Diapositiva 1 - Quantumbionet

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Depression between biology and culture. An
ontological interpretation
Crema ,30 settembre 2011
Fabio Gabrielli
Factus eram ipse mihi magna
quaestio
(Agostino, Confessioni, 4,4)
«Soltanto il grande dolore è l’estremo liberatore dello spirito
[…] il grande dolore soltanto, quel lungo, lento dolore che
vuole tempo, in cui, per così dire, veniamo bruciati come legna
verde, costringe noi filosofi a discendere nelle nostre ultime
profondità e a sbarazzarci di ogni fiducia, di ogni bontà
d’animo, di ogni palliativo, di ogni mansuetudine, di ogni via di
mezzo, di tutto ciò in cui forse una volta riponemmo la nostra
umanità. Dubito che il dolore “renda migliori”, eppure so che
esso ci scava nel profondo» (Nietzsche, La gaia scienza).
BREVI DEFINIZIONI
Platone, nel Cratilo (399 c), fa derivare il
termine greco ánthropos (uomo) dal verbo
anathréin, che significa percepire
accorgersi: l’uomo, nel momento in cui
vede (ópos), si “rende conto di ció che ha
visto”.
Altri lo fanno derivare dalle radici én-trépophós , “ente che si orienta verso la luce”.
In sintesi, l’uomo è coscienza interrogante
e progettante.
Labor come pesantezza, travaglio
(pònos, pénomai, penìa)
Arbeit e arm derivano dal
germanico arbm, cioè negletto,
abbandonato
Nel dettaglio, la coscienza può essere rappresentata
come un insieme di livelli comunicanti:
1. Livello biologico puro o io primordiale: il proto sé di
Damasio , il riferire in forma rudimentale al proprio Sé
le sensazioni di fame, sete, piacere, dolore;
2. Livello bio-eco-logico, relativo all’interazione
consapevole tra soggetto e ambiente, ma fissato solo
nell’hic et nunc, senza estensione progettuale;
3. Livello mnemonico esteso, proprio di una coscienza
che, pur dilatandosi “avanti e indietro”, non sa ancora
incarnare in un linguaggio il suo essere narrazione
ininterrotta, custodita dalla memoria come luogo di
senso dell’esistenza;
4. Livello identitario di senso: l’io, dal suo
radicamento originario nel biologico, si è
progressivamente esteso alla dimensione
ecologica o mnemonica a corto raggio, è poi
passato alla dimensione mnemonica a lungo
raggio, e ora, tramite il linguaggio, produce una
cultura compiuta. In altri termini, l’io produce
articolazioni di senso su se stesso e sul mondo,
integrando nei suoi vissuti e nei suoi agiti, in una
narrazione intellettiva e affettiva irriducibile ad
ogni altra, visioni del mondo, sollecitazioni
sociali, espressioni scientifiche e culturali.
5. Livello misterico dell’io o abisso di coscienza . La presenza
nell’uomo di un’intuizione profetica, di un abisso di coscienza
immateriale spalanca la strada alla libertà come liberazione dai
limiti esterni (materia, “ostacoli” da superare in vista della
realizzazione dei propri progetti) e interni (determinismo biologico
ad oltranza o panbiologismo). L’uomo si radica nel biologico, ma
non risolve in esso tutta la sua esistenza. Insomma, è riduzionistico
identificare l’io personale in una semplice catena di neuroni o, in
altri termini, spiegare la mente, e quindi indirettamente
l’anima/coscienza, solo su base neurale: per esempio sulla
neuropsicanalisi e il vecchio sogno di Freud di ridurre il mentale al
neurale, si vedano i contributi di Henrich et coll. e Semenza .
Dall’altro lato, è, ovviamente, ontologicamente insensato
disancorare l’io dalla sua carne, dalla sua dimensione biologica.
In questo quadro, il dialogo tra
tubulina-sinapsi-cervello, regolato dalla
serotonina, potrebbe essere la chiave
ermeneutica privilegiata per
determinare i diversi livelli di coscienza
o stati di coscienza (Figura 15).
LA VERTIGINE E IL
LUMINOSO
• L’UOMO, ABITANDO L’INTERVALLO
TRA IL NON PIÙ E IL NON ANCORA, È
STRUTTURALMENTE UN ANIMALE
ANGOSCIATO IN CERCA DI STABILITÀ, DI
UN FONDAMENTO.
L’ANGOSCIA
L’angoscia si può paragonare alla vertigine.
Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è
preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno
nel suo occhio che nell’abisso: perché deve
guardarsi. Così l’angoscia è la vertigine della
libertà, che sorge mentre lo spirito sta per
porre la sintesi e la libertà, guardando giù
nella sua propria possibilità, afferra il finito per
fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà
cade ( Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia).
«Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non
sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia,
riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall'alba al
tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente
con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo
dell'istante, e perciò né triste né tediato. Il vedere
ciò fa male all'uomo, perché al confronto
dell'animale egli si vanta della sua umanità e
tuttavia guarda con invidia alla felicità di
quello - giacché questo soltanto egli vuole, vivere
come l'animale né tediato né fra dolori, e lo vuole
però invano, perché non lo vuole come l’animale»
(Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la
vita).
E ancora:
«Lotta sofferenza e tedio si avvicinano
all'uomo, per rammentargli ciò che in fondo
è la sua esistenza - qualcosa di imperfetto
che non può essere mai compiuto. E quando
infine la morte porta il desiato oblio, essa
sopprime insieme il presente e l'esistenza,
imprimendo in tal modo il sigillo su questa
conoscenza - che l'esistenza è solo un
interrotto essere stato, una cosa che vive
del negare e del consumare se stessa, del
contraddire se stessa» (Nietzsche, Sull'utilità
e il danno della storia per la vita).
LA “NOSTALGIA DEL CENTRO”
Radicale sentimento d’angoscia che, a
seguito della lacerazione originaria, la
caduta dall’Uno nei molti, da sempre ci
abita e che è alla origine della nostra
tensione a reperire un senso fondativo
dell’esistenza, un Centro, per così dire,
terapeutico.
La “nostalgia del Centro” è essenzialmente archetipo
erotico, struggente desiderio di amore e bellezza, di
integrità ontologica e armonia, viepiù alimentata dalla
mestizia per lo schellinghiano velo di tristezza che si stende
su tutte le cose: «[…] La bellezza vivente è sempre
passeggera. E a fianco della bellezza sta la morte.
Nondimeno, quasi a difesa estrema contro tutto ciò, ecco la
nostalgia di ciò che è eterno e infinito, di ciò che è
assoluto; nostalgia di ciò che semplicemente è perfetto; di
ciò che è inaccessibile e riposto; profondo al massimo, e
interiore; di ciò che è intangibile e aristocratico, nobile e
prezioso» (Guardini, 1993).
Altrettanto esplicative sono le parole di Freud su quella che
potremmo chiamare la bellezza interrotta: «Non molto
tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un
poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una
passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il
poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma
non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella
bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere
dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni
bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli
uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli
avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito
dalla caducità cui era destinato »( Freud, Caducità ).
L’antropologia e la storia delle religioni, con tutto il loro
corredo simbolico, ci lumeggiano assai bene sul simbolismo
del Centro: «Le immagini, i simboli, i miti, non sono
creazioni irresponsabili della psiche; essi rispondono a una
necessità ed adempiono una funzione importante: mettere
a nudo le modalità più segrete dell’essere. Ne consegue
che il loro studio ci permette di conoscere meglio l’uomo,
l’”uomo tout court”, quello che non è ancora sceso a patti
con le condizioni della storia» (Eliade, 1991). La simbolica
del Centro trova nelle civiltà arcaiche, ma anche in quelle
più avanzate un terreno di straordinaria fioritura.
Al di fuori di quel microcosmo che è lo “spazio cosmicizzato”, abitato,
strutturato, per le società arcaiche e tradizionali, come ricorda Eliade
(1991, pp. 38 e sgg.), “si stende la regione sconosciuta e temibile dei
demoni, delle larve, dei morti, degli stranieri”. Da questo mondo ostile,
umbratile, abitato dal caos, secondo un’immagine sopravissuta anche
in civiltà maggiormente evolute (Cina, Mesopotamia, Egitto), rifluisce
nel mondo abitato una continua minaccia di de-cosmicizzazione, di
obliterazione dell’ ordine epistemico, di ciò “sta sopra” (epi = sopra,
steme = stare, dalla radice indoeuropea stha), che “sta fermo”, e per
questo, garantisce stabilità sociale, armonia, bellezza (kosmióteta).
Ogni spazio abitato, allora, si fornisce di un “Centro”, un luogo sacro
che costituisce l’autentico spazio reale, nella misura in cui nelle civiltà
arcaiche il mito è reale in quanto descrive le manifestazioni della vera
realtà (Eliade, 1991,; Pettazzoni, 1947-1948).
Il Centro, soprattutto nelle civiltà paleo-orientali, si
configura come legame tra regioni cosmiche (Cielo, Terra,
Inferno): per esempio, Dur-an-ki, “legame tra il cielo e la
terra”, era il nome dei santuari di Nippur, Larsa e Sippar;
Bâb-ilânî era una “porta degli dei”, perché proprio in quel
punto gli dei scendevano sulla terra (Eliade, 1991, pp.4142). Il Centro è l’ens realissimum, la realtà radicale, la cui
sacralità garantisce non solo una difesa contro tutto ciò
che è ostile, ma anche e soprattutto una comunicazione
con il cielo, espressiva di una nostalgia per l’ Origine, per
l’Eden, al quale l’uomo sente di appartenere per essenza e
destino.
Esemplificazioni forse ancor più
rimarchevoli sulla nostalgia del
“Centro”, le ritroviamo nel mondo
greco, a partire dall’ Orfismo, una sorta
di letteratura religiosa che si distende
per un arco di tempo davvero ampio,
dal VI secolo alla fine del mondo tardoantico, e senza il quale risultano per
molti versi incomprensibili alcuni
presocratici e, soprattutto, Platone e il
platonismo in genere.
L’ANTROLPOLOGIA ORFICA:
ELEMENTI DI FONDO
• Dualismo antropologico
• Corpo e mondo come esilio
• Aspirazione a reintegrarsi al divino cui
l’anima appartiene per origine, destino e
natura.
INFLUENZE ORFICHE SU EMPEDOCLE: CADUTA
E ANGOSCIA
- Da quale rango, da quale culmine di felicità (fr. 123);
- Giungemmo sotto quest’antro coperto (fr. 124);
- Piansi e gemetti, vedendo un luogo estraneo (fr. 125);
- Terra che cinge i mortali (fr. 126);
- Rivestendoli con una tunica di carni ad esse sconosciuta
(fr. 127);
- Ahimè, o stirpe infelice dei mortali, o due volte
sventurata,
da quali contese, da quali gemiti nasceste! (fr. 131).
“Sono una vite, una vite
solitaria che sta nel mondo.
Non ho un sublime piantatore,
non ho un coltivatore, non un
mite aiuto che venga ad
istruirmi su tutte le cose” (G
346).
“Rifletto in che modo questo è
avvenuto. Chi mi ha trasportato in
prigionia lontano dal mio luogo e
dalla mia dimora, dalla casa dei
miei genitori che mi hanno allevato?
Chi mi ha portato tra i malvagi, i filgi
della vana dimora? Chi mi ha
portato tra i ribelli che ogni giorno
fanno guerra?” (G 328).
Io sono io, il figlio dei pacifici
[ossia degli esseri di Luce].
Sono stato mescolato e vedo
pianto.
Conducimi fuori
dall’abbraccio di morte
(Frammento di Turfan, M 7).
“Anima mia, o splendidissima, dove te
ne sei andata? Ritorna di
nuovo…Seguimi al luogo della terra
sublime” (“Messa corta dei morti”, testo
manicheo di Turfan: R. Reitzenstein,
Das iranische Erlsungsmysterium, Bonn
1925).
“ Dal luogo della luce è la mia
provenienza, da te,abitazione
luminosa…”(G377).
“L’uomo… è visibilmente smarrito, e
caduto dal suo vero posto senza
poterlo ritrovare. Lo cerca
dappertutto con inquietudine e
senza successo, in tenebre
impenetrabili”(Pascal, Pensieri,
275).
PAESAGGI DELLA MALINCONIA E
DELLA NOSTALGIA
LETTURE UTILI:
1. B. Frabotta, a cura di, Arcipelago malinconia. Scenari e parole
dell’interiorità, Donzelli, Roma 2001.
2. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la malinconia, tr. it.
Einaudi, Torino 2002.
3. E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano 2002.
Pothos é figlio di Afrodite e
fratello di Eros e Himeros.
Platone, nel Cratilo, attribuisce
ad Himeros il desiderio di ciò
che è presente e a Pothos il
desiderio di ciò che è lontano.
Pothos indica il rimpianto, il desiderio
del nostos (ritorno): esprime la
nostalgia come ricerca di ciò che non é
perduto per sempre.
La malinconia, invece, nella sua fase
più acuta, indica il perduto per
sempre.
La malinconia può determinarsi come:
1. Scontentezza del presente: per questo il malinconico
ha vis immaginativa, ipotizza e sogna mondi migliori, ,
“presagisce l’altrove” (S. Natoli), evita il sorriso
istituzionale.
La malinconia é legata alla Sehnsucht , al desiderio di
qualcosa di vago, indefinito, rispetto alla
nostalgia(Heimweh) che è un tentativo, invece, di
recuperare un passato ben preciso.
Mittner: Sehnsucht = “DESIDERIO DEL DESIDERIO”.
Siamo nel campo della malinconia come Stimmung, stato
d’animo, creatività.
2. Paralisi esistenziale
depressione
La malinconia, a differenza delle tristezza ,alimenta
il pensiero:
Ma esso mi assale e mi sottomette, questo
spirito della malinconia, questo diavolo del
crepuscolo serale […]. Il giorno si spegne, per
tutte le cose giunge ora la sera, anche per le
migliori; udite e guardate, uomini superiori,
qual demonio […] è questo spirito della
malinconia serale!
(F. NIETZSCHE (1884), Così parlò Zarathustra, IV,
Il canto della melanconia, Newton Compton, Roma
1988).
La novità [scoperta da Nietzsche] è una strana e
profonda poesia, infinitamente misteriosa e solitaria,
che si basa sulla Stimmung […] del pomeriggio
d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono
più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia ad
essere più basso. Questa sensazione straordinaria si
può provare (ma bisogna naturalmente avere la
fortuna di possedere le eccezionali facoltà che
possiedo io) (22) […] nelle città italiane e in qualche
città mediterranea, come Genova o Nizza; ma la città
italiana per eccellenza ove appare questo straordinario
fenomeno è Torino.
(G. DE CHIRICO, Memorie della mia vita Bompiani, Milano
1998 .)
Questa è la prima volta che la noia non
solamente mi opprime e stanca, ma mi
affanna e lacera come un dolor gravissimo; e
sono così spaventato della vanità di tutte le
cose, e della condizione degli uomini, morte
tutte le passioni, come sono spente
nell’animo mio, che ne vo fuori di me,
considerando ch’è un niente anche la mia
disperazione.
(G. Leopardi, Lettera a Pietro Giordani, 19
novembre 1819).
Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo,
ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre
umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi
involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di
andare dietro tutti i funerali che incontro, e specialmente
ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi
occorre un robusto principio morale per impedirmi di
scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per
terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di
mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato
della pistola e della pallottola.
H. Melville, Moby Dick, tr. it. Mondadori, Milano 1972.
Ma, forse, una parola definitiva sulla vaghezza del
vuoto depressivo ce la fornisce Kierkegaard nel suo
Diario: «È un martirio tremendo, la totale
impotenza spirituale di cui attualmente soffro,
proprio perché congiunta a una nostalgia
divorante, a un bruciante ardore di spirito, e
tuttavia così vaga e informe che non so io stesso
che cosa mi manchi » (cit. in R. Guardini, Ritratto
della Malinconia, Morcelliana, Brescia 1954).
Affinità con lo spazio infinito; con le vuote lontananze; il mare, la
brughiera, i nudi dossi montani, l'autunno che fa cadere le foglie e
dirada e schiarisce gli spazi; il mito, con le sue distanze temporali,
che si perdono nell'indefinito passato. Spazio esteriore indefinito,
e interiorità nascosta - l'una cosa è in stretta comunicazione con
l'altra. Entrambe un'immagine insieme e il luogo più proprio a un
divenire profondo. Questa malinconia, per l'appunto, che toglie
valore agli esseri, che svuota di contenuto figure e valori ben
stabiliti e fermi; che rende vana e chimerica qualsiasi cosa
spingendosi nel vuoto e nel tedio; che spezza e asporta i pilastri
dell'esistenza stessa, e si caccia così in una insensata
disperazione; questa malinconia è quella da cui esplode il
dionisiaco. Proprio l'uomo malinconico è più profondamente in
rapporto con la pienezza dell'esistenza
(R. Guardini, Ritratto della malinconia, cit.).
«Non c’è nulla di cui il paziente possa occuparsi, nulla
da cui si senta attirato, nulla che lo interessi, che lo
rallegri, che gli dia piacere. “Non arrivo più a fare nulla,
non provo nulla per nulla, è come se non avessi più
sentimenti. Non mi è più possibile provare sentimenti.
Non provo più nulla corporalmente, né sessualmente,
né per mia moglie, né per mio nipote che sta per
nascere. C’è un vuoto terrificante intorno a me e io
stesso sono disperatamente vuoto” » (R. Kuhn R.,
L’analyse existentielle dans l’expérience dépressive, in
“L’Evolution Psychiatrique”, 54, 1989, pp. 557-569).
Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo
felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la
propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte
certa. Non ho ereditato né un Dio né un punto fermo sulla
terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho
ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il
gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza
dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che
crede in cose di cui io dubito o sul’uomo che venera il suo
dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle
tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una
cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha
l’uomo non può essere soddisfatto (S. Dagerman , Il nostro
bisogno di consolazione, tr. it. Iperborea, Milano 2000).
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