RITORNO ALLA CATTEDRALE
Simbolo di vita
Premessa
Ritornare in “Cattedrale” rinnovata come quella che vi preparate a vedere con i vostri
occhi non è solo avere dato risposta a domande del tipo: perché costruire chiese? Perché
restaurarle? E quanti soldi viene a costare una chiesa? Certo, anche queste sono
domande importanti a cui dare una risposta. E voi, Chiesa che è in Crema, a queste
domande avete già incominciato a dare una risposta con il vostro Vescovo, clero,
collaboratori e benefattori. Costruire però, restaurare, adeguare una chiesa è prima di
tutto domandarsi: dove è Dio? Dove cercarlo? Come trovarlo?
L’uomo religioso dell’antichità a queste domande rispondeva così: “Dio è in alto, nei
cieli”. Quale sede migliore si potrebbe immaginare per la divinità della vetta di un monte
altissimo o dello spazio misterioso che sta oltre le nubi. Ma un Dio che abita nei cieli
appare lontano, estraneo, indifferente alle vicende di noi uomini sulla terra. E’ venuto
così un popolo, il popolo ebraico, che nella sua lunga storia ha avvertito la presenza del
Dio non solo creatore del cielo e della terra, ma anche salvatore, partecipe delle vicende
del suo popolo nomade, migrante, pellegrino dalla terra di schiavitù alla terra promessa.
Una volta stabilito nella città santa di Gerusalemme questo popolo costruisce il
tempio e ad esso dedica culto, feste, preghiere, come quella del salmo: “Una cosa ho
chiesto al Signore. Questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della
mia vita per gustare le dolcezze del Signore e ammirare il suo santuario” (Salmo 26). Era
questo il Salmo caro a Paolo VI, ricordando il suo 80.esimo compleanno.
Il vostro Vescovo vi sta accompagnando in questo “Ritorno alla cattedrale” con la
lettera pastorale “Pietre vive, tempio dello spirito: un cammino per cercare Dio nell’anno
della fede ed essere accolti da Lui che ci apre la porta della fede attraverso la nostra
Cattedrale rinnovata”.
Dividerò perciò la mia meditazione sulla Cattedrale in due tappe di un cammino di
ritorno alla Cattedrale:
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Liturgia luogo rivelativo ed educativo della fede
Cattedrale, luogo vivo per uomini vivi
I – LITURGIA, luogo rivelativo ed educativo della fede
Visitando in questi mesi nella mia diocesi i paesi e le comunità della Bassa padana,
sono stato colpito dalla vastità e precarietà causata dal terremoto. La gente ha visto in
pochi minuti martoriati, come corpi, case, municipi, edifici di lavoro, chiese. Sono più di
30 le mie parrocchie che in maniera diversa hanno perso la chiesa e celebrano le Messe
domenicali in tende provvisorie. Certo non sono come il vescovo di Carpi, appena arrivato
in diocesi, messo fuori dalla sua Cattedrale e dalla sua stessa casa, con 50 chiese di cui
solo 3 agibili.
E tuttavia, il celebrare fuori dal tempio materiale, dalla chiesa di mattoni, non ha
impedito loro di continuare ad essere Chiesa di “pietre vive”, come ne parla l’apostolo
Pietro nella sua lettera ai cristiani del suo tempo (1Pt 2,4). Erano i tempi in cui le
comunità cristiane si riunivano non nelle cattedrali e nelle chiese costruite nei secoli, ma
nelle case, ospiti della famiglia che metteva loro a disposizione la casa, come lo stesso
Gesù con i suoi apostoli nell’Ultima Cena. Prima delle chiese, della stessa cattedrale, c’è
la Chiesa, la comunità di “pietre vive”.
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Ma cosa vuol dire essere e agire come Chiesa comunità di “pietre vive”? Scrive il Papa
Benedetto XVI nella sua lettera di indizione dell’Anno della fede: “Desideriamo che questo
Anno della fede susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con
rinnovata convinzione, con fiducia e speranza. Sarà un’occasione propizia anche per
intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia, che è
“il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la
sua energia” (Porta fidei 9).
1. La questione centrale
Dico subito la cosa che più mi sta a cuore, tutte le volte che mi tocca affrontare il
tema della liturgia. Il punto su cui, in partenza, vorrei fermare l’attenzione è il carattere
“fontale” della liturgia nella vita della Chiesa e del cristiano, espresso nella Costituzione
Liturgica del Vaticano II, la Sacrosanctum Concilium (= SC), al n. 10: affermato come
principio teologico, tuttavia, esso stenta a tradursi in pratica pastorale.
È stato notato che le tre grandi dimensioni della vita della Chiesa — Parola,
Sacramento, Carità — caratterizzano in modo speciale ciascuna delle tre grandi
confessioni cristiane. Se la Parola è stata posta in particolare valore dai nostri fratelli
protestanti, se la Carità (e in essa mettiamo tutta la dimensione operativa e pratica della
vita della Chiesa) sembra caratterizzare soprattutto la nostra tradizione cattolica, la
centralità della vita liturgico-sacramentale identifica invece la specificità del vicino
Oriente.
Si può configurare così un cristianesimo prevalentemente biblico, oppure “eticosociologico”, o prevalentemente “dottrinale”, o “liturgico”. Si può per lo meno ipotizzare ci
sia bisogno, nel nostro contesto, di un riequilibrio, di un ridimensionamento di ciò che
pesa di più rispetto a ciò che pesa di meno. L’ipotesi non è del tutto campata per aria.
L’“Anno della fede” celebra non solo il 50° dell’apertura del Concilio Vaticano II, ma
anche il 20° di promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Ebbene è
significativo il fatto che, quando uscì nel 1992, le prese di posizione più marcate, anche
nell’opinione pubblica, abbiano toccato appunto le questioni dottrinali ed etiche (I e III);
scarso rilievo, invece, sembra aver avuto l’insegnamento sui sacramenti e sulla preghiera
(II e IV).
Se l’ipotesi è giusta, vale la pena di notare che così si dà una lettura del Catechismo
che, saltando la dimensione liturgico-sacramentale, collega direttamente dottrina ed
etica, trascurando la celebrazione del Mistero come fonte della vita cristiana. Si deve
allora pensare che, nel contesto della Chiesa italiana, la liturgia appaia senz’altro tra le
cose che pesano di meno? L’opportunità di un “ricentramento liturgico” — strettamente
congiunto con una più forte centralità della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa —,
appare quanto mai urgente, e anche in linea con le sollecitazioni del Santo Padre con
l’Esortazione post-sinodale sulla Eucaristia “Sacramentum caritatis” del 2007.
2. Approcci diversi alla questione liturgica
Prima, però, di entrare in tema, non vorrei passasse inosservato il passaggio degli
Orientamenti Pastorali CEI “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (2000-2010):
“Nonostante i tantissimi benefici apportati dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II,
spesso uno dei problemi più difficili oggi è proprio la trasmissione del vero senso della
liturgia cristiana. Si constata qua e là una certa stanchezza e anche la tentazione di
tornare a vecchi formalismi o di avventurarsi alla ricerca ingenua dello spettacolare. Pare,
talvolta, che l’evento sacramentale non venga colto. Di qui l’urgenza di esplicitare la
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rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo, facendone emergere la dignità e
l’orientamento verso la edificazione del Regno” (CVMC 49).
Cosa sta dietro a questo giudizio, non del tutto positivo, sul come è andata la riforma
liturgica? A quali atteggiamenti, riserve mentali, precomprensioni spirituali, intende
alludere il testo citato? Si possono ipotizzare due atteggiamenti con cui accostare il fatto
liturgico.
a) Atteggiamento spiritualista
All’indomani del Concilio, Romano Guardini, pioniere del Movimento liturgico e
grande educatore dei giovani tedeschi allo spirito della liturgia, scriveva: “Questo è oggi il
compito della educazione liturgica. Se non viene iniziato il fedele, la riforma dei riti e dei
testi non gioverà molto. Può accadere che uomini di seria e sincera pietà abbiano la
sensazione che stia per accadere qualcosa di infausto, come pensava quel degnissimo
parroco che diceva: Prima che incominciasse il lavoro per la liturgia, la mia gente sapeva
pregare, ora non si fa che parlare e correre intorno”.
È questo l’atteggiamento di chi tende a svalutare completamente, o quasi, il compito
della espressione rituale. Per costoro non ha valore, o poco, il simbolismo liturgico. Sono
convinti che Dio vada incontrato nel segreto dello spirito, nell’attenzione dell’anima, e le
realtà sensibili vengono avvertite come opache e quasi come degli impedimenti alla
libertà segreta dello Spirito.
La persona che ha tale tendenza deve incontrare grandi difficoltà nell’approccio alla
liturgia. Magari continua a celebrarla, ma volontaristicamente; oppure, perché ci trova
dentro una dottrina o un messaggio. Ma il suo spirito non vive di questa celebrazione, la
sua mente non concorda con la voce che proclama quel testo, il suo sguardo non incrocia
l’evento evocato dal rito. Si va alla Messa più per dovere. Riemerge ancora oggi, in tutta
la sua attualità, la domanda sul “perché” celebrare, prima ancora che quella sul “come”
celebrare. Si tratta di una domanda che riguarda la fede, il fondamento stesso della fede.
b) Atteggiamento efficientista
Un modo diffuso, magari inconsapevolmente, di praticare questo atteggiamento è
quello che tende a fare della liturgia, della Messa in particolare, un’assemblea di tipo
“assembleare”, dove il “trovarsi insieme”, il “fare comunità” — aspetti certamente non del
tutto ingiustificati — sembrano primeggiare rispetto al resto. È possibile, come qualcuno
osserva, che operi una logica di questo tipo: l’importante è portare la gente in chiesa, e
rendere la loro presenza il meno noiosa e il più attiva possibile. Il rito, sia pure con la sua
oggettività celebrativa, è utile se funzionale e strumentale al “fare comunità”, al
“partecipare”.
È indubbio, ad esempio, che la rinnovata autocoscienza ecclesiale abbia introdotto il
criterio liturgico della “partecipazione”: ma nell’intento di ottenere una celebrazione
“partecipata” si è finito con l’abbracciare ogni sorta di strategia dell’attenzione, di ricerca
dello spettacolare, destabilizzando il delicato equilibrio simbolico della mediazione
rituale.
È ovvio che un’impostazione così privilegi considerevolmente il polo “soggettivo” della
celebrazione e inclini a fenomeni già criticamente rilevati in passato, quali:
- il processo di ”didascalizzazione del rito”, che tende a fare dei riti liturgici una
ennesima persuasiva istruzione ai partecipanti: liturgia è azione, non spiegazione;
- oppure, il processo di riduzione della cosiddetta “arte del celebrare” ad una sorta di
“estetica delle cerimonie liturgiche”: come “un fare” belle liturgie, bei canti, belle chiese.
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3. Indicazioni di percorso
Volendo ora tradurre in orientamenti utili per i nostri problemi le indicazioni del
Magistero, trovo opportuni i richiami sotto due aspetti: il senso del Mistero celebrato
come epifania del Signore e al tempo stesso epifania della Chiesa, da tenere strettamente
in unità nell’assemblea liturgica e negli atteggiamenti che ne conseguono.
a) Il senso del Mistero celebrato
Occorre rimanere fedeli al senso del rito voluto da Cristo. Si celebra anzitutto
“obbedendo al comando di Cristo: fate questo in memoria di me”. È a livello cristologico
che si individua il primo contenuto da dare alla idea di “tradizione liturgica”. L’origine da
Cristo della liturgia è espressione che indubbiamente deve essere ancora precisata e
calibrata. Non può certo essere spinta fino a far derivare da Cristo direttamente tutti i riti
nei loro particolari.
Non è chi non veda come già questa radice cristologica della liturgia inviti a non dare
per scontato “il senso del Mistero celebrato”. Ciò significa diversi atteggiamenti:
- il Mistero che noi celebriamo è anzitutto l’opera di un Altro, l’opera stessa di Dio.
La liturgia è l’epifania del Mistero di Dio, della Redenzione, di Cristo. Essa prolunga
l’Incarnazione nei nostri simboli e nei nostri riti, nella nostra proclamazione e nella
nostra partecipazione;
- nella liturgia dunque io entro: non la creo. La creatività nella liturgia è, come nella
musica, una variazione su di un tema già dato: il tema mi è dato, non viene da me.
Occorre entrarci in atteggiamento di servizio e non di manipolazione. Si serve la liturgia,
non ce ne serviamo;
- senza questa visione di fede, la liturgia non ha alcun senso: essa assomiglia ad
uno strano e penoso teatro, che non giustifica certo uno spostamento ogni Domenica.
Un problema che più direttamente si rapporta al nostro tema è quello
dell’orientamento nella celebrazione, richiamato da Benedetto XVI (Teologia della liturgia,
Opera omnia XI, pp. 530-536). Con riferimento alla celebrazione rivolti verso l’altare, il
contenuto positivo dell’antica direzione “verso oriente” nella celebrazione stava in un
duplice fatto: un concorde rivolgersi del sacerdote e del popolo “al Signore”, come
sottolinea il dialogo prefaziale: “Sursum corda” – “Habemus a Dominum” (In alto i cuori –
Sono rivolti al Signore); verso “oriente” dunque nel senso escatologico e cristologico,
sottolineato più tardi da una croce sulla parete orientale o dalla croce sull’altare o,
meglio, sopra l’altare.
Ciò che conta oggi è salvaguardare lo sguardo del sacerdote e dei fedeli verso la Croce
anche nell’attuale orientamento dell’altare verso il popolo, pregando — sacerdote e fedeli
— “rivolti al Signore”, come si esprime il dialogo del prefazio all’inizio della preghiera
eucaristica. Dipenderà dalle condizioni locali come si possa in maniera adeguata tenere
conto di questi aspetti.
b) Liturgia, epifania della Chiesa
La liturgia è anche l’epifania del Corpo di Cristo: rivela l’immagine della Chiesa,
perchè la comunità riunita da Cristo è il suo corpo. La preghiera, il rito cristiano, il
sacramento sono il luogo in cui non solo ci si educa alla Chiesa, ma che costruisce la
Chiesa. “Celebrate bene e farete la Chiesa”: così spiegava il teologo Franco G. Brambilla,
ora vescovo di Novara, il significato ecclesiale dell’adagio “lex orandi, lex credendi”:
“Mettiti in fondo la chiesa la domenica, guarda come la comunità celebra l’Eucaristia, e
vedrai come questa comunità si lascia plasmare dal Mistero che celebra. Guarda la sua
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fretta e vedrai una comunità funzionale , ascolta il suo canto e vedrai la finezza e la
preparazione; ascolta le sue preghiere e sentirai la forza della sua carità”.
Anche questa dimensione ecclesiale del celebrare cristiano non è senza conseguenze.
Si possono indicare i passi ancora da percorrere.
- Anzitutto a proposito del nesso “partecipare - capire - celebrare” (cfr. SC 48) è noto
che il rapporto è stato evidenziato soprattutto attorno al binomio “partecipare=capire”: in
altre parole all’istanza di attivare la partecipazione dei fedeli si è risposto puntando molto
sulla “comprensione” dei riti e dei testi (cfr. lingua viva, semplificazione dei riti, maggiore
visibilità allo sguardo dei momenti celebrativi, un certo didascalismo...). Non altrettanto,
sembra, si è puntato sul fatto che il tutto passa per ritus et preces, dunque attraverso il
“celebrare” stesso e la sua dimensione propriamente simbolica. Da qui la rilevanza del
tema “l’arte del celebrare” che traduciamo in un’unica regola: “Non dite prima ciò che
volete celebrare, ma celebrate bene ciò che volete dire!”.
- Non sembra ancora superata una certa “riduzione funzionale” della liturgia: fare
quello che è necessario per “ottenere l’effetto” (per es. la grazia comunicata nei
sacramenti). Da qui la fretta del celebrare, senza troppo preoccuparsi del come si celebra,
e dunque della qualità celebrativa come mediazione sensibile del Mistero cristiano nelle
sue diverse dimensioni. Ciò non vale solo per i sacramenti, dove il rischio è più presente,
ma ci si può chiedere ad es., se celebrando la Liturgia delle Ore — là dove lodevolmente
si fa con il popolo — ci si preoccupa veramente della qualità della preghiera, e non
semplicemente di leggere il libro”.
Si pone qui il problema della formazione liturgica. Sostenere e favorire nelle Chiese
locali un maggior impegno nella formazione liturgica, non solo sul piano degli “operatori”,
ma anzitutto su quello delle “comunità in generale”: salvo miglior giudizio, sembra ci sia
stato un abisso, negli ultimi decenni, tra le grandi risorse impegnate nella catechesi e
quelle, assai più ridotte, investite nella formazione liturgica.
II – CATTEDRALE, luogo vivo per uomini vivi
Il beato Giovanni Paolo II al termine della sua visita alla mia Chiesa diocesana nel
giugno 1988 proprio in Cattedrale, quasi improvvisando il suo discorso, ebbe a dire:
«Ringraziamo il Signore per questa occasione che ci ha dato oggi di incontrarci nella
Cattedrale… perché la cattedrale è un monumento d’arte; è un edificio che nella sua
costituzione, diciamo “fisica”, è un oggetto. Ma questo oggetto è anche un grande simbolo:
pur essendo un oggetto morto — le pietre sono morte — è un simbolo della vita».
Provo qui a delineare alcuni tratti del valore simbolico della Chiesa cattedrale che ne
orienta non solo l’opera benemerita di restauro portata avanti in questi anni, ma anche il
ritorno alla sua vita piena come la “Chiesa Cattedrale”.
1. Fare memoria
Ogni chiesa, soprattutto una Cattedrale, è un invito a fare memoria. Così si
esprimeva l’allora Arcivescovo di Milano, Card. G. B. Montini, inaugurando questa
restaurata Cattedrale di Crema (26 aprile 1959): «Che cosa costituisce l’attrattiva di una
cattedrale? …La novità dei lavori? …La grandiosità delle dimensioni? Oh, certo! Per noi
moderni che passiamo la vita nelle scatole anguste dei nostri appartamenti economici,
queste profondità sontuose e solenni ci allargano il cuore; ma tanti altri edifici sono alti e
spaziosi, e non ci parlano allo spirito come questo». E concludeva: «Noi abbiamo ereditato
questa chiesa, con tutto quello che significa di fede, di culto, di unione tra i cristiani... Noi
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diremo a tutti i secoli che ci hanno preceduto... la vostra eredità che è arrivata nelle nostre
mani, gratuitamente, come un dono, noi non la dissiperemo».
Bastano questi pochi cenni di un innamorato della Chiesa, anche sotto il profilo
monumentale e artistico, come Paolo VI, per dire quanto la chiesa, in particolare una
Cattedrale, sia luogo della memoria, che parla delle generazioni che ci hanno preceduto,
evoca una storia che è insieme storia della Chiesa e storia della Città. E voi, cristiani e
cittadini di questo tempo, guardate alla vostra Cattedrale come ad una grande eredità da
custodire e conservare.
Oggi, a seguito della riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II, gli aspetti
storici, architettonici e monumentali legati all’edificio di molte cattedrali, possono
rappresentare qualche problema per la qualità celebrativa delle assemblee ecclesiali e
l’adeguamento dell’aula e in particolare dei poli liturgici: altare, ambone, cattedra. C’è chi
sostiene che si dovrebbe mantenere la cattedrale storica come monumento e costruirne
una nuova per la celebrazione. Anch’io posso capirne l’esigenza, ma non ne condivido la
proposta.
2. Dare un volto nuovo alla Chiesa
L’intento di una chiesa, pur storica come la Cattedrale, non dialoga solo con il
passato e le generazioni che ci hanno preceduto, ma vuole farci vivere al presente.
Ancora un passaggio dell’omelia dell’Arcivescovo Montini alla inaugurazione della vostra
Cattedrale di Crema.
“Ricordo l’espressione desolata ch’io ho sofferta visitando certe cattedrali, nate
cattoliche e per secoli rimaste cattoliche, mistici focolari della pietà degli Apostoli, dei Padri,
dei Santi, del popolo cristiano, ridotte poi protestanti con l’asportazione netta dell’altare;
m’è parso di vedere un enorme corpo decapitato: l’aula rimane sacra alla parola, al canto,
alla preghiera, ma sembra priva di un punto centrale, come una lampada spenta. Così mi
ricordo d’altra impressione, più dolce, ma non meno triste, provata entrando in altre
cattedrali stupende, in Inghilterra queste, ma troppo spesso e a lungo vuote di fedeli...”.
Poi, inaugurando la chiesa di Castelveccana, sulle sponde del Lago Maggiore, quasi
ribaltando l’impressione avuta visitando le Cattedrali del nord Europa, l’Arcivescovo
Montini si rivolgeva così ai fedeli che gremivano l’aula.
“Voi e il vostro parroco (e mi pare di leggervi nel cuore) non avete fatto soltanto un atto
di conservazione,… Avete fatto altro. Avete detto: Noi non ci accontentiamo di essere eredi,
noi vogliamo essere continuatori; non guardiamo soltanto al passato, guardiamo
all’avvenire... vogliamo che il nostro cristianesimo non sia soltanto una reminiscenza e un
sogno del passato, ma sia una vita, sia uno spirito, sia una energia nuova per i nostri
tempi. Vogliamo rivivere la nostra fede ed esprimerla con il nostro genio e con la nostra
forza. Vogliamo dare al nostro Cristianesimo un volto nuovo”.
a) Cattedrale, “Chiesa madre”
La “Chiesa cattedrale”, proprio perché è la cattedrale, ha più di ogni altra il compito
di evidenziare la continuità di una tradizione, quella che la costituisce, storicamente e
simbolicamente, come Chiesa particolare. La forza del simbolo, che è la Cattedrale, sta
precisamente nella tradizione: nel fatto di essere non solo edificio, ma luogo della
memoria delle origini, vincolo affettivo, energia spirituale, Chiesa Madre (o anche chiesa
matrix), da cui sono nate le altre chiese del territorio, e come tale ha continuato lungo i
secoli a testimoniare la sua radice apostolica: la chiesa dove il Vescovo ha la cattedra,
presiede le celebrazioni liturgiche nelle solennità e feste principali dell’anno, le
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Ordinazioni al ministero presbiterale e diaconale, e istituisce gli altri ministeri per il
servizio della Chiesa alla Parola, alla Liturgia e alla Carità.
b) Cattedrale, chiesa parrocchiale
È importante che la Chiesa cattedrale, come simbolo della tradizione che lega il
Vescovo alla Chiesa particolare, anche a fronte della evoluzione architettonica, artistica
ed estetica del suo edificio, conservi, quanto alla sostanza, le qualità ecclesiali di “Chiesa
dell’Eucaristia, della predicazione, della preghiera e della vita domenicale, feriale,
quotidiana della comunità stabile. Sotto questo profilo la Chiesa Cattedrale è
opportunamente anche Chiesa parrocchiale. È luogo di vita di tutta una comunità che
ascolta, prega, celebra, accompagna i cammini di fede di ragazzi, giovani e famiglie,
malati, ha cura della preghiera nell’adorazione quotidiana, offre anche spazi di silenzio
diventati sempre più rari in città, perfino nelle proprie case, e si fa attenta ai poveri ( a
Reggio Emilia è nata la “mensa del Vescovo”).
c) Cattedrale, chiesa esemplare
Si pone qui il problema dell’arte per la liturgia, in particolare quello del rapporto tra
liturgia e arte contemporanea. È noto il cammino di riconciliazione che in epoca
contemporanea ha caratterizzato l’incontro tra la Chiesa e il mondo degli artisti. A fare il
primo passo è stato il coraggio di Paolo VI nello storico incontro con gli artisti nella
cappella Sistina il 7 maggio 1964, ancora a Concilio aperto. Conviene ripercorrere sulla
scia del suo magistero appassionato alcuni passaggi.
1. Alla base, prima del reciproco allontanamento tra Chiesa e mondo degli artisti, e
poi della ritrovata amicizia, Paolo VI pone non tanto delle ragioni estrinseche (da una
parte per la pretesa della Chiesa di imporre canoni più di imitazione che di creazione, di
surrogati oleografici di poco pregio e di poca spesa… e, dall’altra, per il prevalere di
espressioni artistiche che offendono Noi tutori della dignità della vita e dell’uomo), ma per
ragioni intrinseche al ministero: «Noi abbiamo bisogno di voi… della vostra collaborazione,
perché il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile,
anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio…di cui voi
siete maestri».
2. Non solo la ritrovata amicizia tra la Chiesa e il mondo degli artisti è chiamata a
collaborare nei confronti dell’edificio della cattedrale, ma fin dentro la stessa azione
liturgica quale è la Messa.
«Ci pare, in questo momento debba essere ricordata: ed è il fatto che, se il momento
artistico che si produce in un atto religioso — come è una Messa — è pieno… autentico…
generoso, e deve davvero riempire e far palpitare le anime che vi partecipano e le altre che
vi fanno corona, ha altresì bisogno di due cose: di una catechesi e di un laboratorio».
E spiega: «Se vogliamo dare autenticità e pienezza al momento artistico religioso, nella
Messa, è necessaria la sua preparazione, la sua catechesi; bisogna in altri termini farla
precedere o accompagnare dalla istruzione religiosa. Non è lecito inventare una religione,
bisogna sapere che cosa è avvenuto tra Dio e l’uomo…».
Non si dimentichi che Paolo VI sta introducendo al significato spirituale dell’arte,
mentre sta celebrando di fatto la Messa. Così l’opera d’arte diventa essa stessa voce,
linguaggio, interpretazione, “spiritualità che trasforma il mondo”, come Paolo VI dirà a
conclusione del Concilio nel suo Messaggio agli Artisti per le mani dello scrittore e artista
francese Jean Guitton (8 dicembre 1965).
3. Ed è significativo il fatto che Papa Benedetto XVI, incontrando gli artisti nella
cappella Sistina il 21 novembre 2009, abbia voluto ricalcare con stile più teologico le
appassionate riflessioni già di Paolo VI, citando F. Dostoevskij: «L’umanità può vivere
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senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più
vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo”. Tutto il segreto è qui, tutta la
storia è qui».
3. Dare un’anima alla città
Infine, c’è un terzo modo di guardare alla Cattedrale e una terza ragione per
l’impegno di restauro e di adeguamento dei suoi spazi alla vita liturgica, catechetica e
devozionale della comunità. Non si può affermare che una cattedrale sia monumento
riservato in maniera esclusiva alla liturgia e alla preghiera: non si può sia dal punto di
vista dell’uso, sia dal punto di vista dei valori evocati.
In questo senso, Giorgio La Pira invitava a “rifare le cattedrali centro della città”.
L’invito del noto sindaco di Firenze non era solo a restaurare le cattedrali mobilitando
tutti i cittadini come attorno a un bene comune o “tesoro di famiglia”, proprio di tutti: del
Vescovo, della Diocesi, del Capitolo, delle parrocchie che hanno qui la loro chiesa madre,
delle associazioni, delle fondazioni private e pubbliche, e dei singoli cittadini che hanno a
cuore il patrimonio storico artistico della loro Città.
L’invito a “rifare le cattedrali centro della città” è anche nel senso di dare e
conservare ad esse quel contesto umano e familiare che è dato innanzitutto dalla cultura
dell’abitare la città. Come? Mettendo al centro non l’individuo, ma la persona soggetto di
relazioni, ridando piena cittadinanza alla famiglia e conservando alle parrocchie il loro
volto originario di “comunità tra le case”, non riducendo quindi la città e in particolare il
centro storico a un apparato di servizi, né a un museo per turisti di passaggio o a un
rifugio di fortuna per stranieri. Se fosse così, anche una bella cattedrale restaurata
finirebbe per essere una “bella cattedrale nel deserto”.
È questa la ragione che mi ha convinto ad aprire la cattedrale dopo il restauro
all’esperienza dei “Dialoghi in Cattedrale”.
Mi aveva colpito nel viaggio di Benedetto XVI in Cecoslovacchia, un paese molto
secolarizzato, a sostegno in partenza dell’iniziativa il dialogo tra il Papa e i giornalisti in
volo verso Praga. “La Chiesa – diceva il Papa – deve essere presente nel dibattito
pubblico…Direi che il primo è proprio il dialogo intellettuale tra agnostici e credenti.
Ambedue hanno bisogno dell’altro: l’agnostico non può essere contento di non sapere se
Dio esiste o no, ma deve essere in ricerca e sentire la grande eredità della fede; il cattolico
non può accontentarsi di avere la fede, ma deve essere alla ricerca di Dio, ancora di più, e
nel dialogo con gli altri re-imparare Dio in modo più profondo” (L’Osservatore Romano 2829 settembre 2009).
L’intento ha portato a realizzare da diversi anni un ciclo di tre dialoghi, momenti in
cui due persone di pensiero affrontano, da punti di vista diversi, credente e non credente,
una tematica. Nel 2010 è stata la volta delle tematiche su “L’uomo, tra desiderio e colpa,
grandezza e miseria, legge e colpa, libertà e autorità”, ispirate ad alcuni testi della lettera
di S. Paolo ai Romani; nel 2011 le tematiche hanno affrontato la questione di Dio: Dio e il
futuro dell’uomo, il destino del cosmo, e Dio come Bellezza nell’arte”, ispirate al libro
dell’Apocalisse; nel 2012 si è affrontato la questione di Gesù nostro contemporaneo e
tematiche relative: Che cosa dice la storia su Gesù di Nazaret, Il Messia sconfitto: perché
la morte di Gesù?, Gesù nostro contemporaneo: un approccio tra letterature e canzone
d’autore.
Faccio mie — e concludo — le parole che Mons. Giancarlo Santi, in un suo
bell’articolo su Le cattedrali tra liturgia e cultura, cita del discorso del Cardinale Martini
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quando inaugurava anni fa il Duomo di Milano appena restaurato e restituito alla vita
della Chiesa e della città: «Sono convinto che anche la città può riscoprire un’anima,
vivere esperienze di coralità, sentirsi un popolo proprio attorno alla propria cattedrale».
A mo’ di conclusione: oltre la Cattedrale
Nel film Nostalghia di Andrej Tarkovski una voce, dentro una cattedrale in rovina,
intercede. “Fagli sentire la Tua presenza”. “Io gliela faccio sentire — dice Dio — ma è lui
che non se ne accorge”. Che cosa impedisce all’uomo di sentire la voce dello spirito?
Paradossalmente l’uomo d’oggi cerca casa e fugge dalla casa. I fatti della vita lo
sospingono sempre fuori casa: non solo per ragioni di lavoro, ma anche per via della più
complessa vita sociale. Si sta affermando un tipo d’uomo che non ha più un centro vivo
in se stesso. Ha un mondo interiore confuso ed offuscato.
C’è bisogno di sostare, di fare silenzio, di stare e rientrare in se stessi, come amava
dire S. Agostino: “secum ipse stare”. L’interiorità non è chiusura in se stessi, né egoismo
mascherato, ma apertura di sé agli altri dal di dentro di una profonda intuizione del
mistero della vita e dei suoi compiti. Ho letto che a Parigi c’è gente che si dice non
credente e che ama raccogliersi nel silenzio di Notre Dame. Paul Claudel, l’autore di
Annonce à Marie, la notte di Natale, ha ritrovato in Cattedrale la svolta della sua vita.
In una intervista, il prof. Giovanni Reale, cultore dell’antica sapienza greca e
cristiana — le vere radici culturali dell’Europa — diceva che la Cattedrale, ogni chiesa,
avvicina a noi realtà che di solito avvertiamo lontane: i santi, i morti, la vita eterna, Dio.
Così la chiesa che noi frequentiamo ci solleva sui nostri piedi, ci ridona il senso di un
destino comune e di un cammino di vita che tutti ci interpella.
Il Card. Martini, accompagnando il commiato in occasione del funerale di Eugenio
Montale il 14 settembre 1981 in Cattedrale a Milano, evocando il cammino di chi ha
cercato con amore la verità, e pur disperando talora di trovarla, non si è arreso in questa
ricerca, osservava con le stesse parole del poeta: “Tutte le immagini portano scritto: più in
là!”. E Giorgio La Pira, il noto sindaco di Firenze negli anni Cinquanta, innamorato della
sua Città, della sua Cattedrale e del Battistero, diceva che non riusciva a concepire il
Paradiso senza la sua bella “Santa Maria del Fiore” (la Cattedrale) e il suo “bel San
Giovanni” (il Battistero).
+ Adriano Caprioli
Crema, 21 settembre 2012
Bibliografia minima
GUARDINI Romano, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 1980, pp. 207
MONARI Luciano, Meditazioni sulla Cattedrale, Editrice Berti, Piacenza 2000, pp. 71
CAPRIOLI Adriano, Cattedrale, simbolo di vita, Editrice S. Lorenzo, Reggio Emilia
2011, pp. 243