pensiero e rivoluzione nella filosofia di lukacs

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Lucio Gentilini
PENSIERO E RIVOLUZIONE NELLA FILOSOFIA DI
GYORGY LUKACS
Introduzione
Il 1° gennaio 1992 – quasi vent’anni fa - nasceva ufficialmente la Federazione Russa
dopo che sulle torri del Cremlino il suo tricolore aveva cominciato a sventolare fin
dal precedente 25 dicembre al posto della bandiera rossa dell’U.R.S.S..
Nessuno si stupì di un evento pur così importante nella storia del pianeta stesso
perchè tutti sapevano bene che l’U.R.S.S. era definitivamente morta e già sepolta
senza rimpianti: lo stesso Soviet Supremo, come ultimo atto del suo mandato, l’aveva
sciolta ufficialmente il precedente 26 dicembre.
Giungeva così a conclusione un drammatico triennio i cui sviluppi politici avevano
scandito l’inesorabile ed inarrestabile processo di disfacimento e dissoluzione di
quella che era stata la seconda superpotenza della Terra.
Il 1989 era iniziato col definitivo ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan il 15
febbraio, saggia e non più rimandabile decisione che faceva finalmente cessare
l’inconsulta occupazione militare giunta già al suo decimo anno (!).
Era proseguito poi con la perdita degli Stati-satellite della cintura esterna
occidentale dell’Impero: Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria,
Germania Est, una dopo l’altra in un tumultuoso vortice di rivolte e manifestazioni si
erano liberate della pesante e soffocante tutela sovietica cacciandone a furor di
popolo i tristissimi rappresentanti locali.
L’evento simbolo per eccellenza di questo processo era stata la celeberrima caduta
del Muro di Berlino la notte del 9 novembre.
Nei due anni seguenti erano poi giunti a conclusione il processo di liberazione ed il
raggiungimento dell’indipendenza dei popoli e Paesi sottomessi all’interno
dell’Impero, dalle Repubbliche sul Baltico a quelle sul Caucaso, da quelle
nell’Europa orientale a quelle nella sterminata Asia centrale.
Il 21 dicembre 1991 era nata così la Comunità degli Stati Indipendenti (C.S.I.) - della
quale anche la Russia era una componente - che cercava di tenerli ancora collegati
grazie a quei legami ancora utili e necessari dopo settant’anni di appartenenza allo
stesso Stato.
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Colui che aveva saputo affrontare ed interpretare un rivolgimento di questa portata
era stato l’allora segretario del P.C.U.S. e poi presidente del Soviet Supremo Michail
Gorbaciov che aveva rivelato capacità eccezionali, più uniche che rare: partito nel
1985 con una politica volta a riformare e democratizzare l’U.R.S.S., egli non solo era
riuscito a rendersi conto che ciò era impossibile e che l’immenso edificio era talmente
corroso che poteva solo crollare, ma, soprattutto, era riuscito ad accompagnare ed a
gestire la gigantesca trasformazione senza ricorrere mai alla violenza (che ci fu solo
là dove il controllo sovietico arrivava meno, come in Romania).
Un impero bicontinentale di quelle dimensioni cascava a pezzi e le sue immense
convulsioni avvenivano pacificamente (!); al governo si prendeva atto
dell’irreversibilità del fenomeno e quando ci si opponeva ad esso lo si faceva con la
sola parola (!); e quando mai si era vista una cosa del genere? In un regime che era
stato costruito col e sul G.U.Lag. ora trionfava la ragione e la ragionevolezza – e nel
momento in cui doveva sopportare la sua crisi più grave!
Per opporsi all’inevitabile cambiamento il 18 agosto 1991 a Mosca era stato perfino
tentato un colpo di stato ad opera di un gruppo di alti ufficiali e funzionari che
addirittura aveva imprigionato Gorbaciov insieme alla famiglia; tre giorni dopo il
golpe era tuttavia già fallito anche per il deciso intervento del presidente della
Repubblica Russa Boris Eltsin e per la resistenza popolare, ma questa era stata la fine
politica dello stesso Gorbaciov che, incolpato di scarsa vigilanza e di incapacità, fu
messo bruscamente da parte mentre il 21 agosto il P.C.U.S. stesso veniva bandito
dall’U.R.S.S..
Con questo irriconoscente benservito Gorbaciov venne cacciato dalla scena politica
senza che nessuno lo difendesse o ne ricordasse i meriti grandissimi: finì dalla parte
degli sconfitti e dei falliti, degli indecisi e degli inadatti al compito, lui che aveva
impedito le catastrofi che si accompagnano sempre al crollo di regimi ed imperi, lui
che aveva puntato soltanto e sempre sulle vie pacifiche per la soluzione dei problemi
anche grandissimi – e che ci era riuscito.
Il crollo dell’U.R.S.S. è l’evento che sega la storia del mondo contemporaneo in due,
distinta fra un prima ed un dopo - ed è avvenuto nell’ordine e nella compostezza:
quanto deve la Storia, il suo popolo, gli altri popoli ed il pianeta stesso, al compagno
segretario e presidente Gorbaciov?
Nessuno l’ha ringraziato nè lo ringrazia, ma se è vero che il tempo è galantuomo i
suoi meriti straordinari prima o poi gli verranno finalmente riconosciuti, anche se è
facile prevedere che per allora avrà fatto in tempo a morire dimenticato.
La sua umiltà e la sua grandezza furono evidenti fin dall’inizio, già in “Perestroika”
l’opera in cui mostrava e metteva a nudo con onestà e sincerità la situazione del suo
Paese, in cui offriva come rimedi la trasparenza (la famosa ‘glasnost’), la libertà e la
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democrazia, in cui chiamava tutti alla collaborazione ed al dialogo perchè sapeva
bene che “Non abbiamo ricette universali da proporre”, lui che sedeva sul trono che
era stato di Stalin.
Così finiva il ‘secolo breve’ secondo la fortunata formula di Hobsbawn, iniziato nel
1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale e, appunto, terminato coll’
irreversibile fallimento dell’U.R.S.S. (di tutto ciò che esso comportava).
Il crollo dell’U.R.S.S. e, più in generale, del comunismo non ha decisamente nulla di
nobile o glorioso e quello che l’esperienza degli Stati del ‘socialismo reale’ ha da
insegnare è soltanto che non va ripetuta nel modo più assoluto.
Nel momento in cui tuttavia quei Paesi che hanno conosciuto il comunismo sono
irriconoscibili e che la nuova generazione sembra non saper nulla di un passato pur
così recente, vengono però alla mente anche gli oceani di inchiostro e le montagne di
libri, di articoli e di studi che vollero difenderlo, giustificarlo, negarne gli aspetti più
violenti, ed anzi esaltarlo come alba di una nuova storia, realizzazione dell’umanità
disalienata, éra di felicità e di inarrestabile progresso, ecc. ecc..
Viene davvero da chiedersi cosa mai ebbero in testa tanti intellettuali, come poterono
essere così ciechi: non tutti erano dei servi prezzolati, degli striscianti leccatori degli
stivali del principe!
Ci furono tanti che credettero sinceramente nelle assurdità che scrivevano!
E ci fu anche chi aveva saputo costruire una filosofia di tutto rispetto basata sul
comunismo e sulla sua rivoluzione, chi aveva pensato che la Storia avesse ormai
imboccato la via della vera emancipazione per un’umanità che finalmente si liberava:
fior di pensatori e filosofi che meritarono il rispetto e la considerazione anche di chi
non accettava il comunismo ed anzi lo cambatteva.
In questa sede ci si chiede che ne è stato di costoro; se hanno ancora qualcosa da dire
o se vanno seppelliti nella fossa comune dei loro regimi nefandi; se possono offrire
ancora qualche spunto interessante o se si devono prendere in considerazione per
puro ed unico dovere di storici del pensiero.
Se insomma questo dei filosofi del comunismo è un discorso definitivamente chiuso e
concluso e non ci si deve (più) curar di loro, ma guardare e passare.
Queste pagine proveranno a rispondere a questa domanda prendendo in esame l’opera
qui giudicata la migliore di tutte quelle del suo genere, “Storia e coscienza di classe”
di Lukàcs.
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La disciplina di un comunista
Gyorgy Lukàcs, ungherese (era nato a Budapest nel 1885) ma di cultura tedesca, fu
folgorato dalla rivoluzione russa con la quale “- finalmente! – si era aperta per
l’umanità una via che conduceva al di là della guerra e del capitalismo”; nel 1918 si
iscrisse così al partito comunista ungherese ed ebbe anche un incarico governativo
nella effimera (e violenta) Repubblica Sovietica Ungherese di Béla Kun nel 1919.
Dopo il suo fallimento dovette darsi alla fuga e dal 1919 al 1922 si dedicò alla stesura
dei saggi che pubblicherà l’anno seguente col titolo di “Storia e coscienza di classe”,
il suo capolavoro.
Pubblicato nel 1923, già l’anno seguente per bocca dello stesso Zinoviev l’opera
venne però censurata in quanto “idealista” dalla Terza Internazionale - e Lukàcs
accettò la scomunica.
Nè la questione finì così perchè, soprattutto in seguito alla lettura dei “Manoscritti
economico-filosofici” di Marx (allora di recente riscoperti), fu lo stesso Lukàcs a
ripudiare poi la sua opera: “Questo libro mi divenne completamente estraneo” ebbe a
scrivere.
Eppure mancava ancora la parola definitiva: nel 1933 Lukàcs giunse a Mosca,
ambitissimo culmine dell’impegno di qualsiasi comunista, ma, data la lotta senza
quartiere all’interno della dirigenza culturale e politica del P.C.U.S., capì subito che
“era per me una necessità tattica prendere pubblicamente distanza da “Storia e
coscienza di classe” ... Naturalmente, per poter pubblicare un’autocritica, dovetti
sottomettermi alle regole di linguaggio allora dominanti” e fu così che, sempre più
convintamente, Lukàcs procedette all’ulteriore disconoscimento e rifiuto dell’opera.
Tuttavia il seme era stato gettato e nel mondo libero (o borghese) esso aveva
germogliato così che “Storia e coscienza di classe” nei Paesi capitalistici trovava
editori che la pubblicavano nella sua stesura originale e senza nemmeno consultare
l’autore: insomma, il testo era un successo presso coloro che voleva combattere ed
era rifiutato e condannato da coloro che intendeva sostenere! Finiva per essere
un’apprezzato strumento intellettuale nelle mani del nemico (di classe) stesso!
Fu così giocoforza che, ad oltre quarant’anni dalla sua prima edizione, Lukàcs
dovette acconciarsi a curarne un’altra per limitare e contrastare quelle non autorizzate
e per fornire al lettore la ‘giusta’ prospettiva nella quale collocare l’opera – costretto
ad ammettere quasi a malincuore (!) nella Prefazione del 1967 che l’opera “ha
suscitato e suscita ancora oggi una forte impressione su molti lettori”,.
Le spiegazioni della censura subita, della sua accettazione convinta e delle rettifiche
contenute nell’edizione del 1967 potranno ovviamente essere offerte solo nei
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prossimi paragrafi che tratteranno del contenuto filosofico dell’opera, ma fin da
subito alcune caratteristiche tipiche del mondo comunista emergono con nettezza.
Innanzitutto, Lukàcs non protestò e non reagì alla censura non perchè fosse un
pavido, ma perchè nella psicologia comunista non esisteva verità fuori del Partito –
che non sbagliava mai; per un comunista impellente era l’azione politica (di cui
l’attività culturale era un aspetto) e fuori del Partito questa non era possibile, per cui
portare avanti le proprie idee fuori o addirittura contro il Partito non aveva
semplicemente senso.
In secondo luogo, anche Lukàcs fu sempre convinto che le opere di Marx e dei grandi
del comunismo (Lenin) erano verità assoluta ed indiscutibile e che la loro retta
interpretazione ad opera del Partito apriva gli occhi sulla realtà in modo
incontrovertibile: così nei confronti di questo corpus di certezze assolute il pensiero
doveva e poteva limitarsi solo alla comprensione ed all’illustrazione.
E’ lampante come tutto ciò sia tipico delle Chiese e delle religioni e che il
comunismo senza dubbio fu una religione di cui ebbe tutte le caratteristiche e tutte le
modalità: l’autonomia del pensiero, l’indipendenza dei propri giudizi, il valore
dell’unicità ed irripetibilità della propria mente per un comunista come Lukàcs era
semplice ideologia borghese.
Lukàcs è uno dei tantissimi esempi di questa disciplina autoimposta ed accettata con
convinzione ed entusiasmo e fu da essa che derivò tanta cecità (o, peggio,
giustificazione) nei confronti dell’orrore – esattamente la stessa dei fedeli di una
religione nei confronti di quel che fa o ha fatto la loro Chiesa.
E’ tempo tuttavia di passare all’esame del contenuto filosofico dell’opera.
La resa preventiva del Positivismo ...
Il Positivismo (borghese) parte precisamente dalla separazione di pensiero ed essere,
di soggetto ed oggetto, ponendo da una parte società e natura (l’essere, l’oggetto) e
dall’altra l’uomo (il soggetto) che le conosce e le pensa.
Per un positivista il pensiero si deve dunque preoccupare unicamente di riflettere
(proprio come uno specchio) nel modo più completo possibile l’essere che, essendo
quel che è indipendentemente dal pensiero stesso, non va mai posto in discussione.
E’ questo l’approccio ‘scientifico’ nei confronti della realtà il cui sforzo è teso a
mettere in luce le leggi che la regolano - leggi che naturalmente sono tali perchè
immodificabili e che esistono (ripetiamolo pure) in modo del tutto indipendente dal
pensiero.
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E non basta ancora: per un positivista l’operazione della conoscenza della società
(come della natura) sarà tanto più proficua quanto più sarà stata in grado di separarne
i vari settori, ognuno dei quali va preso per suo conto: economia, diritto, cultura, ecc.,
vanno studiati ognuno per sè nelle varie branche in cui si articola l’enciclopedia del
sapere borghese.
Ecco allora che, per esempio, l’economia per il borghese positivista consta di una
serie di leggi contro le quali non si può andare, di leggi immodificabili, esterne e
preesistenti alla loro conoscenza da parte dell’uomo: scoprire tali leggi, seguirle e/o
saperle volgere a proprio favore per un positivista significa dunque aver raggiunto il
maggior grado possibile di verità e di concretezza.
Il positivista è dunque per sua stessa natura un conservatore perchè ritiene che il
pensiero non possa far altro che riflettere la realtà ed adeguarsi ad essa meglio che
può e questa è una vera e propria – inevitabile, date le premesse – resa preventiva
del pensiero alla realtà.
... e la rivoluzione della dialettica
Secondo il vecchio Hegel il bisogno di filosofia sorgeva quando la realtà appariva
divisa e frantumata dalle opposizioni e dalle separazioni che si presentavano
insuperabili e permanenti; l’intelletto concepiva infatti la realtà come una serie di
parti autonome ed indipendenti l’una dall’altra mentre era la ragione a mostrarne –
ad un livello superiore di coscienza – l’intrinseco collegamento nella realtà unica ed
onnicomprensiva della Ragione.
Secondo Hegel l’intelletto concepiva inoltre le cose in modo statico ed immutabile
cosicchè per esso la realtà era quel che era in quel momento e tale sarebbe restata,
mentre la ragione ne esprimeva il movimento e lo sviluppo nel processo dialettico in
cui tutto diveniva secondo un disegno unitario.
E’ questa la posizione fondamentale che il Marxismo – e Lukàcs con lui – eredita da
Hegel.
Se il Positivismo ha dunque una visione della realtà ferma alla sua concezione da
parte dell’intelletto (per usare le distinzioni hegeliane), non così il Marxismo che, ad
un livello superiore di coscienza (quello offerto dalla ragione), riesce a cogliere
l’unità dell’intero processo della realtà stessa, unità che è anche di pensiero ed essere:
la ragione mostra come il processo del divenire della realtà è dialettico, cioè basato su
contraddizioni e sul loro superamento ad un livello sempre superiore e come la
contraddizione della società capitalistica è data dal proletariato sfruttato in
un’economia alienatrice.
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Il dato decisivo è insomma che il proletariato, contraddizione interna del capitalismo
e sua negazione, col Marxismo è arrivato ad un pensiero completamente alternativo a
quello borghese: se infatti la difesa del capitalismo è affidata al Positivismo che
afferma che la realtà è così com’è nè può essere modificata, il materialismo storico
(la risposta del proletariato) sostiene invece che, tutto la contrario, la realtà è un
processo dialettico in cui (di rivoluzione in rivoluzione) tutto cambia
necessariamente.
Lukàcs scrisse “Storia e coscienza di classe” proprio per far emergere pienamente il
metodo dialettico (piuttosto trascurato nella Seconda Internazionale) nel Marxismo: a
quel tempo per lui l’ortodossia non significava venerazione per Marx o per Lenin, ma
fedeltà al sistema dialettico.
“Il proletariato trasforma la realtà mentre e perchè la conosce” afferma Lukàcs,
volendo significare che il materialismo storico era l’arma principale del proletariato
contro la borghesia: la sua dialettica era lo strumento metodologico col quale esso
sviluppava la sua coscienza di classe, cioè la contraddizione nel capitalismo.
Il proletariato conoscendo la società capitalistica conosce anche se stesso e
conoscendo se stesso approfondisce sempre di più la sua coscienza di classe e,
rendendosi sempre più conto della sua situazione di alienazione e di sfruttamento,
sviluppa inevitabilmente il suo rifiuto rivoluzionario della società capitalistica stessa.
Insomma: più il proletariato conosce la società intorno a sè, più la dissolve grazie a
questa conoscenza stessa.
Pensiero ed azione sono la stessa cosa nella ‘filosofia della prassi’: per il proletariato
conoscere la sua condizione è agire.
Il proletariato nella sua progressiva presa di coscienza (di classe) si libera dalla
reificazione positivistica secondo cui società ed economia hanno leggi proprie al di
sopra ed al di fuori dell’uomo: questo è il modo di pensare di chi vuol preservare la
società così com’è e di chi vuole che essa si riproduca sempre uguale a se stessa.
Il materialismo storico parte invece dal riconoscimento che la società costituisce un
tutto inscindibile e che essa è il prodotto dell’azione umana: le sue leggi e tutti i suoi
aspetti sono azioni umane ed ognuno dei suoi fatti va inevitabilmente riferito al tutto.
Lukàcs chiama questa regola del pensiero categoria della totalità e la usa
continuamente.
La borghesia non accetta la categoria della totalità e per essa la società non è un
intero: essa quindi non può comprendere che la società capitalisitica è il predominio
di una classe (la borghesia, appunto) su un’altra (il proletariato) e che ogni cosa va
riferita a questa verità.
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La borghesia non potrebbe arrivare a questo riconoscimento senza contraddirsi ed
annullarsi e così blocca il processo della realtà e, avendola così paralizzata, cerca di
rifletterla (a modo suo) passivamente.
Mentre il pensiero positivistico (borghese) tenta allora di far accettare al proletariato
il mondo in cui vive come qualcosa di ineluttabile e dotato di leggi autonome e
superiori all’uomo stesso, mano a mano invece che il proletariato col materialismo
storico conosce e riconosce la realtà effettiva della società capitalistica
contemporaneamente e necessariamente prende coscienza della propria condizione
alienata, sfruttata e subordinata: così, più la sua conoscenza della società capitalistica
si approfondisce, più si sviluppa la coscienza di classe del proletariato e questo non è
solo pensiero, ma, contemporaneamente, azione (la famosa praxis).
Più conosce il capitalismo, più il proletariato si rende conto di esserne la negazione
storica: il proletariato che prende coscienza di sè non è più quello di prima e
quindi nemmeno la società lo è più.
Ecco come azione e pensiero coincidono.
La mitica coscienza di classe
Data la sua centralità nella filosofia di Lukàcs (e nell’intero pensiero marxista), la
nozione di coscienza di classe va ben chiarita e definita: essa non è qualcosa di
psicologico (quel che i proletari pensano) o la somma delle loro idee.
Come la storia va ben al di là di quel che vorrebbero le singole volontà di quelli che
vi agiscono, così anche la coscienza di classe va oltre quel che i proletari pensano
concretamente: essa è verità oggettiva, quella che esprime perfettamente e
compiutamente la struttura profonda della società capitalistica.
Ora, il proletariato questa coscienza non può possederla completamente perchè non è
una mente assoluta fuori della storia, ma, al contrario, è interamente immerso in essa
e quindi anche lui in qualche misura accetta l’ordinamento borghese nel quale è nato
e vive e soffre (come la borghesia!) della reificazione del capitalismo.
Certamente la sua coscienza di classe cresce, tuttavia finchè si trova all’interno della
società capitalistica il proletariato non può evidentemente porsi spiritualmente
interamente fuori dai limiti di essa e quindi la coscienza che ha di sè (il suo rapporto
con l’intero) rimane ancora inevitabilmente incompleta.
Tuttavia questi limiti sono storici, e, come tali possono e debbono essere superati.
Fermare lo sviluppo della coscienza di classe del proletariato considerandola solo allo
stadio cui è concretamente pervenuta - conseguenza del mancato riconoscimento
della categoria della totalità - significherebbe consegnarlo legato mani e piedi alla
borghesia, farlo restar prigioniero della reificazione borghese ed assolutizzarne la
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sudditanza spirituale nei confronti dei suoi sfruttatori: si finirebbe col cacciarsi nel
vicolo cieco in cui erano finiti menscevichi e socialdemocratici che - prima
dell’Ottobre - stavano portando il proletariato a piccole conquiste ed a piccole
riforme fino alla disfatta finale.
Ad ogni momento storico corrisponde una coscienza di classe che di diritto va
attribuita ai suoi attori anche a prescindere dalle concrete singole coscienze
effettivamente sviluppatesi.
Il Partito Comunista era l’interprete corretto della storia e la sua visione delle cose
era dunque quella vera – così come la coscienza di classe da lui espressa era quella
finalmente compiuta.
Coscienza di classe e rivoluzione
Il Marxismo credeva fermamamente che il capitalismo per la sua stessa logica interna
fosse destinato ad incappare in sempre più frequenti e sempre più gravi crisi (di
sovrapproduzione) nelle quali tutto il suo meccanismo si sarebbe inceppato ed
avrebbe mostrato la sua impotenza a risolverle: lo sbocco inevitabile di tutto ciò
sarebbe stata una crisi finale che ne avrebbe segnato la fine.
Il capitalismo era incapace (per la sua stessa struttura) ad arrestare la sua folle corsa
verso il suicidio.
Tuttavia secondo Lukàcs finchè il proletariato non è maturo per rovesciare il sistema
di classe (cioè finchè la sua coscienza di classe non è sufficientemente sviluppata), la
crisi è destinata a ripetersi ed a riproporsi mentre la borghesia continua a rimanere in
sella e a trascinarsi coi suoi strumenti sempre più logori.
Certamente la crisi è un esito necessario della società capitalistica, ma da essa si esce
a seconda dei rapporti di forza fra le classi e solo quando la coscienza di classe del
proletariato è sufficientemente sviluppata da questa crisi si può generare la
rivoluzione.
Il Partito Comunista è il portatore della completa e compiuta coscienza di classe del
proletariato, l’oggettivazione della vera volontà sua e della Storia stessa e quando la
rivoluzione scoppia padroneggiare e dirigere gli avvenimenti (già largamente previsti
e preparati) è suo compito.
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La Rivoluzione d’Ottobre
Lukàcs scrisse i saggi che compongono “Storia e coscienza di classe” fra il 1918 ed il
1922 ed essi si fusero così con la Rivoluzione d’Ottobre sulla quale tanto riflettè e
che gli apparve l’inveramento e la concretizzazione della sua stessa filosofia
marxista.
L’apocalisse dello zarismo che implodeva e si disintegrava nel caos immenso
scatenato da un popolo oppresso e schiacciato per millenni che finalmente spezzava e
si strappava di dosso le sue orribili catene non poteva non convincere i marxisti che
quella crisi finale del capitalismo già prevista da Marx come inevitabile stava
avvenendo realmente nella storia.
Ancor più, il successo strepitoso della sparuta pattuglia bolscevica nel portarte a
compimento la rivoluzione, dominare e domare eventi così grandiosi, cancellare dalla
faccia della Terra la vecchia società e farne emergere una completamente nuova al
suo posto, tutto ciò per essi non poteva che essere spiegato in un modo: Lenin ed i
bolscevichi avevano potuto compiere un miracolo simile perchè erano stati gli unici
a capire ciò che stava avvenendo e perchè.
Essi avevano considerato globalmente la società, erano i portatori della compiuta
coscienza di classe quindi erano gli unici a sapere cosa le masse ribelli volevano
veramente (oggettivamente!): solo loro insomma interpretavano correttamente la
storia.
Solo loro erano in grado di parlare e di farsi sentire nel luogo più riposto dell’animo
dei lavoratori in lotta nè certamente si fermavano alla loro concreta coscienza
psicologica: non erano ‘democratici’ nel senso che non pensavano di dover rispettare
quel che il proletariato apparentemente voleva e spingevano invece verso dove la
storia andava (e doveva andare!).
Essi erano l’autocoscienza della storia, l’espressione della vera coscienza (di classe)
del proletariato: la venerazione che tutti i marxisti (Lukàcs compreso) hanno sempre
avuto per Lenin deriva dalla sua lucidissima applicazione alla realtà della ortodossa
dottrina marxista – e fu questa per loro la spiegazione del successo della rivoluzione.
Dalla corretta dottrina marxista non si può deviare mai (salvo provvisori adeguamenti
tattici) altrimenti non si interpreta più il corso della storia e si va incontro alla
inevitabile sconfitta.
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La coscienza di classe dopo la rivoluzione
Dalla partecipazione e dall’osservazione appassionata degli eventi rivoluzionari russi
Lukàcs trasse anche una lezione particolare ed apparentemente stupefacente, seppur
in linea con tutto il suo discorso: la rivoluzione inevitabilmente coglie il proletariato
in parte impreparato a portarla a termine.
Se infatti il proletariato (e la sua coscienza) quando scoppia la rivoluzione è tanto
sviluppato da non poter più accettare le soluzioni portate avanti dalla borghesia, non
può però essere ancora sufficientemente maturo da aver superato tutto il sistema
(reificato) di questa: il proletariato è costretto a prendere il potere quando non è
ancora pronto e questo è inevitabile perchè finchè vive nella società capitalistica
non potrà mai rigettarne interamente l’ordinamento (borghese).
Il potere di una società è infatti essenzialmente spirituale (così, per es., lo stato è forte
nella misura in cui si rispecchia nella coscienza dei suoi cittadini) e per quanto col
continuo approfondimento della lotta di classe il proletariato se ne svincoli sempre di
più, egli vive pur sempre in una società di questo tipo e in qualche modo partecipa ad
essa: il passaggio al socialismo non è qualcosa di naturale ed organico perchè per
raggiungere questo scopo tutto l’involucro culturale nel quale gli individui hanno
sempre vissuto deve essere spazzato via e ciò necessariamente può avvenire solo
dopo la presa del potere.
Il passaggio al socialismo comporta una crisi ideologica terribile del
proletariato: dopo la presa del potere, quindi, la rivoluzione è tutt’altro che conclusa,
anzi, si può dire che comincia solo allora - in fondo la borghesia ha subito una sola
sconfitta ed il proletariato ha conseguito una sola vittoria.
Perchè la rivoluzione trascorra veramente nel socialismo è necessario che la
coscienza di classe del proletariato (l’ultima della storia) si realizzi pienamente ed a
ciò non si oppone solo la borghesia, ma anche il proletariato stesso che stenta a
liberarsi da quello che l’ordinamento borghese ha lasciato dentro di lui.
In questo periodo il Partito Comunista deve essere inflessibile nel non lasciare il
minimo spazio nè fare la minima concessione alla borghesia (ed allo stesso
proletariato!) che comporti la minima sudditanza ideologica ad essa.
Nessun tentennamento è ammesso: il proletariato sta combattendo soprattutto contro
se stesso e va forzato e costretto a liberarsi ed a squarciare e distruggere ciò che
della spiritualità borghese ancora rimane in lui.
La dittatura del proletariato deve quindi avere un rigore d’acciaio: la lotta di classe
continua per lungo tempo ancora dopo la presa del potere ad opera del proletariato,
solo che ora essa ha cambiato di livello.
La rivoluzione continua ancora per lungo tempo.
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La società socialista sarà qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato: essa non
solo trasformerà il sistema di produzione con la collettivizzazione dei suoi mezzi, ma
presupporrà anche un diverso tipo di umanità.
Il socialismo è possibile e pensabile solo con una diversa coscienza degli uomini o,
meglio, con uomini la cui coscienza sia finalmente libera.
Completezza ed armonia
L’opera si conclude lasciando alla nostra immaginazione la definizione del libero e
felice uomo del futuro socialismo, ma ciò che colpisce nell’opera di Lukàcs è la sua
organicità che tutto riassume in un discorso unico: storia, filosofia, politica, questioni
pratiche, tutto, tutto è fuso in un unicum armonico che ha, si può dire, anche qualcosa
di artistico.
Certamente però quest’unità di pensiero e di azione, per quanto apprezzabile, ha dei
costi – e siamo alle solite: il rigore e la completezza logica si traducono, anzi, sono
l’alibi, per la violenza ed il terrore senza fine che fin da subito caratterizzarono il
comunismo.
L’unilateralità ed il semplicismo del marxismo applicato sono evidenti nella cecità e
nell’insensatezza della repressione senza fine cui si dedicò sempre con costanza e
determinazione assoluta, ma va anche ricordato che quelli che Lukàcs visse furono
tempi durissimi e nella foresta per sopravvivere bisogna farsi lupi.
L’Europa di allora stava attraversando quell’eccezionale periodo di trapasso che vide
il crollo di tutto il vecchio ordinamento ottocentesco e la sanguinosa e sofferta nascita
del nuovo mondo contemporaneo: tutto era lecito attendersi dal futuro, tutto poteva
succedere - e tutto stava succedendo.
Per gli spiriti rivoluzionari si poneva l’esigenza di riassumere un’epoca, spiegarne la
fine e gettare le basi di quella nuova: Lukàcs interpretò allora il suo tempo alla luce di
un marxismo che si sforzò di rendere il più corretto ed il più completo possibile e la
sua filosofia fu la sintesi del pensiero classico tedesco con la rivoluzione russa.
Oggi gli ardori e le speranze di palingenesi mondiale dei marxisti di un secolo fa
risultano incomprensibili e si condannano invece gli orrori della follia dei costi
ritenuti necessari per raggiungerli, ma ciò dimostra solo quanto è cambiato il mondo
da allora.
Conclusione
Per concludere la panoramica su “Storia e coscienza di classe” manca ancora da
chiarire perchè la Terza Internazionale condannò quest’opera e perchè piacque in
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Occidente: non stiamo forse parlando del lavoro di un rivoluzionario marxista
devotissimo e fedelissimo alla causa?
Si è già detto che “Storia e coscienza di classe” fu accusata di ‘idealismo’ ed ora si
può comprendere perchè.
Il pensiero – la coscienza (di classe o no) – gioca nell’opera di Lukàcs un ruolo
decisivo: secondo Lukàcs senza il comportamento cosciente delle masse la
rivoluzione non è possibile e, a ben guardare, ciò significa che essa è un atto
volontario.
Nell’opera di Lukàcs vibra ed aleggia continuamente la fiducia nel pensiero e la
possibilità per quest’ultimo di liberare l’umanità (con la rivoluzione): certamente il
capitalismo per la sua stessa logica interna tende all’autodistruzione, ma la sua crisi
sarà finale perchè gli uomini guidati dalla loro ragione sapranno muoversi di
conseguenza – e questo sarà l’elemento decisivo.
Ora, tutto ciò effettivamente non era accettabile per quel meccanicismo realista di
derivazione engelsiana che il marxismo ufficiale aveva allora fatto proprio e che
avrebbe poi trionfato con Stalin: nello sforzo di rendere incrollabile e definitiva la
verità del materialismo storico lo sbocco rivoluzionario veniva ritenuto dai marxisti
ortodossi il prodotto necessario dello sviluppo storico nel quale gli uomini erano
trascinati come dalla corrente di un fiume e del quale il loro pensiero era un riflesso
praticamente automatico; e secondo la Terza Internazionale era proprio questo che
rendeva davvero oggettiva (perchè non dipendente dall’arbitrio umano) la verità del
Marxismo rispetto all’ideologia borghese.
Per loro la volontà degli uomini e la loro decisione erano fattori molto più limitati di
quel che Lukàcs aveva inteso: un esempio solo apparentemente marginale aiuta a
comprendere ancora meglio questa differenza: mentre il Marxismo si era orientato
(fin da Lenin) a considerare realisticamente la natura, cioè a ritenerla indipendente
dall’uomo e con una sua struttura oggettiva, Lukàcs affermò invece che “la natura è
una categoria sociale” volendo con ciò intendere che essa esiste all’interno del
rapporto che la società intrattiene con lei: anch’essa insomma fa parte di quel
complesso mondo sociale - al di fuori del quale non c’è nulla.
Oggi che il comunismo è morto e sepolto queste diatribe risultano poco meno che
assurde, lontane, inutili e quant’altro, eppure in esse risuona (ancora una volta)
l’alternativa fra la concezione dell’uomo padrone del suo destino e quella dell’uomo
trascinato e dominato da qualcosa di ben più grande di lui.
Oggi, nell’età della globalizzazione, quest’interrogativo non può essere eluso e forse
allora il vecchio Lukàcs ha ancora qualcosa da dire, per esempio ricordarci che, per
quanto grande essa ci sembri, è l’uomo che fa la storia.
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