi, le immagini di moda si propongono
all’opposto come delle idealizzazioni, delle rappresentazioni visive di un mondo di
desideri non soddisfatti, una sorta di cristallizzazione di possibili aspirazioni più o
meno consapevoli e confessabili. Nell’ambito dell’iconografia pubblicitaria, le
immagini di moda costituiscono un’area dove è più spiccata la tendenza alla sperimentazione estetica e dove le suggestioni e i richiami provenienti dal mondo dell’arte vengono ascoltati e recepiti con grande attenzione. Sicuramente anche nella
moda l’obiettivo finale è la vendita dei prodotti e il successo del marchio, ma i
percorsi per raggiungerlo aprono un ventaglio di opzioni espressive entro il quale
esercitare, da parte dei professionisti coinvolti, la propria creatività.
Si tratta di uno dei settori della fotografia commerciale in cui l’aggancio con il
mercato è volutamente trascurato e tenuto il più possibile nascosto, come dimostra anche la progressiva perdita d’importanza del riferimento al prodotto, forse
l’ultimo legame rimasto con la realtà delle merci. Se è vero, come afferma
McRobbie (1999), che la moda vuole sempre più presentarsi come un mondo vicino all’arte, questo avvicinamento si sta realizzando anche e forse soprattutto nell’ambito della fotografia di moda.
L’analisi dei processi lavorativi dei produttori di immagini evidenzia infatti il
criterio estetico come assolutamente predominante nel loro operato, al pari se non
più determinante rispetto alla logica commerciale e di marketing. Lavorare alla
pubblicità di moda significa dunque dedicarsi alla produzione di un insieme di
valori che non hanno veramente un aggancio (se non estremamente labile) con i
prodotti, ma che assegnano a questi ultimi o al marchio cui fanno capo un plusvalore che ha a che fare con idee, filosofie, stili di vita di cui l’immagine fornisce soltanto un accenno, delle suggestioni, senza mai specificarli. E lo fa spesso utilizzando dei codici che solo apparentemente sono tratti dalla vita reale: presentando
situazioni, ambienti, persone che non ritraggono davvero il mondo in cui è inserita la maggioranza dei consumatori, ma al contrario incorporano degli ideali corporei molto estremi o mostrano delle situazioni desiderate dal pubblico, o che il
pubblico dovrebbe desiderare una volta conosciute.
Per quanto riguarda la verifica delle responsabilità, cioè il tentativo di stabilire
una authorship delle immagini, pensiamo di poter concludere che né il fotografo,
né i responsabili della comunicazione, né gli art director si autopercepiscono come
attori che potenzialmente influenzano l’immagine del self delle consumatrici finali.
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Pare infatti che il consumatore, o meglio in questa sede, le consumatrici finali
non siano oggetto di riflessione; in altre parole la realtà delle donne «normali»
non entra nel processo di elaborazione delle strategie alla base delle campagne
pubblicitarie. Ciò che fa da motivo ispiratore sono piuttosto delle tipologie ideali
e stereotipiche di donna che vengono assunte come modelli astratti e appunto
idealizzati, forse corrispondenti a quelli che lo/la stilista ha in mente quando disegna i propri capi. Chi fa pubblicità di moda non ritiene dunque come proprio
compito riprodurre la realtà o una realtà in cui poi inserire i propri prodotti; di
fatto mi sembra che si faccia il contrario, cioè che si trasfiguri la realtà facendole
«dire» comunicare qualcosa che ha a che fare con l’immaginario a cui si ispira il
prodotto o il brand.
Il fatto è che, come è stato ampiamente dimostrato, le immagini di moda
hanno poi effettive ricadute sulla realtà, quella vera:, in misura sicuramente maggiore di quelle espressioni artistiche a cui forse si ispirano. Perché? In primo
luogo perché, indipendentemente dai desideri degli ideatori di queste immagini, il
vasto pubblico le percepisce come comunicazione commerciale e pertanto, a differenza di quanto farebbe dialogando con un’opera d’arte, si relaziona ad esse su
un piano di senso comune e in base ad un’ipotesi implicita di continuità tra le
immagini stesse e la vita quotidiana. In altre parole, le immagini di moda non sono
percepite (né per altro intendono veramente proporsi) come un mondo «altro»
rispetto alla vita quotidiana, ma al contrario come prefigurazione di obiettivi e
desideri a portata di mano e assolutamente realizzabili. Ma allora le strutture corporee specialmente femminili, che vengono proposte non possono esser considerate degli «ideali» nel senso estetico del termine, ma piuttosto dei modelli sociali
che si propongono all’imitazione del pubblico. Sarà anche vero, come dicono per
difendersi stilisti, stylist e responsabili della comunicazione, che i vestiti stanno
meglio su un corpo snello o filiforme (che non è propriamente ideale, ma soltanto
raro nell’attuale società occidentale), ma è altrettanto vero che quel corpo «fa
scuola» soprattutto tra le ragazzine che facilmente vedono in esso il passaporto
per ottenere sicurezza in se stesse, successo, o semplicemente per relazionarsi agli
altri contando su un’apparenza normalizzata nel senso di socialmente apprezzata.
Naturalmente sarebbe insensato affermare che la comunicazione di moda è il fattore determinante nel diffondersi di anoressia e bulimia; tuttavia ritengo che essa
contribuisca a rendere l’humus sociale più fertile per la proliferazione di questi
disturbi sia direttamente, nel mondo delle modelle che lavorano nell’industria
della moda, sia al di fuori tra le fasce più influenzabili del pubblico femminile.
Del resto il proporsi come universo di desideri realizzabili è essenziale per l’esistenza stessa dell’industria della moda oltre che di quella della cosmesi, un settore con molti tratti in comune con la moda. Infatti le pubblicità delle aziende di
entrambi i settori sono sempre giocate sulla promessa più o meno implicita che
acquistando quei prodotti o capi di abbigliamento, si riuscirà ad assomigliare alla
figura ritratta o ad adottare il suo stile di vita. Come nota molto acutamente
Naomi Wolf nel suo libro The Beauty Myth (1991) quanto più il modello è difficil-
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mente imitabile tanto maggiori saranno le energie che le donne devono sottrarre
ad altre sfere della loro vita per riuscire ad avvicinarvisi. Questo scenario si presta
indubbiamente ad una lettura foucaultiana: infatti, se tale meccanismo funziona,
esso diventa ovviamente un potente strumento di mantenimento dello status quo
per quanto riguarda la distribuzione di potere tra universo maschile e universo
femminile. Per questo la continua reiterazione dell’equivalenza della donna con il
proprio corpo, cui accennavo nell’introduzione di questo articolo, appare «pericolosa»: non tanto dunque perché sia negativa in sé, quanto perché mediante la
proposizione di obiettivi quasi irrealizzabili che l’industria della moda contribuisce a diffondere, si pongono le condizioni per una permanenza delle donne in
posizione subordinata, di disempowerment.
Inoltre resta il fatto che a tutt’oggi e con rare eccezioni illuminate, le immagini create per la pubblicità di moda contengono molti richiami ad una sessualità
chiaramente connotata nel genere: per questo mi pare che in fondo la tesi del male
gaze non possa ancora essere del tutto accantonata, ma che al contrario risulti una
chiave interpretativa ancora valida per molti dei messaggi a cui siamo sottoposti. Il
fatto poi che nelle pubblicità e nei redazionali di moda venga sempre più inserita
anche la figura maschile presentata secondo le medesime modalità non smentisce
la tesi del male gaze, come dimostra il fatto che questa iconografia ha un vasto
seguito nella comunità gay (cfr. Van Zoonen 1994; Joblin 1999).
Se fossi un uomo potrei concludere semplicemente qui; essendo io donna, mi
piace invece concludere riportando un monito che ho trovato in un sito americano che diffonde tra le donne la consapevolezza delle problematiche che ho trattato in questo articolo:
«Always remember that the main objective of the fashion, cosmetic, diet, fitness and
plastic surgery industries is to make money, not to make you the best person you can possibly
be. The ultra thin ideal is working for them. But is it working for you? »
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Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica di Milano
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