Relazione ottobre - Fondazione Diritti Genetici

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Workshop biomedicina – test genetici
TEST GENETICI: COSA HA DA DIRE LA SCIENZA?
di Sabina Morandi
Chairwoman
Giornalista scientifico
Coordinamento scientifico Consiglio dei Diritti Genetici (CDG)
Come sa la maggior parte dei presenti, per test genetico s’intende l’analisi a scopo clinico di
DNA, RNA, cromosomi, proteine, metaboliti o altri prodotti genici, condotta allo scopo di individuare
mutazioni correlate con patologie ereditabili o genotipi particolari correlati con eventuali predisposizioni.
In sostanza i test genetici sono gli “attrezzi del mestiere” della genetica applicata. Senza bisturi non si
opera, senza test genetici non c’è diagnostica prenatale né bio-medicina del lavoro – con la quale si
dovrebbero individuare i genomi più adatti a un dato tipo di occupazione – né la diagnosi pre-impianto
balzata agli onori della cronaca con l’acceso dibattito sulla fecondazione assistita. Uno strumento di
largo impiego, dunque, ma quanto affidabile?
Negli anni Ottanta, quando furono scoperte le tecniche di ricombinazione del Dna, sembrarono
aprirsi prospettive diagnostiche e terapeutiche praticamente infinite. Una volta individuati i singoli geni,
si disse, sapremo tutto delle malattie, e quando avremo imparato a correggere le mutazioni
indesiderate, avremo la cura per ogni male.
Nel corso degli anni questa speranza si è alquanto ridimensionata e davanti ai ricercatori si
sono aperti scenari ben più complessi. Poi, quando nella primavera del 2001 è stato completato il
progetto di mappatura del genoma umano, anche i più accesi sostenitori del determinismo genetico si
sono dovuti ricredere. Il libro della vita, “il manuale d’istruzioni di ognuno di noi” come l’aveva
battezzato Francis Collins, direttore del National Human Genome Research Institute di Bethesda e
padrino della mappatura, era molto diverso da come i ricercatori l’avevano immaginato. Collins si
affrettò a dichiarare che «l’uomo non è un robot controllato dal suo DNA» mentre Craig Venter,
fondatore della Celera, controparte privata del Progetto genoma, disse «non abbiamo geni a sufficienza
per supportare l’idea del determinismo genetico, l’idea cioè che l’uomo sia solo il prodotto dei propri
geni». Improvvisamente il modello della “mappa” e del “codice” sembrò insufficiente anche per fare luce
sul meccanismo delle più semplici patologie ereditarie – quelle malattie monogeniche su cui si era
concentrata l’attenzione degli specialisti. Il clamoroso fallimento di alcuni esperimenti di terapia genica
condotti negli Stati Uniti hanno finito col dare ragione ai critici: i modelli semplicistici non rendono conto
della complessità del vivente. Di conseguenza, gli strumenti della genetica basati su tali modelli, sono
scarsamente affidabili. Se si dispone soltanto di un bisturi poco affilato, forse è meglio tornare a
studiare.
A questo punto, secondo il paradigma che la comunità scientifica condivide, ci si sarebbe
aspettati un cambiamento di rotta. Se buona parte degli scienziati che fanno ricerca di base non
considerano più il modello determinista basato sui geni una rappresentazione adeguata della realtà, la
medicina “genomica” – l’idea cioè che la maggior parte delle patologie siano in qualche modo connesse
con i geni – dovrebbe venire messa seriamente in discussione. Invece, negli ultimi tre anni, la
“genetichizzazione” della medicina non si è affatto arrestata. Al contrario, la trasformazione è in pieno
corso anche se si basa sostanzialmente su di un singolo prodotto: i kit per il rapido sequenziamento del
Dna volti a individuare determinati geni.
E’ sugli screening genetici che si basa ad esempio il progetto di riforma del Sistema sanitario
britannico presentato al Parlamento nel luglio del 2003 dall’attuale ministro della Sanità, riforma con la
quale ci si propone di «Realizzare il potenziale della genetica» nel sistema sanitario nazionale
attraverso uno screening dell’intera popolazione. Sulla base di una “vecchia genetica” che sembra
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ignorare gli ultimi sviluppi – dalle ricerche sul genoma fluido alla proteomica - ci si propone di testare la
popolazione per individuare predisposizioni a particolari malattie al fine di attrezzare i presidi medici a
dispensare farmaci confezionati su misura dalla farmacogenomica o terapie geniche di là da venire.
La Gran Bretagna non è un caso isolato. Anche la Commissione Europea continua a
considerare la rivoluzione genetica a portata di mano, e il fatto che «i test genetici diverranno presto
parte dei sistemi sanitari» è presentato come un assioma nella prefazione del rapporto prodotto nel
maggio 2004 dal Gruppo di esperti cui è stato affidato il compito di ragionare sugli aspetti etici, legali e
sociali dei test genetici. Peccato che non si sia pensato di indagare anche sulle premesse scientifiche
della medicina genomica che sono presentate, appunto, come acquisite. Genetica e biotecnologie per
la salute sono infatti premiate con ampi finanziamenti, come previsto dal Sesto programma quadro per
la ricerca comunitaria. Del resto l’indagine sugli aspetti legali o sociali della diffusione dei test, che dà
origine a 25 raccomandazioni ufficiali, arriva in ritardo rispetto all’enorme diffusione dei test, a opera
soprattutto del privato. Una diffusione che è stata rapidissima nel nostro paese, balzato al primo posto
fra i paesi europei per numero di laboratori specializzati, come segnalato dalla Società Italiana di
Genetica Umana già nel ’97.
A questo punto già sorgono spontanee alcune domande. Sono attualmente in circolazione dei
test che servono per individuare una vasta gamma di malattie (alcune rare, alcune incurabili) il cui
livello di predittività non è ancora stato accertato. Chi deve accertarlo? E, soprattutto, quando?, visto
che, secondo la Commissione Europea, sarà proprio su questi test che si baserà «l’assistenza sanitaria
del prossimo futuro»?
Di fatto, nel documento prodotto dal Gruppo di esperti sui test genetici incaricati dalla
Commissione Europea, l’imbarazzo traspare. Nel capitolo dedicato alla ricerca e allo sviluppo, dove si
sottolinea l’importanza di una revisione indipendente per ogni nuovo test prima dell’impiego clinico, si
legge una frase che stranamente non compare nella sintesi in italiano delle raccomandazioni. Vale la
pena citarla per intero: «Alcuni dei test genetici di uso clinico quotidiano – scrivono gli esperti possono non essere stati sottoposti a un’appropriata procedura di valutazione durante il loro
sviluppo o possono non essere stati oggetto di una revisione indipendente prima del loro impiego
clinico. E’ estremamente importante che tali test, sia kit commerciali che sviluppati in casa (da istituti di
ricerca pubblici), siano revisionati da appropriati organi che devono determinare se siano adatti alla loro
applicazione clinica».
Va sottolineato che, su 126 pagine, questo è l’unico passaggio in cui viene affrontato il
problema della validazione dei test. Non è però dato sapere quali o quanti dei test attualmente in
commercio non sono stati appropriatamente valutati né revisionati. Insomma, è come se la
Commissione unica del farmaco o la Food and Drugs Administration, ci informassero che non tutti i
farmaci venduti al dettaglio o distribuiti dal sistema sanitario sono stati sottoposti ai trials di
sperimentazione. Un’ammissione in questo caso ancora più grave visto che gli esperti non chiedono né
di bloccarne la vendita né di informare i pazienti su quali siano i prodotti “meno affidabili”. Ma perchè
ciò che è a stento concepibile per i farmaci è considerato accettabile per i test genetici dai massimi
esperti europei? Possibile che un test venga commercializzato e impiegato su larga scala, e che le
persone basino sui suoi risultati scelte riproduttive o di vita, senza che la sua affidabilità, il suo valore
predittivo, sia stato sottoposto a una revisione indipendente? Ed è possibile che siano queste le
fondamenta sulle quali si vuole edificare la “nuova sanità pubblica”?
Il problema è che, anche se le tecniche del Dna ricombinante possono essere estremamente
efficienti e rapide nell’isolare un gene, per dimostrare che la mutazione di quel gene è davvero
associata con una data malattia è necessario un riscontro epidemiologico basato sui grandi numeri e
sui tempi lunghi. Oggi la verifica viene invece viene fatta dopo che il prodotto è già largamente diffuso.
Un caso esemplare è quello del primo test genetico messo in commercio. Negli Stati Uniti il test
per individuare la predisposizione al tumore mammario è in commercio da otto anni, da quando cioè
sono stati isolati due geni (Brca1 e Brca2) coinvolti nel complesso meccanismo di riparazione e
prevenzione della crescita incontrollata delle cellule. Fin dall’inizio si era capito che la connessione fra
la mutazione dei due geni e l’insorgere del tumore non era diretta, come fu subito chiaro che non era
presente in tutti i tumori mammari. Però, il kit per individuare eventuali mutazioni in Brca1 o Brca2 è
stato venduto come il “test per vedere se ti verrà il cancro al seno”, formula che ovviamente ne ha
determinato il successo commerciale e che ha spinto decine di migliaia di donne a sottoporsi alla
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mastectomia preventiva. Le verifiche e i riscontri hanno in seguito dimostrato che il coinvolgimento dei
due geni nell’insorgenza dei tumori mammari è l’eccezione, non la regola. Oggi, secondo i dati forniti
dal Center for Disease Control di Atlanta, solo «fra il 5 e il 10 per cento delle donne cui è stato
diagnosticato un tumore mammario od ovarico presentavano una mutazione ereditaria nei geni Brca1 o
Brca2». Questo significa che per il 90-95 per cento delle donne il risultato di questo test è
semplicemente privo di senso. L’ondata di ritorno, che ha trasformato l’epidemia di mastectomie in
un’epidemia d’azioni legali, ha colpito duramente l’organismo di controllo statunitense – la Fda – e i
medici che hanno ceduto alle lusinghe dei promotori farmaceutici.
Ricapitoliamo. Non si è del tutto certi che i test riescano a fare previsioni significative. Alcuni tipi
di test – quelli relativi a condizioni patologiche causate dalla mutazione deleteria di un singolo gene, ad
esempio – sono affidabili; altri – il test del “cancro al seno” o quelli che cercano di isolare il “gene della
schizofrenia” o della depressione – non lo sono affatto. Allora perché i decisori politici nazionali ed
europei hanno deciso di fare degli screening genetici la spina dorsale della nuova sanità? Come si può
pianificare una svolta epocale su basi scientificamente così discutibili?
Si dirà che raramente scienza e medicina hanno il lusso di muoversi nella certezza. E’ vero, ma
ci sono cose un po’ più certe di altre. Gli effetti di alcuni dei carcinogeni chimici attualmente in
circolazione, ad esempio, sono chiarissimi, eppure si preferisce puntare sulla remota possibilità di
intervenire sui geni per renderci in qualche modo immuni piuttosto che premere per un progressiva
riduzione di tali sostanze che sono responsabili, oltre che di quella che viene definita l’epidemia di
cancro, anche dei danni al sistema immunitario, endocrino e respiratorio. Al contrario, mentre la
genomica viene premiata, le reti di controllo e di prevenzione, così come i registri centralizzati per la
raccolta dei dati sulle patologie, vengono smantellati. Al di là di ogni evidenza scientifica si è deciso che
la malattia è una questione che riguarda prevalentemente la “Nostra eredità e i nostri geni”, per citare il
titolo del progetto di riforma britannico, e si lavora per rendere duratura questa rivoluzione concettuale,
cementandola nei programmi sanitari a venire.
Da questo punto di vista, i suggerimenti del gruppo di esperti della Commissione europea, fra i
quali, oltre ai rappresentanti di note case farmaceutiche, compaiono anche grandi nomi della ricerca
internazionale, suonano davvero inadeguati. Possibile che i ricercatori accettino di ratificare
passivamente decisioni già prese dal mercato? Possibile che un nuovo settore di ricerca foriero di
grandi possibilità, come quello della genetica, decida di abdicare a una delle leggi scientifiche
fondamentali, ovvero la validazione dei risultati, e accetti invece di diventare uno strumento per
trasformare la malattia in una questione privata e la cura in un’occasione per pochi?
La discriminazione genetica, difficilmente evitabile con una diffusione su larga scala dei test, in
realtà è soltanto la punta dell’iceberg. La catastrofe vera è lo smantellamento di una medicina basata
sull’evidenza e pensata per curare il più largo numero di persone possibile. Perché ciò che veramente
manca e che, anche a un attento esame, non si riesce a ritrovare nella sterminata mole di lavori
dedicati all’argomento, è proprio la buona vecchia scienza. Quella basata sulle prove, sui dati, sui
riscontri e sulla statistica. Il Consiglio dei Diritti Genetici si propone di supplire a questa mancanza
creando uno spazio di incontro e di discussione per i ricercatori che ancora hanno fiducia nel buon
vecchio metodo scientifico. Non si chiede loro di condividere impostazioni ideologiche o etiche ma di
utilizzare questo spazio per rispondere a semplici domande che chiamano in gioco le loro capacità e la
loro formazione. Come, nel caso specifico: qual è l’affidabilità dei test genetici? In che misura le
previsioni sono esatte? E, dal punto di vista clinico: in quanti e quali casi è utile disporre di previsioni
sul funzionamento dei geni? Domande che gli organismi di controllo nazionali ed europei
evidentemente non osano – o non vogliono – nemmeno prendere in considerazione.
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