Ivanoe Tozzi Note in margine al tema delle finalità del

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Ivanoe Tozzi
Note in margine al tema delle finalità del Bilancio d’esercizio
Il tema delle finalità del Bilancio d’esercizio ha attraversato costantemente la
Ragioneria, in particolare il suo livello più elevato, quello scientifico. Sembra
opportuno ricordare che, secondo uno dei più grandi maestri della nostra disciplina,
Teodoro D’Ippolito, la Ragioneria deve essere intesa:
- come scienza;
- come dottrina tecnica;
- come attività pratica.
Premesso che campo della Ragioneria sono “i fenomeni aziendali in quanto oggetto
di rilevazione consuntiva e di determinazione preventiva ed ipotetica, in quanto cioè
si attiene all’aspetto della misurazione , o almeno della ponderazione approssimativa
di essi” la Ragioneria, intesa come scienza si propone lo “scopo di studiare
proposizioni generali, e principi, che valgano come guida nella formulazione di
norme generali e di regole particolari relative all’attività pratica”1. Per raggiungere
tale scopo la Ragioneria, “intesa come scienza, studia i modi tipici di essere, le
costanze, le similitudini e le variabilità, secondo i quali si attuano le determinazioni
frutto ed oggetto di detta attività concrete come esse si possano predisporre e
svolgere raggiungimento dei fini conoscitivi voluti”. Inoltre, ancora intesa come
scienza, la Ragioneria, “nel formulare le teorie delle determinazioni che valgono a
dare cognizione e rappresentazione della vita aziendale, indica anche come devonsi
correttamente interpretare i dati, ed in genere le relazioni, che, in conseguenza delle
deternazioni attuate è possibile porre fra i fenomeni aziendali oggetto di
considerazione, in modo che sia consentito trarre da tali dati e relazioni consapevoli
illazioni sia a diretto scopo pratico, sia a scopo scientifico, e soprattutto che sia
possibile evitare di dare ad essi quei caratteri di necessità ed esattezza che si sarebbe
indotti ad ammettere per la precisa veste numeraria che essi presentano”2.
La Ragioneria, intesa come dottrina tecnica, “si fonda sui modi tipici, sui rapporti
costanti e sui principi di svolgimento delle determinazioni amministrative aziendali,
formulati dalla ragioneria svolta come scienza…. e stabilisce i precetti generali e le
regole particolari che la «pratica», ossia in specie gli amministratori, i ragionieri e i
loro ausiliari, possono opportunamente seguire, quando vogliono attuare i
procedimenti di cognizione e di rappresentazione prevalentemente quantitativa della
vita aziendale, in guisa efficaci per il conseguimento dei fini voluti”3.
1
D’Ippolito T., Le determinazioni di Ragioneria, Abbaco, Palermo -Roma, 1970, pag. 36, corsivo originale dell’autore.
D’Ippolito T., op. cit., pag. 37, corsivo originale dell’autore.
3
D’Ippolito T., op. cit., pag. 38, corsivo originale dell’autore.
2
La ragioneria come attività pratica è costituita dall’azione concreta, cioè dall’attività
amministrativa di cognizione, rappresentazione e studio qualitativo-quantitativo, in
genere, della concreta attività aziendale” 4.
Il non breve richiamo all’articolato comporsi della nostra disciplina è a nostro avviso
opportuno per evidenziare come, in passato e con modalità che paiono a nostro
avviso oggi nuovamente riscontrarsi (ovviamente, mutatis mutandis) il problema
delle finalità del bilancio fu avvertito soprattutto a livello scientifico, come s’è
accennato, ma non a livello di dottrina tecnica e di attività pratica: è lo stesso
D’Ippolito a ricordalo, nella critica alla teoria del Besta sui “valori reali” nell’ambito
del Bilancio. La critica ha due aspetti: sul piano concettuale egli osserva che
“l’ossequio che il Besta dimostra per il supposto criterio del prezzo normale di
scambio…è probabilmente conseguenze dell’idea che Egli si era formato dei rapporti
che dovevano esservi fra la ragioneria e l’economia politica, che lo aveva portato ad
ammettere che la teoria del valore e della moneta fossero fuori dei confini della
materia che Egli professava”5. Sul piano concreto, oltre ai fortissimi dubbi circa la
concreta applicabilità della teria di valutazione fondata sul prezzo normale di
scambio, D’Ippolito segnala come lo stesso Besta riconoscesse che i criteri adottati in
pratica nella redazione dei bilanci, e sostanzialmente informati al principio del costo
non potessero essere biasimati, con ciò ammettendo che la teoria da lui seguita non
era desunta da comportamenti diffusi e condivisi nell’azione amministrativa concreta,
e che il grado di astrazione dei valori “reali” era tale non poter costituire una norma
tecnica di indirizzo generale 6.
Proprio nelle stesse pagine in cui svolge la critica sopra sintetizzata, D’Ippolito
scolpisce alcune affermazioni capitali sul tema delle finalità del Bilancio. Egli
afferma: “Il generale concetto informatore che regola la tenuta della contabilità
all’italiana che ne orienta cioè la formazione delle classi di valori che ne
costituiscono la parte essenziale, è la determinazione del risultato economico, o
reddito, di esercizio, allo scopo di avere una base ferma per la distribuzione agli
aventi diritto nei successivi periodi annuali, della parte distribuibile della nuova
ricchezza, che si produce con l’azienda considerata. In tanto si ammette che sia
regolare tale distribuzione, in quanto il capitale iniziale - che nei casi più semplici
può essere stabilito in misura incontrovertibile, in corrispondenza ai fondi numerari
messi a disposizione dal titolari o dai soci dell’impresa - resti almeno integro, dopo
la distribuzione stessa, non solo nell’ammontare nominale, ma anche nel complessivo
generale potere di acquisto”7.
4
D’Ippolito T., op. cit., pag. 38.
D’Ipplito T., La contabilità in partita doppia a sistema unico e duplice ed il bilancio d’esercizio, Abbaco, Palermo Roma, 1958, pag. 183. Precisa di seguito D’Ippolito: “Fuori, certamente, della nostra disciplina sono le teorie del prezzo
normale, del prezzo corrente e della moneta, come sono svolte dagli economisti; ma senza dubbio rientra nella nostra
disciplina la teoria delle valutazioni di bilancio, o, per usare una espressione più chiara, la teoria della determinazione
del reddito e del capitale contabile, o di funzionamento che di si voglia”.
6
D’Ippolito, La contabilità…, pagg. 186-190.
7
D’Ippolito, La contabilità…, pagg. 183-184 corsivo originale dell’autore; cfr. anche I principi direttivi delle
valutazioni di bilancio ed i limiti di massimo e minimo nel capitale di funzionamento, Lilla, Palermo, (estratto dagli
Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Palermo, Anno Iv, 1950, n. 1)
5
In termini simili lo stesso D’Ippolito si esprime in una prolusione letta presso la
Scuola centrale tributaria in Roma nel 1963, dove motiva la necessità logica di
accontentarsi della determinazione di un reddito economico d’esercizio il cui valore
ha attendibilità non assoluta, bensì relativa “in quanto risponde solo al fine
conoscitivo di stabilire di quanto è variato, per effetto della gestione, il fondo di
dotazione iniziale dell’azienda-impresa,e di quanto, pertanto, possa essere grande,
nella ipotesi di gestione favorevole, il prelievo di mezzi aziendali, che può farsi a
favore degli interessati, mantenendo integra la «consistenza» reale della dotazione
iniziale” 8
Dopo aver ricordate le condizioni che permetterebbero una determinazione del
reddito attribuibile ad un periodo senza altre incertezze che non quelle legate al
mutamento di valore economico della moneta (supposta, inoltre, l’autonomia
amministrativo dello svolgimento della gestione dell’azienda considerata), dovendosi
tali condizioni considerare come del tutto virtuali, D’Ippolito riassume brevemente il
processo che conduce a individuare le classi fondamentali di valori da cui scaturisce
la determinazione del risultato d’esercizio e la composizione dello stato del connesso
capitale aziendale. Così conclude riguardo a tale processo: “Le cosiddette valutazioni
di bilancio non sono altro che problemi di separazione o di scissione dei componenti
attivi e passivi che che concorrono alla determinazione del reddito di esercizio
attuale, da quelli che non concorrono a tale determinazione, perché si giudicano
pertinenti agli esercizi futuri” 9.
Un contributo di estremo rilievo, per il rigore metodologico la profondità di analisi
critica, allo studio storico del Bilancio, in cui essenziale è il problema dei suoi scopi,
è quello offerto da Campanini nel suo lavoro sulla dottrina tedesca10. L’autore
presenta lo sviluppo delle concezioni del Bilancio in Germania dagli esordi, connessi
all’influenza esercitata colà dall’Ordonnance de Commerce francese, all’epoca di
Schmalenbach e dei suoi allievi. Proprio in base alla unicità o meno di scopo (almeno
di uno scopo dominate) si identificano:
- concezioni monistiche: unicità di scopo (o, almeno, presenza di uno scopo
dominante);
- concezioni dualistiche: duplicità di scopo;
- concezione totale: molteplicità di scopi.
Le concezioni affacciatesi in Germania sono state per lo più monistiche(concezione
statica: dominate è lo scopo di determinare il valore del patrimonio; concezione
dinamica: dominante è lo scopo di determinare il risultato del periodo) o dualistiche
8
D’Ippolito T., Reddito “economico” di periodo,utile di bilancio redditi imponibili agli effetti delle leggi sulle imposte
dirette: concordanze e discordanze di determinazione, in Scritti in memoria del Prof. Gaetano Corsani – vol. I, Cursi,
Pisa, 1966, pag.120.
9
D’Ippolito, La contabilità…, pagg. 184-185.
10
Campanini C., Saggio sul contenuto del bilancio d’esercizio (stato patrimoniale) nella dottrina tedesca, Clueb.
Bologna, 1966.
(scopo è la determinazione di risultato e patrimonio, con significato autonomo dei
rispettivi valori: concezione organica).
Di notevole interesse è il tema dell’individuazione dei valori idonei a tradurre
concretamente le idee sottostanti alle diverse concezioni del bilancio, e quindi a
rendere tangibile il problema ineludibile del nesso con i fini.
Campanini, peraltro, in tutti i suoi lavori, ha sempre richiamato il principio della
ponderazione degli scopi conoscitivi (da lui chiamato principio di relatività dei valori
in rapporto al fine) come principio base della Ragioneria: ciò senza dubbio per la
formazione ricevuta da D’Ippolito di cui fu allievo. Come D’Ippolito, anch’egli
propende per la prevalenza del calcolo del reddito distribuibile agli aventi diritto
come fine del bilamcio. Ritiene però che tale fine possa non essere incompatibile col
reddito come parametro di giudizio sull’efficienza tecnico-economica della gestione
(idea mutuata da Schmalenbach) e si mostra incline a far rientrare l’orientamento
valutativo al costo come possibile soluzione pratica nell’ambito del princcpio
generale di valutazione tipico della dottrina italiana11.
11
Campanini C., Due concezioni del reddito nel bilancio d’esercizio: opposte ma (quasi) convergenti secondo una
recente impostazione, in Studi in onore di Ubaldo de Dominicis, Lint, Trieste, 1991, tomo I, pagg. 239 ss.
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