num 3 - Terza Università

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etica in modelli storici TU 2009
epicurei, stoici, scettici, cinici
incontro 3
epicurei, stoici, scettici, cinici (età ellenistica e greco-romana IV sec.a.C. III sec.d.C.)
etica
etica della cura, per la felicità
(età ellenistica)
Il contesto
1. dimensione politica imperiale (autonoma, universale e “trascendente”) e cultura
1.1. monarchie uniche, monarchi divini e sudditi devoti. L’ampio arco di tempo che si apre con
l’espansione della monarchia macedone di Alessandro (seconda metà del IV secolo a.C.) e si
prolunga, nel mondo latino, sino alle soglie della crisi dell’impero romano (III secolo d.C.) vede
mutare il quadro politico che aveva fatto da sfondo al nascere e all’affermarsi della filosofia greca.
La fine dell’indipendenza delle pòleis è segnata dal prevalere di regni di vaste dimensioni, come
l’impero macedone, le monarchie ellenistiche, l’impero romano: il cittadino, divenuto suddito,
dispone di scarse libertà e l’intellettuale, privato di spazio politico, tende a circoscrivere l’ambito
delle proprie ricerche a quei saperi, come la logica, l’etica, la matematica o la medicina, che non
suscitano il sospetto dei sovrani; in cambio della rinuncia a ogni ruolo politico, sia come studioso
sia come cittadino, il filosofo e lo scienziato ottengono dai sovrani il riconoscimento di una certa
libertà di ricerca e la disponibilità di istituzioni attrezzate come biblioteche e laboratori in cui
studiare e operare per nuclei, scuole e circoli di iniziati.
1.2. scienze e filosofie nell’età degli imperi. Si moltiplicano, in quest’epoca, le scuole filosofiche i
cui programmi, pur diversi tra loro, sono orientati prevalentemente verso la liberazione dalle paure e
dai turbamenti; per favorire il conseguimento di tale fine, nel quale consiste la saggezza, ogni
scuola elabora specifici esercizi spirituali, forme di riflessione, terapie per la cura dell’anima: sotto
la guida dei maestri, all’interno di scuole, come il Giardino di Epicuro o la Stoa di Zenone, gli
allievi riflettono sui testi filosofici, ne discutono le proposte, si preparano ad affrontare gli eventi
della vita, imparando a vedere in essi (anche in quelli più difficili da sopportare come il lutto, la
malattia, gli insuccessi) accadimenti naturali dotati di una loro ragion d’essere; nella scuola che
Plotino apre a Roma, la rilettura dei testi antichi induce al distacco da ciò che è reale, molteplice,
per tendere misticamente verso il principio supremo, l’Uno. La filosofia diventa soprattutto un’arte
di vivere, una pratica di saggezza che non si esaurisce nella conoscenza, ma si traduce in un ideale
di vita filosofica che dovrà essere caratterizzato da serenità e moderazione, amicizia e solidarietà.
Dalle riflessioni filosofiche, in cui prevalgono le preoccupazioni etiche, vanno sempre più
distinguendosi le indagini scientifiche, alla ricerca di una loro autonomia di metodo e di contenuto:
nasce in età ellenistica la figura dello scienziato come figura autonoma dal filosofo e si affermano
forme di razionalità, come quella geometrica di Euclide e quella medica di Galeno, che
domineranno per secoli la cultura scientifica.
2. luoghi e forme del filosofare e dei testi
2.1. i luoghi: il giardino (orto), il portico, la pubblica piazza, i luoghi alla periferia della città (ai
confini, al margine come i cimiteri per Antistene), non le scuole ufficiali di ricerca e studio come
l’Accademia di Platone o il Liceo di Aristotele, e nemmeno i luoghi culturali gestiti e finanziati dal
potere politico come la Biblioteca di Alessandria d’Egitto.
2.2. le forme: lettera massime sentenze esortazioni …
È il caso di Epicuro (o almeno di ciò che resta delle sue opere). Convinto assertore del carattere
liberatorio dell’insegnamento filosofico, Epicuro ripetutamente raccoglie in massime da imparare a
memoria e ricordare, in lettere da rileggere e meditare, i punti essenziali del programma di
Sergio Gabbiadini
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liberazione dai turbamenti indicati nel quadrifarmaco (riassunto in un papiro scoperto ad Ercolano:
«La divinità non è cosa da far paura. La morte non è cosa da guardare con sospetto. Il bene è cosa
facile da conseguire. Il terribile è cosa facile da sopportare.» Terapia, il cui scopo è la guarigione
degli allievi-amici ancora lacerati dai timori della morte, degli dei, del dolore, la filosofia è per
Epicuro il solo farmaco in grado di fornire all’uomo i mezzi per conquistare la salute dell’animo:
tali mezzi consistono in esercizi di meditazione e memorizzazione da condurre «giorno e notte», in
sforzi concreti per tradurre in pratica i principi appresi nella scuola, attraverso l’analitica messa in
discussione delle convinzioni popolari sul destino umano, sull’oltretomba, sui castighi divini, sul
dolore. Epicuro fa ampio ricorso alla forma epistolare per indirizzare ai propri allievi brevi
compendi della filosofia che egli espone nelle lezioni orali e nei più articolati trattati. Nelle lettere
egli condensa gli aspetti più significativi della sua riflessione, facendone l’oggetto di una facile
lettura, di una rapida memorizzazione e di un’ampia diffusione tra allievi e amici del Giardino. La
scelta della brevità, leggibilità e divulgabilità va posta in relazione con la triplice finalità
pedagogica, pratica e terapeutica della filosofia di Epicuro; tesa a formare eticamente i suoi studenti
(fine pedagogico), a orientarli verso un ideale di vita filosofica (fine pratico), a liberare i loro animi
da ogni infondata paura (fine terapeutico), la lettera indica precisi esercizi spirituali da compiere
«giorno e notte», precetti e massime da apprendere e applicare, farmaci con cui guarire gli animi.
È il caso di Seneca. Le Epistulae che egli indirizza all’amico Lucilio costituiscono il momento
culminante della riflessione del filosofo, oltre che la sua opera più celebre e originale. In esse
Seneca applica il modello epicureo della lettera come colloquium destinato non solo a discutere
temi teorici generali, ma anche a esortare al bene e a fornire una guida per la meditazione.
L’epistula si presenta come il genere letterario più adatto a una pratica quotidiana della filosofia:
essa consente di prendere spunto dalla realtà vissuta per delineare un magistero spirituale che
accompagna il destinatario in un percorso di perfezionamento progressivo.
3. le parole comuni della filosofia etica nella forma di filosofia dell’uomo.
Si tratta di “scuole” (che tendono ad assumere la forma di circoli, comunità) che identificano nella
dimensione individuale il primo e diretto contesto di lavoro filosofico. Il saggio è artefice della
propria felicità e libertà e, quindi, «ciò che distingue la filosofia antica da quelle che seguiranno è la
proposizione di esercizi spirituali aventi lo scopo di produrre una trasformazione della natura del
soggetto che li pratica.» (Onfray Michel Cinismo, Principi per un’etica ludica, Rizzoli, Milano
1992 p.10). L’obiettivo è la felicità e la felicità è intesa come liberazione dal turbamento fonte di
schiavitù. Liberazione affidata, contemporaneamente ad un passaggio: dall’esterno all’interno;
dall’osservazione scientifica della realtà, all’ascolto e indagine prioritaria dei modi con cui l’uomo
osserva, ricorda, conserva e, in generale, vive quella realtà in cui si trova immerso.
3.1. la mappatura del disagio: ambiti e forme. Occorre esplorare ed evidenziare l’universo delle
schiavitù vincendo le resistenze che l’abitudine oppone al riconoscimento e alla scoperta di ciò che
effettivamente opprime. È proprio l’universo delle schiavitù, la dinamica del suo estendersi e del
suo automatico riprodursi a costituire il campo di applicazione e presenza della filosofia ellenistica.
3.2. le indicazioni di uscita coinvolgono teoria e prassi in una sorta di terapia integrata
3.2.1. la retta conoscenza ci libera dalle paure. Risalta con evidenza la funzione etica della scienza;
anch’essa è saggezza o non può prescinderne, perché trova la propria spinta …. di contro ad una
tradizionale opposizione scienza e filosofia nel periodo ellenistico… legata all’affermazione che la
scienza antica, nel senso di trattato sistematico, nasce nel periodo ellenistico: vedi l’influsso degli
Elementi di Euclide)
3.2.2. in un prefisso, l’alpha privativo, è posta la tecnica della liberazione e si definisce l’intero
progetto etico delle filosofie ellenistiche. La libertà è libertà da (non libertà di), il piacere non sta
nell’accumulo ma nella saggia e serena eliminazione del superfluo, il giusto giudizio è quello che si
accompagna anche alla sua sospensione ... e così vengono ridefiniti tutti i termini dell’etica secondo
una tecnica e una concezione che mira a dare all’uomo la piena autonomia del proprio sguardo e
delle proprie scelte.
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3.3. le tecniche: laboratori di etica filosofica per educare al piacere e alla felicità: meditazione,
colloqui, scambi, confronti, corrispondenza, esercizi “spirituali” che educano allo sguardo
d’insieme (filosofico e scientifico) rivolto all’intera realtà… «abbiamo infatti bisogno di una
visione di insieme e non di conoscenze specialistiche. Bisogna dunque risalire spesso a quei
principi e, imprimendoseli nella memoria, far sì che da essi derivi innanzitutto una visione generale
delle cose» (Epicuro, Lettera a Erodoto)
esploro riconosco e catalogo riconducendo a
forme l’universo delle paure e delle schiavitù
gli ambiti
le forme
biologico
bisogni
passioni
sofferenze
morte
corpo
cosmico
catastrofi naturali
eventi fatali
leggi inesorabili
sociale
obblighi sociali
consuetudini
differenze sociali
potere politico
legami …
fonti di turbamento
nella scuola-circolo attivo una terapia filosofica
teorica e pratica che attua la liberazione
liberazione teorica
liberazione pratica
la ricerca (sképsis) e i
un laboratorio “ascetico”
suoi fini etici: una retta attuato con la tecnica del
nozione, una
“togliere” (del ridurre al
spiegazione scientifica, minimo, eliminare il
un giusto giudizio
superfluo, il lusso
riguardante i settori da [regola etica e logica])
cui provengono timori
 a-tarassia
paure preoccupazioni:
 a-diaforia
 dio e il cielo
 a-prassia
 destino
 a-ponia
 mondo
 a-fasia
 vita e morte
e: senza opinione
 verità e errore
senza inclinazione
 virtù
senza agitazione
 piacere e dolore
senza coinvolgimento
 desideri
“epoché” = sospensione
 ….
(di giudizio e di azione)
assenza di turbamento = felicità “eudaimonia”
«Tuttavia, sotto questa apparente diversità, c’è un’unità profonda, nei mezzi impiegati, e nel fine
cercato. I mezzi impiegati sono le tecniche dialettiche e retoriche di persuasione, le prove di
padroneggiamento del linguaggio interiore, la concentrazione mentale. Il fine cercato in tali esercizi
da tutte le scuole filosofiche è il miglioramento, la realizzazione di sé. Tutte le scuole concordano
nell’ammettere che l’uomo, prima della conversione filosofica, si trova in uno stato di inquietudine
infelice, che è vittima della cura, delle preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive
veramente, che non è se stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che l’uomo possa
essere liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare, trasformarsi,
raggiungere uno stato di perfezione Gli esercizi spirituali sono precisamente destinati a questa
educazione di sé, a questa paidéia che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e
alle convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle passioni), ma
conforme alla natura dell’uomo, che non è altro che la ragione. Tutte le scuole, ciascuna a suo
modo, credono dunque nella libertà della volontà, grazie a cui l’uomo ha la possibilità di modificare
se stesso, di migliorare, di realizzarsi. Alla base di questo c’è un parallelismo tra esercizio fisico ed
esercizio spirituale: come, con esercizi fisici ripetuti, l’atleta dà al suo corpo una forma e una forza
nuove, così, con gli esercizi spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d’animo, trasforma la sua
atmosfera interiore, cambia la sua visione del mondo e infine l’intero suo essere. L’analogia poteva
parere tanto più evidente in quanto proprio nel ghimnasion, ossia nel luogo dove si praticavano gli
esercizi fisici, si tenevano anche le lezioni di filosofia, ossia si praticava l’allenamento alla
ginnastica spirituale. … La vera filosofia è dunque esercizio spirituale, nell’antichità. Le teorie
filosofiche sono messe esplicitamente al servizio della pratica spirituale, come accade nello
stoicismo e nell’epicureismo, o sono fatte oggetto di esercizi spirituali, ossia di una pratica della
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vita contemplativa che a sua volta non è null’altro che un esercizio spirituale » Hadot Pierre
Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988, p.58-63 passim)
Le strade
1. epicurei (Epicuro 341 – 271)
1.1 felicità e piacere
«Ti invito invece ad assidui piaceri non a vacue e stolte virtù ch’abbiano inquiete speranze di buoni
frutti.» (ad Anassarco) «Quanto a me, non so farmi un concetto del bene, se ne detraggo i piaceri
del gusto, ne detraggo quelli di Venere, o quelli dell’udito ed i soavi moti che dalle forme riceve la
vista» (Frammenti, Del fine)… «E per questo noi diciamo che il piacere è principio e termine
estremo di vita felice. Esso noi sappiamo che è il bene primo e a noi connaturato, e da esso
prendiamo inizio per ogni atto di scelta e di rifiuto, e ad esso ci rifacciamo giudicando ogni bene in
base alle affezioni assunte come norma. E poiché questo è il bene primo e connaturato, perciò non
tutti i piaceri noi eleggiamo, ma può darsi anche che molti ne tralasciamo, quando ad essi segue
incomodo maggiore; e molti dolori consideriamo preferibili ai piaceri quando piacere maggiore ne
consegua per aver sopportato a lungo i dolori. Tutti i piaceri dunque, per loro natura a noi
congeniali, sono bene, ma non tutti sono da eleggersi; così come tutti i dolori sono male, ma non
tutti sono tali da doversi fuggire.
In base al calcolo e alla considerazione degli utili e dei danni bisogna giudicare tutte queste cose.
Talora infatti esperimentiamo che il bene è per noi un male, e di converso il male è un bene.
Consideriamo un gran bene l’indipendenza dai desideri, non perché sempre dobbiamo avere solo il
poco, ma perché, se non abbiamo il molto, sappiamo accontentarci del poco; profondamente
convinti che con maggior dolcezza gode dell’abbondanza chi meno di essa ha bisogno, e che tutto
ciò che natura richiede è facilmente procacciabile, ciò che è vano difficile a ottenersi. I cibi frugali
inoltre danno ugual piacere a un vitto sontuoso, una volta che sia tolto del tutto il dolore del
bisogno, e pane ed acqua danno il piacere più pieno quando se ne cibi chi ne ha bisogno.
L’avvezzarsi a un vitto semplice e frugale mentre da un lato dà la salute, dall’altro rende l’uomo
sollecito verso i bisogni della vita, e quando, di tanto in tanto, ci accostiamo a vita sontuosa ci
rende meglio disposti nei confronti di essa e intrepidi nei confronti della fortuna.
Quando dunque diciamo che il piacere è il bene, non intendiamo i piaceri dei dissoluti o quelli
delle crapule, come credono alcuni che ignorano o non condividono o male interpretano la nostra
dottrina, ma il non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima. Poiché non banchetti e feste
continue, né il godersi fanciulli e donne, né pesci e tutto quanto offre una lauta mensa dà vita felice,
ma saggio calcolo che indaga le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, che scacci le false opinioni
dalle quali nasce quel grande turbamento che prende le anime.» Epicuro, Lettera a Meneceo.
1.1.1. Il piacere (edoné) consiste nella semplice assenza di dolore, la felicità nella completa
liberazione da ogni fonte di turbamento e sofferenza; non è edonismo ma saggezza (edonismo come
risultato di saggezza). Sobria voluttà; il vero piacere è sobrio; tesi che va sia contro il mito e la
tradizione dello sfrenato e dell’orgiastico, sia contro “l’orgia rovesciata” presente nel rigore
ostentato dell’asceta e nella violenza dell’ordine [vedi Nietzsche, Aurora, Hesse, Siddharta,
Yourcenar, Memorie di Adriano].
1.1.2. la retta nozione di felicità e piacere. L’uomo trova dunque in se stesso, nella inclinazione al
piacere, il solo fondamento di eticità [vi è uno stretto legame tra la teoria gnoseologica di Epicuro
interamente basata sulle sensazioni come unica fonte materiale di conoscenza e la sua teoria etica
che pone il piacere a principio e fine dell’etica stessa]: «quando diciamo che il piacere è il bene —
specifica però Epicuro, consapevole degli equivoci cui si presta la sua tesi, — non intendiamo i
piaceri dei dissoluti o quelli delle crapule, come credono alcuni che ignorano, o non condividono, o
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male interpretano la nostra dottrina»; il piacere che dà «l’indipendenza dai desideri» (definito
catastematico, in quanto si realizza nella quiete) differisce da quello che nasce dallo sforzo per la
loro soddisfazione (cinematico, cioè ricercato nel movimento e nell’azione): il primo proviene dalla
limitazione dei bisogni; il secondo avvia un processo di continua autoalimentazione dei desideri,
accende bisogni sempre maggiori (di cibi raffinati, oggetti preziosi, divertimenti smodati) e non
porta alla completa liberazione dai desideri.
L’etica epicurea — pur incentrata sulla nozione di piacere — si fonda su una severa ascesi, sulla
limitazione dei desideri, sulla riduzione dei bisogni materiali a quelli naturali e necessari al puro
vivere, come il nutrimento e il riparo (Epicuro non annovera i bisogni sessuali tra quelli necessari).
Così descritto, il piacere si identifica con la virtù; entrambi trovano nella natura il loro fondamento:
la virtù, in quanto consiste nel vivere secondo una norma interna al ritmo vitale, il piacere, in quanto
è la condizione emotiva che accompagna tale modalità del vivere. Un ruolo determinante nel
raggiungimento di questa condizione di felicità, che consiste «nel non soffrire nel corpo (aponìa) e
nel non essere turbati nell’anima (ataraxia)», spetta alla filosofia e ai quotidiani esercizi di lettura,
meditazione, memorizzazione, applicazione dei principi elaborati nella scuola: la felicità si
raggiunge infatti solo nella scuola, attraverso la riflessione filosofica, sotto la guida del maestro, in
quel clima di solidarietà e amicizia che può realizzarsi nella comunità dei filosofi e che non si dà
invece mai nella comunità sociale; Epicuro ripetutamente consiglia l’autoesclusione politica, («vivi
nascosto» è un motto del Giardino).
1.1.3. La tecnica della sottrazione. L’esercizio di riflessione filosofica più efficace consiste in un
analitico lavoro di sottrazione che deve essere compiuto, ora per separare quanto la natura impone
all’uomo (come la soddisfazione del bisogno di cibo, bevande e riparo) da quanto è superfluo (come
sono, ad esempio, gli eccessi e le raffinatezze), ora per liberare dalla loro ingombrante presenza
fantasmi come l’oltretomba, la sofferenza, le punizioni divine, la morte: di ciascuna di queste
temute presenze Epicuro dimostra l’infondatezza con un rigoroso procedimento di sottrazione che
sposta il fenomeno indagato (le punizioni divine, l’aldilà, il dolore, la morte) sul piano del non
essere o di una lontana trascendenza, neutralizzandone così la temibilità.
Il procedimento «per sottrazione» di cui Epicuro si avvale nel lavoro di liberazione dell’animo dalle
paure trova il suo fulcro nella concezione del piacere (edoné), anch’essa caratterizzata in negativo:
il piacere è assenza di dolore e turbamento. Esso non nasce dalla soddisfazione del bisogno, e
dunque non consiste nel mangiare o bere o riposarsi, ma sorge dal non avere bisogni: non aver
fame, sete, freddo. Il vero piacere è catastematico, consiste in uno stato di quiete, non nel
movimento per la soddisfazione del bisogno.
Riconducendo il dolore, la morte, l’aldilà al non essere, e opponendo a esso l’essere del piacere,
della vita, dell’aldiqua, Epicuro dà così un preciso fondamento ontologico alla sua etica.
1.2. liberi da paure e bisogni: il nuovo statuto della scienza, una scienza etica
1.2.1. il fine della scienza e della filosofia
Il carattere strumentale della conoscenza scientifica, costantemente subordinata al supremo fine
etico, l’imperturbabilità, è efficacemente riassunto nella lapidaria prosa dell’undicesima massima
capitale di Epicuro: «Se non ci turbassero per nulla i sospetti delle cose celesti e quelli sulla morte,
che essa non abbia a essere qualcosa per noi, e ancora il non conoscere i confini dei dolori e dei
desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura».
La conoscenza dell’universo fisico trova dunque la sua legittimazione non nella meraviglia, cui
Aristotele fa esplicito riferimento nelle sue opere, o in se stessa, ma nella sua capacità di liberare
l’uomo dalle paure infondate, dai fantasmi prodotti dall’immaginazione popolare o dai sistemi
metafisici della tradizione.
«È compito della scienza della natura darci preciso conto della causa dei fenomeni più importanti,
... in questo risiede la felicità, e nel conoscere la natura dei corpi che contempliamo nei cieli, ed in
tutte le conoscenze congeneri rispetto al raggiungimento della perfetta scienza che renda la vita
felice.» (ad Erodoto)
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«Bisogna esser persuasi che dalla conoscenza dei fenomeni celesti in qualsiasi modo se ne tratti, o
unitamente ad altre dottrine o separatamente, non può derivare altro scopo se non la tranquillità e
la sicurezza dell’anima, ciò che del resto è pure lo scopo d’ogni altra ricerca.» (a Pitocle)
«Non scioglie il terrore di ciò che all’uomo più importa, chi non sa quale sia la natura
dell’universo e sta in ansia e sospetto per le favole dei miti. Senza studio della natura non è dunque
possibile godere schietti piaceri.» (Massime capitali XII)
«Non vi è tranquillità d’animo se non nell’essere sgombri da tutti questi errori e nel ricordarci
assiduamente delle dottrine generali e fondamentali… Quelli poi che non possono del tutto
considerarsi fra i perfettamente edotti della mia dottrina, possono da questi precetti, per quanto è
concesso senza insegnamento orale, compiere mentalmente l’esame complessivo delle dottrine più
importanti per il conseguimento di una vita serena.» (ad Erodoto)
spunti di lettura:
—la scienza, il sapere, tende ed ha il suo movente nella felicità (rapporto scienza —felicità come
criterio di validità della scienza)
—felicità: non definita in positivo, come conseguimento di precisi obiettivi o stati, ma come libertà
dalla paura o da turbamenti
—ci libera dalla paura la scienza
—questo è il massimo piacere: il non essere turbati da...; il piacere è la stato in cui ci colloca il
sapere, piacere inteso come vita serena, come quiete, tranquillità frutto di saggezza
—premesse per un’etica fondata sul piacere
1.2.2. il metodo della scienza e della filosofia
«Per prima cosa occorre convincersi che nello studio dei fenomeni celesti, sia considerati nella
loro relazione reciproca sia indipendentemente gli uni dagli altri, non vi è altro scopo da
conseguire se non la imperturbabilità dell’anima e la sicura fiducia, così come nelle altre ricerche;
e non si deve far forza alle cose per ottenere l’impossibile, né usare lo stesso metodo riguardo a
tutti gli oggetti, sia che si tratti della ricerca sui modi di vita o della ricerca volta alla soluzione dei
problemi che pone la scienza della natura, come per esempio «il tutto consta di corpi e della natura
in tattile [il vuoto]», o «gli elementi ultimi della realtà naturale sono indivisibili», o altre
proposizioni che, come queste, comportano una sola soluzione in accordo con gli oggetti
dell’esperienza. Per ciò che riguarda i fenomeni celesti, le cose vanno diversamente: essi
ammettono più spiegazioni causali della loro origine e la possibilità di più determinazioni della
loro essenza, purché sempre in accordo con le sensazioni. Quando si studia la scienza della natura,
non bisogna procedere per enunciati vani e posizioni arbitrarie, ma così come richiedono gli stessi
oggetti dell’esperienza sensibile.» (Lettera a Pitocle)
Quindi, quanto al metodo, Epicuro, nella Lettera a Pitocle, ricorda che lo studioso «non deve far
forza alle cose per ottenere l’impossibile né usare lo stesso metodo riguardo a tutti gli oggetti»: vi
sono ambiti della ricerca nei quali è possibile e doveroso pervenire a una spiegazione unica e certa,
altri in cui invece ci si trova dinanzi a più spiegazioni che si presentano come ugualmente valide in
quanto nessuna di esse è smentita dall’esperienza
Lo studioso deve avere ben chiara la distinzione tra gli ambiti in cui è necessario applicare il
metodo della spiegazione unica e quello in cui deve aprirsi ad accogliere «spiegazioni multiple»:
nelle scienze della natura in cui si tratta di ammettere l’esistenza di qualche cosa che c’è o non c’è
— come ad esempio gli atomi e il vuoto — si deve pervenire a una sola spiegazione che affermi in
modo rigoroso e necessario se tale ente esiste o non esiste; quando invece si indagano fenomeni,
come quelli celesti, per i quali si possono inferire diverse spiegazioni «plausibili», si devono
ammettere tutte le spiegazioni possibili che non sono smentite dall’esperienza; preferire una
spiegazione alle altre, senza la sicurezza che questa sia vera e le altre false, significa cadere nel
mito.
Il principio ispiratore è ancora una volta etico: le caratteristiche ed il metodo del sapere saranno tali
da consentire il fine etico del piacere e della felicità [sempre rettamente intesi] (o: metodologia da
seguire nella spiegazione dei fenomeni fisici, ai fine di arrivare all’animo sereno e felice):
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a) procedere per analogie.
«...l’ordinata successione dei fenomeni celesti deve spiegarsi con l’analogia di consueti fenomeni
che accadono sulla terra. Non si assuma invece mai come causa di essi la natura divina, ma la si
conservi libera da ogni ministerio e in illibata beatitudine. Se così non si farà ogni nostra indagine
sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana.» (a Pitocle)
b) spiegazione meccanica, non intenzionale-personalistica, dei fenomeni fisici.
«Senza dubbio poi i moti celesti e le rivoluzioni e l’eclissarsi ed il sorgere ed il tramontare degli
astri, e tutti i simili fenomeni, non si deve credere siano prodotti per apposito ministerio di alcuno
che dia loro o debba dare regola o misura, o pur tuttavia possegga l’assoluta beatitudine o
l’immortalità. Infatti occupazioni o cure od ire e benevolenze, non s’accordano con lo stato di
perfetta beatitudine, ma vengono da debolezza e timore e necessità di assistenza da parte dei vicini.
Ed altresì non è dubbio che l’universo fu sempre quale è ora, e tale sarà sempre; perchè non vi è
nulla in cui possa mutarsi; infatti oltre il tutto non vi è nulla, che possa penetrandovi produrvi
mutazione.» (segue la teoria dei corpi: atomi o vuoto, e del loro movimento eterno). «Ed ancora, i
mondi sono infiniti, sia quelli simili ai nostri sia quelli dissimili dal nostro. Perchè gli atomi, che
abbiamo testè dimostrato essere infiniti, percorrono anche i più lontani spazi.» (ad Erodoto)
c) le diverse spiegazioni possibili
«Senza dubbio si ottiene l’assoluta tranquillità spirituale su tutti quei problemi che si risolvono
secondo il metodo delle spiegazioni molteplici, in accordo con i fenomeni, quando rispetto ad essi
si mantengono, secondo è giusto, quelle spiegazioni che sono probabili. …Coloro invece che
accettano un solo modo di spiegazione, non solamente si pongono in contrasto con i fenomeni, ma
anche perdono di vista il limite imposto alla possibilità della umana conoscenza [cioè le sensazioni
come unica fonte di conoscenza] ... Del resto l’esperienza dei fenomeni terrestri indica che diverse
possono essere le cause anche di questi fenomeni dei quali qui ci occupiamo. In più modi si
originano i lampi ...» (tale metodo viene applicato ai vari fenomeni studiati: tuoni, lampi, nubi,
cicloni, terremoti, venti ecc. e viene ribadito che il non attenersi a questo metodo è cadere nel mito)
(a Erodoto, a Pitocle)
(riassumendo: pretendere di avere una spiegazione unica (una causa unica) è: non rispetto del limite
sensitivo, cadere nel mito (prestar fede a favole mitologiche e non aver più alcun strumento di
difesa dalla paura e impedirci la serenità—tranquillità—felicità), stoltezza = non conoscenza e
ancora non serenità; la filosofia di Epicuro è “esame complessivo delle dottrine più importanti per il
conseguimento di una vita serena”)
d) accordo con i sensi
«E nel Canone appunto dice Epicuro, essere criteri del vero: le sensazioni, lo prenozioni, i sensi
interni. Infatti gli dice che ogni sensazione è irrazionale e non partecipa di memoria, e certamente
non ha attività di per se stessa, né mossa da oggetto può nulla aggiungervi e togliergli. E neppure
v’è nulla che possa confutarla... né d’altra parte può la ragione, perchè ogni ragionamento dipende
dai sensi: e neppure una sensazione può confutarne un’altra, perchè a tutte ci atteniamo… E certo
anche ogni nozione intellettiva procede dalle sensazioni, secondo l’incidenza, l’analogia, la
somiglianza. o la composizione, contribuendovi in qualche misura anche il raziocinio.» (Diogene
Laerzio, Vita di Epicuro)
Il “metodo delle diverso spiegazioni possibili” è tratto dalla natura della sensazione: «Infatti tutte
queste possibilità (di spiegazione) e quelle affini ad esse, non contrastano a nulla che sia attestato
dalla evidenza effettiva dei fenomeni; purchè a tali argomenti, badando sempre al criterio della
possibilità, si sappia ricondurre ciascuna di queste spiegazioni all’accordo con i fenomeni, senza
paura degli artifizi degli astronomi, degni solamente di gente servile.» (a Pitocle) (Ciò rafforza e
indebolisce il criterio di verità basato sulla sensazione sia perchè la sensazione è suscettibile di
spiegazioni-letture diverse, sia per il concetto di prenozione).
e) le prenozioni
(precedenza dello nozioni —prolessi— per l’indagine)
«La prenozione (prolessi) essi (epicurei) designano come apprendimento o retta opinione, o
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concetto o nozione universale insita in noi, cioè memoria di ciò che spesso ci è apparso dall’esterno:
come, per esempio, l’essere l’uomo ciò che ha certe determinate qualità: infatti appena
pronunziamo la parola uomo, subito, per prenozione, si pensa la sua forma e carattere proprio,
secondo i dati precedenti dei sensi… E non potremmo compiere le nostre indagini se questo prima
non conoscessimo; per esempio, data la domanda: Quello che è laggiù è cavallo o bue? per
rispondervi conviene, per mezzo della prenozione, conoscere già la forma del bue e quella del
cavallo.» (Diogene Laerzio ivi)
f) vanno escluse altre pratiche di spiegazione, quali:
—1) la divinità come causa; ciò è in contrasto con la natura della divinità: «Il supremo
perturbamento sorge negli uomini, primieramente ove si creda che tali nature siano beate ed
immortali, e che pur abbiano volontà ed opere e cause che contraddicano a questi attributi loro…
Non è irreligioso chi gli dei del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei.» (a
Erodoto, a Meneceo)
—2) il destino (il fato, la fortuna ecc.): «Meglio era infatti tenersi ai miti sugli dei, che essere
schiavi al destino dei fisici, perchè quelli almeno ammettono speranza di placare i numi
onorandoli, questo invece ha implacabile necessità. E la fortuna, il saggio non la stima una
divinità...» (a Meneceo)
—3) la spiegazione unica (cfr. sopra)
—4) la spiegazione mitologica
nota l’equazione: spiegazione unica = spiegazione mitica
e l’equazione: spiegazione unica = paura (e altre eguaglianze possibili: spiegazione unica =
spiegazione mitica = desiderio di immortalità = paura della morte = paura della realtà nella sua
complessità = non scienza = non felicità)
— 5) nella spiegazione scientifica che si traduce nella ricerca di una spiegazione eterna unica
immutabile ecc. (e quindi mitica) è presente il desiderio e l’atteggiamento mentale dell’immortalità;
alla spiegazione unica, quindi mitica, Epicuro oppone il metodo delle molte spiegazioni possibili,
unico modo per restare fedeli alle sensazioni e restare in sintonia con la realtà.
1.3. felicità nella dimensione materiale finita
1.3.1. i principi universali: Muovendo dall’esperienza sensibile, ma superandone i limiti oggettivi
con il rigore della dimostrazione razionale, Epicuro individua negli atomi e nel vuoto i principi con
i quali è possibile spiegare l’intera realtà, pervenendo così a una organica «visione generale delle
cose». Non percepibile con i sensi (gli atomi sono infatti minuscoli e il vuoto è per natura
«intattile») l’esistenza degli atomi e del vuoto è dimostrata razionalmente: i corpi devono infatti
essere idealmente divisibili in elementi minimi (gli atomi) oltre i quali non è possibile andare nella
scomposizione, se non si vuole dissolverli nel nulla; il movimento di tali atomi è inoltre possibile
solo se si ammette l’esistenza di uno spazio vuoto nel quale esso possa avvenire. Negare l’esistenza
di atomi e vuoto equivale a contraddire i sensi (che ci attestano l’esistenza dei corpi, la loro
divisibilità e il loro movimento) e il rigore della ragione (che, appunto, dimostra
inequivocabilmente tale esistenza).
1.3.2. corpo anima si riconducono ad atomi e vuoto: un idealismo materiale senza dualismi
1.3.2.1. non c’è dualismo di sostanze tra anima e corpo ma differenza di composizione materiale
1.3.2.2. non c’è materialismo in Epicuro (anche se molta vulgata nel tempo lo affermerà, Marx
compreso) e non c’è determinismo. Atomi e vuoto sono ad un tempo realtà attestate dalla sensibilità
e fondate sulla ragione o risultato della lettura che la ragione, applicata all’esperienza, ci permette di
raggiungere. Epicuro parla di “atomos ìdea” e lega strettamente realtà e mente: fa distaccare dagli
oggetti simulacri sottilissimi che penetrano poi negli organi di senso (Hans Blumenberg, La
leggibilità del mondo, il Mulino, Bologna 1981, p.17). Gli atomi sono infiniti, il vuoto è il loro
contesto, una inclinazione del loro movimento rende infinite e casuali (casuali nell’esito,
comprensibili nella dinamica) le possibilità aggregative; tutto ciò contro i limiti posti dalle
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numerose teorie fisiche circolanti: fato, superstizione, causalità necessitante immanente o
trascendente, finalismi. Occorre aprirsi all’imprevedibile divenire del mondo come contesto di
libertà e scelta.
1.3.2. la liberazione della paura della morte su base metafisica, su base scientifica, su base
sociologica e psicologica e la serenità della dimensione mortale
1.3.2.1. la morte o il non essere: Anche la morte, tanto temuta dagli uomini, appartiene al regno del
non essere: «quando ci siamo noi, non è presente la morte, e quando sia presente la morte, allora noi
non siamo». La morte esiste per gli altri, per coloro che sopravvivono e constatano la nostra fine,
ma per noi essa non c’è, non è esperibile in prima persona: tanto vale dunque non affliggerci con il
pensiero del suo incombere («giacché quel che essendo presente non affligge, vanamente addolora
anticipato nel pensiero»), ma anzi vivere intensa mente il presente, nella consapevolezza che
«nasciamo una volta sola, due volte non è possibile nascere».
1.3.2.2. la morte o atomi in diversa disposizione (ma non rinascita, che è sempre desiderio di
immortalità) (vedi 1.3.2.2.)
1.3.2.3. la morte o il desiderio dell’immortalità; la morte è resa evento dal desiderio della
immortalità.
«Abituati o pensare che nulla è per noi la morte: in quanto ogni bene e male è nel senso, mentre la
morte è privazione del senso. Perciò la retta conoscenza che la morte è nulla per noi, rende gioibile
la mortalità della vita.... Il supremo turbamento sorge negli uomini … anche per la paura di quella
stessa insensibilità che è nella morte, come fosse per noi un male» (a Meneceo, a Erodoto). Cioè
non la morte è una male per l’uomo, essa è cessazione di mali, ma lo è la paura della morte e il
desiderio della immortalità. La direzione del pensiero sulla morte fonte di paura muove al contrario:
il desiderio di immortalità genera la paura della morte e, di converso, la paura della morte rivela e
nutra un desiderio di immortalità, quel desiderio che non accetta la morte come fatto naturale.
—All’idea che il mondo non abbia valore di per sé ma in un fine che lo trascende, in realtà ‘ideali’
che gli sono essenzialmente eterogenee, Epicuro oppone il suo ideale di felicità tutta mondana,
l’insussistenza del problema della morte, la convinzione che la soluzione di tutte le nostre difficoltà
non sta nell’aggiungere ‘infinito tempo alla vita mortale’ ma nel togliere il desiderio
dell’immortalità, cioè, nel conciliare l’uomo con la vita; alla concezione della scienza come
contemplazione di verità eterne, Epicuro oppone quella della scienza come progressivo strumento di
liberazione dai timori e dalla superstizione religiosa (G.Giannantoni).
—L’immortalità non è prolungamento della vita ma la sua distruzione, contestualmente con
l’annullamento del ricordo. È la morte (la sua naturale certezza) che genera il ricordo, la sua
urgenza e il suo piacere; l’immortalità rende il tempo irrilevante, annulla attese, progetti e
“prenozioni”; annulla l’etica.
2. stoici
2.1. un principio razionale unico totale e immanente: il Logos
Il contesto metafisico, teologico, logico, fisico. Principio ed essenza unica del mondo è il Logos,
ragione universale, legge della realtà, del pensiero e del discorso, dell’agire etico dell’uomo che si
pone in sintonia e in armonia con l’intrinseca razionalità cosmica. Logica è termine coniato dagli
stoici e, nelle loro opere, quel termine conserva l’ampia estensione di significato che è propria del
termine Lògos: non indica solo una disciplina che studia i fatti mentali e linguistici, esprime la
visione di un mondo retto da un principio unico e totale, il Lògos: fonte di un ordine razionale e
necessario, principio cosmico e fisico, criterio etico che il saggio elegge a propria norma di vita
armonizzandosi così con il mondo e con se stesso.
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2.2. vivere nell’ascolto. Compito della filosofia stoica è guidare a cogliere il Logos universale, a
porsi in ascolto della sua universale presenza.
2.2.1. gli ambiti: gli stoici formulano e mettono a disposizione dottrine guida riportabili a tre ambiti
fondamentali: al campo del pensiero e della parola (la grammatica e la logica); al campo dei
fenomeni naturali (la fisica), al campo dell’agire umano (l’etica). Su tutte prevale l’etica come
atteggiamento indispensabile di apertura e di ascolto che permette di cogliere e leggere con
attenzione tutti i segni della presenza della razionalità del Logos nell’universo.
2.2.2. la strategia (il metodo). Il mondo è immenso serbatoio di segni che attestano la presenza del
Logos universale, essenza razionale della realtà; si deve dunque disporre di un’arte di
interpretazione dei segni, una semiotica, che li cataloghi secondo la loro specifica funzione e
fornisca adeguate tecniche interpretative.
«Dei segni, dunque, secondo costoro, alcuni sono rammemorativi, altri indicativi. Chiamano segno
rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena si
presenta, se questa è avvolta nell’oscurità, conduce a ricordare la cosa ch’è stata osservata
insieme con esso segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il
fuoco. E, invece, dicono, indicativo il segno, che, non osservato insieme con la cosa designata in
maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno, così, p.e., i
movimenti del corpo sono segni dell’anima. [Onde, anche, definiscono questo segno così: è segno
indicativo un enunciato, che in sana connessione precedendo, è discopritore di ciò che consegue].»
Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, pp. 80-82, tr. di O. Tescari, Laterza, Bari 1988
La logica stoica si caratterizza in forma specifica quando diventa studio del segno e della sua
funzione logica (noi diremmo semiotica o semiologia); in questo contesto di ricerca essa invita in
particolare a compiere una distinzione tra «segni rammemorativi» e «segni indicativi» e mette in
luce un metodo di costruzione del significato non riconducibile alla semplice definizione, come
accade nella logica aristotelica. Esistono infatti dei segni che ci richiamano alla mente, con
pienezza, realtà già conosciute e solo momentaneamente non presenti (ad esempio il fumo ci
richiama alla mente il fuoco, il nome Dione ci ricorda l’amico assente); in tal caso tra segno e realtà
possiamo costruire un rapporto di equivalenza logica; questi sono «segni rammemorativi».
Di tutt’altra natura sono i «segni indicativi», quelli attraverso i quali tentiamo di conoscere le «cose
oscure per natura». Essi non richiamano alla nostra mente, con piena chiarezza, l’oggetto, che
resterà per sempre oscuro, tuttavia segnalano, «per la propria natura e costituzione», ciò di cui sono
segno (come i movimenti del corpo sono segni dell’anima: un gesto particolare, un sorriso, il
pallore del volto …).
Nell’esposizione che della dottrina stoica fornisce Sesto Empirico, il «segno indicativo» viene
proposto come il segno in senso vero e proprio; esso riguarda infatti le realtà che nella vita
dell’uomo risultano essere più diffuse ed avere maggior valore. Sono loro che ci dovrebbero guidare
a cogliere il senso (se c’è) degli eventi naturali, del succedersi delle vicende storiche, dei
comportamenti individuali ecc. La sua funzione significativa non è stabilita attraverso un rapporto
di equivalenza o di definizione tra due aspetti della realtà o tra nome e cosa (come fumo – fuoco,
cicatrice – ferita), ma da un rapporto più globale, aperto e complesso di implicazione (l’uno include
l’altro); il segno, in tal caso, è significativo in quanto indica o pone le condizioni per avviare la
ricerca del significato, indicarne la sicura, anche se oscura, presenza. Si tratta di una vera e propria
arte della scoperta sostenuta, nella sua apertura e costanza, dalla consapevolezza che siamo di fronte
a realtà che per natura non saranno mai definitivamente evidenti e per la conoscenza delle i quali
occorre attivare procedimenti di inferenza e sillogismi ipotetici. Arte dunque di cogliere i segni
indicativi conservandoli nella loro capacità di rimandare ad un significato non concettualmente
definitivo.
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Una visione di insieme
tipologie di realtà da punto di vista della loro
conoscibilità (mappa semeiotica del mondo)
realtà di per sé evidenti
(es. è giorno)
realtà non
del tutto non evidenti
evidenti
(granelli di sabbia del deserto,
gocce d’acqua dell’oceano …)
per il momento non evidenti
(Atene da cui sono lontano
l’amico che ho lasciato ieri…)
per natura non evidenti
 la natura e le scelte degli dei
 lo stato di salute del corpo
 l’animo dell’uomo
 il corso della storia
 le esigenze di una società
 il grado di responsabilità …
segni inviati dalla realtà
(semiologia)
non segni, ma presenza
diretta
nessun segno
arte e logica della
conoscenza
evidenza delle
sensazioni e assenso
nessuna conoscenza
segni rammemorativi
(tekmérion)
(parola, disegno…)
logica della definizione
e della relazione
causale
(sillogismo ternario)
logica della
implicazione e tecnica
indiziaria
 ascolto e diagnosi dei
segni
 sillogismo ipotetico
(binario)
segni indicativi
(semèion)
2.3. un’etica semiotica: dell’ascolto dei segni e della cura
Va evitata la divisione in settori rigidi (logica, fisica, etica); l’arte di vive poggia sulla coscienza
dell’ordine universale e del nostro inserimento in esso; scoprire l’ordine universale e porsi in
sintonia è vivere nel Logos cogliendone i segni indicativi e rammemorativi di presenza; vivere
moralmente è vivere secondo natura.
2.3.1. conciliazione di dualismi. L’armonia raggiunta nell’apertura / ascolto del Logos è luogo di
composizione di contrasti tradizionali irrisolti. Il vivere secondo natura è realizzare la propria
natura. Lo stare nella legge del logos è la massima libertà (vedere realizzata la propria natura e
quindi la propria libertà). In quanto espressione di un ordine razionale il fato è oggetto di amore e
non di avversione (amor fati). L’individuo e la sua interiorità diventano sede di ragione universale e
cosmica. La difficoltà a comporre le molte virtù è risolta nella scoperta dell’unica virtù etica
indicata dal Logos. Lo studio della natura, della parola, della società è teologia.
2.3.2. l’imperturbabilità (apàtheia) come serenità e esito di conciliazioni. Lo stoicismo, avendo
individuato nelle lacerazioni che attraversano soprattutto l’animo umano la fonte delle paure, delle
passioni non gestite e della sofferenza, cerca di eliminarle alla radice fornendo una visione cosmica
unitaria e armonica. Si conciliano fato e fine, destino e libertà, passione e ragione, interesse e
apàtheia (non insensibilità o indifferenza, ma gestione della passione), individualismo e
cosmopolitismo, ciò che è comune e ciò che è proprio, fisica e teologia, vivere e morire («è la
stessa l’arte del ben vivere e del ben morire» Seneca)
«Crisippo nel libro primo Del fine afferma inoltre che […] il fine è costituito dal vivere secondo
natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole
proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è
identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo. Ed in ciò consiste la virtù dell’uomo felice e il
facile corso della vita, quando tutte le azioni compiute mostrino il perfetto accordo del demone che
è in ciascuno di noi col volere del signore dell’universo.» Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro
VII, Laterza. Bari 1987
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2.3.3. la filosofia va intesa come medicina dell’animo praticata per un obiettivo specifico:
«cerchiamo come si possa raggiungere la tranquillità». Maestro indiscusso di questa arte e
tradizione è Lucio Anneo Seneca. Seneca racconta il consiglio che Sereno gli chiede e i turbamenti
che egli espone come ad un amico, una guida, un medico:
«Esaminandomi nell’intimo, Seneca, alcuni difetti mi si presentano di solito allo scoperto, sì che
posso toccarli con mano, altri più nascosti e celati nel profondo, altri infine, non persistenti ma
ritornanti a periodi, e questi li direi estremamente fastidiosi, simili a nemici errabondi e spianti il
momento dell’assalto, per cui non ti riesce né stare all’erta, come in guerra, né tranquillo, come in
pace. Colgo, insomma, in me quest’atteggiamento (perché non dovrei dire la verità come a un
medico?): non sono, in coscienza, libero da quei difetti che temevo e odiavo né soggetto a essi. Mi
trovo in una condizione che, se non è la peggiore, certo è quanto mai dolorosa e strana: non sto né
male né bene. Ora non hai da dirmi che i primi passi di ogni virtù sono deboli e che col tempo
diventano solidi e robusti: non ignoro che anche le cose a cui si chiede un certo lustro, penso agli
onori, alla fama dell’eloquenza e a quanto è condizionato dal voto altrui, si rafforzano col tempo,
che pure quelle che danno un effettivo valore e quelle che ci permettono di attirare gli altri con una
vernice d’accatto, richiedono degli anni, perché a poco a poco lo scorrere del tempo le faccia
consistenti. Ma io temo che l’abitudine che consolida le cose, radichi profondamente in me questo
difetto: in realtà la lunga pratica ci fa prendere il gusto sia delle cose cattive, sia delle cose buone.
Quale sia questa malattia dell’animo dubbioso tra due spinte e che non si volge con fermezza né al
bene né al male, non te la posso mostrare nell’insieme, ma piuttosto nei particolari. Ti dirò quel
che mi accade e tu troverai il nome alla malattia.»
L.A. Seneca, Sulla tranquillità dell’animo, I Dialoghi, Laterza, Bari 1978, p.323.
3. scettici (Pirrone di Elide 365-275)
«L’indirizzo scettico si chiama «investigativo», dall’azione dell’investigare e dell’indagare;
«sospensivo», per la disposizione d’animo che, dopo l’indagine, conserva rispetto all’oggetto
indagato, e «dubitativo», appunto, per il suo dubitare e investigare intorno a ogni cosa, come
alcuni affermano, oppure, per la sua esitazione ad affermare o negare, e «pirroniano», perché pare
a noi che Pirrone maggiormente e più manifestamente di quanti lo precedettero abbia contribuito a
dar corpo allo scetticismo.
Lo scetticismo esplica il suo valore nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in
qualsivoglia maniera, per cui, in seguito all’ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte,
arriviamo, anzi tutto, alla sospensione del giudizio, quindi, all’imperturbabilità. «Sospensione del
giudizio» è un atteggiamento della mente, per cui né rifiutiamo né accettiamo.
«Imperturbabilità» poi, vale assenza di turbamenti e serenità di spirito. …
Principio causale dello scetticismo diciamo essere la speranza di conseguire l’imperturbabilità»
Sesto Empirico Schizzi pirroniani, Laterza, Bari 1988
3.1. alla radice dell’impulso verso la verità, cioè dello scetticismo:
3.1.1. la fedeltà al fenomeno e ai dati d’esperienza e «la disuguaglianza che c’è tra i dati del senso
e quelli della ragione». «Attenendoci pertanto ai fenomeni, viviamo senza dogmi»
«Coloro che dicono che gli scettici sopprimono i fenomeni, parmi non abbiano udito quello che da
noi si dice: chè noi non sovvertiamo quello che, senza il concorso della volontà, ci conduce ad
assentire in conformità dell’affezione che consegue alla rappresentazione sensibile, come sopra,
anche, abbiamo dichiarato, e questi sono i fenomeni. Quando, invece, investighiamo se l’oggetto è
tale quale appare, noi concediamo che esso appaia in quella data maniera, ma investighiamo, non
già intorno al fenomeno, ma intorno a ciò che si afferma del fenomeno; e questo è altra cosa
dall’investigare circa il fenomeno stesso. Così, p.e., il miele produce in noi, manifestamente, una
sensazione di dolcezza (questo lo ammettiamo: proviamo, infatti, una sensazione di dolcezza). Ma
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ciò che è per noi oggetto di ricerca è quello che si afferma, cioè, se esso miele sia dolce, giacché
questo non è il fenomeno, ma ciò che si dice del fenomeno. Che se, anche, solleviamo delle
questioni direttamente circa i fenomeni, non lo facciamo perché si voglia sopprimere i fenomeni,
ma per dimostrare la sconsideratezza dei dogmatici. Se, infatti, il ragionamento si palesa tale un
ingannatore, che per poco non riesce a sottrarci perfino i fenomeni di sotto agli occhi, come non lo
si deve guardare con diffidenza nelle cose non-evidenti, se non vogliamo lasciarci andare,
seguendolo, ad asserzioni temerarie?» (ivi)
3.1.2. la constatazione delle aporie e insolvibili antinomie in cui la ragione inesorabilmente cade
quando pretende di dichiararsi in modo assoluto
«Gli scettici più recenti [quelli posteriori a Enesidemo, in particolare Agrippa] ci trasmettono come
tropi della sospensione del giudizio i cinque seguenti: primo, quello che si basa sulla discordanza;
secondo, quello che rimanda all’infinito; terzo, quello che si basa sulla relazione; quarto, quello
ipotetico; quinto, il diallelo.» (ivi)
3.2. smontaggio e liberazione: la verità (come verità assoluta) è impossibile (impone un processo
infinito), inutile (non serve per i giudizi e le azioni particolari, le uniche nelle quali stiamo), nociva
(è fonte di preoccupazioni e paure).
3.2.1. non si tratta di dire “nulla è vero”; l’affermazione sarebbe un dogma, e autocontraddittoria; lo
scettico non dogmatizza: «l’espressione “tutte le cose sono false” afferma, insieme con la falsità di
tutto il resto anche la falsità di se stessa (altrettanto dicasi dell’espressione “nulla è vero”)» (ivi)
3.2.2. la contraddizione implicita negli enunciati logici totali e la loro funzione. Gli enunciati come
“tutto è vero”, “nulla è vero” comprendono se stessi e, pur in diverse modalità, di fatto si annullano.
L’errore di impostazione consiste nel collocare in un enunciato di tipo particolare l’intero sistema
delle condizioni logiche che rendono possibile l’enunciato stesso. Il rifiuto di essere dogmatici e
l’invito a sospendere il giudizio definitivo espresso dagli scettici non è la crisi della ragione ma è
l’indicazione di come sia possibile restare nella logica e nella ricerca: evitare enunciati totali,
continuare la ricerca, cioè essere scettici (skèptomai).
3.3. skepsis è ricerca, l’epoché ne è la radice: la logica e l’etica del finito
«Diciamo fin d’ora che il fine dello scetticismo è l’imperturbabilità (ataraxia) nelle cose opinabili e
la moderazione nelle affezioni che sono per necessità» (ivi)
3.3.1. come accade nel campo logico, vi è una contraddizione implicita, per autoimplicazione, negli
enunciati etici totali. Una norma che si presenta come assoluta e, pur nella sua determinatezza,
totale, attribuisce a se stessa, come a caratteristica propria e riservata, le condizioni generali che la
rendono possibile, annullando così, nel proprio particolare, le condizioni generali della moralità.
3.3.2. lo scetticismo si presenta eticamente come una tecnica di liberazione (assenza di turbamenti,
imperturbabilità), attuata con il modus tollens (medicina contro i dogmatici, esercizi di epoché), a
garanzia del diritto al dubbio (doveroso della sua naturale radice) e alla ricerca. Si consegna alla
storia della cultura occidentale come arte e tecnica per la scoperta dei fondamenti formali del
pensare e dell’agire (Descartes, Husserl).
4. cinici (Antistene 436-366; Diogene di Sinope 413-323)
4.1. la scoperta della sede del disagio nella complessità del vivere sociale urbano – politico e
nella convenzione che la giustifica, sorregge, legittima e prescrive come obbligo di consuetudine e
appartenenza.
«Sul piano teorico e nella pratica quotidiana, i Cinici sviluppano una vera e propria contestazione
globale non più solo della Città, ma della Società e della Civiltà. La loro protesta è una critica
generalizzata dello stato civilizzato, critica che sorge nel IV secolo, con la crisi della Città, e che
vede tra i suoi terni principali il ritorno allo stato selvatico. Sul piano negativo, essa si realizza
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attraverso la denigrazione della vita nella città ed il rifiuto dei beni materiali prodotti civiltà. In
positivo, abbiamo uno sforzo per recuperare la vita semplice dei primi uomini, che bevevano
l’acqua delle sorgenti e si nutrivano di ghiande raccattate sul suolo o raccogliendo i frutti delle
piante. Per apprendere di nuovo a mangiare erbe crude, poi, i Cinici si propongono due modelli: i
popoli selvaggi che hanno conservato inalterato questo tenore di vita, e gli animali che non sono
stati mai contaminati fuoco di Prometeo. In effetti, il Cinismo è percorso da una corrente
antiprometeica, volta contro l’invenzione del fuoco, portatore di tecniche e di civiltà . Per
inselvatichirsi, non basta mangiare cibi crudi, né praticare l’omofagia di quel Diogene che, pagando
di persona, disputa ai suoi cani un pezzo di polpo crudo; occorre anche disarticolare il sistema di
valori su cui la società si fonda. Il ritorno alla selvaticità passa attraverso la critica a Prometeo, non
più sacrificatore responsabile della separazione tra dei ed uomini, ma Titano civilizzatore
dell’antropologia culturale, mediatore colpevole di aver tratto l’umanità dallo stato selvaggio
facendole il dono attossicato del fuoco.» (M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Laterza,
Bari 1981,p.113)
4.1.1. convenzione, complessità, violenza e menzogna politica
«Antistene non lesinava il suo disprezzo per gli Ateniesi che si vantavano di essere autoctoni, anzi
diceva che non erano più nobili delle chiocciole e delle cavallette» «(Antistene) Consigliava agli
Ateniesi di decretare che gli asini sono cavalli e poiché quelli lo ritenevano assurdo, disse:
“Eppure da voi per diventare strateghi non occorre alcuna istruzione: basta l’alzata di mani”.»
«(Diogene) Era bravo nel trattare gli altri con estrema alterigia. Definiva bile (kolé) la scuola
(skolé) di Euclide, la conversazione di Platone “perdita di tempo” (diatribén – katatribén) gli
agoni dionisiaci grandiose meraviglie per gli sciocchi, i demagoghi ministri della massa.»
(testimonianze tratte da: Diogene Laerzio, Vite di filosofi, Libro VI, Laterza, Bari 1976 pp. 203213)
4.1.2. la schiavitù del potere e delle gerarchie politiche e religiose: «Politica e religione sono due
modalità del sacro. È ormai noto che l’ideologia è in intimo rapporto con la trascendenza e il sacro.
E ciò che afferma Diogene quando mostra senza vergogna sprezzo e noncuranza degli dèi:
solitudine irriducibile, massimo disprezzo per chiesa e palazzo, sacerdoti e principi. In lui il rifiuto
della legge religiosa si affianca alla critica della legge civile e a una leggendaria insolenza verso gli
uomini del potere. Il cinico non ama la religione, sa quanto essa tragga forza dalla limitazione di
libertà e singolarità individuali. Un sacerdote, di qualunque culto, è sempre un censore che lavora
contro la vita, per la rinuncia…» (Onfray o.c.)
4.1.3. convenzione e complessità di un mondo diviso: dei, uomini, animali
«Rispetto al modello sacrificale e alimentare dominato dai rapporti fra tre termini — dei in alto,
animali in basso, uomini in mezzo —, quattro forme di protesta contro la città (Pitagorismo,
Orfismo, Dionisismo e Cinismo) possono ricevere un reciproco ordinamento binario, a seconda
dell’orientamento da esse scelto. In un caso la protesta comporta il superamento dall’alto
(Pitagorismo e Orfismo); nell’altro, dal basso (Dionisismo e Cinismo). Il contrasto tra le due
soluzioni si materializza nella rappresentazione del cannibalismo estremo che Pitagorici e Cinici
hanno in comune: un fanciullo che divora i genitori. Per i discepoli di Pitagora, visione inorridita
della vita carnivora e bestiale condotta dagli Altri, per i Cinici, al contrario, immagine esemplare di
quella distruzione radicale della Società che il loro comportamento quotidiano tende a realizzare.»
(Detienne, o.c. p.25)
«La tradizione cinica tardiva mantiene l’atteggiamento insolente e impertinente nei confronti degli
dèi. Demonatte dovette far fronte a una faida di ateniesi decisi a lapidarlo perché «non fu giammai
veduto sacrificare e solo tra tutti non fu iniziato ai misteri di Eleusi». Per difendersi (cosa che
diventava urgente) affermo di stupirsi che si potesse pensare che gli dei avessero bisogno delle sue
invocazioni e della sua devozione. Un’altra volta rifiutò di andare a pregare al tempio,
argomentando che le divinità, nel caso esistessero, l’avrebbero sentito altrettanto bene da dovunque
egli parlasse loro.
Sergio Gabbiadini
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[…] Nel caso di nature autenticamente atee l’irriverenza nei confronti degli dèi si accompagna
molto spesso a insolenza evidente verso il potere e in modo particolare verso coloro che lo
detengono. I trucchi sono vecchi come il mondo: nessun detentore di potere (sia esso legittimo o no,
ma quando mai lo è?) resiste alla tentazione di farlo derivare da una matrice sacra. Da Pericle ai
monarchi delle nostre repubbliche tutti indossano con serietà e compunzione i costumi di una
funzione assieme alle stimmate acquisite in conversazioni dirette con l’atemporale.» (Onfray o.c.)
4.1.4. convenzione e schiavitù nei comportamenti sociali e riti della quotidianità «Uscendo
(Diogene) una volta dal bagno pubblico e chiedendogli uno se molti uomini facessero il bagno,
rispose di no; chiedendogli un altro se vi fosse molta gente, rispose di sì.» (Diogene Laerzio, o.c.)
«I mali di cui soffre l’umanità possono facilmente essere raggruppati in un solo ordine: gli uomini
sono malati di non saper vivere liberi, di non conoscere le delizie dell’autonomia,
dell’autosufficienza, della piena potestà su se stessi.» (Onfray M. Cinismo, Principi per un’etica
ludica, Rizzoli, Milano 1992)
«…ciò per cui un essere umano deve davvero provar pudore non può essere stabilito in alcun modo
mediante convenzioni sociali, tanto più che la società stessa sembra basata su perversioni e
irragionevolezze di ogni genere. Il cinico, dunque, prende allegramente congedo dall’incarnita
tutela del comune senso del pudore, con relativi comandamenti. Infatti, i costumi morali — pudiche
convenzioni incluse — potrebbero poi in realtà rivelarsi assurdi o perversi; e allora: solo un
controllo ispirato ai principi della natura e della ragione potrà fornire basi sicure. L’animale politico
rompe con la politica del pudendum. Mostra come gli esseri umani, di norma, provino pudore per le
cose sbagliate, per la loro physis, per il loro lato animale, che è innocuo, mentre restano intatti
comportamenti irragionevoli e orribili come l’avidità, l’ingiustizia, la crudeltà, la vanità, la
prevenzione e la cieca follia. Diogene rovescia questa prospettiva.» (Sloterdijk o.c. p.137)
4.1.4.1. il mantello «Antistene era soprannominato il puro Cane o il Cinico schietto. Come afferma
Diocle, fu il primo a rendere due volte tanto il mantello e ad usare soltanto questo indumento e a
portare un bastone e una bisaccia. Anche Neante conferma che fu il primo a raddoppiare il
mantello. Invece Sosicrate nel terzo libri, delle Successioni dei filosofi afferma che il primo fu
Diodoro di Aspendo, che pure si lasciò crescere la ha barba e usava bisaccia e bastone.» (Diogene
Laerzio o.c.) «Secondo alcuni, (Diogene) fu il primo a raddoppiare il mantello per la necessità
anche di dormirci dentro, e portava una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie; si serviva
indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far colazione, per dormirci, per conversare»
(ivi)
«Tutto quello che possiedono, i cinici se lo portano addosso. Per Diogene e i suoi vuol dire: un
mantello parapioggia, buono per ogni stagione, un bastone, uno zaino contenente i pochi averi (fra
cui forse uno stuzzicadenti), un pezzo di pomice per le pulizie personali, una borraccia di legno, i
piedi calzeranno semplici sandali.» Peter Sloterdijk Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano
1992 p. 122
4.1.4.2. il cibo «Una volta (Diogene) vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via
dalla bisaccia la ciotola, dicendo: “Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità”. Buttò via anche
il catino, perché pure vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un
pezzo di pane.»
4.2. la violenza pacifica (e provocatoria) dello smascheramento e della resistenza. Violenza
contro la violenza del potere, dell’ignoranza, delle superstizioni, delle paure, delle abitudini, delle
opinioni …
Può essere utile la riflessione espressa da Baudrillard: «Possiamo distinguere una forma primaria di
violenza: quella dell’aggressione, dell’oppressione, dello stupro, del rapporto di forza,
dell’umiliazione, della spoliazione - la violenza unilaterale del più forte. A questa si può rispondere
con una violenza contraria: violenza storica, violenza critica, violenza del negativo. Violenza di
rottura, di trasgressione (a cui si possono aggiungere la violenza dell’analisi, la violenza
dell’interpretazione, la violenza del senso). Queste sono tutte forme di violenza determinata, con
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una origine ed una fine, le cui cause ed effetti possono essere individuati, e che corrisponde ad una
trascendenza, sia quella del potere, della storia o del senso.» Baudrillard Jean L’agonia del potere,
Mimesis, Milano 2008 p.37
«Filosofo, ribelle e disobbediente, anche se convinto del carattere disperato del suo compito, ha il
dovere di incarnare la resistenza di fronte al Leviatano e ai suoi servitori. In politica dev’essere
empio e ateo. Diogene praticava queste virtù con efficacia. Non riconosceva legittime le gerarchie
che tentavano di opporglisi. Un padrone, un imperatore, un capo, o chiunque mirasse ad altro potere
che su se stesso, gli era antipatico — e Diogene lo diceva apertamente, senza odio ma anche senza
compiacenza.» (Onfray, o.c.)
«Diogene mostra di essere il primo sapiente abbastanza libero da dire al Principe la verità. La
risposta sfrontata rappresenta qui un negarsi non solo alla brama, e all’illusorietà di entrambi.
Potremmo, nella vicenda, congetturare la cifra di una teoria dei bisogni sociali. L’uomo socializzato
ha perduto la sua libertà dacchè i suoi educatori sono riusciti ad implementargli dentro desideri,
progetti e ambizioni. … Diogene fa la sua comparsa durante l’epoca della decadenza politica
ateniese contrassegnando la vigilia dell’avvento macedone e l’incipiente età ellenistica. Il vecchio,
ristretto ethos patriottico della città-stato va scomparendo, si allentano in tal modo i legami tra il
singolo e la propria comunità. Ciò che prima sembrava essere l’unica sede per una vita dotata di
senso mostra ora l’altra sua faccia. Adesso la città diviene crogiolo di costumi assurdi, vuoto
dispositivo politico il cui funzionamento può essere ora osservato come dal di fuori. Chi non è
sordo sente scoccare l’ora di una nuova concezione della morale e dell’uomo; non si può più essere
cittadini coi paraocchi membri casuali di una casuale comunità urbana; bisogna concepirsi come
individui in un cosmo più ampio. … Per Diogene tutto questo significa: «Interrogato sulla sua
patria rispose: “Io sono un cittadino del mondo!”(D.L., VI, 63) … Il sapiente dimostra di poter
vivere letteralmente ovunque, giacché egli concorda ovunque con sé e con le “leggi della natura”.»
(Sloterdijk, o.c. p.127, 130, 132)
4.3. vivere “al meno” condizione di libertà, di felicità e di pensiero: enunciati e aspetti
«Il cinismo filosofico propone una gaia scienza insolente e una efficace saggezza pratica: «Dietro la
causticità di Diogene, dietro la sua volontà di scandalizzare, percepiamo un atteggiamento filosofico
serio, quanto poteva esserlo quello di Socrate. Se si è impegnato a far cadere a una a una le
maschere della vita civile, e a opporre abitudini “da cane” all’ipocrisia generale, è perché pensava
di poter proporre agli uomini una via per la felicità» Diogene si fa dunque medico della civiltà,
quando il malessere trabocca dal vaso e riempie la vita quotidiana. … Diogene è uno degli
sperimentatori di nuove forme di vita. Ci dobbiamo allora stupire se troviamo l’uomo di Sinope che
esce da un teatro a marcia indietro, e risponde, a chi si mostra infastidito da tale comportamento
contrario alle abitudini, «È quel che cerco di fare in tutta la vita »? (Onfray M. Cinismo, Principi
per un’etica ludica, Rizzoli, Milano 1992)
4.3.1. il pensiero «Gli (Antistene) fu chiesto qual vantaggio avesse tratto dalla filosofia ed egli
rispose: “Il poter parlare con me stesso”»
4.3.2. il fato «Alla domanda su quale profitto gli avrebbe portato la filosofia, egli rispose che —
seppur non gliene avesse portato alcun altro — ne ebbe almeno questo: l’esser pronto a qualsiasi
vicenda del destino» (Diogene Laerzio VI, 63).»
4.3.3. il piacere e la felicità «Questa rappresentazione è comune a tutte le scuole filosofiche: l’uomo
è infelice perché è schiavo delle passioni, ossia perché desidera cose che gli possono sfuggire,
poiché gli sono esterne, estranee, superflue. La felicità consiste dunque nell’indipendenza, nella
libertà, nell’autonomia, vale a dire nel ritorno all’essenziale, a ciò che è veramente «noi stessi» e a
ciò che dipende da noi.» (Hadot, o.c. p.59) Come era solito ripetere Diogene: «divino è non
abbisognare di nulla, prossimo al divino l’aver sol di poco necessità» (Diogene Laerzio)
«Il principio di piacere funziona, per i sapienti come per le persone normali, al medesimo modo, e
tuttavia per i primi non nel senso di trarre piacere dal possesso degli oggetti, ma — al contrario —
in quello di comprenderne la superfluità: rimanendo in tal modo nel continuum di una contentezza
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vitale. In Diogene questa piramide di piacere è evidente: in essa una forma inferiore di piacere viene
abbandonata solo a favore di una più alta.» (Sloterdijk o.c. p.134)
4.3.4. la morte. «Gli (Antistene) fu chiesto quale fosse la suprema beatitudine per un uomo ed egli
rispose: “Morire felice”.»
5. Appendice. In forma di confronto e di bilancio per definire le tesi etiche a partire dalle
sue radici (e come conclusione all’etica della cultura greco – latina)
5.1. la base: si assume come presupposto la tesi che il sentire etico trova la propria radice, la propria
definizione teorica e funzione pratica a partire dal modo con cui ci si rapporta al proprio corpo e alla
propria morte.
5.2. le posizioni: la cultura greco – latina mette di fronte a tre posizioni, filosoficamente (e con
sintesi di semplificazione) così richiamabili:
5.2.1. dualismo anima corpo (spirito – materia). È la nota tradizione filosofica (secondo la
tradizione storiografica) che caratterizza le posizioni di Pitagora, Socrate (?), Platone… Il corpo è
carcere, zavorra, strumento dell’anima, vera realtà dell’uomo; in tale ambito prendono corpo i temi
della trasmigrazione, liberazione, immortalità dell’anima in uscita dal corpo.
5.2.2. composizione e sinolo: anima è forma del corpo. La tesi si fonda sui concetti metafisici di
forma e materia, atto e potenza espressi dalla metafisica di Aristotele. Ne consegue che al
dissolversi del corpo, nella morte, la stessa anima si dissolve in quando cessa la propria essenza di
principio delle funzioni proprie e necessarie del vivente.
5.2.3. unicità e omogeneità della natura in relazione ad un unico principio. Non è dunque possibile
distinguere anima e corpo come due sostanze o come espressione di due diverse realtà (tra loro
difficilmente conciliabili) o due diversi principi metafisici e fisici. Si tratta delle posizioni di
Epicuro che pone atomi e vuoto a principi materiali della realtà, degli Stoici che presentano l’intera
realtà come manifestazione, razionale e provvida, del Logos, principio unico, dei Cinici che nel
proposito di smascherare le convenzioni e le costruzioni razionali che condannano l’uomo alla
paura e quindi alla schiavitù attaccano le posizioni ufficiali e in particolare l’insostenibile
distinzione tra dei, uomini, animali. In questa tradizione (come in quella espressa da Aristotele)
prende forma l’invito e l’imperativo ad aprirsi eticamente, in modo attivo e sereno, alla dolce
mortalità della vita; la coincidenza e l’incontro tra bene, virtù, felicità, piacere è possibile solo se si
abbandona ogni forma di dualismo metafisico tra anima e corpo, ogni desiderio di immortalità.
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