Lieder romantici - Università degli studi di Pavia

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Testo 426389-2
Lieder romantici
MICHELE GIRARDI
Wagner scrisse pochi lieder, ma fra essi figura un’autentica gemma del romanticismo musicale, il ciclo su poesie di
Mathilde Wesendonk, che fu per lui una giovane musa di
particolare fascino. L’incontrò a Zurigo quando, ricercato
dalla polizia della Sassonia per la sua partecipazione attiva ai moti rivoluzionari di Dresda, gli fu offerta ospitalità
dal marito di lei Otto Wesendonk, ricco mercante di seta.
Il musicista, a sua volta coniugato, era solito infiammarsi
di passione per le donne d’altri, come avrebbe fatto con
Cosima Liszt, sposata con Hans von Bülow, e già al principio degli anni Cinquanta aveva proposto alla zurighese
Jessie Laussot di sciogliere i vincoli matrimoniali e fuggire
in Grecia con lui. Se non bisogna, dunque, sopravvalutare
la posizione di Mathilde, sarebbe del pari errato ridimensionare il ruolo da lei rivestito nella composizione del
Tristan und Isolde, che Wagner iniziò proprio all’epoca
del loro incontro. In quel capolavoro si sprigiona l’immensa forza di un desiderio amoroso destinato a non trovare appagamento fisico, e di tal genere fu, almeno in parte, la passione che legò Richard e Mathilde.
I versi dei Wesendonk Lieder altro non sono che l’opera di
una dilettante, attenta sino alla pedanteria alle regole della metrica e alla figura retorica del paragone, applicata,
nei contenuti di ogni brano, al tema dell’amore come
trascendenza. Perciò il senso di un cammino metaforico
verso una morte che è al tempo stesso sublimazione dei
sensi generato da questo ciclo è dunque merito esclusivo
di Wagner. Egli musicò di getto le cinque poesie per canto
e pianoforte tra il novembre del 1857 e il maggio successivo, per rivederle l’ultima volta a Venezia nell’ottobre del
1858. In quell’occasione due Lieder furono sottotitolati:
«studio per il Tristano e Isotta» di cui, proprio in quel
momento, il musicista stava portando a termine
l’orchestrazione del second’atto, immerso nel silenzio di
Ca’ Vendramin Calergi. Nel primo di essi Im Treibhaus,
n. 3 della raccolta, compaiono ben due temi dell’ultimo
atto legati all’angoscia del protagonista, quello detto ‘della solitudine’ che apre il preludio e quello ‘della disperazione’ per la lontananza di Isotta, ma soprattutto è l’atmosfera livida e disperata che pervade quello scorcio
operistico che nel Lied ritroviamo per intero, ma solo per
caratterizzare la banale metafora delle piante prigioniere
di una serra.
Meno improprio, al conoscitore di Tristan, suonerà il tema
dell’Inno alla notte dall’atto secondo con cui inizia Träume,
l’ultimo dei Wesendonk, dove si parla di chimere, di sogni
che conducono l’anima alle soglie della morte, concetto
vicino alla situazione dei due infelici amanti. Proprio questo Lied fu l’unico ad essere orchestrato da Wagner (per
tutti gli altri intervenne il direttore Felix Mottl), che lo
fece eseguire nella villa dei Wesendonk quando Mathilde
compì 29 anni, il 23 dicembre del 1857. In questa occasione egli sostituì la linea vocale con un violino solista: forse
alla poetessa dispiacque non udire i suoi versi, ma oramai
il secondo atto del Tristan era nato, e quella musica, semplice accompagnamento nel Lied, aveva trovato una destinazione che l’avrebbe resa immortale: l’impossibile estasi
amorosa dei due amanti che cantano «O sink hernieder,
Nacht der Liebe».
Il nome di Strauss si lega indissolubilmente a quello di
Wagner, nel segno della continuità dell’opera tedesca. E,
più ancora, di un mondo romantico che il compositore
bavarese tentò di conservare con tutte le sue forze, grazie
al solido mestiere di artigiano della musica praticato ad
altissimo livello nel corso di una lunghissima carriera, iniziata alla fine dell’Ottocento e conclusasi alle soglie della
seconda metà del nostro secolo. Creò sinché ebbe forze,
ma la vena non lo sorresse sempre, e specie negli ultimi
anni produsse lavori manieristici, come Capriccio, dove
Strauss sembra quasi voler confessare, senza turbamenti,
il suo appagamento nel far musica che appartiene al mondo lontano della giovinezza. Fu uno strano modo di reagire agli orrori di un regime che stava perpetrando il
genocidio, ma non era nella sua natura prendere posizione
alcuna. Nel nazismo, checché ne dicano infaticabili revisori, egli aveva svolto un ruolo di primo piano come presidente del Reichmusikammer, distribuendo pubbliche lodi
ai gerarchi e lottando con tutte le sue forze contro la musica ‘degenerata’ insieme a Fürtwängler. Solo gradualmente
Strauss prese coscienza dell’orrore ed ebbe la forza di allontanarsene. Era in gioco la stessa civiltà occidentale, minacciata dal quel movimento da lui stimato per troppo
tempo come il suo massimo difensore. Nello studio per
ventitré archi solisti Metamorphosen affiora un tragico
Zeitgeist, sotto forma di un’amara riflessione sulla Marcia funebre per la morte di un eroe dalla Terza di
Beethoven: stava finendo l’aprile del 1945, il 7 maggio la
Germania si arrese incondizionatamente alle forze alleate.
Rimaneva ancora un’ultima occasione per esprimersi, e
Strauss la trovò in un genere in cui da sempre era stato
uno dei massimi cultori, il Lied. Agli inizi del 1947 iniziò
a comporre Im Abendrot, del romantico Joseph von
Eichendorff, i cui versi già avevano ispirato a Schumann
l’op. 39, poi volse la sua attenzione a tre liriche di Herman
Hesse, poeta che incarnava l’anima internazionalista e pacifista del suo paese, esule in Svizzera e inviso al nazismo.
Strauss sembra quasi ripercorrere la sua vita a ritroso sin
dalle prime note di Frühling, dove il canto sorge ispirato,
cullato da un’orchestra che l’accompagna con discrezione
in un continuo peregrinare in diverse tonalità. Un sentimento che s’impone sin da qui, e prosegue nei due Lieder
successivi, in particolare nella dolce ninna-nanna in Re
bemolle, Beim Schlafengehn, che introduce il vero congedo di Strauss dal mondo dell’arte, Im Abendrot: un addio
sereno, che che si palesa chiaramente quando l’io poetico
chiede «Ist dies etwa der Tod?» - «È questa la morte?». A
questa domanda cruciale risponde il primo corno, esponendo il tema della trasfigurazione del poema sinfonico
Tod und Verklärung, scritto sessant’anni prima.
È la risposta di un idealista, pronto a trapassare serenamente: Strauss morì nel 1949, dopo anni d’isolamento.
Nella fedeltà a se stesso sta la cifra della sua musica, prodotto del talento drammatico più forte espresso dal mondo tedesco nel primo cinquantennio del secolo. I Vier Letze
Lieder furono l’esemplare testamento del cantore di una
felicità per sempre perduta: tramontava un secolo, cinquant’anni dopo il suo inizio.
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