Luca Tentoni Le elezioni comunali del 2016 nei capoluoghi di regione Nota introduttiva Questo e-book raccoglie alcuni testi che Mentepolitica ha pubblicato sulle elezioni comunali del 2016, con qualche “divagazione” sul referendum abrogativo di aprile e quello, prossimo, di ottobre sulla riforma costituzionale. Sono preceduti da un testo che chiudeva il precedente Quaderno, in modo da formare un raccordo col volume già pubblicato. Qui si ripercorre la campagna elettorale puntando però più sull’analisi dei dati e del contesto sociale, politico e istituzionale che sulla dialettica corrente. La seconda parte del volume analizza invece i risultati del primo e del secondo turno delle elezioni comunali del 5-19 giugno. Come per i due precedenti quaderni di Mentepolitica, riproponiamo i testi con un leggero editing. In attesa del referendum costituzionale, il cui esito a nostro avviso influenzerà comunque il futuro del sistema politico italiano, proponiamo ai lettori questa raccolta, con lo scopo, più volte ribadito su Mentepolitica, di rendere il dibattito sociale, politico e culturale sempre più ampio e ricco. 1 Indice Parte Prima - Le elezioni comunali e il “voto degli esclusi” (19 marzo 2016) – pagina 3 Partiti “del leader” ed elezioni locali (2 aprile 2016) – pagina 10 L'Italia dei "sette campanili" (9 aprile 2016) – pagina 19 Referendum, note a margine (23 aprile 2016) – pagina 25 Referendum costituzionale, la partita è aperta (30 aprile 2016) – pagina 33 La battaglia di Roma (7 maggio 2016) – pagina 40 Il "bipolarismo comunale"(14 maggio 2016) – pagina 49 Le comunali "arcobaleno" (21 maggio 2016) – pagina 59 Comunali, l'importanza dei candidati sindaci (28 maggio 2016) – pagina 65 Parte Seconda - Il voto nelle “sette capitali”: un primo bilancio (11 giugno 2016) – pagina 73 Comunali: il rendimento dei candidati sindaci (15 giugno 2016) – pagina 82 - Bilancio dei ballottaggi (25 giugno 2016) – pagina 89 - Comunali, i voti ai partiti nei sette capoluoghi (tabella) – pagina 99 2 Parte Prima Le elezioni comunali e il “voto degli esclusi” 19.3.2016 Mentre i partiti definiscono, fra mille difficoltà, le candidature alle elezioni comunali, c'è già chi si prepara a dare al voto nei grandi centri urbani un valore politico nazionale. Si tratta di comparazioni da effettuare con cautela, trattandosi di consultazioni di diverso genere. In primo luogo, l'affluenza alle comunali è solitamente più bassa di circa il 15-20% rispetto a quella delle politiche. Se ci riferiamo ai soli dati aggregati relativi alle sette maggiori città dove si voterà fra un paio di mesi (Torino, Milano, Bologna, Trieste, Roma, Napoli, Cagliari) abbiamo un'affluenza oscillante fra il 54,1% delle europee e il 62% delle regionali (59,6% comunali) che sale però al 74,6% alle politiche (il periodo considerato va dal 2011 al 2015). La "platea" di riferimento, insomma, sarà stavolta meno ampia che nel 2013. Inoltre, ci sono 3 appuntamenti nei quali i partiti e le coalizioni ottengono rendimenti diversi: più il voto è politico, ad esempio, più il M5S ha possibilità di conseguire una percentuale elevata. Non si spiegherebbe diversamente il 24,3% avuto alle politiche 2013 dai Cinquestelle contro il 21,7% delle europee e il 16,4% delle regionali 2013-2015. Senza contare, inoltre, che a Roma a poca distanza di tempo, nel 2013, per comunali, regionali e politiche, con questi risultati: M5S 12,8% comunali, 27,3% politiche, 16,8% regionali. In quella occasione il centrodestra ottenne invece il 31,7% per il Campidoglio, il 28,3% per la Regione ma solo il 23,7% per la Camera. Anche il centrosinistra ebbe un maggior risultato alle comunali romane rispetto alle politiche e alle regionali. Inoltre, bisogna considerare che alle amministrative una percentuale media di voti variabile fra il 7,3% e il 7,7% degli aventi diritto è costituita da schede dove il votante non ha optato per un partito ma ha scelto solo il candidato sindaco o "governatore". Quindi, i raffronti andranno fatti con molto giudizio. Ad ogni buon conto, però, queste comunali possono dirci molto 4 più di quanto crediamo: basta cercare altrove i segnali più significativi. Per ottenere qualche indicazione potremmo prendere in considerazione due fattori: la "filosofia di fondo" del sistema di voto e il comportamento degli elettori. Per quanto riguarda il primo, è ben noto che fra il meccanismo per l'elezione dei sindaci e l'Italicum per la Camera esistono alcune affinità: il doppio turno se nessuno supera una certa percentuale (il 50% nei comuni, il 40% per Montecitorio) e il ballottaggio "chiuso" (a due). Restano, ovviamente, molte differenze, fra le quali la possibilità di apparentamenti fra il primo e il secondo turno (possibili nei comuni ma non - o non ancora - per l'Italicum) e il premio di maggioranza che in un caso è riservato alla persona (comunali: contano i voti dei candidati sindaci, non quelli delle liste) e nell'altro al partito (Camera dei deputati). Questo "patrimonio comune" ai due sistemi (il premio e il ballottaggio chiuso) ci permette di fare un passo ulteriore: cercare di comprendere come si comportano gli elettori dei partiti e dei candidati esclusi dal ballottaggio. Si tratta, com'è evidente, di dati che 5 anche in tal caso vanno presi con molta cautela, perchè conta parecchio la personalità dell’aspirante sindaco “bocciato” al primo turno. Quello più vicino ideologicamente - in teoria - ad uno dei promossi al ballottaggio potrebbe – per esempio - essere un suo acerrimo avversario politico, quindi non necessariamente gli elettori rimasti "orfani" sarebbero disposti a tornare alle urne per sostenere il candidato "meno distante" (alcuni, piuttosto, potrebbero preferirgli lo sfidante). Fatte perciò le dovute distinzioni, resta però l'interesse che il comportamento di voto degli esclusi riveste in funzione di una possibile futura scelta analoga che potrebbe presentarsi loro in occasione del ballottaggio con l'Italicum. Poichè, secondo tutte le rilevazioni e i sondaggi, nella battaglia per la conquista del premio di maggioranza alla Camera i competitori in lizza sarebbero il Pd e il M5S, resta da vedere come si comporterebbe l'elettorato di centrodestra (sia nel caso che l’area di Berlusconi e Salvini tornasse unita e competitiva con gli altri due soggetti politici, sia nell’ipotesi di “corsa separata”). Sarà 6 dunque importante confrontare i dati delle ultime elezioni politiche, europee e regionali con quelli delle comunali per capire se il centrodestra ottiene più voti andando diviso o unito e se - arrivato eventualmente al ballottaggio - è in grado di attrarre voti e da quale direzione. A Bologna sarà interessante assistere alla lotta fra M5S e Lega. Altrove, invece (per esempio in qualche città non capoluogo di regione) potrebbero trovarsi a lottare per il secondo posto i Cinquestelle e il centrodestra: chi avrebbe la meglio (con nuovi o confermati rapporti di forza)? In situazioni del genere, come si comporterebbe l'elettorato escluso? I votanti di centrodestra appoggerebbero il M5S, si asterrebbero o darebbero un (poco probabile) sostegno al candidato di centrosinistra? Inoltre: in realtà come Torino, invece, la sinistra radicale accorrerebbe in massa per sostenere Fassino (nello specifico, ma si potrebbe fare anche il caso di Giachetti a Roma) in un possibile secondo turno? A Milano e Trieste, dove i favoriti appaiono i candidati di centrosinistra e centrodestra, a chi finirebbero i voti “grillini”? E nella Capitale, con la 7 Raggi (M5S) favorita, come si comporterebbero gli elettori di un centrodestra che potremmo eufemisticamente definire "plurale"? C'è poi il caso di Napoli, dove ogni combinazione è possibile e dove i concorrenti competitivi sono almeno quattro (quindi due o più verranno "eliminati" al primo turno, lasciando elettorati più o meno cospicui a fare da arbitri). Insomma, mentre i ballottaggi con l'Italicum che i sondaggi presentati da Mentana il lunedì al Tgla7 sono "esercitazioni", nelle città italiane potrebbero andare in scena davvero tutte le combinazioni possibili: Pd contro M5S; Pd contro centrodestra; centrodestra contro M5S. Senza contare gli outsider e De Magistris a Napoli. Si tratta, nelle città come a livello nazionale, di sfide fra partiti o “cartelli elettorali” che possono portare al ballottaggio soggetti politici con un consenso complessivo (come sembra verosimile) di circa il 50-60% dei votanti del primo turno. La questione del “voto degli esclusi”, dunque, diventa cruciale. Inoltre, sarà importante leggere con attenzione i dati delle elezioni nei capoluoghi di regione tenendo presente che in 8 questa classe di comuni (in particolare, nelle sette città al voto) la Lega è fortemente sottorappresentata (abbassando così il dato complessivo del centrodestra) mentre il Pd è sovrarappresentato. Andranno infine valutati i rapporti di forza fra Pd e sinistra radicale (di solito, Democratici e altri di area hanno fra il 70 e l'85% dei voti dell'intero centrosinistra allargato) e quelli fra Forza Italia e Lega (nei sette comuni considerati il Carroccio ha ottenuto, nel periodo 2011-2015, fra il 2 e il 4% dei voti mentre gli azzurri hanno oscillato fra il 14 e il 21%). Una volta depurati i dati dalle tendenze locali e isolati i casi più significativi, anche questo turno amministrativo potrà insomma darci qualche indicazione tendenziale. Il che, lo ripetiamo, non sarà un pronostico sulle "politiche" ma aiuterà partiti e analisti ad orientarsi circa l'andamento dell'offerta elettorale e del comportamento dei (pochi, si suppone) votanti. 9 Partiti "del leader" ed elezioni locali 2.4.2016 In un'epoca nella quale i partiti tendono a perdere spazio e consenso mentre i leader divengono non solo centrali ma trainanti e decisivi per il risultato elettorale e per la stessa esistenza di molti soggetti politici, il voto per il rinnovo dei consigli comunali previsto per la fine della primavera rappresenta un banco di prova fondamentale. Poichè la politica è sempre più un fatto mediatico e personalizzato, i partiti e i movimenti hanno la necessità di agire su due fronti: da un lato, quello nazionale, dove la comunicazione non può che passare attraverso internet ma anche per i mezzi di comunicazione "tradizionali" (giornali, televisione); dall'altro, c'è la dimensione locale del rapporto "porta a porta" con gli elettori e con le loro esigenze quotidiane, variabili a seconda del tipo di comune e del contesto sociale ed economico. Nei soggetti politici di un tempo il livello nazionale e quello locale non erano poi così disgiunti, anche se potevano apparire distanti: l'organizzazione capillare 10 tradizionale (la sezione aperta e funzionante anche nei comuni più piccoli) e alcuni fattori unificanti (l'ideologia, la prevalenza della classe dirigente sul leader, il peso nazionale dei notabili locali) facevano sentire la "presenza" del Partito anche in ambiti territoriali minori. La "spettacolarizzazione della leadership", com'è stata definita, comporta che i soggetti politici affidino le loro fortune ad una personalità di spicco, la quale non può che perseguire politiche nazionali e avere un'agenda più orientata sui grandi temi di facile presa sull'opinione pubblica che su argomenti di interesse locale. A livello periferico, tuttavia, la situazione va gestita in modo diverso: se il franchising del leader nazionale e il brand del partito possono essere utilizzati, è però vero che da soli non bastano per conquistare consensi e arrivare ad amministrare realtà peculiari. Serve una classe dirigente che sia direttamente in contatto con i cittadini: una sorta di "secondo canale" rispetto alla comunicazione e al "formato" del partito del leader. Come dimostra la storia della Seconda Repubblica, la competizione locale è 11 sempre stata più favorevole ai partiti radicati sul territorio, laddove quella di livello nazionale ha avvantaggiato i soggetti politici più abili a dominare il panorama mediatico globale. Il centrosinistra e la Lega hanno saputo affermarsi a livello comunale, provinciale e regionale mentre Forza Italia ha sempre avuto i suoi migliori risultati alle elezioni parlamentari nazionali ed europee. Il centrodestra è riuscito ad aggiudicarsi importanti amministrazioni del Nord grazie (in realtà come il Veneto si potrebbe dire soprattutto) al radicamento del Carroccio. Il partito di Berlusconi e quello che oggi è di Salvini (ma per lungo tempo è stato di Bossi) rappresentano gli opposti modelli organizzativi: "leggero" quello del Cavaliere, "pesante" e capillare quello del "senatùr" e del suo successore. Il rendimento elettorale spiega molto, se si confrontano i consensi delle politiche con quelli delle amministrative, ma se ci si limita ad osservare il voto per classi di comuni alle elezioni parlamentari si falsa la prospettiva, perchè non si coglie la differenza che c'è fra Forza Italia e la Lega: entrambe, infatti, ottengono 12 percentuali più alte nei comuni più piccoli, mentre nelle grandi città non catturano o catturano meno un voto che è sfaccettato e - per certi versi - "di opinione". Il "partito del leader" berlusconiano è stato in grado, nei momenti migliori, di trainare il centrodestra e di portarlo quasi sempre a ridosso del 50% dei voti nazionali, alle elezioni per Camera e Senato (la defezione della Lega nel 1996 e l’esclusione dell'Udc nel 2008 hanno ovviamente ricondotto il risultato del centrodestra più vicino al 45%): la Cdl ha complessivamente ottenuto il 52,1% nel 1996 (centrodestra 42%; Lega 10,1%), il 49,6% nel 2001, il 49,2% nel 2006, il 52% (46,3% centrodestra, 5,7% Udc) nel 2008. Tuttavia, quella Forza Italia che alle politiche e alle europee era uno schiacciasassi (tale da comprimere l'espansione leghista, ad esempio nell'elezione "europarlamentare" del 1994, a vantaggio del partito "azzurro"), alle elezioni locali era invece, soprattutto al Nord e al Centro (dove però il centrodestra è strutturalmente più debole del centrosinistra, in particolare nelle "zone rosse") notevolmente svantaggiata. In alcune aree del Sud, 13 però, si poteva osservare un buon rendimento del centrodestra alle amministrative, dovuto a dinamiche di carattere locale e alla presenza di un personale politico (in gran parte proveniente dall'esperienza della Prima Repubblica) molto radicato sul territorio. Riportando il discorso su un livello più generale, è importante fissare un concetto: i partiti "del leader" sono fatti per affrontare competizioni a carattere nazionale. Vincono a livello locale se hanno una storia "ideologicamente favorevole" (cioè una tendenza costante a un voto orientato verso quella famiglia politica) o se reclutano personale politico che ha un contatto col territorio. Diversamente, i partiti "tradizionali" hanno una forte base di simpatizzanti e una rete orientata all'ascolto dei territori ma non sempre hanno avuto leader capaci di catturare consensi supplementari a livello nazionale. Nella transizione che stiamo vivendo, tuttavia, non esistono più partiti di questo genere. La Lega, per esempio, aveva un leader forte (Bossi) ma che non riusciva ad ottenere consensi oltre i confini territoriali d'insediamento naturale, mentre 14 oggi Salvini sembra in grado - con un approccio comunicativo molto orientato all'uso dei mezzi di comunicazione di massa: televisione, internet - di raggiungere un pubblico più vasto, sia per numerosità sia per collocazione geografica. Il Pd ha compiuto un percorso diverso: aveva leadership meno durature e "incontestate" della Lega, mentre ora ha Renzi che è una sorta di "dominus" del partito; l'articolazione locale si è andata indebolendo (anche parecchio, in alcune realtà) pur se - sul piano dei risultati elettorali - è riuscita fin qui a mantenere il governo della grande maggioranza delle amministrazioni regionali e comunali; oggi il partito è più forte sul piano mediatico ma più "leggero", o, meglio, gli ambiti nazionale e locale appaiono più scollegati e lontani. In quanto al M5S, sebbene le prime affermazioni siano arrivate in “periferia” (le comunali a Parma, le regionali del 2010 in EmiliaRomagna), il movimento non ha roccaforti, ma un livello di consenso molto omogeneo che sembra non essere sostanzialmente intaccato in modo incisivo dalla presenza, in alcune regioni, di "poli 15 dominanti" (la zona rossa, il lombardo-veneto leghista). La comunicazione del M5S si è basata inizialmente su un leader nazionale (Grillo) e sulla "Rete" (internet, i social network): a livello di risultati, il riscontro maggiore si è avuto in ambito nazionale (dove i Cinquestelle hanno assunto posizioni radicali sull'euro, ad esempio) mentre sul piano locale il Movimento non è mai riuscito a conquistare una regione o (finora, almeno) il posto di sindaco in una città capoluogo di regione. I tre maggiori soggetti politici del Paese (più Forza Italia, che molti danno per quarta classificata) sono ormai "partiti del leader", anche se nel M5S si assiste ad una tendenza opposta a quella degli altri soggetti politici, con la scelta di un progressivo passaggio di testimone da Grillo ad una dirigenza nazionale "plurale". Tutti usano forme di comunicazione moderna (solo Forza Italia non ha una presenza su internet e sui social network paragonabile a quella della concorrenza) ma ognuno ha articolazioni locali di diverso tipo e diciamo così - "intensità". La Lega è di gran lunga la più radicata, seguita da Pd, M5S e, buona 16 ultima, Forza Italia. In occasione di queste elezioni comunali, però, figurano pochi candidati sindaci leghisti nelle città capoluogo di regione (il che, tuttavia, non esclude affatto che il partito di Salvini possa ottenere un buon risultato elettorale) mentre quelli "azzurri" sono generalmente poco "supportati" (tranne il caso di Milano, che tuttavia ci sembra molto peculiare) dal consenso degli altri gruppi di centrodestra. Le difficoltà del "partito leggero" berlusconiano, perciò, potrebbero essere accentuate da questa situazione, soprattutto in realtà come quella romana, dove il candidato di Berlusconi dovrà vedersela con Giorgia Meloni, leader di un partito - FdI - molto radicato nella Capitale. L'incognita di questo turno amministrativo è dunque rappresentata, nelle grandi città, da Pd e M5S e dalla loro capacità (non potendo contare su "traini nazionali" poco efficaci in elezioni locali) di "sintonizzarsi" con un tipo di competizione che richiede un grande radicamento territoriale. Senza Renzi, Salvini, Grillo e Berlusconi, i candidati dovranno vedersela con i cittadini e con esigenze diverse da quelle che sono 17 oggetto di dibattito sui grandi mezzi di comunicazione di massa. In fondo, è un po' una sorta di nemesi: ora che i partiti debbono la propria fortuna ai leader e alla capacità di personalizzare e nazionalizzare il confronto politico, sono costretti a misurarsi anche con una dimensione lontanissima e periferica. Ecco perchè ogni esito delle “comunali” appare oggi possibile. 18 L'Italia dei "sette campanili" 9.4.2016 Fra due mesi, quando saranno aperte le urne delle elezioni comunali, i partiti non potranno fare a meno di dare ai responsi delle "amministrative" un valore politico. O, meglio, lo faranno soprattutto i vincitori. In ogni caso, se ci sarà un dibattito sui risvolti del voto sul quadro politico nazionale si terrà conto non delle centinaia di comuni che pure rappresentano una parte non trascurabile dell'elettorato, ma dei sette capoluoghi di regione dove avranno luogo le sfide principali, probabilmente le più incerte e appassionanti. Come nella storica trasmissione radiofonica "Tutto il calcio minuto per minuto", insomma, saranno le notizie provenienti dai "campi principali" ad occupare in modo pressochè totalizzante l'attenzione degli appassionati. Eppure quelle sette città, come del resto i ventuno capoluoghi di regione italiani (per il Trentino-Alto Adige si considerano Trento e Bolzano) hanno un comportamento elettorale molto diverso rispetto al 19 resto del Paese. Per accorgersene, basta elaborare i dati relativi alle consultazioni dal 2006 in poi. In tutte le occasioni il centrosinistra avrebbe vinto le elezioni: non solo come Unione nel 2006 (51,9% contro il 41,6% nazionale) ma anche come "piccolo centrosinistra" nel 2008 (politiche: Pd e Idv avrebbero portato Veltroni a Palazzo Chigi col 43,6% dei voti contro il 37,6% nazionale; il centrodestra si sarebbe fermato al 41,7%, contro il 46,8% nazionale) e nel 2009 (europee). Alle politiche 2013 la coalizione di Bersani ha ottenuto nei comuni capoluogo di regione il 33,7% contro il 29,6% nazionale e il rispettivo 24,4%/29,2% del centrodestra). Alle europee 2014, inoltre, il solo Pd ha avuto il 43,5% a fronte del 40,8% nazionale, mentre il centrodestra si è fermato al 21,2% (molto al di sotto del 26,7% ottenuto in tutta Italia) e il M5S al 22,1% (meglio del 21,2% nazionale). I capoluoghi di regione pesano molto sul piano politico, ma non troppo su quello numerico: i loro elettori, infatti, sono poco meno di otto milioni, circa un sesto del corpo elettorale italiano. I sette capoluoghi dove si andrà alle urne il 5 giugno 20 hanno però, da soli, circa il 70% degli aventi diritto al voto di questa categoria di comuni, contro il 30% (circa 2,4 milioni di italiani) degli altri 14 centri. Roma, Napoli, Milano, Torino, Bologna, Cagliari e Trieste, insomma, pesano parecchio sul complesso dei capoluoghi regionali e, politicamente, contano ancora di più. Sul piano del rendimento dei principali partiti c'è poca differenza fra il dato delle sette città al voto rispetto a quello delle altre quattordici. La caratteristica dei capoluoghi di regione in generale e, in particolare, di quelli dove si eleggeranno i sindaci nel prossimo giugno, è la minore affluenza alle urne rispetto al dato nazionale (-0,8% alle politiche 2008, -3,5% alle europee 2009, -0,6% alle politiche 2013, -4,6% alle europee 2014). In compenso, il dato delle schede bianche e nulle è più basso che altrove. Quella nelle sette città, insomma, sarà una competizione che è già strutturalmente diversa per i rapporti di forza più sbilanciati verso il centrosinistra e a sfavore del centrodestra rispetto al quadro nazionale, ma sarà ancora più complessa perchè la moltiplicazione delle candidature e le diverse 21 combinazioni e alleanze nelle città renderanno difficile tracciare una sintesi che non risenta troppo dell'eterogeneità di domanda e offerta politica. Di sicuro il dato del M5S sarà omogeneo, perchè i Cinquestelle si presentano senza liste civiche e alleanze: i loro punti di partenza sono - nelle sette città capoluogo di regione - il 24,3% delle politiche 2013, il 21,7% delle europee 2014, il 16,4% delle regionali 2013-2015, il 7,4% delle scorse comunali (quasi tutte risalenti al 2011, quando il Movimento di Grillo era agli albori). Oscillante fra il 6 e il 9%, invece, è l'area della "sinistra radicale", mentre la "destra radicale" e la Lega hanno ottenuto, nel periodo 2011-2015, fra il 7 e il 10% dei voti (solo il 5% alle politiche, però). Molto variabili, inoltre, sono i dati riguardanti Pd e Forza Italia, che hanno oscillato parecchio negli ultimi anni, anche tenendo conto delle liste "di area" che si sono presentate alle regionali e alle comunali per sostenere i candidati sindaci o governatori. Va però tenuto conto, per un'indicazione di massima, che le liste di Forza Italia-Pdl hanno rispettivamente ottenuto il 21,7% alle comunali 22 2011 (liste di area: 7%), il 19,4% alle politiche, il 14,4% alle europee, il 15,8% alle regionali (liste del governatore: 3,3%) mentre quelle del Pd sono passate dal 27,2% delle comunali (liste del sindaco o "di area": 4,8%) al 28,9% delle politiche, al 44,1% delle europee e al 30,5% delle regionali (liste "del presidente": 7,1%). Questi dati - e la configurazione dell'elettorato delle sette città capoluogo - spiegano il successo del centrosinistra e della sinistra alle scorse “amministrative” (in sei comuni col Pd, in uno - Napoli - senza). In una "roccaforte rossa" come Bologna, ad esempio, la sola lista del Pd non ha mai ottenuto meno del 38-40% dei voti, mentre la seconda classificata non è mai arrivata al 20% (16,6% Pdl alle comunali 2011; 19,1% M5S alle politiche 2013, 15,3% M5S alle europee 2014; 14,5% Lega alle regionali 2014). In altre parole, in realtà del genere molto dipende dal rendimento dei Democratici, mentre in città come Roma e Napoli le distanze fra i possibili "poli" (e fra i candidati in lizza) sono meno nette, almeno stando ai precedenti più prossimi. In questa "Italia metropolitana" dei sette capoluoghi, insomma, che 23 è un po' più astensionista e un po' più di centrosinistra rispetto al resto del Paese si gioca una partita che non è affatto scontata e che probabilmente sarà decisa, fra due mesi (al ballottaggio quasi ovunque, si suppone) dalla capacità o meno delle "famiglie politiche" di restare coese. Questo è però il vero vulnus delle elezioni 2016: in molte realtà nei poli si giocano partite "tutti contro tutti", quindi i risultati complessivi delle liste di un'area potrebbero risultare in linea con i precedenti, ma l'esito della competizione potrebbe invece riservare più di qualche sorpresa. 24 Referendum, note a margine 23.4.2016 Il referendum del 17 aprile è giunto a 42 anni di distanza da quello sul divorzio (12-13 maggio 1974) e a 21 anni dall'ultima consultazione che superò comodamente il quorum (quella dell'11 giugno 1995). In questa storia in due atti dell'istituto referendario ci sono altrettante eccezioni che confermano la regola: il mancato quorum del 1990, il quorum scattato nel 2011. Per il resto, fra i primi e i secondi 21 anni di referendum c'è un abisso. Il primo è stato il periodo della battaglia sul merito e nelle urne; il secondo, quello dell'astensionismo di supporto al "no". Che la tendenza ad abrogare le leggi fosse ormai diffusa era già chiaro alla fine degli anni Ottanta. Nelle consultazioni del 1974 (divorzio), 1978 (finanziamento partiti, legge Reale), 1981 (aborto - 2 quesiti - abolizione dell'ergastolo, ordine pubblico, porto d'armi), 1985 (scala mobile) il "no" vinceva sempre e comunque, anche con scarti minimi come nell'ultimo referendum della 25 serie, caratterizzato da una contrapposizione fra Craxi e Pci-Cgil che chiuse forse definitivamente le porte ad una possibile futura "alternativa di sinistra". Nel primo quarto di storia referendaria, dunque, prevalsero l'alta affluenza (sempre minore rispetto alle politiche, però) e la tendenza dell'elettorato a confermare le leggi dello Stato, anche le più sgradite (quella sul finanziamento ebbe il 43,6% di sì: un campanello d'allarme per la Prima Repubblica; del resto, in quel drammatico 1978 l'elettorato italiano non era ancora pronto, come sarebbe stato nel 1991-'93, per dare una "spallata" al sistema). Dal 1987 in poi, tuttavia, i "sì" partono quasi sempre in vantaggio: su 58 quesiti, in 51 casi (con quorum o meno) hanno prevalso i favorevoli all'abrogazione contro i 7 nei quali (tutti nel 1995: altra eccezione che conferma la regola) ha vinto il "no". Da quasi trenta anni a questa parte, insomma, i difensori di una legge hanno sempre meno speranze che il popolo voti per confermarla. Da un lato perchè i comitati per il sì sono più agguerriti e mobilitati (trattandosi, peraltro, per la maggior parte, di questioni in 26 genere meno note al grande pubblico ma capaci di sollecitare la partecipazione dei settori dell'elettorato più sensibili a determinati temi) e da un altro lato perché il “fronte del no” comprende, fra il 1987 e il 1995, che le partite "a viso aperto" stanno premiando gli sfidanti e decide dunque (grazie all'"azzardo astensionista" tentato con successo, nel '90, dai partiti desiderosi di non inimicarsi i cacciatori, contrari ai quesiti ambientalisti) di dar vita al "secondo tempo" della storia referendaria: quello del "non voto". Dal 1997 in poi, infatti (tranne l'eccezione del 2011) si dispiega la seconda parte della storia referendaria, caratterizzata dall'alleanza fra un astensionismo strutturale di solito più forte di quello fatto registrare per tutti i tipi di elezioni (europee, politiche, regionali ed amministrative) e i partiti schierati per il "no". La percentuale media dei votanti ai referendum, che negli anni '70 era stata dell'84,4% e nel decennio successivo era scesa ad un pur sempre ragguardevole 74,1%, era sicuramente destinata ad erodersi, ma non a crollare. Seguendo il declino della partecipazione 27 elettorale per altri tipi di consultazione, si sarebbe potuto scendere verso una quota intorno al 50%, ma sarebbe rimasto possibile mantenere in primo piano la battaglia fra il sì e il no, lasciando sullo sfondo quella sul quorum. Invece l'idea del “fronte del no” di disertare le urne ha fatto precipitare l'affluenza media: 53,2% negli anni '90 (durante i quali il periodo 1991-'95 è stato ancora all'insegna della mobilitazione, soprattutto in chiave antisistema, mentre nel '97-'99 si è affermato il partito "del no astensionista") fino al 32,1% fatto registrare nel periodo dal 2000 ad oggi. Per curiosità va rilevato che quel 32,1% corrisponde quasi perfettamente all'affluenza del primo appuntamento della serie (21 maggio 2000, 32,2%) ed è molto vicino al 31,2% di domenica 17 aprile 2016. Nel frattempo, abbiamo avuto tre consultazioni con un'affluenza fra il 23 e il 26% (2003, 2005, 2009) e una col quorum raggiunto (2011, 12-13 giugno, anche in questo caso in un periodo di fermenti sociali e politici, quasi come venti anni prima). Non è difficile ipotizzare che, senza la mobilitazione delle ultime settimane sul 28 quesito relativo alla trivellazione in mare, anche il referendum del 2016 avrebbe fatto registrare una partecipazione al voto inferiore al 25%. Da un lato, insomma, abbiamo avuto stavolta un probabile surplus di affluenza dovuto all'aumentare della tensione politica intorno alla consultazione, ma come al solito - abbiamo avuto almeno un 15-20% di elettori che avrebbero potuto optare per il no ma sono stati orientati verso l'astensione. Ad oggi non è dato sapere se, in presenza di uno scheramento di tutti i partiti per il sì o per il no (ma comunque per il voto) si sarebbe raggiunto il quorum (data l'affluenza di regionali ed europee recenti, solitamente più alta che nei referendum, il dubbio è legittimo). In qualche modo, sembra esserci quasi un'eterogenesi dei fini: la mancanza del quorum a fronte dell'impegno di tutti i partiti per il voto sarebbe stato un atto di sfiducia e rifiuto dell'intero sistema politico. La scelta di taluni soggetti (diversi, in questi ultimi 16 anni) di defilarsi per rivendicare la "vittoria anti abrogazionista" utilizzando i "non voti" del "partito dell'astensione" ha dato forza a chi ha usato questo espediente, ma 29 in realtà ha ottenuto probabilmente l'involontario risultato di riuscire a mascherare una più generale debolezza e perdita di credibilità dell'intera classe dirigente politica. In altre occasioni, infatti, nelle quali l'astensionismo non poteva essere utilizzato (alle elezioni amministrative in particolare) si è assistito a consultazioni con un'affluenza vicina se non inferiore al 50% (regionali 2015: 53,9%; regionali Emilia-Romagna 2014: 37,7%; regionali Calabria 2014: 43,8%; comunali Roma 2013: 52,8%). Al di là, dunque, delle polemiche politiche che hanno accompagnato le scelte di schieramento ("nel voto" o "fuori dalle urne") dei diversi partiti e leader, resta il problema della partecipazione popolare. Lo scarso interesse per un quesito può avere un peso, ma limitato a pochi punti percentuali. Lo dimostra il fatto che molti cittadini - in numero sempre maggiore - non si mobilitano per esercitare il loro diritto di voto neanche per scegliere da chi far governare il proprio comune, la propria regione, il Paese. È opportuno tenere conto di questo fattore, non solo per le imminenti comunali del 5-19 giugno ma soprattutto per il 30 referendum costituzionale di ottobre. È bene ricordare, infatti, che se l’ampia riforma voluta dal centrodestra nel 2005 e sottoposta al voto del 2006 è stata bloccata col "no" popolare in una consultazione nel corso della quale ha votato il 52% degli aventi diritto, nel 2001 la più circoscritta riforma del Titolo V della Costituzione è stata approvata dall'elettorato, ma con un'affluenza molto modesta (il 34,1%). Com'è noto, il referendum costituzionale non ha quorum, ma fin qui è stato utilizzato per sottoporre al giudizio popolare progetti vasti e di elevata eterogeneità e complessità, non per singoli articoli o istituti. Nei referendum del 2001 e del 2006, come in quello di fine 2016, si è sempre deciso su importanti variazioni della Carta Repubblicana. Verosimilmente, a ottobre tutti i partiti cercheranno di mobilitare l'elettorato per ottenere una partecipazione alta, perciò - su un banco di prova importante come la modifica della Seconda Parte della Costituzione - si capirà se le forze politiche saranno in grado di coinvolgere la maggioranza assoluta degli italiani a pronunciarsi 31 per il “sì” o per il “no”. Se neppure in un clima che si presuppone di scontro e di alta tensione politica, con un cambio istituzionale in gioco, il "quorum morale" del 50% più uno sarà raggiunto, la Terza Repubblica nascerà (con o senza la riforma) sotto il peggiore degli auspici. 32 Referendum costituzionale, la partita è aperta 30.4.2016 Ogni sondaggio relativo al referendum costituzionale di ottobre è attualmente poco più d'un embrionale tentativo di "saggiare il terreno". Abbiamo ancora quasi sei mesi di campagna elettorale (compresa quella per le comunali, che si concluderà col voto del 5 e 19 giugno) quindi non stupisce che - su cento intervistati da Euromedia Research per “Ballarò” del 19 aprile scorso - ben 46 (il 45,9%, per l'esattezza) non sappiano se andranno a votare o, per ora, non siano intenzionati a farlo. Lo stesso risultato del sondaggio, relativamente alla preferenza di chi invece andrebbe ai seggi, è poco significativo: il 26% degli interpellati approverebbe la riforma, mentre il 28,1% la respingerebbe. Non è solo un dato rientrante nel margine d'errore statistico, ma è anche suscettibile di variazione nel corso dei mesi. Detto questo, però, il sondaggio della Ghisleri non è affatto inutile, perchè delinea alcune tendenze già molto chiare. Secondo la rilevazione, la 33 consultazione sulla riforma costituzionale sembra già una sorta di referendum pro o contro Renzi: voterebbe “sì” il 69% degli elettori centristi di governo (Ncd-Udc) e il 65,2% di quelli del Pd (il “no” si fermerebbe rispettivamente al 6 e al 5%, con un tasso di indecisi o non votanti fra il 25 e il 30%). Solo gli elettori di Sel avrebbero una marginale propensione al "sì" maggiore rispetto a quella di altri partiti d'opposizione: 26,6% contro l'11% di FI e Lega, il 7% di FdI e l'8,5% del M5S. Tuttavia, anche in Sel il “no” arriverebbe oltre il 40% (42,2%) in linea col 42,9% di FI, il 46% della Lega, il 46,5% di FdI e il 51,4% del M5S. Tutto scontato, dunque? Alcuni indicatori ci dicono che non è così. Certo, l'elettorato di centristi, Pd e Sel sembra già schierato (solo il 25-31% è indeciso o non voterebbe: una quota fisiologica). Oscilla fra il 40 e il 46,5%, invece, il tasso di indecisione nell'opposizione di centrodestra e nel M5S. Quel 28,1% di "no" alla revisione costituzionale, inoltre, somiglia molto al 27,4% (sul totale degli aventi diritto al voto nel territorio nazionale) dei “sì” al referendum sulla trivellazione in mare. In altre 34 parole, non è difficile credere che le posizioni degli elettori sul “sì” al referendum del 17 aprile e sul “no” a quello del prossimo ottobre siano in gran parte sovrapponibili. Anche aggiungendo a questi dati quelli di un sondaggio Ixè per “Agorà” del 22 aprile, secondo i quali i “sì” prevarrebbero con circa il 53% dei voti contro il 47% dei “no”, le cose non cambierebbero molto (pur se Ixè prevede un’affluenza referendaria del 69% che ad oggi sembra spropositata e che in parte contrasta col 60% di votanti alle politiche stimato dallo stesso istituto). In termini di rapporto fra espressioni di voto nel sondaggio Euromedia la differenza (che abbiamo ricavato noi) fra “sì” (48,1%) e “no” (51,9%) rientrerebbe ugualmente nel margine d’errore statistico intorno al valore del 50%. Avremmo – comparando “Euromedia” e “Ixè” una “forchetta” del 48-53% per il “sì” e del 47-52% per il “no”, dunque un esito del tutto incerto. Se queste sono le posizioni di partenza, con un 28% già mobilitato per il “no” e un 26% mobilitabile per il “sì”, o viceversa (ci permettiamo di prendere come punto di partenza l’affluenza del 54% 35 prevista da Euromedia anziché il meno probabile 69% di Ixè) si possono già trarre alcune conclusioni. La prima è che per vincere la consultazione di ottobre Renzi avrà bisogno di disporre di tutte le forze del suo partito e degli alleati centristi, se gli italiani al voto saranno 26-27 milioni. La seconda è che buona parte della competizione si gioca sul grosso di quegli elettori che oggi – se si votasse per le politiche - non sceglierebbero alcun partito e che non sanno se e come si esprimerebbero in occasione della consultazione di ottobre. Fra costoro, solo 15,5 su cento direbbero “sì” alla riforma, contro il 12,1% che voterebbe “no”. La mobilitazione dei due fronti potrebbe verosimilmente portare l’affluenza sopra il 50% degli aventi diritto, nonostante il fatto che per il referendum costituzionale non ci sia bisogno di un quorum minimo di validità. Questo sondaggio, dunque, non ci permette di prevedere un vincitore, ma ci indica tre possibili direttrici della campagna elettorale referendaria autunnale. La prima, interna alla maggioranza di governo, sarà la massima mobilitazione possibile dei votanti 36 di Pd e centristi (ampiamente minoritari rispetto al complesso del sostegno che i sondaggi accordano ai partiti di opposizione). Quel 30% circa di simpatizzanti del partito di Renzi che non sa se e come votare è probabilmente composto da elettori che non condividono appieno la posizione del premier e che forse si ritrovano di più in quella della minoranza del Pd. Si tratta di una massa di voti che potrebbe – se spinta verso il sì o il no spostare l'ago della bilancia in maniera sensibile. In altre parole, Renzi non solo deve portare alle urne il grosso del suo partito che è già favorevole alla riforma, ma deve conquistare almeno la "non belligeranza" dei suoi oppositori interni (anche per questo sta cercando di "arruolarne" alcuni nei comitati per il “sì”). La seconda direttrice lungo la quale si snoderà la campagna elettorale riguarderà invece i partiti di opposizione. Quel 27-28% di elettorato che si è già manifestato (con i “sì” antitrivellazione) al referendum di aprile sembra intenzionato a tornare alle urne, anche perchè l'appuntamento di ottobre è molto più importante. Ma c'è quel 45,7% di elettorato indeciso di Forza 37 Italia che potrebbe andare ovunque, anche verso il fronte del sì. La (per ora improbabile) ricomposizione del centrodestra può influenzare l'esito del referendum costituzionale, accelerando processi di riaggregazione o di dispersione dell'elettorato "moderato". L'area a destra del Ncd, infatti, rappresenta pur sempre, in tutti i sondaggi, poco meno di un terzo dei potenziali votanti. Quindi, le dinamiche di leadership, programmi, posizionamenti di questa area molto eterogenea sono suscettibili di produrre effetti molto marcati non solo sull'esito della consultazione ma anche sulla futura struttura del (per ora scontato) ballottaggio (con l'Italicum) per la conquista del premio di maggioranza alla Camera dei deputati nel 2017 o 2018. Infine, la terza direttrice riguarda il "voto di chi non vota". La prova generale per comprendere se la quota elevata di elettori che oggi non andrebbe alle urne per il referendum costituzionale è un blocco granitico o se può invece essere scalfito da "stimoli politici" è costituita dalle prossime elezioni amministrative. Se l'affluenza resterà al massimo sul 55-60%, probabilmente il 38 "partito astensionista" non si “scongelerà” neppure per il referendum. Un conto infatti è scegliere da chi far governare la propria città (un tema molto concreto e percepito come vicino dai cittadini), un altro conto è esprimersi su una vasta e complessa modifica della Costituzione (per di più, in pieno autunno). Mobilitare i propri elettori, sperare nelle incertezze nel fronte avverso, cercare di catturare un po' di "astensionisti cronici": questo è il filo conduttore di una battaglia appena iniziata e il cui esito è completamente imprevedibile e aperto. 39 La battaglia di Roma 7.5.2016 La decisione di Berlusconi di sostenere, alle comunali romane, il candidato centrista Alfio Marchini anzichè la candidata di FdI e Lega Giorgia Meloni, è la prova che nel centrodestra è in corso una resa dei conti. Si tratta di un appuntamento rinviato troppo a lungo e ormai necessario, perchè nulla esclude con certezza che si possa tornare ad elezioni politiche (anticipate) già nella primavera del 2017. Col vecchio "Porcellum" (il sistema elettorale utilizzato per eleggere i parlamentari nel 2006, 2008 e 2013) bisognava formare una coalizione per sperare di aggiudicarsi il premio di maggioranza alla Camera. Tre anni fa l'alleanza fra Pdl, Lega e destra si fece: anche se il centrodestra era in fase calante, Berlusconi mancò per poco il sorpasso nei confronti del centrosinistra di Bersani (pur restando sotto quota 30%, tuttavia). Il partito del Cavaliere e il Carroccio attraversavano una fase critica, che per Berlusconi si è aggravata mentre per la Lega si è mutata in 40 una contingenza positiva: il nuovo leader Salvini, infatti, ha riportato il suo partito verso percentuali di rilievo. Da una situazione nella quale la leadership di Berlusconi e il peso elettorale della componente vicina al PPE era preponderante rispetto alla destra si è passati ad una fase di debolezza reciprioca (2012-2013) delle due "anime" della coalizione e, infine, alla situazione attuale. Oggi la componente dell'ex Cdl che a Roma si riunisce intorno a Marchini parte da una base elettorale che alle ultime europee era intorno al 17% in città e al 21% nazionale (FI-Ncd-Udc), contro il 7% ottenuto da Lega-FdI nella Capitale (9,9% nazionale). In teoria, se ci fossero le condizioni politiche per un'intesa coalizionale, l'anima "popolare" del centrodestra e quella "lepenista" potrebbero contare su un 24% a Roma e un 31% nazionale (europee 2014) che però, secondo i sondaggi, potrebbe arrivare oltre, al 3234%. In realtà, a Roma Marchini e Meloni resteranno in campo mentre, su scala più ampia, la scelta finale sarà fra il centrodestra "classico" guidato (anche non personalmente, ma comunque 41 dominato) da Berlusconi e una coalizione a trazione leghista e di destra, nella quale gli "azzurri" avrebbero un ruolo marginale e quasi "servente". Nella fase politica nella quale ci troviamo, Pd e M5S possono giovarsi delle divisioni nell'ex Cdl. A Roma, perchè c'è il rischio che nessuno dei due candidati di centrodestra vada al ballottaggio e a livello nazionale perchè l'Italicum premia una sola lista: se per Berlusconi e Salvini è difficile trovare un accordo per le comunali ed è quasi impossibile costituire una coalizione per le politiche, si può ben immaginare che il "listone" comune per la Camera dei deputati è ad oggi una pura utopia. Non si arriverà facilmente ad un'intesa nel centrodestra; è più facile che si vada alla conta, soprattutto per stabilire se i rapporti di forza dell'ultimo appuntamento elettorale importante (le europee del 2014) sono ancora validi o se, invece, la destra prevale - sia pur di poco - sulla componente che in Europa si riconduce al PPE. Il terreno migliore per una gara senza esclusione di colpi è Roma. Più a sud, la Lega non ha molta forza e la destra di FdI 42 non riesce a contrastare i centristi. Più a nord, invece, il Carroccio sembra aver preso un vantaggio cospicuo sugli "azzurri". La Capitale è tradizionalmente una città generosa verso la destra: alle comunali del 1993, quando Berlusconi disse che se fosse stato romano avrebbe votato Fini (dando così il via alla stagione ventennale della Cdl) il Msi ebbe il 31%. Il risultato fu il frutto del crollo della Dc e dei liberali (cioè dell’area popolare-liberale che poi Berlusconi avrebbe voluto “incarnare”), ma va ricordato che monarchici, missini e altri di destra avevano comunque sempre avuto numerosi consensi. Nel 1946, alle comunali, la Dc e il Pli ebbero il 25,3% contro il 27,7% di qualunquisti e monarchici; nel 1952 (sempre alle comunali, come in tutti gli esempi che seguono) il risultato fu di 35,5% per la Dc e il Pli contro il 19,7% di Uq-Pnm-Msi; nel 1956, Dc-Pli 36,4%, Pnm-Pmp-Msi 20,9%; nel 1960, DcPli 38%, Msi-Pdium 17,9%; nel 1962, Dc-Pli 37,5%, Msi-Pdium 18,6%; nel 1966, Dc-Pli 41,4%, MsiPdium 11,6%; nel 1971, Dc-Pli 32,2%, Msi-Pdium 17,4%; nel 1976, Dc-Pli 34,8%, Msi 10,6%; nel 1981 43 Dc-Pli 32,6%, Msi 8,7%; nel 1985 Dc-Pli 35,6%, Msi 9,3%; nel 1989, infine, Dc-Pli 33,8%, Msi 6,9%. Quel 41-44% dei voti democristiani, liberali e missini del periodo 1976-'89 non è poi troppo distante dal 44% ottenuto da Msi, Dc e Unione di centro nel 1993 a Roma (47% complessivo per i candidati Fini e Caruso). In altre parole, nella Capitale il confronto fra i centristi moderati (Pli e Dc prima, Udc e Forza Italia poi) e la destra è sempre stato un elemento importante della competizione. I democristiani, a Roma, erano dominanti sul piano numerico ma non riuscivano sempre a fare come sul piano nazionale: servirsi, cioè, del voto missino e di destra in casi di emergenza (come la mobilitazione del 1976 contro il sorpasso del Pci, che vide la Dc resistere grazie al "ritorno a casa" di molti voti persi a destra nel biennio 1971-'72). Nella Capitale, infatti, la destra riusciva non di rado a erodere elettorato "di confine" con la Dc e il Pli. Durante la Seconda Repubblica, questo confronto fra centro moderato e destra si è svolto talvolta, a Roma, su un piano di quasi parità: alle europee del 1994, FI e alleati centristi hanno avuto il 24,5% dei voti 44 contro il 25,3% di An e altri di destra. Forza Italia ha sofferto molto, nei primi anni, la difficoltà di radicarsi sul territorio, soprattutto alle comunali 1997 (25,9% della destra contro il 13,8% di "azzurri" e CCD), ma molto meno in elezioni nazionali come le europee del 1999 (25,2% a 20,7% per la destra) e persino alle comunali, nel 2001 (22,3% destra, 25,1% FI-Ccd-Cdu-altri). Così, si è avuto equilibrio alle europee 2004 (20,4% destra, 19,6% azzurri e altri), alle politiche 2006 (21,2% a 24,8%) e alle comunali dello stesso anno (20% contro 15,1%). L'unificazione di An e FI nel Pdl ha reso impossibile, nel periodo fra il 2008 e il 2013, quantificare la forza delle due anime della vecchia Cdl. Ma alle europee del 2014 si è avuto di nuovo un primo risultato “disaggregato” (6,74% per Lega e FdI contro il 17,14% di FI e Ncd-Udc). Nel frattempo, tuttavia, il contesto politico è cambiato: al posto della "destra che andava verso il centro", quella di Fini, ce n'è una che se ne allontana in modo molto marcato. A ben vedere ci sono divaricazioni e differenze persino all'interno delle due "anime": pur essendo entrambi all'opposizione 45 di tutti i governi e dell'euro dal 2011, Meloni e Salvini hanno però concezioni non perfettamente coincidenti (oltre a storie politiche molto diverse); sul fronte "del PPE", c'è una certa distanza fra chi è ora al governo con Renzi (Udc-Ncd) e voterebbe sì al referendum costituzionale e chi, invece, è all'opposizione e si schiererebbe per il no (Forza Italia). Oltre a euro e governo, il discrimine è dunque sulla posizione circa le riforme istituzionali: gli "azzurri" hanno fatto parte della "coalizione ampia" che ha - per un certo periodo, durante i mesi del "patto del Nazareno" - sostenuto il progetto di revisione costituzionale voluto dal Pd. Oggi, il "centro popolare" (vicino al PPE della Merkel e dei conservatori britannici) è dato dai sondaggi intorno al 14-15% nazionale (secondo l'Emg, Forza Italia è circa al 12%, Ncd-Udc al 3%; per Ixè FI avrebbe l'11%, Ncd-Udc il 3,4%) mentre la "destra lepenista" (vicina alle destre europee e, per quanto riguarda la Lega, anche al candidato repubblicano statunitense Donald Trump) è quotata intorno al 18-20% (15% Lega e 4,5% FdI-An per Emg, 15% Lega e 3,6% FdI-An per Ixè). In 46 pratica, la partita si gioca per pochi punti percentuali a livello nazionale e forse anche nel comune di Roma. A Milano la coalizione è coesa perchè ci sono equilibri locali da rispettare, anche regionali, ma certamente sarà interessante vedere se il Carroccio riuscirà ad avere la meglio su FI in una città che spesso è stata molto più favorevole agli "azzurri" che ai leghisti. A Napoli, invece, c'è solo Forza Italia o poco più: la destra ha un peso minore rispetto a Roma. Ecco perchè - se c'era bisogno di uno "strappo" e di un confronto diretto, di una sfida che anticipasse la lotta per la conquista dell'intero centrodestra - non esisteva posto migliore della Capitale. Se uno fra Marchini e Meloni andrà al ballottaggio, sarà interessante studiare quanti dei voti dell'avversario escluso andranno al restante "campione" del centrodestra. Il fossato fra le due "anime", infatti, è sempre più ampio, senza contare la concorrenza: per i "popolari", il "partito della Nazione" di Renzi; per la destra anti-euro, il M5S. Oltre a lottare fra loro per il predominio, insomma, le due anime del centrodestra dovranno evitare di farsi logorare e 47 stringere nella morsa Pd-M5S. Democratici e Cinquestelle, infatti, sembrano prepararsi ad essere i protagonisti del ballottaggio con l'Italicum del 2018 (o, più probabilmente, del 2017) e hanno tutto l'interesse a indebolire e mantenere divisa un'area, quella di centrodestra, che se unita sarebbe potenzialmente competitiva, dunque "pericolosa" per loro. 48 Il "bipolarismo comunale" 14.5.2016 Con le elezioni amministrative del 5-19 giugno anche il sistema politico dei grandi comuni italiani sembra destinato ad abbandonare la lunga stagione del bipolarismo. Come abbiamo accennato nello scorso capitolo, la pluralità di candidature competitive rende più che probabile la dispersione del voto e l'arrivo al ballottaggio di personalità che forse insieme rappresenteranno poco più della metà degli elettori votanti al primo turno. In questo modo potrebbe essere certificata la fine, anche a livello locale, della ventennale stagione del confronto fra due coalizioni che aveva caratterizzato la Seconda Repubblica fino alla svolta rappresentata dalle “politiche” del 2013. Se ci si riflette, è proprio dall'introduzione del nuovo sistema per l'elezione diretta dei sindaci che si afferma, all'inizio degli anni Novanta, l'epoca della politica fondata sul successo dei leader e sulla necessità di costruire alleanze e coalizioni competitive. La caratteristica dei sistemi elettorali 49 comunali e di quelli nazionali era, fino al '92, la rappresentazione proporzionale delle preferenze politiche dei cittadini. Le maggioranze in Parlamento e nei comuni - anche se ampiamente annunciate in precedenza - si concretizzavano al momento di scegliere, in assemblea, la giunta (locale) o il governo (nazionale). I partiti, che prima negoziavano sulla base dei risultati elettorali e dei rapporti di forza, si sono invece trovati – dal ’93 - ad allearsi per superare la prova del voto. Mentre il Presidente del Consiglio, però, non è mai stato formalmente eletto dal popolo (persino il Porcellum indicava il "capo della coalizione", perchè il ruolo del Presidente della Repubblica e del Parlamento non sono stati modificati, neppure in occasione della riforma costituzionale che sarà sottoposta al giudizio degli italiani nel prossimo ottobre), il sindaco lo è sempre stato, dal 1993 in poi. L'elemento maggioritario e personalizzante della competizione è stato accentuato sia dalla necessità - nei comuni - di raggiungere e superare il 50% dei voti validi per conseguire l'elezione al primo turno, sia dall'eventuale ballottaggio 50 "chiuso" (cioè riservato ai primi due, in modo da bipolarizzare la competizione). Poi il Mattarellum, nelle differenti versioni per Camera e Senato, ha spinto il sistema dei partiti a riaggregarsi intorno a due schieramenti contrapposti. Persino il Porcellum ha continuato ad avere effetti bipolarizzanti, consentendo però ai partiti maggiori (Pd e Pdl) di competere senza la necessità di costituire coalizioni omnibus: rispetto al 2006, infatti, nel 2008 l'Udc "ha corso" fuori dal centrodestra (Pdl-Lega-Mpa) e la sinistra radicale (Arcobaleno) è restata fuori dal centrosinistra (PdIdv). Si sono formate "coalizioni minime vincenti" ma l'impianto è rimasto bipolare, finchè l'elettorato ha scardinato il sistema e imposto un assetto diverso. Pur riuniti in due poli competitivi, centrosinistra di Bersani e centrodestra di Berlusconi hanno avuto insieme solo il 58,73% dei voti per la Camera dei deputati, nel 2013. L'indice di bipolarismo, cioè la percentuale dei voti ottenuta dalle due coalizioni meglio classificate alle elezioni politiche (in particolare, alla Camera e, per quanto riguarda il periodo 1994-2001, 51 limitatamente al voto per la parte proporzionale) è salito dal 77,18 del 1994 (abbiamo considerato però, come avversaria dei Progressisti, l'alleanza fra i due "tronconi" del centrodestra: al nord Forza Italia con la Lega, al sud FI-AN; in realtà vanno conteggiati nel polo di centrodestra i voti di tutti i partiti di quella che subito dopo le elezioni sarebbe diventata l'alleanza sostenitrice del primo governo Berlusconi) all'85,46 del 1996 (Lega fuori dai poli) per attestarsi all'84,64 del 2001 (Rifondazione e Di Pietro fuori dal centrosinistra), riprendere quota fino al 98,92 del 2006 (il vero trionfo del bipolarismo, con tutte le forze politiche schierate con l'Unione o con la CDL), discendere all'83,83 del 2008 (Udc e sinistra radicale autonomi) e infine crollare al 58,73 del 2013 (con la comparsa del M5S e di Scelta Civica). La storia, insomma, ci racconta di un sistema dei partiti che a livello nazionale parte da un indice di bipolarismo già molto alto nel 1994 (77%), si assesta sull'85% circa nel periodo 1996-2001 e che sfiora il 90% nella media delle prime tre elezioni del secolo (2001-2006-2008: 89,13%) prima del crollo del 2013. Un sistema 52 politico e partitico completamente diverso - anche per modalità comunicative e per la presenza di alleanze elettorali e non post-elettorali come in precedenza - da quello della Prima Repubblica. Un bipolarismo che poteva concedersi defezioni di forze più o meno marginali ma che restava saldo e connotava il sistema dei partiti della Seconda Repubblica. Questo bipolarismo esisteva anche nelle elezioni per i comuni maggiori. Se prendiamo in considerazione le sette città dove si voterà il 5 e forse anche il 19 giugno (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Cagliari, Trieste) notiamo che la percentuale di voto ai primi due candidati classificati alle elezioni comunali è stata in media dell'82,58% nel periodo 1993-2013 contro l'81,46% ottenuto alle politiche dalle prime due coalizioni nazionali nello stesso periodo. Il "bipolarismo comunale", però, ha avuto un esordio meno brillante di quello nazionale: in alcune città come Torino la lotta non è stata fra due coalizioni strutturate e identificate in candidati comuni espressioni di accordi più ampi, ma fra due candidati di sinistra (a Milano fra la sola Lega e la 53 sinistra, a Bologna fra centrosinistra e AN, a Roma e Napoli fra sinistra e MSI). Il passaggio fra vecchio e nuovo sistema dei partiti non era ancora compiuto, nel periodo 1993-'95. Tuttavia, i due più votati nei sette comuni avevano in media il 67,6% dei consensi popolari: una percentuale ragguardevole in valore assoluto, anche se inferiore di circa dieci punti rispetto al 77,18% conquistato da centrodestra e Progressisti alle politiche 1994. Mentre nella seconda metà degli anni Novanta il bipolarismo comunale si va affermando (nel periodo del "partito dei sindaci") l'indice di bipolarismo sale di 14,6 punti (quello nazionale, invece, ne guadagna "solo" otto) anche se resta inferiore (82,28 contro l'85% delle politiche 1996 e 2001) a quello per la Camera dei deputati. Già in alcune realtà come Bologna (88,15%), Roma (96,39), Napoli (98,2) la concentrazione attorno a due candidati e la formazione di coalizioni di centrosinistra e di centrodestra è forte nel periodo 1997-'99. È però negli anni Duemila che il bipolarismo comunale prende - per così dire - il sopravvento su quello nazionale. A parte il 2006, 54 l'anno nel quale fuori dai due competitori per la Camera (Unione e CDL) ci sono solo partiti pulviscolari, fra il 2001 e il 2008 i poli si presentano all'elettore italiano in "formazione ridotta", mentre molto spesso nei comuni non è nè possibile nè auspicabile puntare su "coalizioni minime". Sia nella tornata elettorale comunale del 2001-'04 che in quella del 2006-'09 l'indice di bipolarismo nelle sette città si attesta al 92,2%, con punte fino al 98% a Milano (2006: 98,95%) e Roma (2006: 98,51%). Non considerando l'astensionismo (che meriterebbe un discorso a parte) ma solo i voti validi, si può dire che la configurazione bipolare del sistema, nata con i ballottaggi delle comunali 1993 e affermatasi a livello nazionale con le leggi elettorali che premiavano coloro i quali erano più capaci nel coalizzarsi, si sia radicata più nelle città che nella "grande politica". L'ultima tornata elettorale, quella del 2011-2013, risente probabilmente ancora poco della comparsa del M5S e dell'evoluzione del sistema politico, ma è pur sempre vero che i candidati di centrodestra e centrosinistra, a Roma, nel 2013, ottengono il 55 72,87% mentre le due coalizioni nazionali più votate (quella di Bersani e quella di Berlusconi) avevano riscosso pochi mesi prima, nella Capitale, solo il 67,12% dei suffragi. La polarizzazione del voto comunale, dunque, resta più elevata, sia forse per caratteristiche della "concorrenza", sia soprattutto - perchè la natura bipolare della competizione locale appare ancora attrattiva per l'elettore e per i partiti “di area”. E se è vero che a Roma, nel giro di pochi mesi, l'affluenza è crollata dal 77,35% delle politiche al 52,81% del primo turno delle comunali (-24,54%), è però vero che i voti assoluti delle due principali coalizioni sono diminuiti soltanto del 4,1% da 913.970 a 876.057 (risalendo a 1.039.373 in occasione del ballottaggio). Sintomo di una mobilitazione che almeno a livello dei poli in lizza - si è dimostrata costante. Resta, dunque, un interrogativo da porsi: se quel 5-6% in più del "bipolarismo comunale" romano (che diventa 21% in più nelle sette città 79,75 a 58,73 - sia pure con l'avvertenza che le politiche si sono svolte nel 2013 e le amministrative nel 2011 tranne che nella Capitale) sia un dato che 56 possa restare nel tempo e caratterizzare anche questa competizione oppure no. La nostra impressione è che la smobilitazione, che nel 2011 era in potenza e che nel 2013 si è palesata con forza alle elezioni politiche più che alle comunali, sia oggi in stato avanzato. Esaminando l'offerta politica "plurale" di parecchie città si può considerare verosimile registrare un valore dell'indice di bipolarismo intermedio fra quello delle politiche 2013 (58,73%) e il 79,75% delle comunali 2011-2013. Ciò che è ancor più importante, però, è che mai, in tutte le 36 consultazioni amministrative che si sono svolte nelle sette città durante la Seconda Repubblica, l'indice di bipolarismo è sceso sotto il 50%: è rimasto sotto il 60% solo in tre casi (Cagliari e Torino 1994, Roma 2013) e sotto il 70% in altri sei. Alle ultime comunali, è stato pari all'89,86% a Cagliari, all'89,64% a Milano, all'83,96% a Torino, all'80,82% a Bologna, al 72,87% a Roma, al 68,23% a Trieste, al 66,04% a Napoli. Stavolta, in una o più città, si potrebbe finire sotto quota 60%. Se ciò avvenisse in svariate circostanze saremmo di 57 fronte ad un'ulteriore prova che la transizione verso un nuovo sistema dei partiti non solo non è conclusa, ma è più duratura e complessa del previsto. 58 Le comunali "arcobaleno" 21.5.2016 Sebbene ci siano alcuni precedenti importanti, come il voto a Parma nel 2012 e le politiche del 2013 (così come, in parte, le scorse regionali, nelle quale il M5S talvolta non è stato molto competitivo), le elezioni amministrative del 2016 sono la prima grande competizione multipolare della Seconda Repubblica. In tutti i sette capoluoghi di regione dove si vota, quasi nessun candidato e nessuno schieramento sono accreditati del 50% più uno dei consensi: i ballottaggi sono pressochè dati per scontati. Non è una novità: anche quando si confrontavano Unione e Cdl c'erano parecchi casi nei quali si ricorreva al secondo turno. Il sistema per l'elezione dei sindaci, inoltre, favorisce una competizione a due perchè permette al secondo arrivato, sia pure se svantaggiato di parecchie lunghezze al primo turno, di giocarsi tutto al ballottaggio. Per venti anni, però, la dinamica politica è stata piuttosto semplice. C'erano tre risultati possibili: la conferma 59 della maggioranza (o anche del sindaco) uscente, la vittoria della coalizione avversaria o un secondo turno con in lizza i rappresentanti di Unione e Cdl. Le rare eccezioni confermavano la regola. Ora non è più così. Stavolta non sarà tanto importante aggiudicarsi il comune al primo turno (sebbene ci siano una o due città dove teoricamente, guardando i risultati di un tempo, potrebbe essere un’ipotesi da valutare) ma arrivare al ballottaggio. In alcune situazioni, come quella di Roma e Napoli, le combinazioni possibili sono numerose: fra Raggi (M5S), Giachetti (Pd), Meloni (FdI-Lega) e Marchini (centristi-FI) tutti appaiono potenzialmente in grado di approdare al turno successivo. Così a Napoli, dove il sindaco uscente De Magistris competerà con gli esponenti di Pd, centrodestra e M5S per dar vita ad una gara che si preannuncia interessante al pari di quella romana. Anzichè riproporre i confronti della Seconda Repubblica (centrodestra contro centrosinistra) potremmo avere perciò un arcobaleno di combinazioni diverse, il che porterà come conseguenza l'esclusione di candidati e partiti 60 rappresentativi di porzioni rilevanti dell'elettorato. In certi casi, potrebbe bastare un 22-25% dei suffragi per arrivare al ballottaggio: la somma dei primi due ammessi potrebbe non superare il 50% dei voti espressi al primo turno. In un quadro di così marcata frammentazione si inserisce l'astensione, che verosimilmente non sarà inferiore al 40% degli aventi diritto, come ormai accade di solito (nelle sette città il non voto è stato pari al 38% alle scorse regionali, al 45,9% alle europee del 2014, al 40,4% alle precedenti comunali). Nelle elezioni amministrative della Seconda Repubblica, normalmente, l'astensione riusciva a giocare un ruolo rilevante soprattutto al secondo turno, spesso favorendo il centrosinistra (gli elettori di centrodestra erano considerati un po' più "pigri" e meno propensi a votare due volte in quindici giorni). Stavolta, invece, la mancata partecipazione al voto potrebbe manifestarsi già al primo turno e avere un peso ben più rilevante: la minore mobilitazione o la maggior disaffezione rispetto ad un candidato, un partito o uno schieramento potrebbe precludere a qualcuno l'accesso al 61 ballottaggio. Data l'elevata competitività di questa tornata elettorale, ogni aspirante sindaco dovrà cercare di motivare il più possibile i suoi sostenitori, perchè può essere sufficiente perdere il 2-3% dei voti rispetto al proprio risultato atteso o prevedibile per trovarsi fuori dal secondo turno. Inoltre, per venti anni la battaglia si è svolta sul terreno più ristretto dell'elettorato "di frontiera" fra un polo e l'altro. Oggi, invece, le dimensioni del conflitto sono più numerose e i fronti sui quali combattere possono essere anche tre o quattro. Nel centrodestra in particolar modo, avrà luogo anche una battaglia per il predominio fra la destra antieuro e il centro moderato il quale - come abbiamo accennato nel capitolo precedente - si rifà invece al Partito popolare europeo. Essendo possibili molte combinazioni (fra tutte: Pd-M5S, Pd-Centrodestra, Lega-destra, Lega-M5S) sarà complesso fare previsioni sull'esito delle diverse competizioni comunali. In ciascuna, infatti, non ci sono soltanto le tradizionali dinamiche locali che possono agevolare la prevalenza in ballottaggio di un candidato sull'altro, ma anche i flussi 62 provenienti dagli elettori dei candidati esclusi. In presenza di un 30-40% di voti "orfani" (cioè di una percentuale che raramente si osservava alle elezioni comunali della Seconda Repubblica) la vera competizione per la vittoria finale si giocherà non tanto sulle "prossimità" ideologiche e programmatiche ma, più semplicemente, sulla scelta del "minor male". C'è infine da ricordare che l'elettorato di alcuni partiti (soprattutto quello del M5S) proviene da precedenti esperienze di voto non omogenee (molti "cinquestelle" sono ex di centrodestra, così come molti sono ex di centrosinistra). La scomposizione e ricomposizione (non completata) del sistema dei partiti a livello locale avviata con le elezioni politiche del 2013 non ha interessato i poli tradizionali in egual misura in tutto il territorio nazionale: la diaspora degli ex di Unione e Cdl si è diretta in particolare verso l'astensione, ma in misura molto variabile da zona a zona verso le forze politiche come il M5S. La pluralità dei soggetti (la sinistra, il centrosinistra imperniato sul Pd, il M5S, il centro neodc e governativo, il centro "azzurro", la destra leghista e 63 "lepenista") ha trasformato in una sorta di Palio di Siena quello che per circa venti anni è stato solo un duello. In questo nuovo contesto, ciascuno (o quasi) può vincere e non è chiaro se è opportuno temere più l'avversario o l'amico. Il passaggio elettorale delle comunali 2016 sarà utile per esaminare alcune delle dinamiche di voto, tenendo però presente che - sia sul lato dell'offerta politica, sia su quello della domanda - la situazione è destinata ad evolversi. La crisi del 2012-2013 non sembra completamente superata e potrebbe non esserlo neppure per le prossime elezioni parlamentari, le quali, tuttavia, potrebbero costituire il punto di avvio per una "terza fase" del sistema partitico italiano. 64 Comunali, l'importanza dei candidati sindaci 28.5.2016 Uno fra gli elementi più importanti della campagna elettorale comunale (forse quello decisivo) è rappresentato dalla capacità del singolo candidato di "trainare" la propria coalizione - cioè di conquistare consensi personali che non andrebbero ai partiti alleati – e "catturarne" altri (grazie alla possibilità del "voto disgiunto") in campo avversario. Si può dire che quella per i comuni è una competizione "a cerchi concentrici": in quello più piccolo c'è la lotta fra le liste, mentre in quello più ampio c'è quella fra candidati sindaci. Quest'ultimo cerchio è più vasto perchè mentre il voto di lista va automaticamente al candidato sindaco, il solo voto al sindaco non va alle liste collegate. Alle ultime comunali, il 7,3% dell'elettorato (corrispondente al 12,8% dei voti validamente espressi) non ha votato per i partiti, ma solo per il sindaco. Si tratta di una percentuale che - nelle sette città chiamate al voto del 5 e 19 giugno - è stata del 7,7% sugli aventi diritto anche 65 in occasione delle elezioni regionali: segno che in tutte le occasioni nelle quali l'elettore può dare un voto alla persona e non al partito c'è una buona quota di cittadini che si avvale di questa facoltà. Si tratta di un possibile valore aggiunto, forse anche in termini di affluenza alle urne. La personalizzazione, dunque, è un tratto caratteristico e dominante nella competizione per la conquista dei comuni. Lo sarà anche stavolta? La storia della Seconda Repubblica sembra costituire un precedente a favore del voto al solo sindaco. Nel periodo 1993-'97 - quando il nuovo sistema elettorale fu introdotto e sperimentato - il numero dei voti ai soli candidati sindaci superò del 20,9%, nelle sette città ora al voto (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Cagliari, Trieste) i suffragi espressi ai soli partiti: lo scarto ammontò a circa novecentomila voti. Nella tornata 1997-'99 la percentuale scese al 18,1%, per poi attestarsi al 19% nel periodo 2001-'04. Dalla seconda metà dello scorso decennio, però, la quota di voti ai soli sindaci è drasticamente diminuita, passando al 10,5% nel 2006-'09 e risalendo al 12,8% del 2011-'13. 66 In termini assoluti (sul totale degli aventi diritto al voto) i suffragi espressi nel 2011-'13 al solo sindaco sono compresi fra il 6,2% e il 7,8% in ben sei delle sette città al voto (a Trieste si è arrivati, nel 2011, all'11,2%). Sui voti validi, invece, la differenza è più marcata da città a città: a fronte del 12,8% medio (2011-'13) abbiamo il 15,3% a Roma, il 9,4% a Milano, l'11,2% a Torino, il 12,1% a Napoli, il 10,1% a Bologna, il 9,5% a Cagliari e il 24% a Trieste. Scegliere un buon aspirante sindaco, dunque, è fondamentale. Il "candidato perfetto" è chi sa ottenere più voti del suo elettorato tradizionale e sa conquistare la gran parte di chi, avendo votato per i candidati esclusi al primo turno, deve decidere se disertare le urne o meno e in quest'ultimo caso - chi scegliere al ballottaggio. Se proprio non si riesce a vincere al primo turno (eventualità che nelle sette città si è realizzata in 14 casi su 36, spesso con la conferma dei sindaci uscenti), al secondo bisogna quasi cominciare da capo. Nella storia dei 22 ballottaggi, ben nove candidati su 44 hanno ottenuto meno voti al secondo turno che al primo, quindi nulla può 67 essere considerato scontato. Gli aspiranti sindaci, dunque, possono essere un valore aggiunto o una zavorra troppo pesante, tale da affondare una coalizione competitiva. Poichè la persona conta, una buona scelta è già un vantaggio nei confronti degli avversari. Ci sono poi tendenze consolidate nella Seconda Repubblica, come quella che vede i candidati di centrosinistra e di sinistra ottenere una percentuale di voti maggiore rispetto alle liste collegate, al contrario di quanto è avvenuto di solito per quelli di centrodestra. Restando ai due poli principali si può notare che il centrosinistra ha avuto mediamente - al primo turno - il 5% in più dei voti per i sindaci rispetto alle liste, mentre il centrodestra ha conseguito il 6% in meno. In altre parole, se su 100 voti ai partiti il centrodestra ne prendeva - poniamo - 40 e il centrosinistra altrettanti, su 100 voti espressi solo per i sindaci i candidati della CDL ne conquistavano 34 e quelli dell'Unione 45. A Roma, nel 2013, Marino (centrosinistra) ha ottenuto al primo turno il 42,8% dei voti ai soli candidati sindaci, contro il 22,2% di Alemanno (centrodestra), il 18,7% di Marchini e il 68 10,3% del candidato del M5S. A livello di liste, invece, le rispettive percentuali sono state pari al 42,6%, 31,7%, 7,8% e 12,8%. Una differenza notevole si è avuta anche a Milano nel 2011 (Pisapia 55,6% voti al sindaco, 47,3% alle liste; Moratti, 25,4% e 43,3%) per non parlare dei casi di Napoli (De Magistris) e Cagliari (Zedda) dove il numero dei voti raccolti è stato persino superiore allo scarto fra i voti validamente espressi e quelli ai soli sindaci, segno che quei candidati non solo hanno avuto molti voti personali, ma hanno anche beneficiato di un fortissimo voto disgiunto da parte di elettori di altre coalizioni. Come accennavamo, ci sono aree politiche che esprimono di solito candidati più capaci di "trainare" la propria alleanza. Il centrosinistra, ad esempio (soprattutto dal '97 in poi, quando le coalizioni si sono "assestate") ha avuto più voti per i sindaci che per le liste in 25 casi su 35, mentre al centrodestra è accaduto in 14 casi su 32. Nelle 36 votazioni comunali del periodo 1993-2013 prese in considerazione, i candidati primi classificati al primo turno sono stati per 25 volte di sinistra o 69 centrosinistra (fra i quali 9 eletti senza dover ricorrere al ballottaggio) e per 11 volte di destra (Lega, MSI) o centrodestra (di cui 5 eletti subito). Nel complesso delle competizioni, il centrosinistra e la sinistra hanno avuto 24 sindaci eletti fra primo e secondo turno contro 12 della destra e del centrodestra. In media, i candidati sindaci di tutti i partiti, nel periodo 1993-2013 hanno avuto il 16,1% dei voti in più (in valore assoluto) delle rispettive liste. In altre parole, hanno saputo aggregare consenso oltre l'elettorato tradizionale. Analogamente, i candidati giunti al ballottaggio hanno avuto in media il 17,7% dei voti in più rispetto a quelli che avevano ottenuto al primo turno, confermando di essere in grado di intercettare parte dei consensi degli esclusi. I suffragi in valore assoluto ai candidati sindaci del primo turno sono stati però inferiori del 6,7% (periodo 1993-2013) rispetto a quelli raccolti dai due in lizza al ballottaggio. Su cento voti ottenuti al primo turno da tutti i candidati, 85,33 erano dei due giunti al secondo, dove questi ultimi hanno in media ottenuto 93,29 voti. In altre parole, la 70 dispersione di voto ai candidati sindaci è stata molto limitata da due fattori: al primo turno, da quello che nel precedente capitolo abbiamo definito "bipolarismo comunale"; al secondo, dalla capacità degli aspiranti sindaci di farsi votare da chi aveva scelto un candidato diverso (una logica che in parte è di "minor male" e in altra parte di "second best" rispetto al proprio beniamino bocciato al primo turno). Non sempre, tuttavia, l'operazione di allargamento del consenso è riuscita ai candidati rimasti in lizza: se dividiamo in fasce la variazione percentuale dei voti fra primo e secondo turno, notiamo che in 2 casi c'è stato un calo, in 6 l'incremento è stato inferiore al 10%, in 2 è stato fra il 10 e il 20%, in 4 fra il 20 e il 30% e nei restanti 8 oltre il 30%. Solo in una occasione su ventidue, infine, i due candidati sindaci giunti in ballottaggio (Roma 1993: Rutelli e Fini) hanno avuto più voti (1.799.989 contro 1.726.730) di tutti i candidati sindaci del primo turno. Si tratta di un record insuperato e verosimilmente non raggiungibile nella tornata elettorale amministrativa del 5 e 19 giugno. Quella, 71 del resto, fu un'occasione particolare, che diede l'avvio alla Seconda Repubblica. Il voto per Roma fu caratterizzato da un altro dato poco comune: l'affluenza al secondo turno (79,85%) fu maggiore rispetto a quella del primo (78,74%), con le schede bianche e nulle ridotte da 93.824 a 50.401 nel giro di due settimane, fra il 21 novembre e il 5 dicembre 1993. 72 Parte Seconda Il voto nelle "sette capitali": un primo bilancio 11.6.2016 Mentre nei precedenti capitoli abbiamo descritto le caratteristiche dei sette comuni capoluogo di regione chiamati alle urne, siamo giunti al momento di tracciare un primo bilancio, ripercorrendo i temi che abbiamo trattato e confrontando i dati del passato col voto del 5 giugno. Come avevamo sottolineato, le grandi città hanno una minor propensione all'affluenza rispetto alle altre. È stato così anche stavolta: quel 61,9% di votanti in 1274 comuni (esclusi quelli del Friuli-Venezia Giulia) è stato “appesantito” dal 55,8% dei capoluoghi. Non va dimenticato, infatti, che su 13 milioni e 316 mila aventi diritto al voto in tutta Italia ben 5 milioni e 474 mila erano elettori delle "metropoli". Così, nel turno amministrativo del 5 giugno si conferma che nei sette capoluoghi si vota meno che nel complesso del Paese: -0,8% alle politiche 2008%, -3,5% alle europee 2009, -0,6% 73 alle politiche 2013, -4,6% alle europee 2014 e -6,1% alle comunali 2016. Si potrebbe ipotizzare (in attesa di indagini più approfondite) che nei grandi centri ci sia una sorta di "non voto d'opinione". In quelle città dove nella Prima Repubblica venivano premiati partiti che di volta in volta rappresentavano qualcosa di nuovo (il Pci nel 1976, i radicali nel 1979, il Pri nel 1983, i Verdi nel 1987) oggi potrebbe essere l'astensione ad essere scelta per mandare un segnale politico. Si attendeva, stavolta, un'affluenza bassa: se non si è raggiunto il record negativo il merito è di Roma, che andando in controtendenza ha avuto una percentuale di non voto pari al 43,8% contro il 48% delle europee e il 47,2% delle comunali 2013. Tuttavia, il dato globale delle sette città capoluogo di regione (affluenza al 55,8%) è più basso rispetto alle ultime regionali (62%), alle politiche (74,6%) e alle precedenti comunali (59,6%) mentre è di poco superiore a quello delle europee 2014 (54,1%). L'ondata del non voto, insomma, è stata meno forte del temuto, ma va rimarcato che a Torino l'astensione ha raggiunto il 42,8% (precedente 74 record alle regionali 2014: 37,2%) e a Milano il 45,3% (record europee 2014: 40%). Rispetto alle scorse comunali il calo d'affluenza è del 3,7%, pari a 290mila elettori. Un altro elemento, stavolta del tutto nuovo, è la drastica diminuzione del voto ai soli candidati sindaci/presidenti di regione, che alle scorse comunali e alle regionali si era attestato fra il 7,3% e il 7,7%, ma stavolta si è fermato al 4,4% degli aventi diritto. Non è il segno di un ritorno di forza dei partiti o di una minore personalizzazione della competizione, quanto forse di una minore "appetibilità" delle candidature. Sta di fatto che le schede con i voti al solo sindaco (rispetto alle scorse comunali) sono passate dal 7,1% al 3,4% a Torino, dal 6,2% al 3,4% a Milano, dal 7% all'1,6% a Bologna, dal 7,8% al 5,1% a Roma, dal 6,9% al 3,4% a Napoli e dal 6,5% al 5,3% a Cagliari. Unica eccezione, Trieste, dove sono aumentate: dall'11,2% delle comunali 2011 all'11,7% del 2016. Si è poi detto, in passato, che le sette città capoluogo di regione hanno sempre dato la maggioranza (relativa o assoluta) dei voti al centrosinistra. Anche stavolta è stato così, ma 75 mettendo insieme tutti i partiti dell'ex Unione (quindi comprendendo anche quelli di sinistra che oggi non sono al governo) si arriva appena al 41,6% dei voti contro il 48,1% delle regionali, il 51,9% delle europee, il 46,9% delle precedenti comunali. Solo alle politiche 2013 (36,9%) è andata peggio. In dettaglio, la lista del Pd ha ottenuto il 21,5% dei suffragi nei sette capoluoghi, contro il 30,5% delle regionali, il 44,1% delle europee, il 28,9% delle politiche, il 27,2% delle precedenti comunali. Aggregando l'area dei gruppi di centrosinistra (liste del sindaco/presidente, minori affini e alleati di governo, esclusi però quelli centristi come Ncd-Udc-Sc e verdiniani) abbiamo un totale del 29,7% (i centristi sono invece, complessivamente, al 5,4%) contro il 41,6% delle regionali (centristi: 4,4%), il 44,1% delle europee (centristi: 4,6%), il 29,2% delle politiche (centristi: 11,1%) e il 33,1% delle precedenti comunali (centristi: 7,5%). L'area di governo, insomma, o il complesso delle liste di riferimento, ha raccolto circa il 35% dei voti contro il 46 delle regionali, il 48 delle europee, il 40 delle politiche e delle 76 precedenti comunali. Per quanto riguarda la "sinistra radicale", normalmente attestata fra il 6 e il 9%, il dato è molto vicino a quello delle scorse comunali grazie all'exploit napoletano delle liste facenti capo a De Magistris. Il M5S, invece, che partiva dal 24,3% delle politiche, dal 21,7% delle europee e dal 16,4% delle regionali (nonchè dal 7,4% delle comunali precedenti) ha ottenuto il 24,1%, frutto però di prestazioni molto diverse da città a città. A Torino, infatti, il 30% dei Cinquestelle supera di gran lunga il 25,6% delle politiche (precedente record); a Milano il 10,4% di queste comunali è inferiore all'11,2% delle regionali, al 14,2% delle europee, al 17% delle politiche; a Trieste il M5S ha avuto il 17,6% (regionali 18,3, europee 20, politiche 28,7); a Bologna il 16,6 dei pentastellati è il secondo miglior risultato dopo il 19,1% delle politiche; a Roma il 35,3% delle comunali di quest'anno supera dell'8% il record delle politiche 2013; a Napoli il dato è al di sotto del 10% (9,7%) contro il 24,6-26,5 ottenuto fra il 2013 e il 2015 (politiche, europee, regionali); a Cagliari l'8,8% è di gran lunga 77 inferiore rispetto al 26,3-26,7% di politiche ed europee. In altre parole, il 24,1% di oggi non ha la stessa composizione del 24,3% delle politiche, perchè è il frutto di risultati estremamente diversi fra loro: un misto di grandi successi e clamorose battute d'arresto. Una notazione particolare va poi riservata alle "due anime" del centrodestra, quella "popolare" che fa riferimento al PPE e quella "lepenista" di Meloni e Salvini. La vecchia CDL partiva dal 35,1% di elezioni comunali lontane (tutte svolte nel 2011, tranne quelle di Roma) e dal predominio del partito di Berlusconi (21,7%) su Lega e destra (complessivamente 7%; c'era poi un 7% di liste miste di centrodestra che qui considereremo solo per confrontare i totali di schieramento ma non per i raffronti fra le due "anime"), però i punti di riferimento a nostro avviso più validi ed efficaci sono le elezioni politiche, regionali, europee. Lo scorso 5 giugno i partiti dell'ex CDL hanno avuto il 26,1% dei voti: 3 punti in meno rispetto alle regionali ma 4,4 in più sulle europee e uno in più delle politiche. Traslasciando le liste "di area" (6,1% 2016, 3,3% 78 regionali, 0,7% politiche) concentriamoci su quelle tradizionali: Fi (ex Pdl) è ora all'8,5% contro il 15,8% delle regionali, il 14,4% delle europee e il 19,4% delle politiche, mentre Lega e FdI hanno insieme l'11,2% (non contando i voti di Storace) contro il 10% (che diventa 7,7 senza la lista Maroni presidente) delle regionali 2013-2015, il 7,3% delle europee 2014, il 4,9% delle politiche 2013, il 7% delle comunali precedenti, il 5,9% delle europee 2009, il 7,5% delle politiche 2008. È opportuno considerare che di solito il partito di Berlusconi è più debole alle comunali che alle politiche e che in questi sette capoluoghi ha sempre percentuali inferiori a quelle nazionali, ma è anche vero che nelle metropoli la Lega ha spesso la metà (o meno) della quota di voti che riscuote in tutto il Paese. Il discorso è diverso invece per FdI, che a Roma (come si è visto con la Meloni) ha una vera e propria roccaforte e che tuttavia il partito di destra è cresciuto gradualmente di un punto percentuale ad ogni occasione, dalle politiche alle europee, da queste alle regionali e infine alle comunali del 5 giugno (6,1%). È difficile dire chi abbia vinto il 79 duello nel centrodestra: a livello di voti, l'ala lepenista sembra più forte, ma conteranno anche i risultati dei ballottaggi. Il dato politico "pesante" è che Forza Italia ha un discreto risultato solo a Milano (20% contro il 15,7% delle regionali, 16,6% delle europee e 20,5% delle politiche), forse perchè schiera Parisi. Ma altrove (tranne Trieste - 14,4% dove però perde voti rispetto alle precedenti consultazioni) è in seria difficoltà: Torino 4,7% (minimo precedente: 12,2% regionali), Bologna 6,3% (regionali: 9,6%), Roma 4,2% (europee: 13,5%), Napoli 9,7% (regionali: 14,2%), Cagliari 8,2% (europee: 16,5%). La destra "lepenista", però, non "brilla" dappertutto: a Torino la Lega è al 5,8% contro il 3,6% delle regionali e il 4,2% delle europee, ma è sotto il 6,9% delle scorse comunali (FdI è all'1,5% contro il 3,9 di regionali ed europee); a Milano il Carroccio sale all'11,8% mentre FdI è al 2,4% (fra politiche, regionali ed europee è sempre stata intorno al 2-2,8%); a Trieste il Carroccio raggiunge il 9,8% contro il 3-5% di politiche, europee e regionali e il 6,7% delle scorse comunali, mentre FdI è al 4,3%; a Bologna la Lega 80 si attesta su un 10,5% non lontano dal 10,7% delle scorse comunali, inferiore al 14,5% delle regionali ma superiore al 2-3% di politiche ed europee; a Roma il partito di Salvini è al 2,7% (precedente record: 1,4% alle europee) mentre FdI della Meloni è al 12,3% contro il 5,3% delle europee; a Napoli la destra non sfonda (FdI all'1,3%) e a Cagliari si ferma comunque sotto il 4% (Fdi: 3,7% contro il 4,2% delle europee). Un'osservazione sulle comunali di Roma: come abbiamo scritto in un precedente capitolo, l'ex centrodestra poteva contare complessivamente sul 24% (il dato delle europee, che però andava considerato insieme al 31% alle regionali e al 33% alle politiche) che secondo i sondaggi poteva arrivare al 32-34%. Le liste a sostegno di Marchini e Meloni hanno raggiunto il 30,9%, mentre i due candidati sono arrivati al 31,6%, con la componente lepenista che ha il primo partito (FdI) oltre ad aver doppiato quella popolare sia nelle candidature (Meloni contro Marchini), sia nel voto di lista. 81 Comunali: il rendimento dei candidati sindaci 15.6.2016 Nel nostro viaggio nelle elezioni comunali dei sette capoluoghi di regione chiamati al voto il 5 giugno (e, in sei casi su sette, il 19 giugno per i ballottaggi) abbiamo fatto riferimento al "bipolarismo comunale", cioè alla capacità dei due maggiori candidati di attrarre il massimo numero dei voti possibile. Mentre a livello nazionale i due "poli" più forti hanno ottenuto il 77,2% nel 1994, per salire all'85% nel periodo 1996-2001 e al 98,9% del 2006, ridiscendendo all'83,8% nel 2008 e crollando fino al 58,7% del 2013, a livello comunale si è assistito ad un primo dato più basso (1993-'95: 67,6%) per poi salire all'82,3% del 1997-'99, assestarsi sul 92,2% del 2001-'09 e scendere al 79,75% del 2011-'13. In occasione delle elezioni amministrative del 2016 i due candidati più votati hanno ottenuto in media un più magro 72,4%, segno che la competizione multipolare lascia circa tre votanti su dieci senza il proprio candidato sindaco al ballottaggio. È col voto degli "elettori 82 orfani" che si può decidere più di una competizione. Tornando al "bipolarismo comunale" ci si è chiesti – nel capitolo precedente se la forte discesa dell'indice nazionale potesse essere accompagnata da un abbassamento altrettanto forte a livello locale, nelle sette maggiori città al voto. In effetti, fra il 1994 e il 2006 lo schema bipolare è stato più forte per il Parlamento che per i comuni. Sul piano nazionale, si è passati – come accennavamo - dall'83,8% del 2008 al 58,7% del 2013, con un calo del 25,1%, mentre localmente si è scesi dal 92,2% del 2006-2009 all'attuale 72,4% (19,8%): una dinamica netta ma più contenuta. Fra le comunali 2011-2013 e quelle del 5 giugno 2016 si è assistito ad una diminuzione dei voti ai primi due candidati, ma solo in cinque delle sette città al voto: a Trieste si è risaliti al 70% dal 68,2% del 2011, mentre a Napoli De Magistris e Lettieri (gli stessi sfidanti del 2011) hanno avuto il 66,8% dei voti contro il 66% della scorsa volta. Per il resto, la diminuzione è stata avvertita in modo netto, indipendentemente dal tipo di competizione (cioè dal colore politico degli sfidanti: le combinazioni 83 sono diverse) negli altri cinque capoluoghi: -6,7% a Cagliari, -7,2% a Milano, -11,2% a Torino, -9,1% a Bologna, -19,6% a Roma. Il caso romano è interessante e va trattato a parte, perchè nel 2011, nella Capitale, i candidati "forti" erano due (Rutelli e Alemanno) e avevano ottenuto l'86,5% dei voti, mentre nel 2013 i rappresentanti di centrodestra e centrosinistra (Alemanno e Marino) si erano fermati al 72,9% (per l'"ingresso in campo" del candidato centrista Marchini e dell'esponente dei Cinquestelle). Tuttavia, le comunali del 2013 si erano svolte a pochi mesi dalle politiche, in occasione delle quali le due coalizioni più votate (quella di Bersani e quella di Berlusconi) avevano ottenuto il 67,1% dei voti. Ci si attendeva, dunque, data la maggior "resistenza" del bipolarismo comunale nella Capitale, un risultato maggiore per i primi due in lizza. Invece il moltiplicarsi dell'offerta politica e delle candidature (una del M5S, una di centrosinistra, una di sinistra, una di centro, una di destra) ha fatto registrare a Roma il più basso indice di tutti i capoluoghi di regione al voto: il 60,1%, di ben 12 punti inferiore alla media 84 delle sette città. Non si è tuttavia assistito alla discesa dell'indice sotto quota 60%. Così, mentre nelle 36 competizioni comunali del periodo 19932013 si era avuto un indice inferiore al 60% in tre casi, fra il 60 e il 70% in sei e sopra il 70% in 27 occasioni, nel 2016 due comuni sono rimasti fra il 60 e il 70 e gli altri cinque sopra il 70%, a conferma che a livello locale permane una certa tendenza a concentrare il voto intorno alle due personalità che sono considerate più in grado di ottenere l'elezione a sindaco. A Roma e a Napoli, dove c'era un terzo candidato forte (così come a Bologna, dove l'indice si è fermato a quota 71,7%) la pluralità dell'offerta politica ha superato un'ormai storica tendenza all'aggregazione bipolare. Nonostante ciò, come abbiamo visto nel precedente capitolo, questa pluralità non ha incoraggiato il voto al solo sindaco; anzi, lo ha drasticamente ridimensionato, non solo per questioni relative alla scheda di votazione. Solo il 4,4% degli aventi diritto (contro il 7,3-7,7% del periodo 2011-2015, fra regionali e comunali) ha scelto esclusivamente un nome anzichè le liste collegate (o altre liste non 85 collegate). In termini di voti validi, si è passati dal 12,8% delle comunali precedenti all'8,1%. In particolare, però, si fanno sempre più rari i candidati che "trainano" i propri schieramenti. Di solito, in passato, quelli di centrosinistra svolgevano questa funzione, mentre quelli di centrodestra erano più in difficoltà. Stavolta solo a Milano e a Cagliari (in questo caso si è avuta l'unica elezione al primo turno nei sette capoluoghi di regione al voto) l'esponente del centrosinistra ha fatto meglio delle liste. A Milano Sala ha avuto il 49,65% dei voti al solo sindaco, contro il 37,57% di Parisi, mentre le liste sono finite quasi alla pari (41,2% quelle di Sala, 41% quelle di Parisi). A Cagliari, invece, Zedda ha fatto la differenza: le sue liste si sono fermate al 47,7% dei voti, mentre lui ha superato il 50%. Nel panorama degli altri candidati di diversi schieramenti, pochi sembrano aver avuto un ruolo trainante. Sono i casi di Giorgia Meloni (FdI) col 30,3% dei voti fra quelli per i soli sindaci (le sue liste, però, erano al 19,65% e la spinta non è bastata), di Chiara Appendino (M5S) a Torino (45,4% dei voti ai soli sindaci) e di Luigi 86 De Magistris a Napoli (22970 voti in più delle liste, mentre la candidata del Pd Valente ne ha avuti addirittura 3760 in meno), nonchè (sia pure in una città nella quale i voti ai soli candidati sono stati pochissimi, quindi il dato non è molto significativo) di Lucia Borgonzoni (centrodestraLega) a Bologna (32,3% dei voti ai soli candidati contro il 22% delle liste di coalizione). Insomma, i casi nei quali la persona fa differenza ci sono ancora, ma paiono divenire sempre più rari. A questo punto, resta irrisolto il nodo relativo alla durata della transizione italiana. I risultati sulle sette più grandi città al voto ci danno qualche indizio sul futuro del sistema politico? Anche utilizzando altri indicatori, la risposta è ambigua. L'indice di bipartitismo, per esempio, che misura i consensi alle prime due liste classificate, è ancora molto basso: 0,457 (pari al 45,7% dei voti), poco più basso dello 0,469 delle regionali e dello 0,489 delle scorse comunali. Si tratta, in effetti, di consultazioni sempre ricche di liste aggiuntive rispetto a quelle nazionali, che rendono impraticabile un paragone con gli indici misurati 87 in altre consultazioni (europee 2014 0,658, politiche 2013 0,532, europee 2009 0,665, politiche 2008 0,767). Lo stesso risultato ci viene dall'indice di frammentazione elettorale, che resta pressochè invariato rispetto alle regionali e alle precedenti comunali. Tuttavia, l'indice di transizione (che misura, in parole povere, i movimenti di voto fra un'elezione e l'altra) resta a livelli elevati, non altissimi come nel periodo 2011-2013 ma tali da farci avvertire che l'elettorato è ancora fluido, disposto a spostarsi a seconda dell'offerta politica. La transizione, dunque, non è conclusa, come avevamo ipotizzato anche prima del voto del 5 giugno. 88 Bilancio dei ballottaggi 25.6.2016 Il turno di ballottaggio delle elezioni comunali nei capoluoghi di regione ci ha riservato alcune conferme e parecchie sorprese. Il primo dato in controtendenza riguarda il rendimento dei candidati sindaci: al primo turno, i voti ai soli aspiranti primi cittadini erano stati appena il 4,4% sugli aventi diritto. Tuttavia, al secondo turno i due rimasti in lizza hanno mediamente ottenuto il 31,27% di voti in più rispetto al primo: un indice record se confrontato con le consultazioni precedenti, tranne quelle degli albori della Seconda Repubblica (1993-'95: 36,46%). Su dodici candidati in gara nei sei capoluoghi di regione, solo uno (Lettieri a Napoli) ha ottenuto il 19 giugno meno consensi che al primo turno (circa 4800 in meno). Nella storia dei ballottaggi (1993-2013) su 44 candidati erano stati nove quelli con meno voti al secondo turno (il 20,5%). Il dato aggiornato al 2016 è invece il seguente: su 28 ballottaggi e 56 candidati, solo 10 (17,9%) hanno perso voti rispetto 89 alla prima votazione. Resta da capire quanto abbiano influito - in questo recupero di consensi - i profili dei candidati del 2016 o, piuttosto, l'afflusso degli elettori dei concorrenti esclusi al primo turno (in altre parole: il voto "contro" uno dei due rimasti in lizza). La differenza, sul piano politico, non è irrilevante. Quel 31,27% in più è quasi il doppio del 17,7% fatto registrare nel periodo 1993-2013. C'è, inoltre, un dato generale da rilevare: anche stavolta in nessun capoluogo di regione i candidati hanno ottenuto più voti al secondo turno rispetto al complesso dei concorrenti in lizza al primo. Anzi: a fronte di un 6,7% di voti "non recuperati" in ballottaggio (finiti nell'astensione) fra il 1993 e il 2013, nel 2016 il valore è salito all'11,6%. Segno che tutti i valori (di recupero e di mancato recupero degli "elettori orfani") sono condizionati dall'alto numero di suffragi ottenuto dagli aspiranti sindaci esclusi dal ballottaggio. Il rendimento degli ammessi al secondo turno va dunque valutato tenendo conto di questa massa di elettori "liberi" più ampia che in passato. Avevamo visto in uno dei precedenti capitoli che nel ventennio 199390 2013, nei sette capoluoghi considerati, su cento voti conquistati al primo turno da tutti i candidati, 85,33 erano dei due giunti al secondo, dove questi ultimi avevano in media ottenuto 93,29 voti. Questa volta, i candidati ammessi al ballottaggio hanno conseguito solo 67,34 voti su cento e ne hanno avuti 88,40 al ballottaggio. Inoltre, bisogna ragionare sui dati distinguendo fra diverse realtà territoriali. Se dividiamo in fasce la variazione percentuale dei voti fra primo e secondo turno, notiamo che nel 2016 in un caso l'incremento è stato inferiore al 10% (Napoli, 3,1%), in uno fra il 10 e il 20% (Milano, 15,4%), in uno è stato fra il 20 e il 30% (Trieste, 25,72%) ma nei restanti tre ha superato il 30% (Roma 48,3%; Torino 33,5%; Bologna 42,8%). In sintesi: nel 50% dei casi l'incremento è stato superiore al trenta per cento, mentre nel periodo 1993-2013 ciò era avvenuto solo nel 36,4% dei ballottaggi. Prima di analizzare i rendimenti dei candidati nelle città, è opportuno partire da un dato generale che ha influenzato l'intera competizione del 2016: l'offerta politica è stata multipolare. Gli effetti si sono visti: non 91 abbiamo avuto più soltanto ballottaggi solo fra centrosinistra e centrodestra, ma soprattutto siamo passati da una situazione di sei comuni su sette al centrosinistra (tranne Napoli dove nel 2011 era stato eletto De Magistris) a un quadro "arcobaleno" (Bologna, Milano e Cagliari al centrosinistra, Roma e Torino al M5S, Trieste al centrodestra, Napoli di nuovo a De Magistris). La particolarità di ciascun ballottaggio ha perciò determinato il recupero (o meno) dei voti dei candidati esclusi e avuto ripercussioni persino sull'affluenza alle urne. Se infatti prendiamo per base il dato complessivo dei sei comuni capoluogo di regione dove si è votato il 19 giugno, vediamo che l'affluenza è passata dal 55,8% del primo turno al 49% del secondo. Il calo del 6,8% non è però omogeneo, perchè a Milano e Torino (dove la partita era molta aperta e combattuta) è stato del 2,8%, mentre a Roma, Trieste e Bologna la diminuzione è stata del 6-6,5% e a Napoli è stata addirittura del 18,2%. Non è un caso, perchè la competizione nel capoluogo campano aveva alcune caratteristiche peculiari: 1) non c'era in lizza un candidato del Pd (quindi gli 92 esclusi non potevano votare "contro Renzi"); 2) le forze escluse dal ballottaggio avevano elettorati poco compatibili con i candidati giunti al secondo turno (la distanza fra il Pd e De Magistris è notevole, mentre per un elettore del M5S può essere apparso inutile andare alle urne per un ballottaggio che era la fotocopia di quello del 2011); 3) i Cinquestelle normalmente ricevono voti dal centrodestra in funzione anti Pd ma non "ricambiano il favore" quando il proprio candidato non è in ballottaggio; 4) fra i voti raccolti da De Magistris e Lettieri al primo turno (circa 270mila, il 34,21% sugli aventi diritto) e quelli del secondo (278mila, il 35,28%) c'è una differenza minima (del resto, al primo turno i due avevano raccolto il 66,8% dei voti contro il 66% del primo turno 2011); 5) a Napoli la vittoria di De Magistris era data per scontata da molti, al punto tale che la mobilitazione fra primo e secondo turno è stata scarsa: il sindaco uscente ha guadagnato 13mila voti e il suo sfidante ne ha addirittura persi 4mila. Nel capoluogo campano, dunque, era difficile ipotizzare un esito diverso da quello che si è 93 puntualmente verificato. Per quanto riguarda il quadro generale dei sei ballottaggi, è interessante notare che il rendimento dei candidati di centrosinistra è stato leggermente inferiore (in valore percentuale sui voti espressi) in confronto al primo turno, così com'è accaduto a quelli di centrodestra, mentre le due candidate del M5S (Raggi e Appendino) hanno avuto un rendimento di gran lunga superiore rispetto al 5 giugno (l'afflusso – soprattutto dal centrodestra - è stato dunque non marginale). Affrontato il "caso Napoli" (che, come abbiamo visto, riguardava un confronto molto particolare ed escludeva sia il Pd, sia il M5S) restano gli altri cinque capoluoghi di regione, che possiamo dividere in due gruppi a seconda del tipo di competizione: da un lato Roma e Torino (Pd contro M5S) e dall'altro Milano, Trieste e Bologna (Pd-centrosinistra contro centrodestra). La Capitale e il capoluogo piemontese hanno in comune una forte rimobilitazione degli elettori "esclusi": a Roma Raggi e Giachetti ottengono insieme 1.147mila voti contro i 774mila del primo turno e il milione e 287mila di tutti i candidati del 5 94 giugno; a Torino Appendino e Fassino conquistano 371mila consensi contro i 278mila del primo turno e i 382mila di tutti i concorrenti del 5 giugno. La differenza di risultato fra Fassino e Giachetti sta in due fattori: il primo era sindaco uscente in un quadro cittadino in cui il Pd è ancora abbastanza radicato (al primo turno, il partito torinese e le liste riconducibili al candidato hanno ottenuto il 34%, mentre quello romano si sono fermate intorno al 23%; nel complesso, la "coalizione Fassino" ha avuto il 5 giugno il 41,9% dei voti, mentre la "coalizione Giachetti" è arrivata solo al 25,4%); in secondo luogo, Roma veniva da un commissariamento (drammatico) del comune e Torino no. Le due candidate del M5S hanno fatto registrare una performance non dissimile: Raggi, a Roma, ha guadagnato 317mila voti al secondo turno mentre Giachetti ne ha ottenuti solo 56mila più del 5 giugno; Appendino, a Torino, ha incrementato i propri consensi di 84mila unità contro le 8.800 di Fassino. La sproporzione, l'astensionismo aggiuntivo non alto a Roma e decisamente basso a Torino hanno fatto il resto, 95 unitamente ad una confluenza sui Cinquestelle dell'elettorato "escluso" (soprattutto di centrodestra) che è stata evidente e marcata. Del resto, in 20 ballottaggi comunali nei centri maggiori (tutti con un avversario del centrosinistra), il M5S ne ha vinti 19, mentre in quelli fra centrosinistra e centrodestra non c'è stata una tendenza così forte "contro" i candidati del partito di Renzi (anche se, sui 25 capoluoghi di provincia dove si è votato, il Pd è passato dal 20 comuni amministrati a 8, il centrodestra da 4 a 10 e il M5S da zero a 3). Nei tre capoluoghi di regione (Milano, Bologna, Trieste) dove i Cinquestelle non erano in ballottaggio (e la competizione era quella tradizionale della Seconda Repubblica: centrosinistra contro centrodestra) il Pd conferma due comuni su tre, mancando per poco la rimonta a Trieste. A Milano - dove peraltro il M5S aveva avuto un risultato modesto al primo turno - il candidato del centrosinistra Sala ha ottenuto 40mila voti in più rispetto al 5 giugno, mentre l’esponente del centrodestra Parisi ne ha guadagnati solo 28mila. A Trieste il sindaco 96 uscente Cosolini ha guadagnato 12mila voti sul primo turno, mentre il suo predecessore (e successore) Dipiazza ne ha raccolti appena cinquemila. Milano e Trieste confermano dunque la vecchia tendenza dei candidati di centrosinistra al miglioramento delle posizioni, al ballottaggio. Bologna, infine, è un caso un po' diverso: il sindaco uscente (e confermato) Merola ha ottenuto al secondo turno 15mila voti in più rispetto al 5 giugno, ma la leghista Borgonzoni ne ha conquistati circa 31mila (69660 contro i 38806 del primo turno). In questo caso la personalità della candidata e il fatto che fosse esponente di un partito (quello di Salvini) che aveva dato a Torino e Roma un sostanziale "sostegno morale" alle candidate dei Cinquestelle può aver aiutato l'esponente del centrodestra a tentare una rimonta che però si è rivelata impossibile. Da sottolineare, inoltre, che nei tre casi di confronti bipolari “tradizionali” il centrodestra si è presentato in formazione unita (laddove non l’ha fatto, come a Roma e Torino, non ha avuto candidati al ballottaggio) e che la percentuale più bassa di voti 97 fra i tre esponenti della coalizione a Milano, Trieste e Bologna è stata ottenuta dalla Borgonzoni, unica rappresentante dell’ala “lepenista” (Dipiazza e Parisi si possono invece ascrivere a quella “popolare” che fa riferimento al PPE). L'impressione, nel complesso, è che l’esito dei ballottaggi abbia avuto molte motivazioni locali e personali, ma che sullo sfondo sia emersa una tendenza (quella dei Cinquestelle a ricevere voti dal centrodestra ma non a darne in cambio, se non in casi limitati e marginali) sulla quale i partiti - in primo luogo il Pd - dovrebbero riflettere in vista della prima attuazione dell'Italicum (la legge elettorale per Montecitorio) che prevede un eventuale ballottaggio fra le due liste più votate se nessuno supera il 40% dei voti al primo turno. 98 Comunali, i voti ai partiti (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste, Cagliari) 99 Quaderno di @Mentepolitica14 Edito nel mese di giugno 2016 100