Intervista a Fejto sulla fine dell`Impero asburgico

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INTERVISTA A FRANCOIS FEJTO A CURA DI ANNA TAGLIAVINI
Francois Fejto, 80 anni, ungherese di nascita ed esule in Francia fin dal 1938, ex ebreo, ex cattolico ed ex comunista,
scrivendo il suo Requiem per l'Impero austro-ungarico non ha fatto un'operazione nostalgica. Tutt'altro. «Una chiave
per leggere il futuro» scrive Sergio Romano nell'introduzione alla edizione italiana. La guerra, o meglio la sua
conclusione, fino al Trattato di Versailles, è stata voluta proprio per smembrare l'Impero creando degli stati «letterari».
Il Trattato pone perciò le premesse per l'irreversibile declino dell'Europa come potenza: nazioni create a tavolino non più «sovranazionali, come l'Impero, ma «multinazionali», dove i popoli più diversi venivano costretti a vivere
un'integrazione artificiale — sarebbero state fatalmente condannate alla debolezza e alla sottomissione dalle superpotenze:
è il destino dell'Ungheria, della Cecoslovacchia, della Jugoslavia. «Ecco, pensi alla Jugoslavia» spiega Fejto al Sabato,
«Quello che sta succedendo oggi è la dimostrazione che non esiste una nazione jugoslava, e non si è mai formata, in tutti
questi anni. Esistono i croati e i serbi, gli albanesi, gli sloveni, i macedoni e così via. Allora, perché si sono creati questi
Stati artificiali? Perché in questo modo erano necessariamente deboli, privi com'erano di un'identità unitaria, e quindi
maggiormente esposti all'influenza delle grandi potenze».
La Prima guerra mondiale è quindi una «guerra ideologica»?
Non subito. La guerra inizia in modo classico, il conflitto inizia per le solite ragioni, motivi di ambizione, di rivalità. Una
guerra del cui scatenarsi un po' tutti furono responsabili: i sovietici con le loro ambizioni balcaniche, i francesi con il
loro revanchismo e le mire sull'Alsazia-Lorena, gli inglesi che, volendo ribadire la loro supremazia sul mare, tentavano
di impedire le mire espansionistiche della Germania, i tedeschi stessi che cercavano appunto il loro «spazio vitale»,
eccetera. In queste circostanze, con una comunità internazionale ben lontana dall'avere mezzi e influenza bastanti a
tentare di risolvere pacificamente i contrasti, la guerra era inevitabile. Era all'epoca il solo mezzo di risolvere questo
genere di contrasti. Poi però il conflitto è andato radicalizzandosi. Era iniziata come una piccola guerra, che avrebbe
dovuto risolversi nel giro di qualche settimana, pochi mesi al massimo. Invece, assumendo le proporzioni che
conosciamo, il lato «ideologico» è divenuto sempre più importante, fino ad essere preponderante.
Questa svolta ideologica, è da imputare alla massoneria europea contro l'impero cattolico degli Asburgo?
Il ruolo della massoneria internazionale, soprattutto di quella francese, non si può considerare secondario. Come ho già
detto in altre occasioni, la determinazione francese a distruggere l'Austria-Ungheria era in qualche modo la conseguenza
della guerra «franco-francese», cioè del conflitto, che risale alla Rivoluzione francese, tra radicali e conservatori, tra
clericali e anticlericali. E di questi ultimi, l'avanguardia più organizzata era appunto la massoneria francese. Una
massoneria che, più o meno come quella italiana, si distingueva proprio per l'estremo anticlericalismo. La Santa Sede
era il nemico principale, immediatamente seguita dai regnanti spagnoli e austro-ungarici, le due grandi monarchie
cattoliche d'Europa. Additate come fiancheggiatrici del peggior clericalismo.
E la Società delle Nazioni, da cui è nato l'Onu, si può in qualche modo considerare l'esito degli ideali massonici?
Sicuramente.
Molte
Logge,
in
particolare
quelle
anglosassoni,
avevano
tra
i
loro
ideali
quello
dell'autodeterminazione dei popoli, che è una delle idee-base della Società delle Nazioni. La stessa Società aveva tra i
suoi più attivi promotori e sostenitori una larga parte della massoneria.
Si tratta di idee che oggi conoscono un successo universale...
Ah, indubbiamente. Oggi il tema dominante, in materia di politica internazionale, è proprio questo dell'integrazione,
della «casa comune». L'integrazione dei popoli, la riconciliazione tra Francia e Germania, la stessa unità tra le due
Germanie... Ma soprattutto l'integrazione europea, in tutte le sue sfumature che vanno, diciamo, dalla posizione
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dell'Inghilterra a quella del Belgio, è in un certo senso l'altra faccia della medaglia. Parte dallo stesso concetto che
all'epoca della Prima guerra mondiale portò i politici a trarre conseguenze disastrose per il destino del continente:
l'umiliazione della Germania, la distruzione dell'Austria-Ungheria. Lo stesso progetto che oggi invece porta
all'opposto, all'integrazione: un progetto che fino a pochissimi anni fa guardava a quello che accade oggi all'Est come
un sogno irrealizzabile.
Che cosa ha visto di tanto eccezionale, nella caduta dell'impero asburgico, da deciderne di farne un libro? Per la
prima volta nella storia dell'Europa è stato condannato, dall'esterno si badi, non da una rivoluzione interna, uno Stato
intero, anzi un Impero enorme, plurisecolare, alla distruzione. Uno Stato che oltretutto si stava avviando sulla strada
della liberalizzazione, che si stava democratizzando e sembrava ormai destinato a risolversi in una federazione. In
più, l'idea di distruggere la monarchia per creare ex novo degli Stati multinazionali si è rivelata, e avrebbe dovuto essere
evidente anche allora, disastrosa. Un'identità italiana era possibile, ma la Cecoslovacchia, ad esempio? Chi sono i
cecoslovacchi? Non esistono. Esistono i cechi, e gli slovacchi, e i tedeschi, e gli ungheresi... Tutti gli Stati nati dalla
dissoluzione dell'Austria-Ungheria sono multinazionali almeno quanto lo era l'impero stesso. Con la differenza che
l'impero non pretendeva di esserlo. Questo, insomma, è stato il ruolo dell'ideologia: distruggere un'unità, una
entità sovranazionale ma unitaria, per smembrarla e farne un'entità molto più debole. Oggi viviamo un momento
storico per certi versi paragonabile a quello del 1917, con il crollo dell'impero sovietico, ma il clima è molto diverso, e
la speranza di tutti è che i popoli che si sono liberati dall'egemonia comunista trovino i mezzi, prima di tutto economici,
di ricostruirsi come Stati.
Sergio Romano, nell'introduzione, dissente con lei sulle cause della distruzione dell'Impero...
È perfettamente naturale che non la pensiamo esattamente allo stesso modo, e non mi sembra che la concezione di Sergio
Romano e la mia siano eccessivamente distanti. Romano pensa che la radicalizzazione della guerra ha reso la
dissoluzione della monarchia in un certo senso «fatale»: da un lato, le potenze europee che appoggiavano e
amplificavano, con tutto il potere della loro propaganda, gli elementi separatisti che, com'è ovvio, già esistevano
all'interno dell'Impero. Dall'altra parte stavano, praticamente senza voce all'esterno, le forze autonomiste, che non
volevano la dissoluzione ma la federalizzazione dell'Austria-Ungheria, che infatti come accennavo prima, andava
evolvendosi in questa direzione. Ma anche l'autonomismo, vedendo la piega che prendevano le cose, è stato forzato a
radicalizzarsi. Penso che sia possibile una sintesi tra la mia visione delle cose e quella di Romano. Del resto, se così
non fosse, e non lo pensasse anche lui, dubito che avrebbe accettato di presentare il mio libro, cosa di cui peraltro gli
sono grato.
Una delle questioni toccate dal suo libro è quella del ruolo ricoperto dagli Stati Uniti.
Gli Usa in quanto nazione non hanno rivestito un ruolo particolarmente attivo. Si sono fatti coinvolgere senza conoscere la
situazione europea, senza capire che il problema non era, come a loro piaceva credere, l'autodeterminazione dei popoli.
Non si rendevano conto di quanto questo progetto delle identità nazionali, che li affascinava, soprattutto a causa della loro
origine coloniale, era assurdo e impossibile da realizzare. Non si può però dimenticare che la diplomazia americana era
molto giovane, e per forza di cose anche un po' ingenua: guardavano all'impero asburgico, come a quello ottomano o alla
Russia zarista, come a formazioni anacronistiche, superate dalla Storia, e che dovevano essere sostituite dagli Stati
nazionali. Ma è, palesemente, una visione sbagliata, che ha provocato danni gravissimi.
Per la prima volta la Santa Sede viene esclusa dalle trattative per la pace, in un conflitto di ampia portata. E questo,
nonostante i ripetuti appelli di Benedetto XV fossero stati universalmente apprezzati. Come lo spiega?
Tutti gli Stati interessati, in varia misura, su un punto erano concordi: escludere il Papa dai negoziati. Del resto,
erano tutti, chi più chi meno, Stati decisamente anticlericali, dove il potere era saldamente in mano ai laici. In testa,
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naturalmente, l'Italia e la Francia. Soprattutto gli uomini politici italiani hanno insistito, e ottenuto, che il Papa non
avesse voce in capitolo, perché sospettavano la Santa Sede di simpatie monarchiche in generale e filo-austriache in
particolare. Temevano che l'influenza della Santa Sede avrebbe dato troppo peso alle ragioni dell'Austria contro le
rivendicazioni italiane. Così, nel 1915, il governo italiano stipulò un accordo con la Francia, in cui si stabiliva che la Santa
Sede sarebbe stata esclusa da qualsiasi negoziato. Per questo gli appelli di Benedetto XV caddero completamente nel
vuoto, nonostante i formali apprezzamenti per la nobiltà e l'amore all'umanità che esprimevano, che arrivavano un
po' da tutte le parti.
Sul piatto della bilancia, per la prima volta, pesano invece i giornali...
Il ruolo della stampa in questa occasione è strettamente connesso al ruolo avuto dall'ideologia nella ideologizzazione
della guerra, nella sua radicalizzazione. I media di allora, i giornali essenzialmente, erano ben lontani dall'indipendenza
dal punto di vista finanziario. Erano tutti sovvenzionati dalle parti in causa nella guerra. Non stupisce quindi il peso,
davvero impressionante, che hanno avuto nell'informazione, o meglio nella manipolazione dell'opinione pubblica.
L'immagine data dai giornali italiani e inglesi sulla Germania e sull'Austria era completamente distorta.
[Il Sabato, 27 ottobre 1990]
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