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Estratto dal testo critico di Luca Beatrice
Il valore trasgressivo dell’arte moderna è ormai finito. In effetti si può sostenere che l’arte moderna sia la cultura ufficiale
delle nazioni occidentali. Quei caratteri provocatori, di critica sociale, opposizione politica, radicalismo estetico e
intransigenza, un tempo propri di certe avanguardie artistiche sono stati oggi rilevati da alcuni dei giovani musicisti che
operano nel campo della musica pop o rock.
John A. Walker, 1987
Fino alla definitiva affermazione del pop, il rapporto tra l’arte e la musica si giocava sostanzialmente sul piano
dell’avanguardia. Alla musica colta, alla ricerca sonora, corrispondevano infatti quelle forme d’arte non realistica, dalla
pittura astratta al concettuale, ivi comprese azioni, comportamenti e happening. Se nei primi decenni del ‘900 si sono
sottolineate esperienze come la reciproca influenza tra la pittura di Kandinski e le composizioni di Schoenberg, negli
anni ’50 la figura di John Cage ha riassunto l’atteggiamento tipico del compositore d’avanguardia, che è allo stesso
tempo artista concettuale e performer. Cage e la sua esperienza al Black Mountain College, formativa per diverse
generazioni di musicisti e di artisti, ha dato il via a quell’atteggiamento elitario che ritroveremo spesso studiando le
connessioni tra le diverse discipline. Più il messaggio è oscuro, meno immediato insomma, più guadagna il diritto di
cittadinanza nel cosiddetto contesto artistico. Alcune opere addirittura, le composizioni di Cage insieme ad altre
sperimentazioni minimaliste derivate, il cinema di Andy Warhol, devono la loro fortuna critica al trovarsi sul filo
dell’invisibilità. Spesso sono cose di cui si parla, che tutti conoscono, ma che nessuno ha mai visto né ascoltato.
Operazioni fondamentali per la cultura, certamente, ma con scarsissima penetrazione all’esterno, nella vita reale.
Ecco perché quella del pop assomiglia a una vera e propria rivoluzione. Delle immagini, dei suoni, dei costumi. Ma
soprattutto è la ridiscussione, se non addirittura il sovvertimento, delle vecchie gerarchie. Con il pop si capisce
finalmente che la sfida da giocarsi è su un territorio ben più esteso, che coinvolge molteplici strati del sociale, saltando
del tutto la divisione in classi. Se non è democrazia questa? Ciò che non può fare un’opera riesce invece a una
canzone.
Il 1967 è l’anno di svolta, e forse non poteva essere diversamente. Manca poco all’appuntamento epocale del 1968, e
l’affermazione che la musica abbia anticipato, o perlomeno intuito, quei frammenti di rivolta estetica ed etica può
apparire azzardato, ma non del tutto. Sia come sia nel 1967, a Londra, New York e Roma, escono in contemporanea tre
album le cui copertine d’artista acquisiranno un significato particolare. I Beatles, giunti all’apice del loro successo e
altresì desiderosi di cambiare, di mettere in crisi lo schema-canzone pop, affidano a Peter Blake la copertina del loro
nuovo album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, psichedelico, orientaleggiante, acido, assai meno orecchiabile e
immediato dei precedenti. La scelta non fu affatto casuale, in quanto Blake rappresentava alla perfezione quella
tipologia d’artista sedotto dalla cultura popolare pur mantenendo un alto grado di criticità sconosciuto in America. Girls
with their Hero (1959-’62) fu forse il primo dipinto dedicato a una pop star, un Elvis Presley oggetto di devozione da
parte delle sue fans. Già in Self-Portrait with Badges (1961) Blake si autorappresenta in jeans, spilla e fanzine di Elvis, e
in altri lavori dell’epoca cita –utilizzando materiale trovato sui magazine specializzati- Bo Diddley, gli Everly Brothers, i
Beach Boys.
Tra le svariate attività della Factory di Andy Warhol –realizzare opere, girare film, editare una rivista, creare starlett- c’è
anche quella di produrre un gruppo musicale. La filosofia di Warhol la conoscono tutti: elaborare una strategia di
“espansione a tutto campo” al fine di far coincidere qualità con popolarità, essere un oggetto di culto ma non per questo
appannaggio di pochi. Scommessa vinta, non c’è dubbio! I Velvet Underground diventano una costola del progetto
warholiano che comprende la realizzazione di un disco –il famoso album con la banana illustrato da Warhol stesso- un
film di settanta minuti Velvet Underground and Nico (1966), uno spettacolo multimediale –Exploding Plastic
Inevitabileinstallato
al The Dom, un edificio abbandonato alla periferia di Manhattan. Un mix formidabile di crudo realismo e di
suoni allucinati, l’EPI determinerà una maniera di fare concerti come performance che si protrae fino ai giorni nostri. I
rapporti tra Warhol, Lou Reed e John Cale proseguiranno a fasi alterne negli anni, senza mai interrompersi del tutto –i
due si rimettono insieme per un solo disco Songs for Drella (1990) in omaggio al loro mentore scomparso. Come in
Blake, l’interesse per il mondo della musica in Warhol è comunque precedente all’esperienza Velvet. Alla fine degli anni
’50 aveva infatti disegnato copertine di dischi jazz per Kenny Burrell e Count Basie. E allo stesso modo sia l’inglese sia
l’americano avranno altre collaborazioni significative (Blake con gli Who e per la raccolta natalizia Do you know it’s
Christmas?, Warhol con i Rolling Stones –l’immortale Sticky Finger e il doppio Love you Live, Aretha Franklyn, Paul
Anka, John Lennon…).
Anche l’Italia ha la sua popstar, e siamo sempre nel 1967. Potrebbe apparire un episodio marginale nella storia del rock,
ma non è così, anzi quello di Mario Schifano è un giocare in largo anticipo sui tempi di artisti a 360 gradi con aspirazione
all’opera d’arte totale che oggi vanno molto di moda. Il disco da lui realizzato –suonato, prodotto, illustrato- con il nome
Le Stelle di Mario Schifano, dal titolo Dedicato a…, è un oggetto di culto la cui prima edizione è pressoché introvabile,
un lavoro di difficile decifrazione sulla scia delle prime esperienze di rock-prog-jazz, che riporta sulla copertina un lavoro
della coeva serie pittorica Tutte stelle. Un album capace di trascinare la sua influenza fino al presente, non tanto per il
suono quanto per il significato, citato alla lettera dal gruppo emiliano Julie’s Haircut nella copertina del disco Stars Never
Looked so Bright (2001).
In seguito al successo planetario di Sgt. Pepper’s e dell’artwork di Blake, una fantasmagoria visiva su cui si sono
scatenate le più assurde interpretazioni –ad esempio il fatto che Paul McCartney fosse misteriosamente scomparso e
che quello rappresentato fosse in realtà un sosia- i Beatles ci prendono gusto e decidono di affidarsi ancora una volta a
un artista per la confezione dell’album successivo. Tra i protagonisti della scena londinese, i quattro di Liverpool
scelgono Richard Hamilton, già animatore del “pop criticism” ai tempi dell’ICA, promotore della grande mostra This is
Tomorrow alla Whitechapel (1956). Mentre l’immagine di Sgt. Pepper’s doveva veicolare la fase psichedelica dei
Beatles, il nuovo disco doppio, che esce nel 1968, punta in una direzione decisamente più concettuale. Soprattutto a
McCartney interessa un ulteriore salto qualitativo del gruppo e per questa ragione opta per il progetto più estremo di
Hamilton, una copertina interamente bianca –“così elusiva ed austera da collocarsi nel contesto delle composizioni
artistiche più elitarie” (Richard Hamilton)- con il logo “The Beatles” in rilievo. Quello che tutti chiamano “White Album” è
in realtà un “Untitled”. Dato di cronaca, il trait d’union tra i Beatles e Hamilton fu Robert Fraser, gallerista e art-director
amico delle pop star inglesi, già immortalato nella famosa serie di serigrafie Swingeing London ’67 in manette insieme a
Mick Jagger (con l’accusa di detenzione di droga), tratte da una foto d’agenzia che fece il giro del mondo.
Dal pop in avanti, il rapporto tra l’arte visiva e la musica cambia radicalmente. Ora il territorio di sperimentazione è
soprattutto la cultura popolare, conseguenza che investe media e comunicazione. Eppure persiste, sottotraccia,
quell’atteggiamento d’avanguardia per cui la ricerca pura deve sfuggire alle regole di mercato e non può prestarsi a
eccessive concessioni divulgative. Gli ultimi avamposti di modernismo vanno rintracciati nelle cosiddette neoavanguardie
situazionistiche o Fluxus che sembrano marciare in una strada parallela rispetto al pop. Mondi in
apparenza distanti, in realtà neppure troppo se si pensa all’incontro intellettual-professionale e alla storia d’amore tra
John Lennon e Yoko Ono, lui la popstar più famosa del mondo, lei allieva di Cage, amica di Warhol, attiva con Fluxus da
metà anni ’60. I due si conobbero nel 1966, a Londra, all’inaugurazione di una mostra d’arte contemporanea. Molti fans
dei Beatles sostengono che sia stata proprio Yoko Ono, con il suo elitarismo culturale e la sua snobberia, ad aver
accelerato lo scioglimento del gruppo. Più semplicemente entrambi si diedero l’uno l’altro ciò di cui avevano bisogno. A
John arrivò una consapevolezza diversa, quella di non essere soltanto un musicista pop, quella di poter sviluppare la
propria personalità oltre i Beatles, a Yoko una popolarità insperata, l’ingresso dalla porta principale dello star-system. Se
è improbabile che un divo del rock sia allo stesso tempo un artista concettuale, lo è altrettanto che un artista si trovi ogni
giorno su rotocalchi o giornali di gossip. Insieme pubblicarono gli album Two Virgins (1968) The Plastic Ono Band. Live
Peace in Toronto (1969). E’ di John la foto in copertina dell’album solista di Yoko Fly (1971, collage all’interno di George
Maciunas) ed è di Yoko la foto di John pubblicata sull’LP Imagine (1971), quando i Beatles già si erano sciolti. Yoko
diventò una popstar, mentre John acquisì sensibilità verso l’arte concettuale, l’erotismo (la serie di disegni Bag One), il
femminismo e il pacifismo. Insieme esposero nelle gallerie e girarono film concettuali in super 8. Dopo la tragica morte di
Lennon, Yoko Ono continua a mantenere la stessa credibilità di un tempo nel giro di mostre e musei, ma quando vuole il
bagno di folla deve ricorrere all’evergreen per eccellenza, Imagine.
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