Parole chiave della filosofia greca - Pagina didattica di Andrea Filieri

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Filosofia
Che resterebbe d’altro senza Altri?
E. Lévinas
Mito (  )1 :narrazione di carattere fantastico2poetico avente per oggetto, normalmente, quelle od alcune cose su cui indaga la filosofia3.In
sostanza il mito può essere considerato: rivelazione\presentazione del senso del mondo 4
Mythos:in questo termine compare infatti il senso della parola,
dell’annuncio di qualcosa di importante ed essenziale .
Legato al sacrificio: atto col quale l’uomo conquista il favore degli Dei che regnano
nell’universo
Scopo: ma qual è il fine del mito?
Identificarsi e dominare5 ciò che appare nel mito; identificarsi con ciò che ha suprema potenza nel
governare gli eventi del mondo
Ma cosa accade nel VI secolo a.c.? Accade6 l’ apparire della filosofia come sapere che pretende
superare il mito mediante un sapere incontrovertibile. E questo sapere è espresso dalla Filosofia
[Mŷthos]. In Omero (i poemi omerici rappresentano la trascrizione operata presumibilmente nell’VIII secolo a.c. di
preesistenti narrazioni stratificatesi nel corso dei secoli trasmesse di generazione in generazione per via orale) la
parola “mito” significa in alcuni casi “parola, notizia, novella” […], in altri significa addirittura la cosa stessa […].
Successivamente, proprio per la comparsa di un altro tipo di racconto o discorso chiamato “lógos”, le narrazioni
mitiche, fino allora accolte con la stessa serietà con cui più tardi lo saranno quelle filosofiche, assumono il carattere
fabulatorio di “leggenda, favola, fola, mito”, come appunto noi ancora oggi lo impieghiamo […]. Il mito ha in comune
col lógos l’intento di conoscere e spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è un passaggio dalla
favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento.
2
Fantastica non nel senso di fantasiosa bensì una invenzione che pretende essere rivelazione del senso complessivo del
mondo. Solo più tardi il senso della parola mito diventa quello della “fola”, della leggenda (vedi sopra).
3
Giovanni Reale - Storia della filosofia antica - Vita e Pensiero – Milano 1983
4
E. Severino - Storia della Filosofia Antica - Rizzoli
5
Pur nella loro elementarietà, i miti fornirono all’uomo un quadro del mondo in cui orientarsi e anche l’indicazione dei
mdi per dominarlo”. Il pensiero Filosofico e la società, Geymont, Boncinelli, DEA Scuola, Garzanti 2014. Pag. 16.
1
Filieri Andrea
1
Filosofia: philo-sophia7: cura del sapere e della verità.
Sapere che utilizza la forza della ragione per dire qualcosa di inaudito fino ad allora: la verità del
mondo abitato dall’uomo sulla base di un sapere che non può essere negato né da dei né da
uomini
Che tipo di sapere? Un sapere che si rivolge al Tutto8,
alla totalità, indagandone il senso ed il principio, gli elementi ed il fondamento , le cause e le
conseguenze
Contrariamente
Mito: si rivolge al chaos: disordine, magma, all’illimitato. Tutti i
mondi e gli dei si originano al suo interno . Nel mito greco quindi tutti gli dei sono originati dal
Caos originario che è la dimensione più ampia che il mito greco sia riuscito a pensare. Dal
disordine del chaos emerge il kosmos come insieme delle cose ordinate , come mondo.
Esiodo: Teogonia9: gli Dei sono originati dal chaos primordiale\originario. Dal chaos si
origina successivamente un kosmos come insieme delle cose ordinate e finite . Nella Teogonia
dunque, dall’immensità del chaos si generano tutti gli Dei e tutte le fasi del mondo che però
rimangono sullo sfondo mentre l’attenzione è attratta dal modo in cui le vicende e le lotte tra i divini
rispecchiano le lotte e le vicende umane10
“Quali sono i fattori che spiegano il sorgere del pensiero greco? (…) le civiltà pre-greche sono (…) monarchiche ,
stataliste, e accentratrici, con potenti caste sacerdotali e guerriere che detengono le chiavi del potere (…). In Grecia (..)
innanzitutto, all’antica monarchia patriarcale sono per lo più succedute, fin dai tempi omerici, governi e repubbliche di
tipo aristocratico. In secondo luogo , al posto di uno stato accentratore si è costituita una variopinta e frazionata
costellazione di città stato. In terzo luogo, le aristocrazie dominanti non sono assimilabili alle caste guerriere o
sacerdotali orientali poiché in Grecia (…) hanno poco importanza.” Abbagnano, pagg. 21 e sgg.
In effetti nella Polis greca dell’VIII\VII sec. a.c. emergono alcuni tratti tipici dell’argomentazione razionale: confronto
di opinioni,discussione,argomentazione,sviluppo delle tecniche, definizione di ambiti privato\pubblico.Non ultima una
oggettivazione della natura distaccandosi da una concezione animistica di essa: una realtà che l’uomo sente estranea e
che cerca di dominare.
7
“..la sapienza greca si presenta, in quanto filosofia, come una ricerca razionale che nasce da un atto fondamentale di
libertà di fronte alla tradizione…” Abbagnano, pagg. 20 e sgg
8
Termine filosofico che designa l’assoluto ossia la totalità del reale. Il soggetto pensante è ovviamente parte del tutto.
Vedi Atlante di filosofia , Hoepli, Milano 2006.
9
Rappresentazione fantastico poetica della generazione degli dei e , di conseguenza, di tutte le cose che dipendono
dagli Dei (alla teogonia è quindi connessa una cosmogonia). Ibidem, pag. 280
10
retroterra culturale della filosofia greca sono quindi le cosmologie mitiche ma anche le dottrine religiose dei Misteri
ed i motti dei Sette Savi
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Filieri Andrea
2
Problema dello stato originario da cui le cose sono uscite e della forza che le ha prodotte (Abbagnano pag. 23)
TEOGONIA DI
ESIODO
(VIII secolo a.C.)
COSMOLOGIE
MITICHE
Prima distinzione tra la materia e la forza organizzatrice
del mondo (Abbagnano pag. 23)
FERECIDE DI SIRO
(VI secolo a.C.)
Culto di Dioniso (Tracia): i travestimenti ferini, le
danze sfrenate, l’eccitazione erotica, lo stato d’ebbrezza
che contraddistinguono lo svolgimento dei riti dionisiaci
esprimono una spontaneità non epurata da aspetti
violenti e cruenti.
Orfismo (Tracia): setta filosofico-religiosa fondata dal
poeta tracio Orfeo (VI sec. A.c.). Per l’orfismo in ogni
uomo vi è un demone o un anima di natura divina ed
immortale. Nel corpo l’anima si trova come in una
tomba, il suo fine è liberarsene. (Cioffi, Il Testo
filosofico, Mondadori, 1999). La morte rappresenta
quindi una prospettiva di liberazione. Solo però chi si è
purificato in vita (mediante una condotta moralmente
ineccepibile) può sperare in tale liberazione.
RELIGIONE DEI
MISTERI VI SEC. A.C.
Culto di Demetra, divinità collegata al culto del grano :
misteri celebrati ad Eleusi :località greca ,nei pressi di
Atene ,dove si celebravano i misteri eleusini, una forma
di culto antichissima e tra le più importanti di tutta l’età
antica.
Concetti fondamentali per la filosofia successiva:
1) legge che dà unità al mondo ossia una legge che dia
giustizia di cui sono custodi gli dei. Esiodo la
personifica in Díke: la figlia di Zeus che, sedendo
accanto al padre, vigila affinché siano puniti gli uomini
che commettono in-giustizia, per cui il giusto trionfa e
l’ingiusto (o un suo discenden-te) viene infallibilmente
punito.
POESIA
Hýbris: infrazione alla Legge di Giustizia, dovuta allo
sfrenamento delle passioni e delle forze irrazionali
SETTE SAVI
Filieri Andrea
3
Primo presentarsi della riflessione morale:motti di
natura pratico-morale che riflettono sulla saggezza della
vita e che preludono a un’indagine sulla condotta
dell’uomo nel mondo. Abbagnano, Storia della
Filosofia, UTET, 1982. Chilone: bada a te stesso:
Solone: nulla troppo.
Dimensioni o aspetti del mito: - dimensione più ampia ed originaria(chaos)
- apertura illimitata (chaos)
- unità che raccoglie in sé cose differenti: tribù, clan
familiari
- non pulviscoli di parti
la filosofia, a differenza del mito, pensa al Tutto, come ciò che non ha nulla fuori di sé. Viceversa,
nel chaos di Esiodo, non è escluso che altri mondi possano irrompere, che oltre il chaos si
estendano altri mondi imprevisti ed imprevedibili11. La filosofia allora apre una serie di dimensioni
quali: l’arte, le matematiche, la morale, l’educazione, etc.
vediamo:
1) niente esiste al di fuori del Tutto12
2) tutto il molteplice si raccoglie in Unità: l’identità del diverso.
Non c’è una cosa che non sia identica, per un qualche
aspetto, con le altre cose : se è cosi le cose sono ri-unite in Un
insieme . Lo sguardo su questo unico insieme è la filosofia
dimensioni della totalità:
1) presente
2) passato
3) futuro
4) cose visibili
5) cose invisibili
6) cose reali
7) cose possibili
8) sogni e fantasie veglia e sonno
in conclusione: pensare al Tutto significa pensare alle cose e
riflettere sulle cose comprendendo che tute appartengono alla
totalità oltre la quale non c’è ni-ente
11
Anche nella sapienza orientale e nelle parti più antiche del Vecchio testamento. Vedi Severino, cit. pag. 19
Non si tratta di descrivere minuziosamente tutto il reale bensì di pensare a qualcosa di inoltrepassabile che contiene,
appunto, tutto.
12
Filieri Andrea
4
quindi
la filosofia nega che il mito comprenda il vero senso della totalità e nei primi pensatori presocratici
indaga la totalità come physis ()
la physis non contiene dunque le vicende degli Dei e del loro rapporto con gli uomini (mito) bensì il
cielo stellato, il sole e la terra , l’acqua ed il vento, le azioni umane ed il loro dipanarsi 13
la filosofia vede quindi nella totalità come physis che le cose diverse hanno qualcosa in comune: il
loro essere identiche abitatrici del Tutto (tutti gli x hanno la medesima proprietà T). Tutte le cose
diverse sono identicamente nel Tutto ed il Tutto, per converso, si mostra come insieme di tutte le
cose proprio grazie all’evidenza che tutte sono unite da una medesima proprietà: il loro far parte
della physis come unità primordiale ed incorruttibile
ma come fanno parte le cose della Totalità?Le cose che
nascono e periscono cosa hanno a che fare con la totalità delle cose? I primi filosofi tendono
ad identificare :
1) ciò che vi è di identico nelle cose: la proprietà T
2) con ciò da cui le cose sono costituite, ossia ciò di cui sono fatte , la loro sostanza od
elemento.
In questo modo ciò che le accomuna, l’identità del diverso, non è nient’altro che l’unità da cui
provengono ed a cui ritornano. Es: l’acqua del mare è sia ciò che le onde hanno di identico sia ciò
da cui esse provengono ed in cui si dissolvono. In questo senso i primi filosofi si domandano
dunque qual è il principio di tutte le cose , ossia si domandano cosa vi sia di identico in tutte le
cose in quanto elemento che le accomuna. Si aggiunga che questo principio (arché-) è anche
la forza che determina il divenire ed i nascere\perire di tutte le cose. Questo divenire è eterno e
quindi divino.
Possiamo dire allora che per i fil. Presocratici,la physi14s, va indagata sulla base di un principio che
spiega come le cose non solo non si originano dal niente ma il divenire stesso delle cose è retto da
una forza (principio) che le governa.
E. Severino, ibidem. Vedi anche Abbagnano pag. 13 cit.: “La filosofia presocratica è dominata dal problema
cosmologico. Essa non esclude l’uomo dalla sua considerazione ma nell’uomo vede solo un parte della natura. Per i
presocratici gli stessi principi che spiegano la costituzione del mondo fisico spiegano la costituzione dell’uomo. (…) il
compito della filosofia presocratica è quello di rintracciare (…) l’unità che fa della natura un mondo.(…) la materia di
cui le cose sono fatte ma anche la forza che spiega la loro composizione. (…) sostanza come principio di azione e di
intelligibilità del molteplice ed in divenire.
13
14
L’identità del diverso va intesa come elemento da cui le cose sono costitutite. Ma l’elemento
degli enti è anche il loro principio ossia il principio da cui le cose si generano ed in cui si
dissolvono. L’identificazione di “elemento” e “principio” è espressa dalla parola “physis”. La
parola “physis” allora nomina sia il principio delle cose che l’elemento delle cose . In effetti per i
primi pensatori l’elemento\principio delle cose è la materia da cui sono costituite e che quindi è
ciò che vi è di identico in ognuna. La physis(Essere) è eterna e le cose sono espressioni della
Filieri Andrea
5
“l’uomo ha sempre barattato un
po’ di felicità per un po’ di
sicurezza”
S. Freud
Talete
Il sole non è la Luna ma sono identici nel loro essere qualcosa che fa parte del Tutto: ma che cos’è
l’identità dei diversi? In che consiste l’elemento unificatore (determinato) delle cose? Meglio
ancora: qual è l’arché – l’inizio - delle cose?
Acqua: motivi di carattere biologico e chimico
Vediamo: non dobbiamo soffermarci sull’acqua sensibile e sui
motivi che hanno condotto Talete a pensare all’acqua come substrato sensibile del nutrimento dei
viventi, sì che la filosofia apparirebbe rudimentale e rozza.15 Dobbiamo far riferimento piuttosto
all’acqua (tutte le cose sono acqua) come elemento identico da cui si generano ed in cui si
corrompono tutte le cose : physis come acqua .L’acqua allora non è tanto una sostanza sensibile,
non fosse altro perché la terra ed il sole non ne hanno le medesime caratteristiche, bensì ciò che vi
è di identico in tutte le cose. Come farebbe infatti una delle diverse cose del mondo ad essere
identica in tutte le cose diverse? L ‘”acqua” appare allora come una sorta di metafora che non
riesce ad esprimere ciò che essa intende16 sebbene possiamo affermare che Talete vedeva nell’acqua
quel qualcosa di empirico che unificava il reale, un qualcosa di naturale dotato di proprietà divine.
Anassimandro17: ma come fa un diverso (cosa finita e limitata) ad essere l’unità
della molteplicità del reale? Ad essere l’identità di tutti i diversi? Ad essere physis? La physis allora
physis. Vediamo meglio: il termine stoichéion fu utilizzato da Aristotele per la sua ricostruzione
della storia del pensiero presocratico. Ora, mentre il principio e la causa possno essere anche
esterni a ciò di cui sono causa e principio, l’elemento è sempreun costitutivo immanente.
15
E. Severino, ibidem, pagg. 30 e sgg.
Ibidem, pagg. 34 e sgg.
17
Physis significa natura. Il Tutto che i filosofi presocratici pensano come 0ggetto di indagine razionale è natura. Ma
qual è l’elemento caratteristico della natura? In una battuta il divenire, l’incessante movimento delle cose divenienti. Il
fatto stesso insomma che il Tutto è costituito da una molteplicità di cose di cui facciamo esperienza, e questa esperienza
si caratterizza anche per essere esperienza di contrasti: lo stesso oggetto attraversa stati differenti e contrastanti a volte
opposti tra loro: acqua, divenire degli enti naturali, etc.. Il divenire è allora anche esperienza di contrasti, e proprio
16
Filieri Andrea
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è àpeiron (): il- limite.18 In effetti se la physis è principio (arché) ed elemento
(stoichéion) del reale, del molteplice finito e limitato, non può essere a sua volta finito e limitato in
quanto non sarebbe ciò in cui e da cui si generano tutte le cose: dal nulla nulla (ex nihilo nihil).
Tutto ciò che è generato potremmo dire, deve provenire da qualcosa di ingenerato ed incorruttibile
che è il principio di tutte le cose : ciò che è causa di tutte le cose non può essere causato da altro, è
eterno e divino. Banalizzando: l’àpeiron non invecchia. Ed in effetti l’àpeiron è illimitato,
inesauribile e completamente indeterminato. Forse potremmo aggiungere che l’àpeiron è amorfo e
proteiforme: assume infatti qualsiasi forma deterninata.
Anassimene.
Senonchè l’àperion è un concetto solo negativo (ciò che non è
limitato) ma che cos’è l’apeiron? (concetto positivo ). E’ aria: soffio vitale (anima) che ci
sorregge. Rarefacendosi e condensandosi l’àpeiron diventa tutte le cose. Di più: principio vivo e
vitale, non cieco ed insensibile, che governa tutte le cose anche se l’”aria” non rende esplicito il
senso di ciò che vuole dire. In effetti, solo rifacendosi a concetti fisici e materiali quali rarefazione e
condensazione si comprende il senso dell’”aria” che è invece anima di tutte le cose. Ancora una
volta l’àpeiron resta senza risposta esplicita19.
Eraclito di Efeso (550\480 a.c. circa): “Tutte le cose sono uno” afferma Eraclito. Ossia hanno
qualcosa di identico pur essendo diverse. “questa identità non può essere una cosa particolare e
limitata”20 ma è il-limitata come abbiamo visto (Anassimandro). D’altro lato dovremmo anche
essere in grado di dire cos’è l’àpeiron (Anassimene). Eraclito dà un’ulteriore risposta: l’identità del
diverso, ciò che le rende per un verso identiche pur differendo per altre proprietà (colore, forma,
peso, etc.) è la contrapposizione alle altre: è il loro opporsi alle altre cose ciò che hanno in comune
tra loro. Se la vita non si opponesse alla morte, se se il caldo non si opponesse al freddo, tutte
queste determinazioni non esisterebbero. La discordanza ed il contrasto (pòlemos) governano il
mondo, in una battuta: il non essere altro da sé è àpeiron , l’opporsi di ogni cosa alle altre. Ecco
che allora ogni cosa viene sopraggiunta dal suo opposto, la gioventù dalla vecchiaia, la guerra
questa esperienza contraddittoria caratterizza il Tutto. In effetti il Tutto , ossia ciò per cui le stanno insieme, ciò che
unifica le cose in un Tutto, fa sì che le cose siano in contrasto tra loro: Principio di tutte le cose o arché. Si faccia
attenzione però: l’indagine sul principio non è solo una indagine che ci dice da dove ha origine il cosmo (ad esempio la
teoria de big bang iniziale), non è solo questo ma anche questo. Non è solo la ricerca di qualcosa che sia temporalmente
prima del cosmo, che sia all’inizio del cosmo temporalmente, ma è la ricerca di un principio primo che sia a
fondamento di tutte le cose cioè che sia ragione di tutte le cose e della loro esistenza così come appare nell’esperienza
che ne possiamo avere. La ricerca sull’arché è allora due cose insieme:
- la ricerca di un principio che viene temporalmente prima delle cose
- la ricerca di un fondamento che contenga la ragione dell’esistenza delle cose così come appaiono e questa ragione
non può che essere di tipo fisico: la totalità infatti è natura. Il principio ha la stessa natura delle cose. Se la
physis è totalità, l’origine della phyisis non può che essere di natura fisica e questa natura fisica è espressa
dall’elemento che è comune a tutte le cose.
18
Limite in greco péras: confine, ciò che ci permette di dire che una cosa sia delimitata e finita. Anassimandro ritiene
che all’origine delle cose ci sia un qualcosa che sia priva di questa caratteristica di finitezza o determinatezza.
All’origine delle cose c’è dunque un principio che non ha confini e che per questo motivo contiene tutte le cose. Detto
in altri termini l’origine delle cose determinate non può essere a sua volta determinata. Le cose, staccandosi, se così si
può dire, da questo indeterminato hanno ricevuto un confine: l’indeterminato per Anassimandro è il divino. Ma il
passaggio fondamentale che si vuole sottolineare è che benché Anassimandro sia un filosofo della physis e si avvalga di
concetti di tipo fisico, alla luce di riflessioni successive, l’indeterminato non può essere un principio fisico.
19
Si badi che in Anassimandro non si può ancora parlare di un superamento della fisica: ciò appare solo in Platone. In
buona sostanza anche in Anassimandro non c’è un ambito della physis ed un ambito soprafisico o metafisico.
20
Ibidem, pagg. 42 e sgg.
Filieri Andrea
7
dalla pace.Nel divenire delle cose, ogni cosa diventa il suo contrario21, una sorta di armonia
nascosta che esprime il senso della physis come legge ed ordine delle cose.
Ma se non vi fosse opposizione esisterebbe il Tutto ? Non per Eraclito. Nel sogno di chi non
comprende la Parola (Logos) del Tutto, che si offre all’ascolto di tutti , il contrasto delle cose tra
loro è la stessa condizione dell’armonia del Tutto. La vita ed il Tutto sono tali proprio in virtù
dell’armonia del contrasto che non permette a nessuna cosa di esistere per sempre al posto di
un’altra. Nessuna prevaricazione quindi , nessuna ingiustizia, pensata da chi vive e vede le cose
come isolate dalle altre non comprendendone la propria relazione alle altre: un contrasto che tutto
regola ed ordina.
La scuola eleatica (dal perché al che cosa)
“due sole cose ti dico: l’una che l’essere è e
non può non essere; e questa è la via della
persuasione perché è accompagnata da
verità. L’altra, che l’essere non è ed è
necessario che non sia, e questo ti dico è
un sentiero sul quale nessuno può
persuadersi di nulla.”(fr. 4,Diels)
Parmenide (VI – V sec. A.c.): abbiamo visto come l’opposizione tra le cose si presenti come il
passo in avanti fatto da Eraclito su Anassimandro ed Anassimene . Ora, con Parmenide , dobbiamo
compiere un ulteriore passo in avanti, l’opposizione non di qualcosa ad altro bensì l’opposizione
suprema: della totalità delle cose (physis o Essere) al Niente . In effetti, percorrendo la
molteplicità delle cose, non troviamo mai il Niente, che resta sempre inteso e pensato come non-
21
Vediamo di approfondire: non solo ogni cosa si oppone alle altre ma ogni cosa diventa altro da sé. Ogni cosa è
potenzialmente il contrario di sé. In questo senso è impossibile definire l’identità della cosa in un preciso momento.
Ogni cosa è una molteplicità di stati diversi tra loro. In questo senso diventa difficile dire che cos’è una cosa proprio per
questa continua variazione della cosa stessa . Per Eraclito anzi dovremmo dire che una cosa non si riduce ad uno stato
determinato e preciso ma la una cosa è una molteplicità di cose. In sintesi potremmo dire che una cosa consiste nella
molteplicità di variazioni a cui è sottoposta . E ciò per Eraclito non è problematico anzi: è proprio perché le cose sono
intimamente in contrasto che possono divenire, la ragione che sta all’origine del divenire delle cose è il contrasto
delle cose. Diciamolo in altro modo: il fatto che la natura sia attraversata da questi processi dinamici di
cambiamento non è motivo di dissoluzione della natura bensì è la ragione della sua esistenza. In effetti la
struttura delle cose, la loro ragion d’essere sta nel loro intimo contrasto con se stesse. Se vogliamo, proprio
perché le cose sono l’identità dei contraddittori, proprio per questo divengono . Ecco, in
questo Eraclito supera ciò che si vede nell’esperienza concreta per andare al di là, verso il nascosto ed il
profondo delle cose m a bisognerà aspettare Platone per introdurre la distinzione tra sensi ed intelletto.
Filieri Andrea
8
essere, nulla, Niente assoluto. Se la physis è essere22 , se la totalità23 delle cose che sono, appunto, è
(non è nulla), allora il niente è non essere, fuori dall’essere, opposto all’essere. Ora, se l’Essere
non è non-essere, non è il Nulla, non può neanche darsi il caso che l’Essere sia generato.
Vediamo meglio: L’essere non è il Nulla abbiamo detto, ma se l’Essere fosse generato, ci sarebbe
stato un momento in cui l’Essere era Nulla (Niente), cosa che abbiamo escluso poc’anzi perché
contraddittorio. In buona sostanza l’essere è: eterno24, ingenerato ed incorruttibile. Ma, e qui
veniamo al fondo del ragionamento parmenideo, se l’Essere è ed il non essere non è come possiamo
pensare la totalità degli enti divenienti, le cose insomma? Ogni cosa determinata, ad esempio un
fiore, non ha lo stesso significato della parola “Essere” evidentemente, ma allora, e questa è
l’estrema conseguenza del ragionamento sin qui condotto, il fiore non è l’essere ossia è nonessere25. (cioè non esiste, è una illusione).
Si faccia attenzione attenzione: Parmenide si domanda che cos’è la phyisis mentre precedentemente la domanda era
sul perché della physis: Talete si chiedeva il perché di tutte le cose cioè faceva una domanda sull’origine di tutte le cose,
sul principio di tutte le cose (archeologia. come domanda sull’archè) mentre Parmenide si chiede cosa sia la physis
(l’essenza della physis). Certo Talete rispondeva che l’acqua era origine delle cose perché era l’essenza delle cose
e tuttavia la domanda prima era sul senso del perché di tutte le cose, sull’origine, sul principio primo da cui le
cose provenivano. Parmenide invece ritiene che una volta compreso che cosa sia la physis non avremo più
22
bisogno di pensare ad una origine delle cose. E Parmenide ritiene che la prima risposta che dobbiamo dare è :
- la physis è (l’essenza della physis è il fatto di essere) L’essere è allora l’elemento comune(ed
in questo Parmenide si mantiene in stretto contatto con i pensatori presocratici) a tutte le cose sicché prima di
conoscere se sussistano elementi specifici come l’acqua, l’aria o il fuoco, se siano in contraddizione o in armonia,
è opportuno riflettere sul carattere comune a tutte le cose : l’essere. Ed il significato del termine essere che
deriva dal frammento due è questo: l’impossibilità di non essere. Insomma noi guadagniamo il significato dell’essere
solo attraverso la negazione del suo contrario. Detto in altri termini: il significato dell’essere è la
negazione del non- essere e questo non è né ovvio né scontato nella storia della metafisica.
L’Essere è il Tutto (frammento 8) e non è divisibile: noi non possiamo pensare alle parti (una parte non è l’altra)
dell’Essere perché ancora una volta introdurremmo il non essere nell’essere, in effetti ciò che distingue un essere
dall’altro è il non- essere. (Qui però dobbiamo fare una precisazione, Platone ed Aristotele hanno penato che Parmenide
pensasse l’essere come Uno, come non molteplice. Eppure in Parmenide non si trova una sola volta il termine Uno nel
suo poema. . In effetti Parmenide, più specificatamente, non intende dire che l’essere non si possa articolare al suo
interno, piuttosto intende dire che l’essere non è divisible. Pensiamoci: se noi affermiamo che l’essere non è la
molteplicità escludiamo dall’Essere come Uno la Molteplicità: in realtà la chiave della comprensione del problema sta
nel fatto che l’Essere come Uno è piuttosto la posizione di Melisso e non di Parmenide. Parmenide afferma che tutto è
pieno di essere ed è questa la condizione dell’Essere come totalità: non ci può essere nulla che non abbia un essere, che
non sia essere. Vediamo meglio: molte interpretazioni insistono sul fatto che l’Essere sia il soggetto della proposizione :
“due sono le possibili vie di ricerca : che è ed è impossibile che non sia”. Ma in realtà una modalità interpretativa più
sofisticata ritiene che il soggetto di questa proposizione sia qualsiasi ente, qualsiasi x. E perché questo?. Perché
Parmenide non distingue tra ente ed Essere. Anche quando parla dell’essere come tutto intero ed uguale intende
parlare del fatto che sono tutti degli esseri.. Ancora:Tutto è pieno di essere, ossia l’essere è totalità nel senso che non
c’è nulla che non sia essere. In conclusione, il soggetto della proposizione “l’una che è ed è impossibile che non
sia, l’altra che non è ed è necessario che non sia” è qualsiasi ente, sia nella prima parte che nella seconda.
24
Se noi introduciamo il tema della temporalità dobbiamo fare attenzione a non introdurre il non essere nell’essere:
introducendo il tempo affermiamo che l’Essere era, è stato e sarà. In realtà non c’è nessun passato per l’essere, non c’è
nessun futuro, semplicemente perché introducendo passato e futuro
si introduce la variazione all’interno dell’
Essere ossia inseriamo il non essere. Ma allora perché l’essere deve essere eterno? Perché se noi ammettessimo
che l’essere abbia una fine , un limite, oltre il quale l’essere non è, ammetteremmo un tempo in cui l’essere non
è. Ma, come si diceva, l’essere è, è sempre presente, è sempre nella dimensione del tempo presente, e questa
eterna presenza è derivata dalla radicale opposizione al non –essere. In questo senso, per Parmenide, non ha più
senso una domanda sull’origine, sul perché delle cose, l’Essere non ha una origine. Né sussiste differenza tra
principio delle cose e le cose principate ossia derivate, causate, dal principio.
25
Ib. pagg. 76 e sgg.
23
Filieri Andrea
9
Ancora, se io affermo che quel fiore esiste affermo che ciò che non è l’essere è, esiste, è essere, ma
questa è una palese contraddizione per cui sembra che per Parmenide il molteplice delle cose
divenienti debba essere negato.26(l’immobilità è una caratteristica dell’essere)
In conseguenza al problema posto da Parmenide sembra che il mondo della esperienza debba essere
negato, sembra che il divenire delle cose finite sia illusorio perché non-essere e quindi Nulla. Il
momento della esperienza, dell’apparire del molteplice diveniente e cangiante, sembra
inconciliabile con il momento della ragione che afferma la verità dell’ Essere e della sua in
generabilità ed incorruttibilità. Parmenide tiene dunque ferma la verità di ragione27 (L’Essere è ed
il nulla non è) e ritiene illusoria la verità dell’esperienza: le cose appaiono molteplici e divenienti.
Ancora, per tornare alla questione dell’essere parmenideo è interessante far notare che con
Parmenide nasce l’ontologia, come studio di ciò che è radicalmente opposto al nulla, cosa che la
tradizione posteriore riterrà caratteristica del divino. Il divino sarà infatti pensato come
incorruttibile, ingenerato, ed immobile. Se vogliamo, con Parmendide, nasce la teologia, se
ammettiamo che la teologia si interessi dell’essere eterno. Certo, in Parmendide, non si parla ancora
di questo visto che si interessa a tutto l’essere.
I fisici posteriori
Nei pensatori preparmenidei “la verità è l’apparire della physis intesa come unità delle cose
molteplici, fonte del loro generarsi e termine del loro corrompersi.”28Le cose appaiono sebbene
Parmenide ne affermi l’illusorietà e la contraddittorietà con la ragione. Ma se appaiono come
conciliare questo apparire con l’eternità dell’essere ingenerato ed incorruttibile? Possiano dire che
in Empedocle la nascita e la morte delle singole cose non è mera apparenza in quanto esprime la
mescolanza e separazione degli elementi primi dell’essere quali: acqua, terra, aria, fuoco. Tale
mescolanza avviene in una vicenda ciclica che vede di volta in volta il sopravvento dell’Amicizia
Se introduciamo nell’essere la variazione, il mutamento, il divenire (ogni cosa diviene altro da sé: il legno brucia,
l’uomo invecchia, l’acqua cambia di stato, etc.) dobbiamo introdurre il non essere nell’Essere quindi dobbiamo
predicrer anche l’immobilità dell’essere. Facciamo attenzione: in conclusione Parmenide non intende negare la
molteplicità degli enti divenienti, intende piuttosto negare la posizione che interpreta la variazione nei termini del
passaggio dall’essere al non essere, che è una posizione teorica, e non empirica. Si badi anche a questo: non esiste il
puro empirismo bensì esiste una teoria che interpreta la datiti. Insomma, il problema è interpretare l’esperienza.
27
Si aggiunga che il non essere è impensabile. E’ possibile pensare solo l’Essere. In effetti se noi affermiamo di pensare
al non-essere affermiamo che l’oggetto del pensiero è il Nulla: cosa impossibile. Certo possiamo dire che l’Essere non
è, possiamo utilizzare un linguaggio per parlare di ciò che è impossibile dal punto di vista logico, ma, e questo è il
punto, nella misura in cui diciamo che l’essere non è noi non pensiamo al nulla bensì all’Essere. Si aggiunga che in
Parmenide logica ed ontologia stanno insieme: la struttura del pensiero è la struttura dell’essere (la logica del pensiero è
logica dell’essere per i greci in genere) mentre nei moderni le cose vanno un po’ diversamente. Andiamo ancora più a
fondo: perché il pensiero non si può contraddire? Perché la contraddizione non possibile? Semplicemente perché per
l’essere è impossibile l’introduzione del non essere. Per altro verso possiamo d ire che per Parmenide non esiste
separazione tra Essere e logica e questo vale per tutti i greci. In effetti se il pensiero fosse separato dall’essere allora non
sarebbe ma daccapo questo è impossibile. Di conseguenza la logica delle cose è presupposta dalla logica del pensiero.
In Platone lo vedremo: l’essere è origine della logica e la logica è tale (non contraddizione) perché l’Essere non si
contraddice. In un abattuta l’orgine della logica è un’origine ontologica. In seconda battuta, il soggetto non deve essere
inteso come nei moderni come cogito cartesiano, il soggetto non ha un natura diversa dall’oggetto : il soggetto
manifesta l’essere. Compresenza di essere e della sua manifestazione.
28
Severino, ib. pag. 55
26
Filieri Andrea
10
(che tiene unite le quattro radici in cui è contenuto l’essere dell’universo diveniente) o della
Contesa( che separa le radici dell’essere producendo il divenire cosmico)29. L’Amicizia e la
Discordia producono e distruggono quindi le diverse configurazioni delle cose. Del resto già in
Eraclito il logos è anche la forza che produce e distrugge le cose ed in Anassimandro l’arché è
anche la forza che le governa.30 In Democrito del resto, è presente l’esigenza di affermare con
decisione l’esistenza dei fenomeni negati dall’eleatismo. L’esperienza insomma non può essere più
negata. Del resto Democrito ritiene con l’eleatismo che l’esistenza dei fenomeni implichi il non
essere. A questo punto Democrito ritiene di poter conciliare i due aspetti citati affermando che
anche il non-essere è: l’esistenza del non-essere è la condizione del molteplice. E come interpreta
l’atomismo questa affermazione? Se l’essere dei fenomeni corporei non può essere negato esso è
ritenuto, in quanto esteso e corporeo: pieno. Il non-essere sarà allora il vuoto inteso come non
corporeo e pura estensione non riempita. Il vuoto divide la compattezza del molteplice in una
molteplicità di parti e quindi è ciò che rende possibile il molteplice. In questo senso anche il nonessere esiste. Di più ancora, è l’estensione dei corpi, ossia la determinazioni quantitativa , ad
indicare il criterio di verità dell’essere. Dal punto di vista della verità infatti l’essere è estensione
piena(ossia l’essere è ciò che rende piena l’estensione31) mentre il non-essere è estensione vuota.
Gli aspetti qualitativi sono invece opinione illusoria. 32
Ci eravamo imbattuti nel pensiero di Eraclito con cui le cose vivono in una essenziale
contrapposizione e contraddizione per poi incontrate Democrito che affermava che il non-essere è
quando riteneva che ogni corpo fosse un insieme di essere e non-essere (pieno e vuoto). Ora proprio
queste affermazioni inerenti il carattere contraddittorio della realtà (ogni ente è pieno e vuoto, ogni
29
Ib.
L’autosufficienza dei quattro elementi impone il ricorso ad un duplice principio attivo a loro esterno che dia ragione
dei movimenti di associazione e dissociazione della sostanza. Per quanto concerne la dottrina di Democrito che afferma
l’esistenza degli atomi e del vuoto come spiegazione del divenire, è possibile parlare di meccanicismo:
- in riferimento all’esclusione di menti ordinatrici del cosmo
in riferimento all’esistenza di legami meccanici di tipo causale tra i corpi.
Una metafora spesso usata è quella dell’orologio in cui ogni ingranaggio è connesso con tutti gli altri sicché il
movimento di ognuno è compreso riferendosi anche agli altri . Sviluppando questa metafora si può arrivare a pensare
Dio come l’orologiaio che regola il flusso del tempo dell’orologio. Diversamente il determinismo , vede nella natura lo
svolgersi di leggi necessarie che si fondano sul rapporto di causa effetto. In questo senso ciascun evento è frutto di una
rete di cause che lo determinano. Non è quindi presente il caso in una natura regolata da principi meccanici di sola
causa\effetto. In effetti gli eventi casuali presenti nel meccanicismo non sono logicamente deducibili dagli eventi
precedenti nel tempo e nello spazio. Sempre in relazione a Democrito è possibile parlare di vuoto e pieno: vuoto è il
non essere e pieno è l’essere, precisando però che lo spazio non è né assoluto pieno né assoluto vuoto. Per altro
verso la materia per D. è il pieno concepita come indivisibile in quanto non composta da parti (a-tomo)
contrapposta al vuoto dello spazio. In questo senso per Democrito il non-essere è pensabile come vuoto inteso
come reale e possibile (Parmenide nega il vuoto assimilato al non-essere, mentre l’atomismo e lo stoicismo lo
considerano al pari della materia con cui non interagisce uno degli elementi dell’essere) nell’unico spazio inteso
come detto. Questa operazione è resa possibile dal fatto che per l’autore in oggetto il linguaggio va inteso come
un insieme di segni convenzionali privo (come dicevano gli eleati) di rapporti necessari con l’oggetto designato
dal segno. Ecco allora che Democrito rifiuta l’alternanza secca delle due vie di parmenide (opinione e verità)
nonché LA VIA ERACLITEA della giustezza del logos. La conoscenza per D. è oscura se intesa come
esperienza dei cinque sensi ma diventa chiara non appena si procede alla riflessione sulle cose invisibili mediante
la ragione.
31
Questa è la posizione materialistica di Democrito: la concezione che non esiste altro essere che quello da cui lo spazio
è riempito, posizione nuova nel panorama sin qui delineato nella storia del pensiero filosofico. In modo ancora più
deciso D. ritiene che il divenire sia spiegato nei termini di un movimento degli atomi urtati da altri atomi. La causa del
moto sta in altri atomi che li urtano escludendo così qualsiasi finalismo, ossia qualsiasi fine di una mente ordinatrice del
divenire in vista di un determinato fine. In effetti solo una mente può ordinare ad un fine ma questo è escluso. Anche la
mente umana allora non potrà esser altro che un aggregato di atomi mentre la sensazione ed il pensiero sono
movimento di atomi.
32
Severino, cit. pag. 67
30
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ente è e non è, in vista della aggregazione di atomi e della differenza tra atomo e atomo) portano i
sofisti a interpretare la relazione tra ragione (verità logica) ed esperienza (verità di fatto) come
contraddittoria. In una battuta l’opposizione interna alle cose e tra le cose porta i sofisti a negare
una verità uguale per tutti. Anche l’esistenza di una molteplicità di dottrine contrastanti è la prova
evidente che l’essere non si manifesta nella verità ma solo nella discordia tra gli uomini. 33
Protagora (sofisti): a differenza di Parmenide, Protagora (V sec. A.c.) tiene ferma
l’esperienza affermando il carattere illusorio della ragione. Per Protagora dunque non esiste una
verità34 definitiva ed incontrovertibile (l’Essere è ed il non essere non è) semplicemente perché
“l’Uomo è misura (métron) di tutte le cose”. La ragione allora non è più la ragione universale delle
verità incontroverbili bensì l’espressione della singola esperienza individuale che sola stabilisce
l’essere ed il non essere di ciò che si afferma. Una critica dunque, radicale, al valore assoluto
della conoscenza. In buona sostanza il criterio di verità e falsità è derivato dall’esperienza
soggettiva posta a fondamento del conoscere, ecco che allora tale criterio non può essere posto
esser determinato in modo univocamente universale, vista la diversità ed eterogeneità delle
esperienze. in questo senso possiamo arrivare a dire che nessuno pensa il falso vista la verità
soggettiva di ciò che il soggetto sperimenta. (ciò che è bello per uno non è bello per l’altro). Tale
criterio però non si dà nel caso della politica dove è necessario trovare l’utile collettivo come
condizione per lo sviluppo armonico della polis.
Vediamo: se ad un uomo il cibo appare amaro allora quel cibo è amaro; e così via per tutto ciò che
l’uomo afferma. Se ad un altro uomo quel cibo appare dolce allora il cibo è semplicemente sia
amaro che dolce, insieme sia dolce che amaro.
33
Severino, cit. pag. 66
“Quando vado a tradurre Platone trovo il termine "alètheia", che è il termine con cui gli antichi intendevano la verità.
Andando poi al fondo a vedere la cosa, trovo tradotto "alètheia" con "veritas", cominciando da Cicerone e dai traduttori
latini. Mi sono reso conto che, se Platone li avesse sentiti, si sarebbe arrabbiato moltissimo.. Infatti il nostro termine
"veritas" non vuol dire affatto quello che era, per i greci, la verità. Alètheia, senza voler fare nessun accenno ad
Heidegger, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell'oblio, il fiume che
copre. Alètheia, con l'alfa privativo, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito
latino, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica e dalla zona slava, e vuol dire tutt'altro che verità. Vuol
dire, in origine, "fede"; fede nel significato più ampio della parola, tant'è vero che in russo ad esempio vara vuol dire
fede. Tutti noi sappiamo benissimo che l'anello della fede si chiama anche la vera, proprio perché questa origine
balcanica, slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Andando avanti nello studio, ci si rende conto che ci troviamo
di fronte ad una doppia verità. In ciò che diceva Averroè, che parlava di "doppia verità", vi è una sottilissima visione
storica e critico-filologica del significato di verità. Qual è la doppia verità? Da un lato la verità di fatto è ciò in cui ho
fede, per cui l'assumo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la nostra veritas. L'altra verità è quella che
Leibniz - altrettanto dotto - aveva chiamato la "verità di ragione", per la quale sufficit la ragione; la ragion sufficiente,
distinta dalla verità di fatto. Ecco le due verità: l'una è una fede, che è una cosa, e quindi dovrebbe entrare in tutto un
altro ambito; l'altra è quella logica che scaturisce attraverso il saper pensare: si scopre la condizione che permette di
definire la cosa e quindi questa diventa vera nel giudizio, nel logos, nel ragionamento che la viene determinando.
34
Tratto dall'intervista "Parole chiave della filosofia greca" - Napoli,
1998
Filieri Andrea
12
Biblioteca Marotta, martedì 31 maggio
Gorgia
Gorgia era un grande sofista siciliano che insegnò retorica ad Atene ai tempi di Socrate . Pare che
nella sua opera - Sul non essere –Gorgia confutasse una ad una tutte le tesi di Parmenide per mezzo
di argomentazioni dialettiche molto simili, nella struttura, a quelle inventate da Zenone. 35
Se il non essere è non essere (ossia non esiste, come sostiene Parmenide), allora il non ente
non sarà nulla di meno dell’ente , perché il non ente è non ente e l’ente è ente, sicché il fatto che le
cose siano non sarà nulla di più del fatto che le cose non siano. Se dunque il non essere è, allora
l’essere, che è l’opposto, non è.
Cerchiamo di esaminare la forma del discorso presentato da Gorgia: esso deduce dalla tesi di
Parmenide – solo l’essere è e quindi il non essere non è- la conseguenza che il non essere, per il
fatto di essere identico a se stesso, esattamente come l’essere, non ha nulla di meno dell’essere.
Detto altrimenti, non c’è nessuna ragione per dire che le cose sono, più di quanta ve ne sia per dire
che le cose non sono. Da ciò deriva la conclusione che nulla è. La tesi di Parmenide dunque,
contraddice se stessa. 36
Veniamo alla seconda parte del ragionamento di Gorgia:
Le cose pensate (per Parmenide) devono essere, ed il non ente, se non è, non deve poter
essere pensato. Ma, se è così, nessuno dirà più nulla di falso, neppure se dirà che dei carri
gareggiano sul mare, poiché tutte queste cose saranno. Infatti le cose viste e le cose udite sono per
questa ragione, cioè perché ciascuna di esse è pensata. Se invece non sono per questa ragione, ma
le cose viste per nulla di più sono, allora allo stesso modo le cose viste non sono per nulla di più di
quelle pensate; infatti , come in quel caso molti potrebbero vederle, così in questo caso molti
potrebbero pensarle. Dunque il “di più” è di questo tipo. Ma allora non è chiaro quali siano le
cose vere ; sicché , se le cose stanno così, le cose sono per noi inconoscibili
Se solo l’essere può essere pensato, ci dice Gorgia, allora tutto ciò che può essere pensato è, cioè
sono anche i carri che gareggiano sul mare. Se infatti le cose sono perché possono essere pensate,
allora non solo le cose che sono viste da molti devono essere, ma anche quelle che sono pensate da
molti. Ma in tal modo non c’è nessuna differenza tra il vero ed il falso e noi non riusciamo più a
sapere che cosa è vero, dunque non riusciamo più a conoscere nulla: ciò equivale a dire che l’essere
non può essere pensato.
Se anche le cose fossero conoscibili , come potrebbe qualcuno manifestarle a qualcun altro?ciò che
uno ha visto, come potrebbe dirlo con una parola (logos)?E come potrebbe quello diventare chiaro
a chi ha ascoltato senza avere visto?Come infatti la vista non conosce i suoni così anche l’udito
non conosce i colori, ma i suoni, e chi parla dice,ma non dice colore né cosa, poiché non dice un
colore, ma una parola (logos); sicché non è possibile pensare un colore, ma solo vederlo, né un
suono, ma solo udirlo.
35
36
E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Bari, 2008.
Ib. pag. 32
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Solo le parole possono essere dette , ma le cose non sono parole, quindi le cose non possono essere
dette: i colori non possono essere detti ma solo visti ed i suoni non possono essere detti ma solo
uditi.37
Socrate
“So di non sapere”
Socrate
Se nei sofisti la critica ad ogni forma di sapere è radicale, Socrate ristabilisce un rapporto
positivo con la verità
So di non sapere dice Socrate in quanto le leggi, le consuetudini sociali e le
credenze religiose non gli consentono di sapere veramente qualcosa perché gratuite ed infondate.
In questo senso nemmeno le verità filosofiche si presentano come incontrovertibili per cui Socrate è
ancora più critico dei sofisti verso la conoscenza. Eppure lui sa di non sapere. Sa cioè che tutto
quanto è intorno a lui è privo di verità e gratuito. Ma sapere di non sapere è ben più di non sapere e
permette il salto qualitativo verso un piano superiore: il piano delle critica e della consapevolezza
della propria ignoranza e della non verità del proprio sapere (come il sapere sofistico) In effetti
Socrate è il più sapiente dei greci perché possiede un sapere superiore: il sapere che tutto ciò che è
oggetto di giudizio non è vero. La sua è quindi una critica al principio di autorità, educando così i
suoi concittadini:
-
alla conoscenza di sé: “conosci te stesso”
alla cura della propria anima
al dubbio su tutto ciò che è oggetto di riflessione.
Tale critica viene esercitata mediante il continuo ricorso alla domanda “che cos’è” su ogni cosa, (si
tratta insomma di cogliere l’essenza dell’oggetto del discorso) ossia mediante una continua richiesta
di definire38 ciò di cui si parla. Nello specifico, non si tratta tanto di definire obbligatoriamente
tutto ciò di cui si parla quanto di procedere alla sistematica messa in discussione di ogni oggetto
d’indagine fino a rivelarne l’infondatezza ed i pregiudizi sottesi. In questo senso Socrate avvia il
Dialogo tra gli interlocutori come ricerca viva di ogni cosa e come via per il sapere . Sapere che, se
37
Ib. pag. 33
Definire l’oggetto d’indagine: cos’è giusto? Cos’è bello? La risposta a questa domanda non va ricercata nelle singole
azioni particolari che possono essere testimoniate dai sensi o dalle sensazioni bensì dal pensiero:ossia dal concetto che
il pensiero coglie come generale o universale. Non allora alle singole azioni giuste per il singolo uomo sofisti) ma non
38
per l’altro, ma la giustizia come universale concetto (l’idea) che nel pensiero si manifesta come identico nei
diversi individui e perciò fonte di accordo.
Filieri Andrea
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raggiunto, può portare al bene dell’individuo ossia alla virtù. La virtù, in effetti, per Socrate, è
sapere: sapere come e cosa fare ogni volta che si tratta della nostra condotta, del nostro agire, del
nostro stare con noi stessi e con gli altri. Conosci te stesso recita sempre Socrate. Si tratta allora
di esaminarsi continuamente alla ricerca delle proprie virtù e del proprio bene mediante un
processo di messa in discussione delle proprie credenze e dei propri valori: “ per l’uomo il bene più
grande e quotidianamente ragionare della virtù e (…) la vita senza esame è vita indegna d’essere
vissuta.”
In questo senso Socrate richiama la filosofia dal cielo alla terra (Cicerone) ponendo l’attenzione
della sua ricerca non sulla ricerca naturalistica bensì sulla ricerca del senso della realtà umana. Ma
come ricerca Socrate la verità e la virtù? Mediante l’ironia (aspetto inventao da Socrate): arma
dialogica che come la torpedine comunica la scossa a chi la tocca, la scossa del dubbio che emerge
dalle false credenze e dalla false certezze. Si tratta allora di rimuovere le false certezze acquisendo
un metodo d’indagine che non pretende insegnare nulla (Socrate) ma solo far partorire a colui che
dialoga con Socrate, come una levatrice (arte maieutica), la virtù ed il bene. Ecco che allora se
Socrate accetta, da un lato, la critica di non sapere insegnare nulla, permette d’altro canto al
singolo, mercè il dialogo, di giungere alla verità: la virtù, la giustizia, il bene. Sapere insomma
cos’è il bene per l’uomo, è il risultato della ricerca socratica. Si tratta insomma ,per Socrate, di
vivere conformemente alla verità con saputa, di vivere nella conoscenza suprema del bene per
l’uomo. Chi non vive in questo modo, non è chi non vuole vivere nelle virtù (volontarismo etico)39
bensì chi non sa quale sia la verità (intellettualismo etico nel senso che per Socrate sapere ed essere
sono una cosa sola40). In effetti che sapere possiede chi resta sopraffatto dalle passioni? Tale sapere
è un non sapere. Vediamo: le cose che danno piacere non sono male in quanto danno piacere, ma in
quanto son seguite da dolore ed infelicità. Le azioni buone, viceversa, sono buone in quanto seguite
dalla felicità anche se dolorose al momento. Ma allora come ci poniamo di fronte alla domanda
rivolta a chi fa il male pur sapendo che è male? Non è forse un assurdo? In realtà, per Socrate,
nessuno fa il male essendone veramente consapevole. Chi fa il male, ossia chi compie azioni che
procurano danno a lui ed al prossimo, lo fa perché non sa che il piacere che gli deriva
immediatamente da quell’azione sarà seguito da un dolore peggiore. . Insomma non sa,
incontrovertibilmente, la verità. Chi compirebbe mai una azione che, alla fine , procura più
dolore che piacere? Allora è quel sapere veramente le cose che dobbiamo cercare. Se Socrate
trovasse quella verità certa che afferma di non sapere essa costituirebbe la virtù di cui si accennava
in precedenza.
39
In questa prospettiva si ritiene che a dominare le azioni umane siano le passioni e gli istinti e che il sapere sia sempre
sopraffatto da questi.
40
Vediamo: sapere ed esser virtuosi , per Socrate, sono la stessa cosa. Siamo cattivi dunque solo in quanto non
sappiamo. Come si afferma spesso: non sanno quello che fanno per cui sono cattivi. In buona sostanza, una volta
ottenuto il sapere si diventa buoni. Eppure, un aspetto poi codificato da Aristotele, è quello della debolezza della
volontà.
Alla fine, all’interno della Scuola di Atene, posiamo trovare un identico interesse per la morale(sapere\morale) ma
declinato in forme differenti: Socrate identifica il sapere con la bontà; Platone identifica il vero col bene; Aristotele
identifica il sapere con la felicità. Non il sapere con la virtù, visto che sussistono esempi contrari, ma il possesso di un
saper correlato al raggiungimento della felicità per l’uomo.
Filieri Andrea
15
Platone (427\347 a.c.)
Abbiamo detto che nella filosofia presocratica ci si rivolge al Tutto come
ciò che vi è di identico in tutte le cose (l’identità presente in tutte le cose)
ma il Tutto si può presentare come tale solo nel concetto(Socrate) che noi
abbiamo della totalità: andando alla ricerca del Tutto, lo possiamo
comprendere, ossia ci è intelligibile, solo se si manifesta, solo se si
presenta inequivocabilmente nel concetto che ne abbiamo: il Tutto è
pensato come Idea. L’acqua, l’aria, l’Essere, sono dunque concetti , o
meglio, sono contenuti di concetti di volta in volta assunti come il concetto
più universale del molteplice cangiante e diveniente. 41
Severino, ib. Pag. 83. Si pensi anche a questo: Platone deve anche poter formulare una teoria dell’essere diveniente
che Parmenide , nella sua fisica, aveva tentato di pensare senza introdurre il non-essere. In effetti il problema di Platone
è quello di dare una teoria dell’essere diveniente senza incorrere nel problema parmenideo dell’introduzione del non
essere al fine di spiegare l’essere diveniente: una otologia dell’essere diveniente . la risposta di Platone sta
nell’introdurre un nuovo senso del niente :
- nulla assoluto come negazione dell’Essere
- nulla relativo come eteron, come altro dall’essere senza negare l’essere. Altro nel senso che anch’esso è essere
sebbene non l’Essere.
41
Allora Platone quando parla dell’ente intende dire due cose:
- che questo oggetto ha alcune caratteristiche
- che questo oggetto è ossia esiste.
Nell’affermazione che un oggetto è un ente ci sono entrambe le cose dette. Ed è il NON che mi permette di dire che
una cosa è tale: x NON è y. Solo attraverso la negazione (non essere) arrivo a dire che cosa è x. D’altro lato se predico
di tutte le cose solo l’essere, le cose non si differenziano. Insomma la cosa non è solo un ente ma anche altro. Allora
devo dire che la cosa è un ente (predico l’essere della cosa) e che la cosa è qualcosa (ciò che la cosa è) di definito (la
sua essenza o il suo significato diremmo noi moderni). Ma io posso dire tutto ciò solo se introduco il non essere
differenziando l’essere dalla determinazione. Detto in altri termini quando dico che la deterninazione non è essere
intendo dire che la determinazione implica, al tempo stesso:
- l’essere della cosa ossia che la cosa è
il non essere della cosa ossia che la cosa è qualcosa di diverso dal semplice Essere perché se fosse
solamente, non ci sarebbe la differenza.
Devo dire quindi che la cosa è diversa dall’Essere e di conseguenza introdurre il non –essere al fine di spiegare
l’esistenza del molteplice diveniente. Se questa cosa è chiara possiamo dire allora che le caratteristiche della cosa sono
sebbene non siano Essere: essere(della cosa) come eteron, come altro(dall’Essere) e non come Nulla. Altro qui
significa che esso è un essere senza essere l’Essere. Quindi un non-essere relativo e non assoluto (Nulla).Platone
introduce quindi il non essere relativo come altro dall’essere senza essere nulla. il fatto che la cosa sia
determinatamente questa cosa , la determinatezza della cosa non è un niente, è essere essa pure, non c’è dubbio, le
caratteristiche della cosa sono e tuttavia non sono identiche con l’Essere, ché se non ci fosse distinzione si avrebbe solo
il puro Essere indistinto. Allora le caratteristiche della cosa non sono essere e al tempo stesso sono. Se comprendiamo
questa cosa capiamo la nozione di essere relativo o di non essere relativo in Platone e comprendiamo come per Platone
sia necessario introdurre il non-essere proprio per comprendere la nature dell’Essere. In effetti , secondo Platone, senza
il non-essere non saremmo neppure di fronte all’Essere.
In conclusione, per Platone, se vogliamo capire la natura dell’Essere dobbiamo introdurre il non essere, questo è il
contributo filosofico fondamentale rispetto a Parmenide. Ma, arrivati a questo punto, dobbiamo chiederci, se l’ente
sensibile e diveniente è caratterizzato sia dall’essere che dal non essere , direbbe Platone, da una via di mezzo tra
l’essere e il niente, (non è Essere in quanto diviene, è generato e si corrompe, non è nulla in quanto è altro dall’Essere
senza essere niente) qual è il fondamento dell’ente sensibile e diveniente? Ossia , se l’ente sensibile non è un ente
assoluto come l’essere parmenideo dove trova l’origine della sua esistenza? Non in se stesso in quanto non assoluto
ossia in quanto caratterizzato dall’essere e dal non essere, sebbene relativo bensì in altro. E cos’altro se non nel
-
Filieri Andrea
16
Vediamo: quale relazione sussiste tra un concetto e le cose a cui si riferisce? Quale relazione
sussiste tra la bellezza e le cose belle? Alcune cose belle possono sfiorire, o per altro non lo sono
state sempre, possono perire come cose, etc..La bellezza, viceversa, non potrà avere queste
caratteristiche, si è mai vista una bellezza in precedenza brutta? Se vogliamo la bellezza non si
modifica, le cose belle sì. Ora, il contenuto del concetto, ciò che in ogni concetto viene concepito,
viene chiamato da Platone
Idea.42
Ma l’Idea non è diveniente e mutevole e pertanto è eterna e
imperitura: l’Essere per eccellenza. L’Idea non è allora quel contenuto della mente che
ritroviamo in noi stessi alla fine di un ragionamento (valenza psichica o mentale), l’Idea non è il
contenuto mentale del concetto, ché se così fosse non esisterebbe fuori dalla mente, l’Idea esprime
piuttosto l’Essere nel suo manifestarsi al pensiero, allo sguardo concettuale della
43
conoscenza. Ancora, l’Idea è pensata secondo Platone, non è sentita
attraverso i sensi. Noi vediamo le singole cose ma non l’Idea, noi non riusciamo attraverso i
sensi a toccare l’Idea. Possiamo anche dire che l’Idea è un significato44 (l’esser uomo) che è
pensato all’interno della conoscenza. Il pensato (il contenuto del concetto, l’Idea) non è qualcosa di
irreale bensì è Essere, complesso di Idee (essere uomo, bellezza, etc.) che si manifesta nella
conoscenza concettuale. Il mondo delle Idee è dunque massimamente reale ed oggettivo anzi è più
reale degli enti che appaiono ai sensi in quanto gli enti divengono altro da sé. L’Idea dunque appare
alla ragione e si vede45: si vede inequivocabilmente senza misteri o pratiche esoteriche con gli
occhi della ragione46. Ancora, l’Idea , per Platone, si manifesta nel dialogo: solo nel Dialogo io
posso verificare attraverso le obiezioni del mio interlocutore se quanto affermo corrisponda al vero.
Ed attraverso il Dialogo io arrivo a pensare l’Idea.
Ma qual è allora la caratteristica dell’Idea? Vediamo.
1) struttura oggettiva del mondo delle Idee e non contenuto soggettivo dell’anima
2) massima realtà dell’Idea, più reale degli oggetti che appaiono ai sensi
3) non fisicità dell’Idea: non sta in un luogo o in uno spazio
soprasensibile? Ad esempio qul è il fondamento di una singola cosa bella?Una singola azione buona? Il Bello in quanto
tale o il Buono in quanto tale: una realtà universale ossia l’idea.
42
Severino, Ib. Pag. 85
43
vediamo: una lettura moderna di Platone riconoscerebbe nella connessione tra il mondo ideale delle Idee ed il
pensiero il prodotto dell’attività del pensare. In una battuta: il pensiero produce l’universalità dei concetti. In Platone è
vero l’opposto: il pensiero può arrivare ai concetti , all’univerale, proprio in quanto l’universale esiste oggettivamente.
La nostra capacità di astrarre dalle singole cose determinate ed arrivare al concetto universale è resa possibile questte
strutture universali esistono.
44
Il significato mostra in effetti che cos’è una determinata cosa sensibile. In buona sostanza il procedimento socratico
del che cos’è e dell’universale viene fatto proprio da Platone e superato nella concezione del mondo delle Idee come
Essere visto dal pensiero. Ma che cos’è il pensiero? Per tutto il pensiero antico il pensiero non si costituisce se non
all’interno della propria unità con la realtà. Potremmo anche dire che il pensiero è lo stesso venire alla luce della realtà.
. Io penso nel momento in cui la realtà ha consentito di manifestarsi. Ancora potremmo dire che proprio in quanto la
realtà si manifesta, proprio in quanto la realtà è Idea, io posso pensare . Se la realtà non fosse Idea, tutti i miei sforzi
sarebbero inutili.
45
Se in Socrate vale il detto “so di non sapere”, in Platone vale il contrario: so di sapere, ossia so si conoscere l’Essere
intelligibile al pensiero
46
Le Idee sono dunque soprasensibili in quanto appaiono primariamente all’intelletto . In quanto appaiono
all’intelletto senza velature sono intelligibili. Ma se sono soprasensibili allora esiste una separatezza tra i due mondi,
sensibile e soprasensibile. Per Platone, tra i due mondi c’é korismos, separatezza . I latini tradurranno questo
termine con trascendente. Nasce qui allora quella separatezza del mondo intelligibile rispetto al mondo sensibile.
In buona sostanza la divisione tra spirituale e materiale. Prima di Platone del resto non è possibile pensare Dio
come qualcosa di metafisico e immateriale.
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4) essenza della realtà: una volta che noi abbiamo astratto dalla sua particolarità di cosa
reale e determinata ci resta che cos’è quella cosa: l’Idea
5) realtà dell’Idea: le Idee si vedono, sono massimamente visibili agli occhi dell’intelletto,
sono totalmente trasparenti al pensiero anzi, le Idee sono reali proprio in quanto si
manifestano al pensiero attraverso il Dialogo
6) il pensiero si compie solo nel Dialogo: Io penso solo se dialogo, anche con me stesso,
perché introietto le obiezioni possibili del mio interlocutore. E quando penso,
inevitabilmente mi appare l’Idea.
7) Il pensiero raggiunge sempre la verità: nell’epoca moderna il problema , ad esempio di
Cartesio, sarà quello di capire se il pensiero raggiunge la realtà. Platone, viceversa, ritiene
che non si sia pensato sino a quando non si sia raggiunta la realtà sicché, quando penso,
inevitabilmente, raggiungo la realtà. Semmai io non penso se sento, ossia se sono
all’interno della sensibilità dove , appunto, ancora non penso.
8) Universalità dell’Idea: l’idea del bello, del bene etc. è universale.Se non sapessi cos’è la
bellezza potrei mai riconoscere una cosa bella?(aspetto gnoseologico)
Ora, se noi consideriamo che cos’è un ente qualsiasi, abbiamo sempre a che fare con un’idea. Alla
domanda “cos’è Atene” dovremo rispondere che è una città. Ed è l’Idea di città ciò che è Atene.
Possiamo anche dire che l’Idea costituisce il mondo sensibile. Il mondo sensibile è, in virtù
dell’Idea. Se vogliamo, l’Essere delle cose sensibili, e divenienti non è costituito né dagli atomi
democritei, né dalle quattro radici empedoclee bensì dalle Idee ed è questa la vera risposta
platonica. L’universale esiste oggettivamente47. Vediamo: se una cosa è bella lo è per la presenza
della bellezza, o del bello in sé, e per nessuna altra causa Socrate è uomo se non per la presenza
dell’essere uomo. In questo senso Platone non ha l’intento si stabilire in che modo l’idea sia
presente nel sensibile bensì, più semplicemente, di affermarne la presenza. Tale affermazione
conduce Platone, nel Timeo, ad introdurre da un lato il Demiurgo (Dio), artefice dell’universo
sensibile, dall’altro una natura informe che è “madre” e ricettacolo di tutto ciò che viene generato.
In effetti il demiurgo esprime la forza che ha la capacità di realizzare la partecipazione
dell’Idea al sensibile. Ossia di produrre il sensibile ad immagine e somiglianza (mimesi)
dell’intelligibile. . Non una forza cieca ma una potenza che è insieme anche suprema sapienza. La
sapienza di chi conosce il mondo delle Idee e le assume come modello48 nella produzione sensibile.
L’Idea allora è la vera “causa” del mondo sensibile: il reale è tale perché modellato sull’intelligibile
ad opera del Demiurgo. Ora, se l’Idea è presente nel mondo sensibile ad opera del Demiurgo, il
costituirsi del sensibile, il suo farsi concretamente qui ed ora, richiede anche ciò che riceve forma
dall’intelligibile: le Idee di bello, Buono; Giusto, Uomo, etc., sono i modelli di ciò che riceve
l’Idea. L’immagine esiste, è tale, solo se “qualcosa” è trasformata dal Dio in immagine dell’Idea.
Ma se questo “qualcosa” è ciò che può ricevere ogni impronta dell’intelligibile (ossia del regno
delle Idee), proprio per questo non avrà nessuna intelligibilità. Ciò posto, la chora (il “qualcosa”
assolutamente indeterminato”)non è né terra, né aria, né fuoco, etc. 49, ma è assolutamente
indeterminata: è la pura capacità di assumere ogni forma, il caos originario, ingenerato ed eterno,
che viene trasformato in cosmo ordinato dall’intelligenza divina del Demiurgo. Ancora, potremmo
dire che la chora non è nient’altro che la physis in quanto materia (ciò di cui le cose sono fatte)
mentre il Demiurgo che produce le cose sensibili ad immagine dell’Idea è la physis in quanto
arché. In questo senso la cosa sensibile che è immagine dell’idea, corrompendosi ritorna all’idea
Vediamo: il mondo delle Idee eredita la caratteristica dell’essere parmenideo: la necessità.
L’Idea è forma dell’oggetto e quindi sua ragion d’essere (perciò logicamente ed ontologicamente preesistente agli
oggetti sensibili, che non sono se non copie di essa in un rapporto di presenza, partecipazione, imitazione e comunanza).
Vedi Atlante della Filosofia, cit, pag. 345
49
Severino, La filosofia antica e medioevale, Bur, Milano, 2006
47
48
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nel senso che l’idea resta immutata ed eterna mentre la parte sensibile di ciò che è fatta la cosa
sensibile ritorna alla materia madre.
Ciò che è (idea intelligibile);
Il che cos’è dell’ente , l’essere
dell’ente (e di se stessa)
Cosa sensibile
Ciò di cui è fatto (materia)
Dall’opinione alla verità
L’anima è come un libro, in cui un
interno scrivano annota i pensieri,
ricordi e ragionamenti. L’anima non
deve essere troppo dura per trattenere le
impressioni, nè troppo tenera per lasciar
sfuggire le impressioni.
Platone
Ora, la conoscenza del mondo delle Idee, la conoscenza dell’Essere (genitivo oggettivo) viene a
formarsi secondo Platone alla fine di un laborioso processo che porta al di là del comune modo di
pensare. I più ritengono che la realtà consista nel solo mondo sensibile non arrivando a concepire le
Idee, non arrivando a comprendere come le cose siano immagini delle Idee. Insieme a Parmenide,
Platone chiana doxa (opinione) il sogno in cui permangono coloro che si fermano al solo mondo
sensibile. I più insomma si relazionano al mondo diveniente che ora è, esiste, è qualcosa, ed ora non
è più, è non essere, non essere più il qualcosa di prima, o, per converso, non ancora. Platone elabora
a questo proposito un mito, il mito della caverna, al fine di rendere chiaro il senso del processo
conoscitivo: inizialmente l’uomo vive nello stadio (fase) dell’opinione, in una sorta di prigione che
non consente di muoversi verso la verità. Un’opinione riferita, rispettivamente, ai corpi sensibili (
fede) o alle immagini di questi (immaginazione): prodotti dell’arte umana, sogni, fantasie.
Successivamente, nello stadio dell’intelligenza, l’uomo si può trovare nuovamente all’interno di due
fasi: il raziocinio e la intuizione (noùs). Il raziocinio è costituito dalle conoscenze afferenti il mondo
geometrico\matematico: il quadrato sensibile e le altre figure della geometria sono oggetto di
comprensione razionale così come i principi da cui muovono per i ragionamenti matematici quali il
concetto di numero, pari, dispari, etc. Ma tali principi non sono oggetto d’indagine da parte della
geometria, che li utilizza al fine di dimostrare i diversi teoremi matematici e geometrici. Viceversa,
nella fase dell’intuizione, non vi deve essere nulla di ipotetico o dubitativo, nulla che si rifaccia ad
altri principi o idee. La verità e la scienza si costituiscono piuttosto solamente nell’ultima fase: in
quest’ambito avviene la conoscenza dovuta al nous, all’intuizione, che permette l’accesso al
principio non ipotetico di ogni cosa, il principio da cui dipende l’intera conoscenza del mondo
intelligibile: il Bene. In effetti non si dà conoscenza del mondo sensibile ed intelligibile se non si è
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in grado di conoscere il suo “Bene” e quindi se non si conosce il Bene in se stesso50 . Possiamo
anche dire che ogni cosa è un certo bene: ogni cosa è un essere che risponde o meno a ciò che
costituisce il suo Bene ed in questo senso è un certo “bene”. Ora l’Idea del Bene (rappresentata
dal sole nel mito della caverna) è insieme, causa per la quale le singole cose sono conosciute
(piano gnoseologico) e causa per la quale ogni conoscibile esiste (piano ontologico) ed è ciò che è.
VEDIAMO MEGLIO: l’idea di uomo è ciò che vi è di identico nei diversi uomini sensibili51 (ogni
uomo, per essere tale, possiede l’idea di uomo) mentre l’idea del Bene è ciò che vi è di identico
(ogni idea presuppone, è partecipata, dall’idea del Bene) nelle diverse idee (molteplice ideale) che
sono partecipate dagli enti sensibili. Ora, gli enti sensibili, come risulta evidente
fenomelogicamente, sono molti e diversi tra loro. Questa molteplicità variegata di enti è negata da
Parmedide in quanto non essere ossia ognuno degli enti determinato, ad. es. l’albero, non significa
essere per cui è non essere.
B
Ma se dico che l’albero esiste allora affermo che il non essere esiste ossia affermo che
l’essere è non essere ma questo è impossibile per la ragione. Ora in Platone, tale impossibilità
viene superata sia in riferimento alla molteplicità delle Idee che in riferimento alla molteplicità del
reale.
Nel Sofista Platone distingue due sensi del non essere: il “non essere “ come opposto o
contrario dell’essere (non essere assoluto); il “non essere” come diverso dall’essere (non essere
relativo). In buona sostanza: il contrario dell’essere è il nulla assoluto ed è anche impossibile
pensare che il non essere sia, ma, in un altro senso, ogni determinazione sensibile possiede un
significato che non equivale al contrario dell’essere. Ognuna delle Idee e delle determinazioni
sensibili può dunque essere affermata nella sua esistenza senza cadere nella contraddittorietà
parmenidea. In sintesi: il “non essere” è il molteplice come diverso dall’essere. Ora, il passo avanti
che dobbiamo compiere per intendere appieno Platone consiste nel comprendere che “essere”
significa ciò che è o meglio ogni determinazione che è. Ma allora, eccoci al passo conclusivo, se
nella filosofia presocratica, ciò che vi è di identico nel molteplice è l’elemento di cui sono fatte le
cose, in Platone, ciò che vi è di identico è l’essere una determinazione che è. E nel pensare al Tutto
la filosofia pensa ad ogni determinazione (qualcosa) che è come un ente. L’ente è appunto un
qualcosa che è ed ogni cosa ha di identico con tutte le altre il fatto di essere un qualcosa che è e
non è un niente. In questa identità io come essere pensante riesco a pensare il tutto che solo mi
appare nello scorgere l’identità di ogni diverso.
In conclusione: il Demiurgo platonico produce (porta ad essere) le cose sensibili ad immagine
delle idee. Il Demiurgo è la physis come arché ossia come principio che governa il mondo. La
Madre (ricettacolo delle idee ) è la physis come materia (ciò di cui le cose sono fatte). La
relazione tra il Demiurgo, le Idee e la materia madre è la physis come essere da cui ed a cui
provengono e ritornano tutte le cose dell’universo. Ancora di più: in ogni ente, l’idea è ciò che
l’ente è ossia il che cos’è dell’ente. L’idea di scolaro è ciò che uno scolaro è, il che cos’è dello
scolaro, il suo essere questa determinazione sensibile o intelligibile.
Una volta compreso il senso della filosofia platonica si comprende come grazie ad essa sia
possibile l’ascesa dalla opinione alla verità. Si badi che però , grazie alla filosofia, non si perfeziona
solo il nostro modo di pensare ma anche il nostro modo di vivere. La verità, una volta acquisita, non
conduce al semplice godimento nella vita sensibile bensì alla contemplazione della verità ossia alla
contemplazione del mondo delle Idee coglibile col pensiero. Piuttosto la vita sensibile porta ad un
disturbo alla contemplazione della verità. In effetti non con i sensi bensì col pensiero si coglie la
verità e l’idea del BENE. Ecco che allora la morte del corpo permette all’anima (immortale) di
godere della contemplazione del mondo delle idee una volta liberata dall’impedimento del corpo. In
50
51
Ib. Pag. 93
E’ l’unità del molteplice.
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questo senso Socrate e la sua morte assumono un senso positivo: ci si rallegra dell’imminenza della
morte perché imminente è il viaggio verso il mondo intelligibile che l’anima, per sua natura
immortale come dimostra Socrate, potrà compiere. Ancora , per Platone , non solo l’anima è
immortale, ma preesiste anche alla sua unione col corpo: prima di vivere nel mondo sensibile
l’uomo vive come anima ed ha la possibilità di contemplare l’eterno mondo intelligibile al quale il
filosofo ritorna dopo la morte del corpo.
Platone dimostra la tesi della preesistenza dell’anima con un argomento gnoseologico:
quando noi percepiamo due cose uguali a livello sensibile dobbiamo già disporre del criterio di
uguaglianza per confrontarle: in buona sostanza noi ci ricordiamo di quanto già sapevamo.
La tematica dell’anima
Secondo Platone “L’anima è interamente legata ai lacci del corpo, e ad esso congiunta,
costretta a considerare gli enti attraverso il corpo, come attraverso una prigione, e non da se stessa
e per se stessa, per cui è avvolta in una forma di ignoranza.
Si rende conto inoltre che la cosa tremenda del carcere è prodotta dalle passioni, e chi ne
è avvinghiato contribuisce esso stesso a farsi incatenare.
Orbene, coloro che amano il sapere sanno che la filosofia, accogliendo la loro anima che si
trova in questo stato, la consiglia cercando di scioglierla dalle catene, mostrando che l’indagine
che si coglie attraverso gli occhi è piena di inganni, e così anche l’indagine che si conduce
mediante gli orecchi e gli altri sensi. Perciò la persuade ad abbondonarli, e a non ricorrervi se
non per quel tanto che è necessario farne uso, e la esorta a raccogliersi e a concentrarsi tutta in se
stessa e non credere a nient’altro che a se stessa e a tenere per vero solo ciò che da sè essa
intende, quale che sia quall’essere in sè e per sè che da sè essa sola pensa e a non prendere per
vero ciò che ciò che vede con altri mezzi e che continuamente muta col mutare delle circostanze,
perchè mentre questo è sensibile e visibile, ciò che da sè essa vede è immutabile ed eterno”52.
Da quanto espresso si comprende come, in Platone, sia possibile la nascita dell’uomo
occidentale come normalmente lo intendiamo: raccolto presso di sè e concentrato intorno a quella
unità razionale che è l’anima . Anima che deve controllare o meglio dominare le passioni del corpo
che la imprigionano.
In effetti l’anima razionale dell’uomo è s-passionata, espressione della retta conoscenza e
della razionalità più pura. Per questo la Paideia greca, in particolare quella platonica, sarà la messa a
punto di regole che, attraverso il dominio delle passioni, consentirà di raggiungere la verità 53. Per
questo l’anima deve star sola con se stessa, ed “astenersi il più possibile dalle passioni, dai
desideri e dai dolori”54. Astenersi quindi dal mondo sensibile verso la conoscenza dell’intelligibile,
delle Idee. L’’anima allora è connotata dalla sola ragione; una ragione che caratterizza
essenzialmente l’anima secondo una modalità autosufficiente che La porta , in quanto consapevole
di sè, a pensarsi oramai per sè. Si tratta insomma di comprendere come in Platone sia anticipata la
nascita di un Soggetto consapevole di sè ed individuale, separato da un corpo portatore di
disordine e follia55. Ancora l’anima, grazie alla sua natura razionale sganciata dai sensi, può
intrattenersi con la verità, con il mondo delle Idee. In una battuta: l’anima è il luogo della verità.
Si ricordi inoltre che la verità in Platone ha carattere pratico, come in tutta la filosofia
antica: essa guida l’uomo nella vita che egli vuole vivere, in vista del fine\scopo supremo della vita
ossia la contemplazione della verità. Chi ama la verità allora non pone come scopo della propria
vita il godimento sensibile, visto che la vita sensibile disturba la contemplazione della verità. Anzi,
Fedone, 82e – 83b.
Cfr. Galinberti, Psiche e Techne, Feltrinelli, Milano, pagg. 126 e sgg.
54
Ivi 83b.
55
Cfr. Galimberti, cit. pag. 127.
52
53
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in misura maggiore la morte del corpo rende accessibile l’approccio al divino: così Socrate muore
nell’attesa della visione dell’intelligibile ossia in compagnia degli dei.
L’anima
Abbiamo visto come le Idee non possono derivare dai sensi, in quanto questi ci rendono
solo conto del mondo materiale, inafferabile a causa del suo mutamento56.
Piuttosto le Idee devono “essere viste “ con gli occhi della mente, così come esprime la
radice id- del verbo - idèin – vedere, da cui deriva il termine - idea. Il corrispettivo latino di - idea
è – species – che possiede la medesima radice di - spectare – ossi contemplare, o anche assistere
ad uno spettacolo57.
Ora, secondo Platone, noi possiamo conoscere il mondo delle Idee grazia all’anima: un
anima che si ricorda – teoria della REMINESCENZA – di quanto ha già visto, giacchè per
confrontare il sensibile all’intelligibile è necessario che l’intelligibile sia conosciuto prima ed
indipendentemente dal sensibile. Nella vita sensibile la conoscenza è dunque reminescenza.
L’anima insomma, prima di calarsi nel nostro corpo, ha già vissuto nel mondo delle Idee, e
tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose sensibili. Una volta
discesa nel mondo sensibile l’anima si rammemora del già visto: conoscere è allora ricordare
(aspetto innatistico).
Patone comunque non ritiene che noi ricordiamo perfettamente quanto già visto, siamo
insomma in una forma di ignoranza che necessità di svelare la completezza del già visto: dobbiamo
allora “tirare fuori “- Socrate – la nostra conoscenza vera e propria.
Per altri versi Platone ritiene che l’anima sia immortale (Fedone), e giustifica questa
affermazione con alcune argomentazioni:
1) Teoria dei contrari: ogni cosa si genera dal suo contrario, per cui l’anima rivive dopo la
morte del corpo;
2) Teoria della somiglianza: l’anima è simile alle Idee sterne, per cui sarà anch’essa
eterna;
3) Teoria del soffio vitale: l’anima in quanto soffio vitale, è vita e partecipa dell’idea di
vita. Se è così non può partecipare dell’idea di morte ad essa opposta.
.
Ecco che allora l’anima, attraverso l’esercizio della filosofia e del Dia-logos, può alla fine
ricordare pienamente il senso dell’essere: la complessità delle Idee con a capo l’idea del Bene.
Un Bene che, in quanto superiore ad ogni ente, è come afferma Platone, al di là
dell’Essere, che supera in dignità potenza58.
Ora, in Platone, l’idea di anima risale etimologicamente al termine Psychè, che in verità
copre un’area semantica più vasta: anima, vita , spirito, coscienza. Egli definisce l’anima
naturalisticamente, da un lato, come principio di automovimento del mondo corporeo. Dall’altro
Platone sembra accoglire l’idea dell’Orfismo religioso di una sopravvivenza dell’anima rispetto al
56
Abbagnano, Paravia, 2015, pagg. 222 e sgg.
Ibidem.
58
Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b.
57
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corpo. In Aristotele, che riprende e modifica la tripartizione platonica, sembra accentuarsi l’aspetto
della dipendenza funzionale della psychè dal corpo59.
Successivamente Platone, si occupa del destino dell’anima, una volta acclarata la sua
immortalità. E a seconda del tipo di anima, buona o catttiva, diverso sarà il viaggio nell’Ade. Ora
l’anima che si sarà macchiata di azioni ingiuste andrà vagando da sola sino al tempo designato dalla
Necessità, quando sarà portata nella prigione toccatale in sorte; viveversa l’anima temperante e
saggia, vissuta nella purezzza e nella misura, sarà accolta nel luogo che le si addice: nella parte più
alta del cielo. In questo senso ciascuno è responsabile della propria sorte (l’anima vive quindi la
vita essa vuole): la filosofa è la via che consente all’uomo di salvare la propria anima perchè gli
insegna la verità ed il Bene. In misura più specifica Platone riconosce all’anima una tripartizione:
1) Razionale:sede del ragionamento logico e della argomentazione rigorosa;
2) Irascibile; passionale, essa si sdegna spesso per le azioni compiute dalla parte
concupiscibile per cui è soggetta all’influsso della parte razionale. (coraggio ed eroismo)
3) Concupiscibile: sede degli istinti. Esa è spesso ribelle, sede degli appettiti, brame,
desideri.
Platone designa quindi un essere, l’uomo, diviso tra l’aspirazione alla visione
dell’incorrutibile e la tendenza a restare nel mondo sensibile. L’uomo giusto è colui nel
quale la ragione esercita il compito che le è proprio: dominare istinti e passioni. E la
ragione va intesa precipuamente come conoscenza della verità attraverso la liberazione
dall’opinione.
In questa dicotomia, Platone cerca di evidenziare quale sia la possibilità per l’uomo
di unire questi due aspetti o meglio di risolvere il conflitto in cui l’anima di dibatte:
l’amore o Eros secondo Platone consente di ottenere quella forza che consente
all’anima di elevarsi dall’esperienza sensibile alla Bellezza ideale ed eterna60.
Si badi che la tematica dell’amore platonico esprime un aspetto profondo ed
innovativo della filosofia platonica: l’amore è follia sebbene non sempre la follia sia un
male. Si tratta infatti di divina follia. E dal divino procede e proviene il bene per
l’uomo. In effetti l’amore per la bellezza del mondo delle Idee è dolcissima pazzia
divina. L’innamorato può infatti percorrere tutte le tappe che lo porteranno a
riconquistare il mondo intelligibile. Platone delinea gli effetti dell’amore con grande
precisione: quando un uomo vede un corpo di fattezze “divine” lo venera con passione,
con tremito e palpito61. Ora, quest’aspetto di Eros – vera forza mediatrice tra sensibile e
soprasensibile - spinge l’anima a superare il mondo sensibile e fisico, dirigendo l’anima
al soprasensibile, dove potrà “vedere” ed amare la bellezza (il Bello coincide con il
Bene: ideale estetico e morale) soprasensibile.
59
Cioffi, Il testo filosofico, Mondadori.
La meraviglia delle Idee, Massaro, Paravia, pag. 161.
61
Ibidem.
60
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Felicità e giustizia62
La politica è stata la passione
dominante della mia vita.
Platone, Lettera VII
Secondo Platone, la virtù dell’anima è vivere bene, secondo giustizia – virtù morale- ,
(equilibrio delle parti dell’anima)63 che è appunto la virtù dell’anima e la condizione della felicità.
Una concezione questa, autarchica della felicità: la felicità dipende solo dal singolo, sebbene
inserito in un contesto politico a lui affine: una città ( la traduzione di – Polis – con – Stato – non
sembra essere corretta64) che fonde il concetto individuale di felicità in quello sociale (ma forse
sarebbe meglio dire comunitario), in cui tutti operano secondo giustizia, ossia svolgono al meglio il
proprio compito. Una felicità quindi, alla fine, soprattutto sociale, sebbene nella misura in cui la
natura concede65 ossia nella misura in cui ognuno, per nascita, presenta una propria natura. (una
concezione quasi pessimistica questa) per cui non tutti possono essere realmente felici.
L’uomo è la sua anima
Socrate
Afferma Platone: “Ora, non abbiamo affermato che virtù66 dell’anima è la giustizia e vizio
62
Cfr. Jager, Paideia, II, pp.129, in cui il problema politico di Platone è ritenuto il punto fondante della sua filosofia.
E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, pagg. 255 e sgg.
64
Ibidem.
65
Ibidem.
66
Virtù: il termine non ebbe originariamente quel significato specificamente morale che ha avuto in seguito nelle
dottrine filosofiche e religiose. Il termine greco ἀρετή e quello latino virtus stanno, infatti, a indicare una particolare
capacità o una condizione di eccellenza. Cfr. Treccani on line.
Per Omero è la v. militare, cioè coraggio e destrezza, Cicerone fa derivare virtus da vir («uomo») e la
identifica con la fortitudo («forza d’animo»), chiamata a sostenere due ardui compiti: il disprezzo della morte e del
dolore (Tusculanae disputationes, II, 18).
Virtù e mondo morale. La v. diviene oggetto di indagine filosofica con Socrate, che si pone il problema di «che cosa è»
la v. e lo risolve nel senso della stretta dipendenza della v. dal sapere, per cui la conoscenza è momento intrinseco della
stessa volontà. Cfr. Treccani on line.
63
Sviluppando l’impostazione socratica, Platone concepisce la v. come capacità di attendere a una funzione determinata:
«in ciascuna cosa cui è attribuita una data funzione ci deve essere pure una v.»; così, se la funzione degli occhi è
quella di vedere, la possibilità di vedere è la v. degli occhi. Egli individua quindi tante v. quante sono le funzioni
fondamentali dell’anima:
temperanza;
2. coraggio;
3. prudenza o σωφροσύνη;
4. giustizia come armonia delle precedenti ; Platone le pone alla base dell’organismo statale
1.
;(Repubblica, I, 353 a-d; IV, 440-445).
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l’ingiustizia? - Sì, l’abbiamo AffermatoSocrate – Perciò l’anima giusta e l’uomo giusto
vivranno bene e l’ingiusto male. – E’ evidente disse.” (Repubblica, II, 601b).
Aristotele, in corrispondenza delle due parti dell’anima, l’una razionale e l’altra priva di ragione, distingue tra due
specie di v.:
1. dianoetiche (arte, τέχνη; scienza, ἐπιστήμη; saggezza pratica o prudenza, φρόνησις; intelletto, νοῦς; e
sapienza, σοφία) e le
2. etiche (coraggio, temperanza, liberalità, magnanimità, mitezza, affabilità, sincerità, urbanità, giustizia,
equità, continenza e amicizia).
Le prime sono legate al prevalere della ragione discorsiva o conoscitiva, o διάνοια (Etica Nicomachea, 1103 a;
1139 b), e le seconde al dominio sull’impulso sensibile (Etica Nicomachea, 1102 b) secondo il criterio del «giusto
mezzo» fra gli estremi (Etica Nicomachea, 1106 a). Lo Stagirita, inoltre, presenta la v. etica come un «abito», cioè una
stabile disposizione o qualità dell’anima che l’uomo non possiede per natura ma che acquisisce operando fattivamente e
compiendo gli atti corrispondenti a ciascuna v. (Etica Nicomachea, 1103 a). Significative, nell’ambito delle dottrine
antiche sulla v., le concezioni stoica ed epicurea che attribuiscono centralità alla v. della saggezza (φρόνησις) o
prudenza, intesa dagli stoici come capacità di contrapporsi alla forza irrazionale e incontrollabile delle passioni in una
prospettiva ascetica; e dagli epicurei come calcolo razionale dei «piaceri» in vista di una condizione di atarassia . In
partic. gli stoici costruiscono sul loro concetto fondamentale dell’identità di ragione e natura una grandiosa e
ricchissima casistica delle v. e dei vizi, che si riassume nell’antitesi «saggezza-stoltezza» e si articola nella dottrina delle
passioni superate dalla v.; l’analisi stoica delle v. e dei vizi avrebbe poi fornito materia e argomenti alla letteratura
moralistica dei secoli successivi. Cfr. Treccani on line.
Le virtù cristiane. Con il cristianesimo la v. cessa di essere un ideale di perfezione puramente umana e, in aggiunta alle
quattro virtù platoniche – denominate nel mondo cristiano v. cardinali – entrano in campo le v. teologali (fede,
speranza e carità) che portano l’uomo verso Dio. Queste sono v. soprannaturali, cioè abiti infusi nell’individuo da
Dio, che ne è d’altronde l’oggetto. Per Agostino l’unica vera v. è l’amore di Dio, dalla quale deriva la capacità
dell’uomo di vivere rettamente; tale v. non è una conquista dell’uomo, bensì «Dio la produce in noi senza di noi».
Tommaso, riprendendo tale definizione (Summa theologiae, I-IIae, q. 55, a. 4), sottolinea che la causa efficiente della v.
infusa è Dio, ma che per il resto la definizione di v. è comune a tutte, sia infuse sia acquisite. In questo modo egli
conserva la distinzione tra due tipi di v. e tutela il valore (sia pure non assoluto) delle v. raggiunte dall’uomo grazie al
proprio impegno; a quest’ultimo riguardo – come per altri problemi filosofici – il suo riferimento è ad Aristotele e
all’Etica Nicomachea. Per Tommaso l’uomo è caratterizzato da un lato dalla finitezza (e quindi dalla fragilità e dal
continuo pericolo di disordine morale e di peccato), dall’altro da un desiderio che non può essere soddisfatto da nessun
bene finito; pertanto l’uomo non potrà realizzare sé stesso in una dimensione autarchica, ma dovrà aprirsi al bene
infinito, cioè a Dio, per raggiungere il traguardo ultimo della salvezza. A tal fine Dio fa dono della grazia, un aiuto
decisivo per vincere il peccato. L’obiettivo finale dell’uomo, dunque, non può essere conseguito per mezzo del solo
impegno etico, e le v. morali, anche se necessarie, non sono sufficienti senza le v. teologali donate da Dio. Cfr. Treccani
on line.
Virtù mondana e virtù naturale. Sarà poi l’Umanesimo, mettendo l’accento sulla dignità dell’uomo, a riportare in auge
il tema antico della v. mondana. Nel Rinascimento importante è la fortuna del termine nelle pagine di Machiavelli, dove
la v., sganciata da un significato morale, consiste nella capacità dell’uomo di non subire passivamente i casi della
«fortuna», ma di dominarli. La v. consiste quindi nella forza dell’individuo di tradurre in atto il proprio volere,
indipendentemente dalla valenza morale e religiosa degli scopi che egli si propone. Insieme alla fortuna, o complesso
delle condizioni oggettive in continuo mutamento in cui l’uomo si trova a operare, e in contrapposizione con essa, la v.
costituisce il fattore determinante del divenire storico. Successivamente, nelle definizioni spinoziane, la v. è
nuovamente ricondotta a potenza o facoltà insita nelle cose e nelle persone (come capacità, attitudine, o disposizione
naturale): «Per v. e potenza intendo la stessa cosa: cioè la v., in quanto si riferisce all’uomo, è la stessa essenza o natura
dell’uomo, in quanto ha il potere di fare certe cose che possono spiegarsi con le sole leggi della sua stessa natura»
(Ethica, 1677, IV, def. VIII). Nel Seicento è soprattutto il proposito di un esame razionale e scientifico del mondo
morale ad accomunare la riflessione etica, sia nella forma di un’analisi meccanicistica dell’uomo e di una dimostrazione
geometrica delle norme etico-politiche (Hobbes), sia in quella dell’esame della base fisiologica delle passioni
dell’anima (Cartesio)
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Ora, se per Platone l’uomo è fondamentalmente la sua anima, solo l’uomo giusto può
essere felice. In effetti i piaceri del corpo non sono tenuti in conto da Platone, o meglio da Socrate,
genialmente espresso da Platone67.
Proseguendo nella disanima della Repubblica, Platone analizza il senso della giustizia
arrivando ad affermare che l’uomo può essere felice solo in una città ove ognuno svolge al meglio il
propio compito: ogni categoria sociale infatti deve svolgere al meglio il proprio compito secondo la
propria virtù:
-
per i guerrieri sarà il coraggio,
per i governanti la sapienza,
quella di ognuno sarà la misura, il contenimento delle
passioni ossia la temperanza.
La giustizia è espressa dalla “somma di tutte queste
virtù”.68Di nuovo una concezione quasi ascetica.
In questo senso, ed in riferimento ai passi della Repubblica citati, sembra che in questa vita,
il filosofo, colui che secondo un ideale ascetico conosce la verità ed è temperante, non possa essere
veramente felice. E questo non tanto perchè non vive nella città ideale, fondata sulla giustizia di
tutti e di ognuno, ma perchè prigionero del corpo che ottunde la via alla felicità (Repubblica).
In verità, questo aspetto della felicità legata in particolare ai filosofi, ossia a coloro che in
questa vita conoscono la verità, sembra essere controverso: Platone infatti, alla fine della
Repubblica, concede che il filosofo sia felice in questa vita ed anche nella vita futura mentre il
Tiranno non sembra essere felice nè ora ne dopo.
Ora, se è cosi, secondo il mito di Er che pone premi e punizioni per la vita condotta, perchè
il filosofo dovrebbe essere premiato dopo la morte per la vita praticata se già era felice? E perchè il
secondo dovrebbe essere punito se già era infelice?69
Per dare una risposta è necessaria una breve disanima dei dialoghi ulteriori: nel Fedone, si
affaccia maggiormente la tematica dell’anima come prigioniera del corpo di cui si libera dopo la
morte, per cui nemmeno il filosofo può essere veramente felice in questa vita.
In questo senso, sembra che in questa vita, il filosofo, colui che secondo un ideale ascetico
conosce la verità ed è temperante, non possa essere veramente felice. E questo non tanto perchè
non vive nella città ideale, fondata sulla giustizia di tutti e di ognuno, ma perchè prigionero del
corpo che ottunde la via alla felicità.
Viceversa nel Simposio, non pare che dimensione autarchica ed ascetica della Repubblica e
del Fedone sia dominante. Piuttosto la dimensione della carnalità e della conteplazione si
dispongono in un crescendo che già in questa vita consentono la felicità. AMORE PASSIONALE E
SPIRITUALE COME ASPETTI SUCCESSIVI DI UN MEDESIMO PERCORSO. Percorso che si
invera nel momento culminante della contemplazione del Bello in sè: felicità dunque già in questa
vita per il filosofo: Eros (Amore) dunque come dimensione stessa della filosofia, meglio del
filosofare come amore della verità.
67
Ibidem.
Ibidem.
69
Ibidem.
68
Filieri Andrea
26
V’è però da dire che anche nel Filebo, uno degli ultimi dialoghi di Platone, l’aspetto
autarchico e quindi di responsabilità del singolo in questa vita, non viene mai meno: il singolo è
sempre responsabile di ciò che fa e sceglie, o meglio di ciò che vuole70, per cui la sua vita può
essere vissuta in un modo o in altro. Ogni riferimento alla Fortuna è assente, mentre
l’organizzazione della Polis è la dimensione che consente al singolo la via della verità, della
contemplazione e della felicità.
Ancora, il senso del piacere intellettuale nella contemplazione del Bello in sè è più
manifesto e presente unitamente ai piaceri del corpo: certo i piaceri sono puri e non, per cui i piaceri
intellettuali sono preferibili.
Aristotele
Cosa caratterizza la filosofia di Aristotele? Potremmo dire in prima battuta che se Platone
ha riformato l’ontologia parmenidea allora Aristotele riforma l’ontologia platonica: per Aristotele
anche l’essere sensibile può essere sostanziale71 (avere fondamento in se stesso). Non solo l’essere
soprasensibile può essere sostanziale ma anche quello sensibile. Di più ancora: in Aristotele
non solo l’essere sensibile ed individuale è sostanziale ma solo l’essere sensibile ed
individuale è sostanza.72 In una battuta Aristotele critica radicalmente Platone e ne ribalta
70
Cfr, Severino, cit. pag. 108.
Ed è sostanza il sostrato, cioè in un senso la materia (chiamo materia quella che, senza essere in atto qualcosa di
determinato è, però potenzialmente qualcosa di determinato), in un altro senso il concetto e la forma, ossia ciò che,
essendo qualcosa di determinato, può esistere separatamente solo per logica astrazione; in terzo luogo è sostanza il
composto di materia e forma, e di esso soltanto c'è generazione e corruzione, ed è esso soltanto quello che, in modo
assoluto, ha un'esistenza separata: infatti, tra le sostanze formali, alcune hanno esistenza separata, altre no.
Metafisica
72
Spieghiamoci: ousìa è il termine che A. utilizza per indicare che cos’è un ente. Ousìa è un sostantivo formato sul
participio del verbo éinai , essere. In lingua italiana il participio suona come essente o ente , in una battuta ousìa suona
come l’essere un ente da parte dell’ente. In effetti l’ente è anzitutto un essere un ente. Ora questo termine indica
innanzitutto un ente determinato, non solo, determinato in un modo tale che compete solo a quegli enti che A. chiama
una ousìa e che non sono accidenti (dal participio àccidens del verbo accìdere che significa capitare, accadere). In
generale ousìa è tradotto con sostanza, dal latino sub-stantia, ciò che sta sotto. In effetti l’ousìa è hypokéimenon ossia
sub-stantia. Esemplificando : l’albero è verde dove l’essere verde è qualcosa che accade all’albero e che esiste solo
come proprietà di quest’albero o di altro. Detto altrimenti non esiste un ente diverso da quest’albero che abbia la
proprietà di essere quest’albero. A. chiama appunto sostanza ogni ente determinato che , a differenza dell’accidente,
non può essere predicato di un altro ente. In conclusione l’accidente ha bisogno di qualcosa per esistere come accidente
mentre la sostanza no. Ora l’Idea platonica non può essere sostanza visto che l’idea è in modo eminente predicato e
proprietà degli enti. Ogni sostanza , e quindi anche le sostanza sensibili, rispondono alla definizione di sostanza data da
A. La sostanza quindi è ciò che una cosa è , il che cos’è di un ente. Ma Aristotele usa anche il termine forma per
indicare il che cos’è di un ente. Se pensiamo ad una sostanza sensibile diremo che la forma essere casa ha la
caratteristica di raccogliere ed unificare , appunto di dare una forma ad un insieme di materiali. La sostanza sensibile
71
Filieri Andrea
27
completamente il senso della sua dottrina. In effetti per A. l’universalità non esiste mai di per sé ma
solo in relazione ad altro. Questa è la critica fondamentale.73 Facciamo una breve digressione verso
la logica aristotelica: la proposizione Socrate è un Uomo presenta Socrate come il soggetto mentre
l’essere un uomo è il predicato della nostra preposizione. Ora, nella realtà l’essere uomo è
l’attributo di Socrate, in una battuta l’esser uomo è una caratteristica di Socrate. Di più ancora,
l’essere uomo non può esistere senza un soggetto a cui riferirsi, mutatis mutandis l’attributo non
esiste mai senza un soggetto a cui riferirsi. L’universalità dell’attributo (l’esser uomo) può essere
affermato se riferito a qualcosa di particolare, al contrario il soggetto (Socrate) esiste di per sé. In
conclusione, l’universale esiste solo come attributo del particolare. Il soggetto è allora
soggetto di inerenza. Ma, riflettiamoci un attimo, se il soggetto fosse l’uomo? Non sarebbe questa
una contraddizione? No, nell’espressione - L’uomo è un animale razionale – stiamo parlando di
una caratteristica propria degli uomini, che è comune agli uomini, per cui il soggetto della nostra
proposizione è tale solo in quanto può essere predicato, a sua volta, di uomini particolari, di altri
soggetti insomma, che fungono da fondamento della nostra proposizione iniziale. Vediamo:
 Platone: l’individuale è attributo di un universale ossia
l’individuale esiste solo in quanto esiste un universale.
 Aristotele: è vero l’opposto. Ciò che è in sé è
l’individuale, mentre l’universale sta solo in quanto è in
relazione ad altro da sé. Non esiste l’uomo in generale
come realtà autonoma ma esistono singoli uomini
particolari che consentono all’uomo in generale di
sussistere.
In questo senso l’universale non è sostanza74 in quanto la sua esistenza dipende da altro. Ora se in
Platone il soprasensibile era condizione di esistenza dei singoli enti in Aristotele l’universale non è
sostanziale. Ma cosa intende l’autore con sostanza? In prima battuta sostanziale deve significare:
allora è forma di una materia, synolon, dice A. La materia, come tale, non è ciò che un ente è, se volete i materiali non
sono la casa, semmai sono materiali di una casa. Ciò che fa si che la casa sia tale è la forma essere casa che unifica,
assetta ed ordina i materiali in un modo particolare da essere una casa. Nelle sostanze sensibili la forma non esiste
indipendentemente dalla materia e d’altra parte la forma è ciò per cui quell’ente è tale. Di più ancora la materia è una
casa solo se può diventare una casa ossia se è in potenza una casa, ossia solo se la materia ha la potenza passiva
(capacità di ricevere una forma) di essere formata come casa. Ora, rispetto alla potenza della materia, la forma, e
l’azione della forma, è atto: un blocco di marmo è in potenza una statua mentre la statua compiuta è in atto una statua .
73
Vediamo meglio: gli argomenti di A. contro le Idee mirano da un lato a mettere in luce le conseguenze
contraddittorie derivanti dal postularne l’esistenza; dall’altro ad evidenziare come l’ammissione delle idee non valga a
dar risposta ai problemi, alla soluzione dei quali esse sono ritenute necessarie. Al primo tipo di argomenti è
riconducibile quello rivolto a confutare le idee di negazione. Se si ammettono le idee allora è necessario ammettere
anche idee anche delle negazioni (come “non uomo”) ma ciò è impossibile perché in tal caso avremmo un’idea unica
(quella di non uomo) , per una molteplicità di cose diverse (tutte escluse gli uomini). Al secondo tipo appartengono
invece gli argomenti tesi a mostrare la critica alla concezione di enti ideali separati che siano causa di quelli sensibili.
74
Aristotele è colui a cui si deve la prima teorizzazione del concetto di sostanza (in greco, ousia), la concepisce come
l’essenza necessaria che sta a fondamento di ogni realtà; inoltre egli la qualifica anche come ciò che esiste in maniera
indipendente e “di per sé”. Una certa realtà, ad esempio un certo uomo, può presentare vari aspetti, talvolta mutevoli,
quali l’essere grande o piccolo, buono o cattivo, ma non può essere altro che uomo, cioè animale razionale, che è
quanto costituisce la sua essenza necessaria; inoltre è chiaro che gli aspetti suddetti non possiedono un’esistenza
indipendente, ma sono presenti sempre e soltanto come aspetti secondari (o “accidenti”) di un certo individuo. Perciò
Aristotele aveva inteso la sostanza come la prima delle dieci categorie e aveva asserito che si conosce a fondo una
determinata cosa solo quando si conosca la sua sostanza, ossia “che cosa è”. Nella Metafisica, poi, Aristotele afferma
che il problema fondamentale della filosofia, ovvero “che cos’è l’essere”, si riduce in definitiva al problema di sapere
che cosa è la sostanza. Di questa Aristotele dice che può essere sia la forma di una certa realtà, ovvero quanto
Filieri Andrea
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-
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
ciò che è causa, principio, fondamento del proprio
essere (così come in Platone le Idee sono sostanza in
quanto fondamento della realtà). Rispetto a Platone,
Aristotele aggiunge che la sostanza deve essere
particolare in quanto l’universale esiste sempre in
relazione ad altro. In seconda battuta :
la sostanza è sostrato. Ciò che sta sotto , fondamento o
soggetto di inerenza (la realtà individuale di Socrate)
la sostanza è sempre soggetto e mai attributo: è vero che
Socrate è uomo ma non è vero che uomo è Socrate.
La sostanza è
sia ente individuale che materia
indeterminata in quanto gli enti sono costituiti da materia
che funge da sostrato. Sebbene la materia sia qualcosa di
universale essa riceve forma
che gli permette di
individuarsi .
La sostanza è qualcosa di determinato.
Se la sostanza è qualcosa di determinato la materia non
può essere considerata veramente sostanza in quanto
indeterminata ma allora, e qui Aristotele vuole arrivare, la
sostanza potrà essere solo l’unione di materia e forma
quello che è chiamato il sinolo ossia il composto di
materia e forma. Solo il sinolo permette il darsi della
determinatezza.
Per forma (eidos) non si intende la nozione platonica ,
l’universale , bensì ciò che permette alla cosa di essere
un ente particolare. In una battuta la forma è il principio
di individuazione. (ci ritorniamo).
In sostanza abbiamo etto che :
1) la sostanza è sostrato
2) la sostanza è un ente determinato
3) la sostanza è unione di materia e forma .
costituisce la sua struttura necessaria (ad esempio l’anima razionale dell’uomo), sia il “sinolo”, cioè il composto di
forma e materia: esso corrisponde a quella che, nello scritto sulle categorie, Aristotele chiamava la “sostanza prima”,
ossia l’individuo che esiste pienamente (ad esempio, un certo uomo: Socrate, Alcibiade, oppure un tavolo, un albero).
Tuttavia, in un senso meno pregnante, può dirsi sostanza anche la materia (la carne di cui è fatto Socrate, il legno del
tavolo), perché essa costituisce un aspetto da cui non si può prescindere nella considerazione delle cose. Vi sono,
inoltre, tre specie di sostanze:
1) le sostanze sensibili e corruttibili, cioè le cose che esistono nel mondo sublunare;
2) le sostanze sensibili ed eterne, cioè i diversi cieli e gli astri;
3) la sostanza non sensibile ed eterna, cioè Dio.
Questa dottrina di Aristotele fu ampiamente ripresa e rielaborata nella filosofia scolastica dell’età medievale, senza
subire però trasformazioni decisive
Filieri Andrea
29
ma se la sostanza è tutto ciò, essa è soggetta al divenire. A tutte le forme del divenire che per
Aristotele sono quattro75:
1) divenire come movimento (spostamento da un luogo all’altro)
2) divenire come generazione e corruzione (nascita e morte)
3) divenire come alterazione e modificazione ( sostanza bianca che diventa nera)
4) divenire inteso come aumento e diminuzione (pianta che da piccola diventa grande)
Quindi se la sostanza non è intesa come in Platone bensì come ente determinato dobbiamo
ammettere che la sostanza è soggetta al divenire. Ossia è percorsa dal non-essere. Ma come
risponde Aristotele a questa obiezione? Affermando che l’essere si dice in molti modi:
1) l’essere in relazione alle categorie76
75
L'oggetto della fisica aristotelica è più ristretto di quello della metafisica: questa abbracciava l'intera estensione
dell'essere, l'essere in quanto essere, la fisica invece solo una certa porzione di essere, quello in movimento, in pratica il
mondo sensibile.Il movimento è la caratteristica essenziale del mondo sensibile, fatto di sostanze composte di materia e
di forma, perciò (in quanto la materia è fattore di potenzialità, e dunque di instabilità ontologica) divenienti.
Il movimento, o divenire, implica sempre



qualcosa che cambia,
qualcosa che resta;
qualcosa che fa cambiare
e può essere di quattro diversi tipi:




locale (cioè spaziale: lo spostamento da un punto all'altro dello spazio, da un luogo all'altro)
qualitativo (ossia la alterazione, il mutare qualità)
quantitativo (la diminuzione o l'aumento di aspetti quantitativi)
sostanziale (ossia la nascita e la morte di una sostanza)
Nei primi tre tipi di movimento ciò che resta è la stessa sostanza, mentre a cambiare sono rispettivamente
l'accidente luogo, o l'accidente qualità, o l'accidente quantità; nel caso del divenire sostanziale ciò che cambia
è la forma sostanziale: una scompare e un'altra le subentra, mentre ciò che resta è la materia, sostrato
indeterminato e potenziale, recettivo delle diverse forme.
In tutti e quattro i casi perché ci sia movimento occorre qualcosa che faccia cambiare, ossia una causa efficiente.
Le sostanze corporee sono collocate in uno spazio, e divengono nel tempo.
76
Le categorie
ente
specie [differenza
genere
specifica]
categoria
Platone
animale
uomo [bipede]
sostanza (tì esti, ousia)
la nera barba
colore
nero
qualità (poiòn)
la folta barba
foltezza o
lunghezza
lunga e folta barba
quantità (posòn)
Filieri Andrea
30
2) l’essere come potenza e atto77
3) l’essere come vero e falso
4) l’essere come accidente.
In buona sostanza qui Aristotele risponde a Parmenide sostenendo che in questo autore l’essere era
detto in un solo modo: come opposto al niente. Diversamente in A. l’essere è detto in molti modi ed
in nessun caso si presenta il non-essere. D’altronde già in Platone compariva il non-essere
nell’essere , Aristotele quindi coerentizza Platone presentando diversi significati dell’essere
escludendo il fantasma del non essere. Esaminiamo ora il primo di questi modi mentre definiamo
velocemente il secondo come espressione del divenire78 mediante il passaggio dalla potenza
la famiglia Platone
parentela
genitori [ascendenza]
relazione (pròs ti)
il camminare di
Platone
modificare
camminare [muoversi]
fare o azione (poiéin)
l’essere trasportato
essere modificato
essere trasportato
patire (pàschein)
l’Accademia
territorio
stanza o giardino
dove [luogo] (poù)
lo scorso mese
periodo dell’anno
mese [insieme di giorni]
quando [tempo] (pòte)
il portare i sandali
abbigliamento
portare i sandali [scarpe]
avere (échein)
lo star seduto di
stare o giacere
posizione del corpo star seduto
Platone
(cheìsthai)
Le categorie, incluse le ultime due (presenti solo nelle opere di logica), danno le distinzioni (caratteri) possibili nella
realtà sensibile (individuo, qualità, quantità, luogo, tempo, azione...): non ci sono cose sensibili che siano pensabili o
che non siano determinate da questi significati dell’essere.
77
E' atto l'esistenza reale dell'oggetto in un senso diverso da come diciamo che l'oggetto è in potenza. Noi diciamo che
una cosa è in potenza nel senso che, ad esempio Ermete è presente in potenza nel legno o la semiretta è presente in
potenza nella retta intera,perché essa può essere staccata da questa, e chiamiamo
scienziato anche chi non sta contemplando, qualora, però, egli sia capace di contemplare: ma in ben altro senso noi
parliamo di presenza attuale.
Metafisica, IX
78
Per Aristotele lo spazio è qualitativo e finito. Qualitativo significa che esso non è omogeneo, indifferenziato, ma c'è
una differenza qualitativa tra luogo e luogo (teoria dei luoghi naturali). La terra infatti occupa il luogo più centrale nel
cosmo, poi si dispone l'acqua, poi l'aria e infine il fuoco: ognuno dei quattro elementi della fisica antica ha dunque un
suo “luogo naturale”, una casa a cui tende inevitabilmente a ritornare. Al di sopra della sfera terrestre, sublunare, sta poi
il mondo celeste, fatto di un quinto tipo di elemento, l'etere o quintessenza, che ha come caratteristica l'incorruttibilità;
infatti l'unico tipo di movimento che tale mondo conosce è quello locale, mentre non subisce altre alterazioni, né
quantitative, né qualitative, né sostanziali.
Finito
Oltre che qualitativo, lo spazio è poi finito; egli infatti definisce lo spazio come il limite del corpo contenente, in quanto
è contiguo al contenuto; e non è concepibile un corpo senza una superficie, e una superficie è necessariamente
delimitata, finita. Dunque il cosmo nel suo insieme, che può essere visto come un unico, grande corpo (fatto come è di
tanti corpi), deve avere un confine, ed è perciò finito.
«Ma se si prescinde dall'intero universo, non c'è alcuna altra cosa al di fuori del tutto, e perciò tutte le
cose sono nel cielo: che il cielo, s'intende, e il tutto! Il luogo, invece, non è il cielo, ma, per cosi dire,
l'estremità del cielo, ed è [immobile limite] contiguo al corpo mobile: e per questo la terra è
nell'acqua, questa nell'aria, questa, a sua volta, nell'etere, l'etere nel cielo: ma il cielo non è affatto in
un'altra cosa.» (Fisica, D4 , 212 b)
Tempo
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31
all’atto: il divenire di qualcosa può essere compreso come un passaggio non dall’essere al non
essere bensì come passaggio dalla potenza all’atto, da un certo essere ad un altro essere. Vediamo
però il primo dei significati: l’essere si dice in relazione alle categorie. A. elenca dodici categorie:
ad esempio secondo la qualità, quando diciamo che una cosa è bella o brutta. Ma anche secondo la
quantità, quando diciamo che una cosa è grande o piccola. Allora il dirsi dell’Essere è
evidentemente molteplice. Per altro verso l’unico modo affinché l’essere possa essere molteplice è
che si dica in molti modi, che abbia una molteplicità di significati. In buona sostanza Aristotele vuol
dire che la molteplicità è la dimensione originaria dell’Essere. In effetti se intendiamo L’Essere
come unità manchiamo di dar ragione della natura dell’Essere: la molteplicità. Ancora, l’Essere
consta di una molteplicità di enti differenti. Ciò per Aristotele non va dimostrato, è una evidenza
(fenomenologica) Così come è evidente il divenire nel senso che non va dimostrato. Dobbiamo
semplicemente attrezzare il nostro apparato concettuale per spiegare il divenire. Abbiamo così
guadagnato il senso polivoco dell’Essere ed è significativo che Aristotele pervenga a questo
risultato sulla base del linguaggio: l’essere si dice in molti modi. Aristotele quindi ci ricorda che nel
linguaggio sono depositati i sensi dell’essere in opposizione a Parmenide che ne riconosceva uno
solo. E tuttavia nonostante questo aspetto polisemico dell’essere tutti questi diversi modi
dell’Essere vanno ricondotti ad uno fondamentale, quella categoria fondamentale a cui tutte le altre
si riferiscono: la sostanza. Ossia l’Essere si dice in molti modi ma si riferisce a qualcosa di unico:
la sostanza. Anzi, è proprio in virtù dell’esistenza di qualcosa di unico che noi posiamo dire che una
cosa è grande o piccola, che Socrate è figlio di…, o è padre di…., perché ci riferiamo sempre alla
sostanza. Dunque la diverse modalità di presentazione degli enti hanno in comune un qualcosa di
fondamentale, l’essere una sostanza individuale. Facciamo attenzione però: Aristotele non dice che
questo qualcosa di unico è l’essere degli enti, non è l’essere degli enti il significato fondamentale a
cui perveniamo riferendoci a qualcosa di unico bensì la sostanza. E dire sostanza non è dire
esattamente il senso parmenideo dell’essere. Il significato fondamentale che accomuna i diversi
modi di dire dell’essere non è l’opposizione al niente, ma è la sostanzialità. Ma in che cosa si
differenzia la sostanzialità da non essere niente degli enti? Nel fatto che l’essere si dice anche in
modo non sostanziale. Quando noi diciamo che l’accidente è, secondo Aristotele non stiamo
Aristotele lo definisce come «la misura (il numero: αριθμoς) del movimento secondo il prima e il poi»: non ci sarebbe
perciò tempo se non ci fosse il divenire, il baricentro del tempo è nella oggettività del divenire:
«L'esistenza del tempo [...] non è [...] possibile senza quella del cambiamento; quando, infatti, noi non
mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutare nulla, ci pare che il tempo non sia
trascorso affatto.» (Fisica, D11 , 219 b 1-2)
Il divenire (oggettivo) non è però l'unico ingrediente del tempo: che è misura del divenire (il che aggiunge qualcosa
alla pura fattualità del cambiamento):
«Quando [...] noi pensiamo le estremità come diverse dal medio e l'anima ci suggerisce che gli istanti
sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c'è tra questi due istanti un tempo, giacché il
tempo sembra essere ciò che è determinato dall'istante: e questo rimanga come fondamento»
«Si potrebbe [...] dubitare se il tempo esista o meno senza la esistenza dell'anima. Infatti se non si
ammette l'esistenza del numerante è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente,
neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero
che nella natura delle cose soltanto l'anima o l'intelletto che è nell’anima hanno la capacità di
numerare, risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima[...]»
Il tempo non ha avuto inizio né avrà fine, poiché il mondo è eterno. Non esiste infatti un Essere trascendente,
onnipotente, intelligente e libero che lo possa aver creato (dal nulla, facendo iniziare ad essere). Dunque se il mondo
esiste, esso deve avere in sé la ragione del suo essere (il Motore Immobile, infatti, ne spiega il divenire, non l'essere ).
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parlando di qualcosa di sostanziale. Perché l’ente anche se è, non è detto che stia, nel senso che
non trova in sé il proprio fondamento. Anche l’essere bianco è, ma l’essere bianco non è
sostanza. In conclusione: Aristotele ha guadagnato un significato più determinato
dell’indeterminato essere di Parmenide: la sostanza, e quindi Aristotele mantiene in senso della
riforma platonica dell’essere che prevede il non-essere al suo interno (la realtà vera in cui le cosa
sono deve comprendere il non essere), superandola verso il concetto di sostanza. E qual è il senso
ultimo della sostanza? Qual è la caratteristica fondamentale della sostanza? La permanenza. In
definitiva la sostanza, proprio perché permane, ammette il non essere al suo interno: non il
non essere assoluto ma un certo senso del non essere. La sostanza in quanto è in movimento ed
in quanto si modifica ammette al proprio interno il non-essere. Se vogliamo la sostanza è un
sostrato del divenire in quanto permane nel cambiamento: dalla quiete al movimento, dal bianco al
grigio i contrari si succedono in un sostrato che permane. Ed i contrari sono i modi in cui le
categorie si relazionano alla sostanza. Ancora di più, secondo Aristotele le categorie garantiscono la
pluralità dell’essere ed il riferimento ad una sostanza garantisce l’esistenza di quella pluralità nel
senso che una pluralità senza sostanza sarebbe una mera accidentalità. In una battuta:
 si può dare un essere non sostanziale
 si può dare, all’opposto, un essere sostanziale che in un certo senso non è nel senso che è
soggetto al divenire. E tuttavia, secondo Aristotele questo è il significato fondamentale
dell’essere per cui:
 si passa dal quel significato parmenideo in cui l’essere è opposto al niente
 a quello che in Aristotele non è l’unico significato ma è quello fondamentale: la sostanza.
La sostanza79 deve essere qualcosa di determinato e non la materia dove la sostanza va compresa
come unione di materia e forma. A questo punto possiamo chiederci se il determinato sensibile sia
79
SOSTANZA. - Termine filosofico, che formalmente ha origine nel linguaggio del pensiero medievale, ma nel
concetto risale al pensiero greco. Etimologicamente il termine latino substantia corrisponde infatti, nel suo significato di
"realtà che sottostà, che soggiace", al greco ὐποκείμενον, nel senso per cui questo designa la realtà stabile e costante
a cui ineriscono gli attributi. Ma presso i Greci dell'età classica tale termine, che significa del resto anche il sostrato
materiale e informe su cui si imprime la forma determinata , è più propriamente sostituito nell'uso da quello di οἰσία,
per etimologia corrispondente a quello latino di essentia, a cui la tradizione terminologica, dal Medioevo in poi,
attribuisce d'altronde il significato del puro contenuto ideale costituente una qualsiasi entità a prescindere dalla sua
esistenza. La greca οὐσία e la latina substantia (come del resto anche la ὐπόστασις del pensiero ġreco più tardo, del
tutto corrispondente al termine latino anche dal punto di vista etimologico) significano invece la realtà perfettamente
costituita, la cui essenza è stabilmente concretata nell'esistenza. Così per Platone sono οὐσίαι le idee, come realtà
dotate di assoluta ed eterna essenza ed esistenza, in contrasto con le relative e mutevoli apparenze sensibili; e per
Aristotele, che considera come propriamente reale solo l'entità individuale in cui l'essenza ideale informa l'esistenza
materiale, è οὐσία la sintesi concreta della forma e della materia, risultando perciò abbassati a δεύτεραι οὐσίαι
(substantiae secundae) quei concetti di genere e di specie che per Platone invece costituivano le sole vere οὐσίαι. Di
conseguenza, l'οὐσία si presenta in Aristotele come prima fra le categorie e come soggetto della predicazione di tutte le
altre, in quanto realtà che non può essere predicata di nessun'altra, mentre ogni altra determinazione del reale appare
necessariamente come suo predicato.Questo concetto aristotelico dell'οὐσία, che si perpetua nella logica e nell'ontologia
del pensiero greco posteriore, serba valore attraverso tutta la filosofia medievale, che, come si è detto, riferendosi
all'aspetto per cui l'οὐσία si presenta come ὑποκείμενον, cioè come sostrato ultimo di tutti gli attributi possibili, traduce
quel primo termine con quello di substantia. E lo definisce perciò come ens quod per se subsistit, accentuando in tal
modo l'aspetto ontologico della relazione logica per la quale la sostanza non è predicabile di alcunché, mentre tutto si
predica di essa: infatti ciò che si predica di altro sussiste solo come suo attributo e ne è quindi dipendente, l'assoluta
indipendenza ontologica restando caratteristica della realtà che non può mai presentarsi come predicato. La substantia si
presenta così come la realtà assolutamente vera, alla cui conoscenza propriamente tende la filosofia; e viene con ciò ad
Filieri Andrea
33
l’unico modo di intendere la sostanza o se ve ne siano altri. Ebbene la sostanza sensibile in quanto
sinolo non esprime veramente il senso della sostanza. Non esprime cioè il senso della sostanza
come permanenza. Prendiamo in considerazione le specie di movimento che A. analizza: c’è un
primo senso che A. chiama della Traslazione ossia il movimento secondo il luogo. Ora questo tipo
di movimento non mette in discussione la sostanza sensibile. Un secondo senso del movimento
avviene secondo l’aumento o la diminuzione: il diventar pianta da parte del seme etc.. E’ il
movimento secondo la quantità per cui la sostanza aumenta o diminuisce. Anche in questo caso la
sostanza è la stessa sebbene cambi la quantità. Il terzo movimento è secondo l’alterazione: sostanza
bianca che diventa nera, l’albero che perde le foglie. In questo caso la crescita dell’albero presenta
due movimenti insieme: movimento secondo la qualità e secondo la quantità. Anche il movimento
del bambino che diventa grande , come tutti i processi vitali, presenta movimenti intrecciati
secondo la quantità e qualità. Questo tipo di alterazione non mette in discussione la sostanza o
meglio la permanenza della sostanza in quanto cambiano solo le qualità sensibili della sostanza.
Viceversa esista un quarto tipo di movimento in cui la sostanza muta, in cui il sinolo non riesce a
permanere, e questo tipo di movimento è la generazione e la corruzione. Il morire di un vivente o
l’incenerirsi di un albero muta il sinolo: il sinolo albero non c’è più ed è sostituito da un altro
sinolo: la cenere. E’ questo un mutamento sostanziale in cui da una sostanza si passa ad un’altra
sostanza. Ora, che cosa permane nel mutamento sostanziale? Nel libro VII della Metafisica
Aristotele ne discute ampiamente così come nel libro V della Fisica, ed A. dice del mutamento
sostanziale che il sinolo non permane ed è sostituito da un altro sinolo. Ma cosa permane allora? La
materia, che proprio in quanto indeterminata è comune alle varie determinazioni . in una battuta: il
mutamento sostanziale coinvolge la forma e non la materia. La materia è il sostrato che permane
al variare delle forme. Facciamo attenzione però, A. dice che anche la forma permane. In effetti se
così non fosse (reductio ad absurdum) dovremmo pensare ad un sostrato formale che permane tra
le due forme che si generano e si corrompono in cui la prima forma è inizio e la seconda è la fine.
Dovremmo pensare allora, anche in relazione alla forma, la necessità di qualcosa che permane al
variare delle due forme. Ora, anche questo sostrato formale che permane al variare delle due forme,
che è comune alle due forme, se non lo pensiamo come permanente, rimanda a sua volta ad un altro
sostrato e così via. Ma questo è escluso da A. che ritiene che la forma permanga nel divenire.
Allora, se è vero il ragionamento esplicitato, il vero sostrato non è il sinolo, ma i suoi componenti,
in una battuta la vera ragion d’essere del sinolo sono i suoi due componenti. In effetti se non li
pensiamo come sottratti al divenire impediamo al divenire di esser intelligibile. L’operazione
aristotelica è quindi quella di arrivare ad un’intelligibilità del divenire la quale escluda dal divenire
le componenti del divenire: le componenti del divenire non divengono. Tuttavia, delle due
componenti, è chiaro che la materia, sebbene sia sostrato, sebbene sia soggetto del divenire, ossia
ciò che sta sotto, non è qualcosa di determinato. In una battuta per A. la materia è sostanza solo in
un certo senso, ossia solo secondo una definizione della sostanza, ma non secondo tutte le
definizioni della sostanza. La vera sostanza può essere solo la forma che non è la determinatezza ma
di più: è il principio di determinazione della cosa. Abbiamo già visto che in A, a differenza di
Platone, la forma non è l’universale bensì ciò che consente alla cosa di essere tale. Ora, abbiamo
bisogno di una terza definizione della sostanza che A. ci fornisce per comprendere appieno il
concetto di sostanza, abbiamo detto che la sostanza è:
 prima definizione:sostrato
 seconda definizione: cosa determinata
 terza definizione: la sostanza è atto o ciò che è in atto.
E questa terza definizione viene soddisfatta proprio dalla forma. Se in effetti il sinolo è in un certo
senso in atto, è in atto ciò che esso è ( la sua determinatezza, la sua esistenza è la sua attualità) il
assumere in generale quel carattere di ultimo principio costitutivo dell'universo, che prima dell'adozione dei termini di
οὐσία e di substantia era stato altrimenti designato, fino dall'ἀργή dei presocratici. Cfr. Treccani on line
Filieri Andrea
34
sinolo è anche in potenza80, ossia è in potenza una molteplicità di cose. In buona sostanza il sinolo
è unione di potenza e atto:
-
non è solo potenza ché non sarebbe alcunché di determinato ma solo materia
non è puro atto ché non diverrebbe altro da sé.
Allora ecco che emerge l’ultimo senso della sostanza, quello per cui la sostanza è attualità.
Ora, riprendendo il senso della sostanza sensibile che avevamo lasciato sospeso possiamo trarre una
prima conclusione: il senso dell’essere sostanziale, ossia la permanenza, può essere guadagnato
solo se andiamo al di là dell’essere sensibile. In effetti se ci teniamo fermi alla pura evidenza
fenomenologica non guadagniamo il senso della permanenza. E tutta via il senso fondamentale
della permanenza come forma, non è il senso dato da Platone alla forma, ossia l’essere universale.
Ciò che permane non può essere un qualcosa di universale.
In conclusione:








la sostanza sensibile ha in sé la ragione della propria esistenza
il sinolo è sostanza a tutti gli effetti
la realtà fisica riceve la propria sostanzialità dalla forma e dalla materia
la forma non è mai separata dalla materia
la forma è sempre in relazione ad una cosa particolare
non esiste un universo di forme separate dalla materia
il mondo ha in sé la ragione della propria esistenza
la realtà fisica è diveniente ma il divenire non si spiega da sé (physis e movimento sono
la stessa cosa)
Ora vediamo di comprendere il senso dei termini potenza e atto in modo ulteriore: la potenza per A.
può essere compresa in due modi distinti:
 potenza attiva: possibilità di fare qualcosa da sé stessi come gli esseri viventi
 potenza passiva: possibilità di subire le azioni di qualcos’altro.
L’atto invece è l’esistenza della cosa, è la cosa in quanto questa cosa determinata. In questo senso
la potenza è sempre indeterminata rispetto all’atto perché solo l’atto dà la determinatezza alla cosa.
Facciamo un esempio: il seme è determinato in quanto seme ed è in potenza l’albero tuttavia il seme
è determinato non in quanto è qualcosa di potenziale bensì in quanto è in atto un seme. E’ l’atto ciò
che dà determinatezza alla cosa, non il suo essere in potenza, anche se ovviamente tutto il sensibile
La potenza (dynamis) esprime la possibilità o la potenzialità, propria di qualcosa, di trasformarsi in qualcos’altro. Il
termine “atto” traduce due nozioni chiave della filosofia aristotelica: “entelècheia” ed “enèrgheia”. Il primo termine
indica la condizione di qualcosa che abbia raggiunto il proprio fine, realizzando la compiuta attuazione delle proprie
potenzialità (della propria dynamis). La nozione di enèrgheia significa attività e quindi , in alcuni contesti, designa il
processo dell’attuarsi dell’entelècheia; in altri contesti significa l’esplicarsi delle funzioni proprie ( dell’opera propria)
di un ente che abbia attuato la propria entelècheia . (…) Il seme è la pianta in potenza , nel senso che ha la capacità,
date certe condizioni, di diventare pianta. La pianta adulta è il seme in atto in quanto rappresenta la compiuta, la
perfetta attuazione (entelècheia) delle potenzialità del seme. Compiutosi il processo attraverso il quale la pianta si attua
come pianta adulta ( questo attuarsi rinvia un primo significato del termine enèrgheia) l’organismo vegetale
perfettamente cresciuto è oramai in grado di svolgere le funzioni (riproduttiva) che gli sono proprie, la sua propria
attività (enèrgheia). Vedi, Il Testo filosofico, Cioffi, Mondatori, 1991, pagg. 510 e sgg. Si ricordi comunque che le
nozioni di potenza ed atto sono relative : il bambino è sia potenza dell’uomo adulto che atto del seme. Si pensi anche
alla corrispondenza tra le nozioni suddette e quelle di materia e forma: la materia è potenzialmente in grado di
assumere una determinata forma, ad es. i mattoni, materia della casa, possono essere pensati come casa in potenza.
80
Filieri Andrea
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è sia in potenza che in atto, ed ogni sensibile è in potenza indeterminato. Per A. però l’atto è
prioritario rispetto alla potenza (IX libro della Metafisica). In effetti l’atto precede la potenza in tre
sensi:
 precedenza gnoseologica per cui noi conosciamo una cosa in potenza solo se
conosciamo l’atto di quella potenza, ad es,. noi diciamo che il seme è in potenza un
albero solo se conosciamo dapprima l’albero
 precedenza ontologica: la verità del seme non è il seme bensì l’albero. La vera natura
del seme si manifesta quando esso ha dispiegato tutte le sue potenzialità. L’atto è la
verità della potenza. L’atto fonda ontologicamente la potenza. La vera natura della
cosa è espressa solo dall’atto. Nella potenza la natura della cosa è limitata . la vera
natura della cosa è solo nel suo fine, nel suo telos. A. chiana infatti l’atto entelechia
ossia essere nella fine. . L’atto è la realtà ultima della cosa e quindi la sua verità. In
questo senso l’atto è prioritario ontologicamente rispetto alla potenza: è il fondamento
della potenza.
 Precedenza temporale:l’atto avviene prima della potenza. Avviene prima però la specie
e non il singolo: è la specie in atto che precede il singolo in potenza. Deve già esistere la
specie umana perché si dia il bambino. Quanto al singolo uomo viene prima invece il
bambino ovviamente.
Ma, arrivati a questo punto, se è vero che l’atto precede la potenza, se è vero che l’atto fonda la
potenza ossia se è vero che ogni potenza esiste solo in quanto c’è un atto di cui è potenza, deve
esistere un atto che non sia potenza a sua volta. In effetti se non esistesse un atto che non fosse a
sua volta potenza dovremmo regredire ad infinitum visto che ogni potenza esiste solo in relazione
ad un atto. Insomma se questo atto fosse daccapo una potenza dovremmo proporre un altro atto di
cui esso fosse potenza e così via all’infinito…… dobbiamo insomma proporre un atto che non sia
potenza di nient’altro e che Aristotele definisce Atto puro. Allora anche per questa via dobbiamo
concludere che esiste una sostanza soprasensibile. Ma non è questo l’unico argomento che
Aristotele porta a sostegno della sua teoria della sostanza soprasensibile: A. afferma che il
movimento è eterno in quanto ogni cosa mossa presuppone un movente come causa del suo
movimento. Ma attenzione: A. ci dice che noi non possiamo risalire all’indietro nel tempo sino ad
una causa prima che sia appunto causa del movimento. Pensiamoci: se noi riteniamo che esista
temporalmente una causa prima del movimento cosa ci sarà prima? Delle due risposte possibili:
 o c’era prima qualcosa in movimento ma allora da cosa era mossa essa stessa?
 o essa era immobile, visto che Aristotele pensa anche a questa possibilità, ma allora
cosa l’ha resa immobile? Qualcosa che l’ha fermata visto che la quiete è una forma del
movimento, è il fermare un movimento.
Allora se noi ipotizziamo di realizzare la nostra ricerca (la ricerca dell’eternità del movimento) nel
tempo non riusciamo a trovare nulla che abbia dato origine al movimento, sia che questo qualcosa
sia mobile sia che questo qualcosa sia immobile. Insomma, anche qui nella nostra ricerca siamo
costretti ad andare all’infinito ma , e proprio questo è il punto, questo andare all’infinito nel tempo
esprime, è, l’eternità del movimento. Gli Scolatici saranno appassionati a questo tema. In
conclusione per A.: il movimento è eterno così come è eterno il tempo (contrariamente a Platone) .
La definizione del tempo per A. infatti è: “Il tempo è il numero del movimento secondo il prima e
il poi”. L’unica differenza tra tempo e movimento allora è che nel tempo c’è il numerare il prima
ed il poi , in qualche modo allora l’eternità del movimento implica l’eternità del tempo e l’eternità
del tempo implica l’eternità del movimento. Arrivati a questo punto però A. ci dice che il fatto che
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movimento e tempo siano eterni non mette in discussione il fatto che essi abbiano una causa: non
nel senso di una causa temporale, visto che sono eterni, ma una causa che fa sì che essi siano o
meglio ciò che fa sì che le cose si muovano, nel senso di ciò che fa sì che il movimento sia. Ora se il
movimento, ossia il causato, è eterno , sarà eterna anche la causa (sempre nel senso di ciò che è
causa di, non nel senso di ciò che viene prima di. Gli Scolastici diranno propter hoc e post hoc,
ciò che è motivo di e ciò che viene dopo di). Ma, secondo aspetto, questa causa non può essere il
movimento, la causa del movimento non può essere il movimento bensì un primo motore immobile
(non di tipo temporale). Ribadiamo che la causa del movimento deve essere :
 eterna
 immobile.
Ora, come può ciò che è immobile causare il movimento? Come può ciò che è indiveniente essere
causa del diveniente? Sembra che abbiamo a che fare con due nature profondamente diverse: come
può una essere causa dell’altra? Per rispondere a tale questione dobbiamo riferirci alla terza
caratteristica del motore immobile: il motore immobile non è potenza o non è in potenza. In effetti
tutto ciò che in potenza può diventare qualcosa ossia può subire o fare qualcosa, quindi tutto ciò che
in potenza è soggetto al movimento. Ora il motore immobile è atto ma, attenzione, solo un atto che
non contenga nulla di potenziale (l’esperienza che noi facciamo delle sostanza sensibili è
esperienza di sostanze che sono atti ma che contengono, tutte, qualcosa di potenziale, ossia tutte
possono diventare altro da sé). Alla fine allora, il motore immobile deve essere Atto puro. Non solo:
dovrà anche essere immateriale perché la materia conferisce alla sostanza il carattere di
potenzialità, è la presenza della materia che conferisce potenzialità alla sostanza sensibile. In
conclusione : poiché questo atto puro non può contenere nulla di potenziale non può contenere
nulla di materiale. In questo senso, un atto che non può contenere nulla di potenziale deve essere
un atto che ha realizzato pienamente se stesso, questo è il significato dell’assenza di potenza. In
buona sostanza l’Atto puro è perfetto.
Spieghiamoci: l’Atto puro è perfetto nel senso che non manca di nulla. Ossia non c’è nulla che
esista al di fuori dell’Atto che manchi all’Atto puro. Chè, se così fosse, allora l’Atto sarebbe
mancante e tenderebbe a diventare questo qualcosa. All’opposto, l’Atto è proprio la realizzazione in
quanto tale, la realizzazione di tutto, il compimento del mondo, il compimento della totalità, se
vogliamo, non ci deve essere nessuna cosa del mondo che esso non abbia portato a compimento.
Esso è la realizzazione in quanto tale, la perfetta realizzazione . E solo a questa condizione può
essere atto, ma questo è anche il motivo per cui muove l’universo: perché ne rappresenta il
compimento. L’Atto attira verso di sé ciò che non ha ancora compiuto se stesso, ciò che è ancora in
potenza e vede nell’Atto puro il proprio compimento. Detto in altri termini: ogni cosa è in potenza
qualcos’altro da sé e l’Atto rappresenta la verità di ogni cosa in quanto ogni natura, ogni sostanza
naturale, tende a compiersi perché è immanente l’atto. In questo senso ogni natura si muove nel
senso che si muove verso il suo compimento ed il motore immobile attira verso di sé ciò che ancora
non è compiuto. Aristotele ci parla del motore immobile che attira il mondo fisico come l’oggetto
del desiderio attira il desiderante. In effetti il desiderante si muove perché nell’oggetto del desiderio
trova il suo fine e quindi il suo compimento. Aristotele ci dice nel XII libro della metafisica: “il
motore immobile muove in quanto è amato” . Ma allora, in questo senso capiamo perché A. ci dice
che il motore immobile è causa del movimento:
-
-
non causa nel senso della causa efficiente, nel senso del primo motore temporale, che è quello
che aveva datola prima spinta. Il motore immobile non dà nessuna spinta e non garantisce
questo tipo di causa efficiente perché dare una spinta significa muoversi;
non è paragonabile all’Idea del bene in Platone in quanto l’Idea del bene diventa strumento
del demiurgo per creare le cose ed in quanto il bene non è causa efficiente. E’ il demiurgo la
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-
-
-
causa efficiente. Ma il bene non neanche la causa finale in Platone, è la causa che A. chiama
formale: il bene è il principio in base al quale le cose poi sono;
il motore immobile muove in quanto causa finale e tuttavia, e questo è il senso di tutta la
Fisica aristotelica, questo fine non è mai raggiunto, non c’è mai la risoluzione del divenire,
perché questo significherebbe la fine del divenire;
il motore immobile è un fine che non è la fine ossia è la condizione del movimento. In effetti il
termine fine può essere ambiguo e può farci pensare l’universo come Dio che è origine e poi
fine di tutte le cose: le cose infine si riassumerebbero in Dio. Questo però è il cristianesimo e ,
per certi versi, il neoplatonismo. Qui, viceversa, non c’è una fine della physis, ed il motore
immobile è : eterno, immobile, atto puro, causa finale;
c’è una quarta caratteristica del motore immobile: la necessità. L’essere necessario è ciò che
impossibile che non sia; l’essere contingente è l’essere che può essere e non essere cioè che
ammette la possibilità del suo contrario;ora la sostanza sensibile è chiaro che sia contingente
in quanto materiale e quindi contenente la potenza di essere e di non essere. La sostanza come
atto puro invece, come pura forma, è invece sostanza necessaria dove la necessità è la
condizione della sua eternità. In effetti se l’Atto puro non fosse necessario, non sarebbe causa
del movimento, che è eterno. E solo in questo senso, nel senso della sua necessità, l’Atto puro
può essere considerato l’essere parmenideo. Ma ovviamente nell’Essere parmenideo mancano
tutta una serie di caratterizzazioni che abbiamo elencato sopra.
La filosofia pratica
Secondo Aristotele, tutte le azioni umane hanno come fine un bene. Ora, molte sono le azioni e
molti sono i fini. Del resto alcune azioni perseguone beni in vista di altri beni e via così. Al fine di
evitare un regressus ad infinitum, qual è il bene he cercato per se stesso? Qual è il bene supremo?
Ora, diversamente da Platone che indica nell’Idea del Bene il fine della ricerca dell’uomo,
Aristotele parla di felicità. E la felicità è raggiungibile per lo Stagirita solo mediante la politica:
scienza architettonica e legislativa del popolo e della città in cui il singolo può raggiungere la
felicità. In effetti l’uomo, per natura, vive a contatto con il suo simile, vero animale politico, per cui
il suo bene è impensabile fuori della polis, anche se Aristotele pone delle differenze tra bene
collettivo e bene del singolo, tra singoli affetti individuali e beni di carattere politico e sociale.
Il bene supremo di carattere pratico è dunque la felicità: il significato di tale termine non ha
tanto a che fare col piacere dei sensi, comune anche agli animali. Nemmeno col possesso di ingenti
ricchezze, di onori, di glorie, piuttosto la felicità ha che fare con l’esercizio delle più alte facoltà
umane: l’intelletto e la ragione. Attività svolte in massimo grado: secondo Aristotele secondo virtù.
Dove la virtù per lo stagirita è quella disposizione acquisita mediante lunga consuetudine ad
esercitare a livello di eccellenza le facoltà proprie dell’uomo. In tale disposizione consiste la
felicità, ovvero il bene supremo pratico. Le virtù poi si distinguono in virtù etiche, virtù
corrispondenti alla facoltà desiderativa dell’anima, e dianoetiche, ossia le virtù delle facoltà
dell’anima razionale. Tra le virtù etiche si segnalano la magnanimità, il coraggio, la giustizia; tra
quelle dianoetiche la saggezza e la sapienza.
Nello specifico, la virtù etica consiste nella disposizione, a lungo esercitata, a volore fini
buoni, dove si vede come per Aristotele il tema della volontà sia molto importante. In effetti, il
voler fini buoni, quei fini dettati della retta ragione sono per Aristotele gli aspetti essenziali delle
virtù etiche. Ancora, la regola della retta ragione consiste nel giusto mezzo: sia nel campo dei
desideri che delle passioni. Se per esempio, il coraggio è una virtù etica, esso evita al contempo la
Filieri Andrea
38
paura e la viltà, come eccessi. Come si vede Aristole contempla le passioni esortando il singolo a
cercare sempre il giusto mezzo tra gli eccessi, tra i vizi. Giusto mezzo mai stabilito definitivamente,
ma cercato in relazione achi agisce in un determinato contesto. In merito poi alla saggezza ed alla
sapienza, Aristotele precisa che è la saggezza a metterci in grado di cercare quale sia, caso per
caso, il giusto mezzo delle virtù etiche: la disposizione a ben deliberare intorno ai mezzi più idonei
per conseguire il fine buono. La sapienza infine, appare al filosofo come la virtù più degna d’essere
perseguita, come la virtù di chid dedica la propria vita allateoria ed alla conoscenza.
La metamorfosi culturale
Dopo la caduta dei confini tra gli stati greci e gli altri stati denominati “barbari” si assiste
ad una fusione tra diversi popoli di diverse culture: l’Ellenismo. Si tratta dell’affermazione della
cultura greca sulle altre. La diffusione della cultura greca tra i barbari è avviata - in primis – da
Alessandro, sebbene non sia solo la sua volontà a determinare il diffondersi dell’Ellenismo, bensì il
valore intrinseco della paidèia greca, l’aspetto formativo della cultura greca in grado di sviluppare
le capacità e le attitudini personali. Dal punto di vista storico\politoco va peraltro sottolineato il
decadere della città stato greche a cui subentrano Stati più ampi e complessi: governati da sovrani
assoluti. Nuovi aspetti economici, la stessa estensione dei territori impongono nuovi problemi che
non più risolvibili secondo il modello classico della assemblee di cittadini. Nascono nuovi
organismi statali, la concentrazione del potere, una complessa amministrazione burocratica, un
esercito regolare.
Da un punto di vista storico, l’enorme impero costruito da Alessandro si disgregò subito dopo la
sua morte, a causa delle lotte dei suoi generali. Con la battaglia di Ipso (301 a.C.), che pose fine al
tentativi di Antigono di ricostituire a unità l’impero di Alessandro, ebbe inizio il sistema politico
dei vari regni ellenistici:





la Macedonia, sotto i successori di Antigono;
l’Egitto, sotto i discendenti di Tolomeo;
la Siria, comprendente anche la Mesopotamia
la Persia, sotto i discendenti di Seleuco.
alla metà del 3° secolo a.C. si aggiunse, nella Misia, il regno di Pergamo, con la dinastia
degli Attalidi. A tutti i regni pose termine la conquista romana.
La società
L’assenteismo dei singoli dalla vita pubblica, che già agli inizi del 4° sec. a.C. aveva provocato il
graduale soccombere delle libere poleis dinanzi allo Stato macedone, fu favorito dalle tendenze
assolutistiche dei sovrani. Spenta la libertà e con essa la creatività che aveva caratterizzato i Greci
del 5° sec., il primato delle poleis della madrepatria non tardò a trasferirsi alle capitali e metropoli
ellenistiche protette e beneficate dai nuovi sovrani: Alessandria, Antiochia, Efeso, Pergamo. La
coesione della cittadinanza, caratteristica della polis ellenica, si perse negli immensi conglomerati
ellenistici dove la popolazione proletaria era molto maggiore che nell’Atene del 5° o del 4° sec.
a.C. Nelle città libere, dal 2° sec. in poi, vi fu una classe ristretta di grandi ricchi e cominciò a
delinearsi la distinzione tra persone di ‘società’ e popolo. Cfr. Treccani on line
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La cultura ellenistica
Linguisticamente si creò un dialetto unico, la koinè, che fu mirabile strumento della
diffusione della cultura greca su un’area enormemente più estesa di quanto non fosse ancora nel 5°
e 4° sec. a.C. Ma il progressivo distaccarsi dei singoli dalla vita collettiva causò l’abbandono di
quei generi letterari che maggiormente aderivano all’animo delle masse nell’età precedente: la
tragedia e la commedia. La prima manca quasi del tutto nella letteratura ellenistica, la seconda perse
mordente, fissandosi nell’elaborazione di tipi e caratteri. I generi letterari più coltivati furono i
poemetti mitologici, la lirica amorosa o bucolica, l’epigramma, tutti profondamente pervasi da
psicologismo
Le scienze - Di contro, le scienze esatte furono coltivate intensamente e su basi rigidamente
scientifiche: fu fondata la filologia, furono elaborate la cronologia e la geografia, e i rifacimenti e le
forma originale sono giunte opere di matematica e meccanica.
Una delle caratteristiche principali dell’ellenismo è che l’arte non rappresentò più la voce di una
comunità, ma si pose al servizio di committenti privati, come i sovrani dei vari Stati ellenistici o i
collezionisti. Allo stesso tempo si andò costituendo una categoria particolare di intellettuali, della
quale partecipavano anche pittori e scultori che acquistarono una nuova dignità, differenziando il
loro opus artistico dalla produzione artigiana che, contemporaneamente, metteva in atto un processo
di industrializzazione. L’arte era considerata un ornamento, piuttosto che l’espressione della
devozione civile e religiosa dei cittadini, e l’artista acquistò una autonomia di invenzione mai
raggiunta prima. L’opera d’arte ebbe quindi un valore nuovo: rivolta al piacere dei sensi (vista e
tatto) e a stimolare l’intelletto, si concentrò nell’espressione di un linguaggio di estrema eleganza e
raffinatezza. CFr. Treccani on line.
Virtù e felicità
Da un punto di vista filosofico, la domanda fondamentale dell’età ellenistica è relativa al
tema della felicità: cos’è la felicità? Cosa deve fare l’uomo per essere felice? La risposta a questa
domanda dipende da cosa si intende per felicità. Ora per i Greci, il raggiungimento della felicità
dipende dall’esercizio della virtù: l’uomo virtuoso è felice. L’uomo virtuoso realizza infatti le
attitudini e le potenzialità della natura umana. Virtù e felicità coincidono dunque.
Platone afferma che solo l’uomo giusto può essere felice mentre chi agisce male è infelice.
Ma per agire bene bisogna sapere come agire: il bene infatti è ciò che la ragione ri-conosce come
tale. Esattamente come affermava Socrate: il male deriva da una distorsione della ragione, da una
erronea distorsione del fine. La rilessione socratica è dunque una forma di razionalismo , così come
quella di Platone e Aristotele: nel primo l’etica è scienza universale e necessaria; nel secondo la
vita pratica, regno del possibile, è guidata dalla phrònesis che conduce alla scelta del giusto mezzo.
Ma anche in Aristotele la scelta del retto comportamento è una operazione precipuamente
intellettuale. Infine in entrambi, la felicità piena si realizza nella vita contemplativa, nella
conoscenza dell’universale ossia nell’esercizio stesso della filosofia: nella beatitudine. In questo
senso la filosofia è fine. Diversamente, nella filosofia stoica ed epicurea, la filosofia è mezzo, non
rappresenta in sè la realizzazione delle vita felice.
Secondo Epicuro: “vano è il discorso di quel filosofo che non sappia curare qualche umana
passione, infatti come l’arte medica non è di alcun giovamento se non ci libera dalle malattie dei
corpi, così non è di alcun giovamento neppure la filosofia se non ci libera dalle malattie
dell’anima”. E l’anima è malata se non conosce la verità, verità illuminata dalla filosofia. E cos’è
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vero? Ciò che è evidente: sia esso sensazione, affezione dell’anima,piacere o dolore. E’ necessario
allora limitarsi ad affermare ciò che è presente senza interpretare: ciò che è evidente.
Vediamo: la teoria della conoscenza di Epicuro mette la sensazione, l’esperienza sensibile, a
capo dell’atto conoscitivo. In particolare, la sensazione – aìsthesis – è contatto: i corpi che si
trovano fuori dell’esperienza tattile emettono, a causa del movimento vibratorio degli atomi, delle
immagini – simulacri – eìdola – che colpiscono gli organi di senso. La rappresentazione è dunque
registrazione (sempre vera) degli oggetti . Nel caso l’oggetto non sia presente, sussiste per Epicuro
la prolessi, che grazie alla memoria anticipa la rappresentazione di un oggetto prima di farne
esperienza. Sembra dunque che ogni sensazione sia sempre vera: il bastone che appare spezzato
nell’acqua secondo Epicuro, non costituisce una smentita della sua teoria, piuttosto è l’opinione –
hypòlepsis - che erra nell’attribuire un qualsiasi giudizio. Se da lontano credo di riconoscere un
caro amico e da vicino mi rendo conto del contrario l’errore sta nel giudizio: “A è un mio amico” è
un giudizio erroneo, non la prima sensazione - A da lontano - nè la seconda - A da vicino - 81.
Intorno all’etica ed alla condotta che porta alla felicità, Epicuro fa riferimento alla natura
dell’uomo: il piacere non si aggiunge alla natura umana, qualcosa che va inseguito per mezzo della
vita: il piacere è la vita. É l’esistenza liberata dal turbamento e dal dolore: assenza di dolore fisico
e spirituale.
Piacere e dolore
Secondo Epicuro, lo scopo della filosofia è il conseguimento della felicità. Ora la felicità si
identifica col piacere: questo è un dato indiscutibile. Piacere distinguibile in piacere cinetico (il
mangiare) e catastematico (la sazietà che ne deriva). Ora, al di là di tale distinzione, Epicuro insiste
su una definzione di piacere in senso negativo: è cioè l’assenza di dolore e di turbamento la
condizione necessaria affinchè si possa parlare di dolore , come dire che il piacere è mancanza di
dolore.
In merito poi ai diversi piaceri quali quelli naturali e necessari e non naturali, Epicuro parla
anche di amicizia ed amore : due aspetti essenziali per il Filosofo. Ora, il raggiungimento di tali
piaceri, essenziali all’essere felici, senz’altro vedono la filosofia in primo piano come esercizio di
ragione secondo il lògos: la retta ragione che consente di allontanare la paura della morte, del
dolore, degli Dei o del raggiungimento del piacere, in primis quello naturale. Uno esercizio di
ragione dunque che garantisce anche la possibilità della scelta: la possibilità di astrarre dalle leggi
fisiche materiali per comprendere il livello dei propri comportamenti ed atteggiamenti. L’azione
dunque, lungi dall’essere determinata da leggi fisiche materiali è libera da condizionamenti, se
questi non susssitono ovviamente (costrizioni, etc). In ciò, in quanto detto sebbene per motivi
diversi, il motivo della libertà umana si tocca anche negli stoici: in effetti per lo stotico, l’uomo ,
attraverso la ragione, attraverso il suo esercizio, può controllare le passioni, le può , come si suol
dire, gestire. In effetti per lo stoico il fondamento di una vita felice risiede nella retta ragione e nel
suo uso che consente un allontanamento dalle passioni: ancora la passione eccede la ragione o
meglio la passione è un impulso che eccede i limiti naturali della ragione. La passione dunque, per
gli stoici, si sviluppa allorquando in presenza di un qualcosa di preferibile per la propria vita, ossia
utile ed eventualmente necessario per la propria vita, noi reagiamo in misura eccessiva tale da
alterare il nostro normale corso di vita: in effetti per lo stoico l’unico vero bene che devo sempre
tenere in vista della ragione è la virtù, come assenza o gestione e regolatezza delle passioni. E tale
gestione accade per lo stoico nella misura in cui egli è in grado di blocare il valore attribuito ad un
evento rappresentato. Lo stoico dunque oppone all’impulso collegato ad un determinato evento la
81
Cfr. Cioffi. Cit. pagg730 e sgg.
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ragione: ragione che controlla lo stato emotivo ed affettivo legato ad eventi ed accadimenti che
possono turbare la vita dell’uomo.
Filone di Alessandria
L’accenno a Filone di Alesandria si giustifica per la sua figura, potremmo dire di rottura, a
cavallo di due epoche e culture: recuperò la dimensione dell’incorporeo di contro al materialismo
delle scuole ellenistiche; contrappose alla visone immanentistica precedente la sua visione
trascendentistica; ridemensionò la fiducia nell’autarchia dell’uomo e “mostrò la necessità di
trascendere la ragione e di agganciarla a Dio ed alla divina Rivelazione per poter veramente
risolvere i problem ultimativi”.82Tali aspetti sono essenziali per comprendere lo sviluppo del
pensiero greco successivo. In buona sostanza Filone D’Alesandria inaugura quell’alleanza tra fede
biblica e ragion filosofica ellenica che era destinta ad avere così larga fortuna con la diffusione del
pensiero cristiano e dalla quale dovevano scaturire le categorie del pensiero successivo.83
Le fonti
I testi che costituiscono il punto di partenza della formazione di Filone D’Alessandria sono
senz’altro le Sacre Scritture, vero fondamento del suo pensiero. In particolare, la traduzione greca
dei Settanta (che costituiva già una prima mediazione tra ebraismo ed ellenismo), iniziata ad
Alessandria sotto il regno di Tolomeo Filadelfo (285\246 a.c.). Egli privilegiò il Pentateuco, La
Legge (Torah in ebraico, Nomos in greco) che a suo avviso contiene tutta la verità su Dio. Ancora,
egli ritiene che la Bibbia abbia un senso e respinge l’assimilazione del racconto biblico al mito,
sebbene il senso letterale si collochi su piano inferiore rispetto al valore ed al senso del messaggio
mosaico. L’interpretazione allegorica si colloca su un piano decisamente superiore. In effetti Filone
fu il primo ad applicare una lettura allegorica della Bibbia che gli consentì di far convergere
tradizione ebraica e tradizione greca: suppose infatti che parte della dottrina greca derivasse da
Mosè, ovvero dalla sapienza ebraica rivelata da Dio84.
Fede e Ragione
82
Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, IV, pag. 248.
Ibidem.
84
Cfr. Geymont. Cit. pag. 564.
83
Filieri Andrea
42
In quale maniera possono rapportarsi il termine “Fede” con il termine “Ragione”? A quale
delle due spetta una priorità?: per primo Filone interpreta i rapporti tra filosofia e Rivelazione
(parola divina) in termini di subordinazione ancillare della prima alla seconda. Tale subordinazione
passerà indenne alla Patristica e alla Scolastica. Certo anche nell’Ellenismo le scienze particolari
erano ancelle della filosofia, ora Filone ripropone tale asservimento della filosofia alla sapienza
(: come le scienze su cui si basa la cultura generale (contribuiscono
all’apprendimento della filosofia, così anche la filosofia contribuisce all’apprendimento della
sapienza (. Infatti la filosofia è lo sforzo per raggiungere la sapienza, e la sapienza è la
scienza delle cose divine ed umane e delle cause di queste. Dunque come la cultura generale è
ancella della filosofia, così anche la filosofia è ancella della sapienza.85. Ed è la fede la convinzione
salda ed incrollabile che fa da fondamento alla sapienza. Essa dischiude nuovi orizzonti preclusi
alla ragione solo che essa sia disposta a seguirLa.
Per altro verso Filone, contrariamente a tutta la tradizione greca, scioglie la concezione di
Dio da quella del cosmo per collegarla a quella dell’uomo: la teologia è sciolta dalla fisica per
essere trasportata sul piano dell’etica (la conoscenza del Creatore) da cui deriva la santità.86 Filone
ripudia dunque la concezione materialistica ed immanentistica di Dio e del Divino, sostenuta dalle
scuole elleniche, e ridimensiona il senso e la portata della cosmologia87.
Ma anche la concezione ellenistica della phronesis (saggezza) come superiore alla sophia è
respinta: è la sapienza infatti a dare spessore alla saggezza
La metafisica e la teologia
Filone afferma dunque la realtà dell’incorporeo: nell’incorporeo risiede la causa del
corporeo. Al corporeo, viene dunque negata ogni autonomia ontologica ossia ogni capacità di dare
ragione di sé. Platone è dunque recuperato ancorchè superato, in funzione di alcuni elementi
essenziali della Scrittura. Per Filone, Dio è incorporeo come il Logos, le Potenze, le Idee, ed il
mondo delle Idee così come le anime. Nelle Legum Allegoriae: “Invece Dio non è un composto, è
una natura semplice ( mentre ciascuno di noi e tutte le altre cose che sono state
generate siamo molteplici. Io sono molte cose: anima, corpo (...) Dio non è un composto, nè è
costitutito da molte parti ma è privo di mescolanza con altro.88
Dio è allora semplice (mancanza di parti) nonchè assoluta incorruttibiità. Ancora:
“Neppure il cosmo potrebbe costituire un luogo adeguato ed una dimora di Dio, perchè Lui è luogo
a se stesso, ed è Lui che è pieno di se stesso, ed è Lui, Dio, che è bastevole a se stesso. (...) Egli è
l’Uno ed il Tutto.”89
Ora però, la stessa descrizione di Dio è forse una conoscenza di Dio? E che tipo di
conoscenza? Tralasciando la conoscenza mediata di Dio sulla base di aspetti a posteriori – partenza
dalle cose per ritenerle incacapaci di dar ragione di loro stesse ed arrivare a Dio – Filone parla di
conoscenza immediata di Dio: “Come possa avvenire questa visione diretta mette conto chiarirlo
con una immagine. Questo sole sensibile forse che non lo vediamo con nient’altro se non con il
sole? (...) la luce con la luce?Nello stesso modo anche Dio , che è luce di se stesso, è contemplato
mediante Lui solo, senza che null’altro cooperi alla chiara comprensione della sua esistenza”90
Ciò che l’uomo fa allora, non è vedere Dio, bensì è Dio che si dà a vedere all’uomo: un dono
come gesto d’amore. Un dono che ci consente di intuire la sua esistenza, non la sua essenza: “La
85
Congr., 79, in Giovanni Reale, cit, pag. 265.
Cfr. REale, cit. pag. 267.
87
Ibidem 268.
88
Leg. All., I,44, in Giovanni Reale, cit., pag. 270.
89
Ibidem .
90
Ibidem.
86
Filieri Andrea
43
comprensione della mia essenza non solo la natura umana ma neppure il cielo potrebbero
contenerla” risponde Dio a Mosè. Una trascendenza ontologica che comporta ovviamente una
trascendenza gnoseologica di Dio, sebbene Filone parli di alcuni aspetti di Dio quali l’incorporeità,
semplicità, perfezione, infinitezza - Dio è quindi non nominabile -.
Filone prosegue l’elenco delle proprietà di Dio puntando però su un aspetto centrale: quello
del poiein o meglio dell’agire. E questo agire è creazione: creazione dal non essere all’essere.
VEDIAMO: secondo l’autore, Egli non è solo Demiurgo bensì Creatore. Creatore a cui tutto
appartiene, infatti ogni cosa è gratuitamente e liberamente donata dalla sua bontà. Tutte le cose
sono una grazia di Dio91. Ora, la novità dell’introduzione del concetto di creazione comporta una
ri-trattazione: il nuovo senso del Logos divino. Logos inteso apparentemente come attività pensante
di Dio,come Nous di Dio: Filone fa quasi del Logos una sorta di ipostasi, denominato figlio
primigenito del Padre.92 Altre volte il Logos è un Dio secondo, comunque il Logos per Filone
esprime la valenza fondamentale della biblica sapienza, della parola di Dio. Parola creatrice e
fattrice.93
Logos come una realtà incorporea trascendente dunque, archetipo di tutta la realtà, anche
immanente alla realtà sensibile: un Pensiero che racchiude in sè l’intero cosmo intelligibile e che
contemporaneamente regola il mondo sensibile che su quello si modella.
Potenza
Abbiamo visto che Dio è attività creatrice, di cui il Logos esprime un aspetto, una modalità
di attività. In particolare il Logos è una Potenza, come altre. Non una Potenza come infinita
potenzialità, bensì forza ed azione: attività.
Le altre Potenze per Filone sono la potenza creatrice e la potenza regale: creatrice come
Elohim – secondo la tradizione ebraica – e regale come Jehovah. La potenza della creazione come
forza del bene ma anche come forza legislatrice e punitrice.
Plotino
La filosofia di Plotino, in linea con tradizione platonica, si propone di approfondirne il senso
sviluppandone alcuni aspetti essenziali: la molteplicità delle Idee, l’idea del Bene, la relazione con
la materia inanimata.
Plotino osserva innanzitutto come nessuna cosa potrebbe essere , nessuna Idea potrebbe
essere se non fosse unica. L’unità sembra essere quindi il fondamento dell’essere delle cose, delle
Idee. L’ente in quanto tale è unico. L’unità è quindi fonte d’essere, condizione d’essere delle cose e
della loro concepibilità. Per Plotino, l’unità è espressione dell’Uno assoluto che fonda l’essere e
l’intelligibilità dell’essere: “Tutti gli enti sono enti in virtù dell’Uno, sia quelli che sono enti in
senso originario, sia quelli di cui si dice che in un senso qualsiasi rientrano tra gli enti.Infatti che
cosa potrebbe esserci se non ci fosse unità?” Enneadi, VI,9,1. Ma da che cosa riceve\deriva l’unità
degli enti?94 Gli enti fisici per Plotino derivano la loro unità dall’Anima la quale è plasmatrice,
91
Ibidem.
Ibidem.
93
Ibidem 285.
94
Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, IV, pag. 504.
92
Filieri Andrea
44
formatrice, di tutte le cose sensibili. Ossia causa e fondamento della loro unità. Ora, anche l’anima
che dà l’unità ai corpi non è essa stessa l’unità95: “...essa non è l’Uno in sè”. Enneadi IV,9,1.
L’anima introduce dunque l’unità nel mondo fisico ma la riceve essa stessa da ciò che le sta
al di sopra: il Nous, dallo Spirito e dall’Essere. Ma anche l’Essere e lo Spirito , per quanto abbiano
un grado superiore di unità rispetto all’anima non sono l’Uno in quanto implicano molteplicità:
dualità di pensante e pensato e molteplicità di Idee ossia la totalità delle realtà intelligibili. In effetti
Plotino afferma: “Non certo dal molto deriva il molto, ma questo nostro molto deriva dal non
molto. Se infatti anch’esso fosse molto, non sarebbe principio questo molto, ma vi sarebbe un altro
principio prima di questo molto. (Enneadi,VI,9,2).
Ora,dell’Uno possiamo parlare solo in termini negativi: non è essere, nè pensiero, nè causa.
Piuttosto esso è àmorphon , àpeiron, incomposto. Per altri versi, l’Uno è perfezione, autonomo e
distinto da ciò che da esso deriva: l’Uno non intrattiene rapporti con gli enti, sono reali invece le
realzioni degli enti con l’Uno.
Se ogni ente è come esso è quindi, il suo fondamento sta nella sua unità, sebbene tale unità
non sia l’Uno in sè – l’Idea dell’Uno – perchè l’Uno trascende tanto il mondo sensibile quanto
quello intelligibile. L’Uno in sè è allora la prima ipostasi96 – ciò che sta sotto - tutto ciò che esiste e
che crea tutto l’ente.
95
Ibidem.
IPOSTASI (gr. ὑπόστασις, da ὑπό "sotto" e ἵστημι "sto"). - Dal punto di vista etimologico, questo termine coincide
pienamente con substantia, che la tarda latinità coniò per esprimere il concetto della realtà esistente, e indipendente
nella sua esistenza individuata. E infatti, se il termine substantia traduceva nell'uso quello greco di οὐσία - al quale
propriamente corrispondeva invece quello molto meno usato di essentia - esso esprimeva poi esattamente l'aspetto onde
quella "essenza" si presentava come "soggiacente" (ὑποχείμενον, o subiectum) e cioè come sostrato per sé sussistente e
sorreggente gli attributi, i quali invece non avrebbero potuto esistere senza quel sostegno. Con lo stesso significato (ma
con la particolare intonazione onde la realtà "sottostante" appariva, rispetto alle sue soprastrutture, più profonda, vera e
insieme arcana), "ipostasi" entrò invece nell'uso più tardi, specialmente col neoplatonismo, che designò con esso le
supreme nature dell'Uno, dell'intelletto e dell'anima, e con la teologia patristica, che se ne valse nell'elaborare la
definizione del dogma trinitario. E fu precisamente nel corso delle controversie trinitarie e cristologiche che si palesò
il bisogno di distinguere il termine d'ipostasi da quelli, considerati tra loro equivalenti, di sostanza ed essenza. Si
definirono infatti le tre Persone divine come consustanziali, cioè della medesima essenza (ὁμοούσιος), distinguendo
ciascuna di esse come ipostasi, e parlando di "unione ipostatica" della natura divina e umana in Gesù Cristo (v.
arianesimo; gesù cristo, XVI, pp. 868 segg. e 872 segg.; trinità). Da questo uso derivò il carattere di maggior solennità
oggettiva che contraddistingue ipostasi a paragone di sostanza; e, di conseguenza, la maggior forza che, di fronte al
termine "sostanzializzare", assunse il termine "ipostatizzare" per designare il processo per cui, lecitamente o no,
s'innalzano al grado dell'oggettiva esistenza enti concettuali o ideali, che vi possono essere elevati solo per astrazione.
96
In un senso derivato da quello teologico di "persona", il termine ipostasi è usato anche nella mitografia e nella scienza
delle religioni per indicare la "personificazione" di concetti astratti pertinenti al mondo soprannormale e concepiti come
altrettante personalità definite. Tuttavia conviene distinguere la semplice personificazione di fenomeni della vita e della
natura (o anche, col progresso del pensiero e della cultura, di qualità o proprietà astratte) dalle ipostasi divine vere e
proprie. Nel primo caso - di cui ci porgono esempî i Romani con le divinità degli Indigitamenta, lo zoroastrismo con i
sei "santi immortali" (Amesha Spenta; v.) - è possibile scorgere il legame con elementi naturistici o animistici.
Ipostasi vere e proprie si possono ritenere le divinità astratte dei Romani, quali Virtus, Pietas, Pudicitia, ecc.,
e meglio ancora quelle di certe dottrine gnostiche (v. gnosticismo) o del manicheismo e in genere di tutte quelle
concezioni religiose che, per spiegare il passaggio dall'unità della natura divina trascendente alla molteplicità che regna
nel mondo contingente, ricorrono a un emanatismo del tipo, appunto, di quelli di cui la gnosi ci porge numerosi esempî.
Ipostasi di questo genere sono state considerate da varî studiosi anche le personificazioni della Sapienza - che troviamo
in libri dell'Antico Testamento (Proverbî, Ecclesiastico, Sapienza) - e della Parola, Presenza, Gloria, ecc., di Jahvè, nel
giudaismo dell'epoca ellenistica. Ma altri studiosi hanno fatto osservare che in realtà la Sapienza personificata ed
Filieri Andrea
45
Non è qualcosa di finito -àpeiron –perchè il finito è determinato, ossia ha dei limiti, dei confini, per
cui è anche qualcosa di molteplice. Nè l’uno come numero minimo della matematica, peraltro
immisurabile, anzi semmai massimo per potenzialità. Non potenzialità passiva, contrapposta
all’atto, bensì attività illimitata e creatrice nella misura in cui l’Uno non è limitato da nulla di
indipendente da esso.97 Potremmo anche dire che, come in Anassimandro, la divisione dell’Uno è
la stessa generazione del molteplice. Ora l’Uno dividendosi non perde la sua unità, piuttosto l’Uno
dividendosi, il dividersi dell’uno, è la stessa produzione della molteplicità; ma l’Uno non è l’Uno
indeterminato di Parmenide, non è il semplice vuoto, il semplice manchevole, piuttosto è l’unità di
tutte le cose: “Egli è tutte le cose”. L’Uno non è quindi il Nulla: è tutte le cose, ivi compreso il
pensiero e la vita che in quanto enti sono distinti - sebbene non separati - come unità, da altro.
L’Uno di Plotino, si vuole com’è, creatore di sè, non potendo voler altro che sè. Ed in questo
volersi l’Uno produce il molteplice e l’intero universo. L’Uno allora non vuole l’altro da sè, nè
altro da sè, in quanto contiene anche il principio per cui egli è produttore: il senso plotiniano della
produzione, del portare ad essere, che in Platone ha il valore dela causa formale, in Plotino assume
il valore della causa formale ed efficiente.
L’uno e le tre ipostasi
Il principio ultimo del reale, per Aristotele, era l’ousia e l’intelligenza del Motore immobile;
per Plotino il principo è ancora ulteriore: l’Uno , al di là dell’essere e dell’essenza ed al di là
dell’intelligenza: l’Uno trascende la stessa ousia e lo stesso Nous. Vediamo:
ogni ente è tale solo in virtù della sua unità, la cosa si spezza se si rompe l’unità. Ora, da che
cosa deriva l’unità degli enti? Secondo Plotino, gli enti fisici ricevono la loro unità dall’anima che
esplica una attività plasmatrice e formatrice e coordinatrice di tutte le cose sensibili.Eppure l’anima
non coincide con l’unità in quanto per Plotino vi sono diversi gradi di unità: l’anima introduce nel
mondo fisico l’unità ma la riceve essa stessa da ciò che le sta al di sopra ossia dal Nous, dallo
Spirito e dall’Essere. Per Plotino però, anche sia l’Essere che lo Spirito, per quanto abbiano un
grado superiore di unità rispetto all’anima, non son l’Uno, perchè implicano molteplicità: dualità di
pensante e di pensato e molteplicità di Idee, vale a dire la totalità delle realtà intelligibili.
In conclusione: nel ricercare il fondamento delle cose, che è l’unità, noi siano costretti a
risalire dal mondo fisico all’anima (che è l’ipostasi più bassa),quindi dall’anima che ha ma non è
unità, allo Spirito (che è la seconda ipostasi) e dallo Spirito ( che include la molteplicità) ad uno
assolutamente semplice: l’Uno, la prima ipostasi, l’Assoluto. 98
Ora, le caratteristiche dell’UNO PLOTINIANO QUALI SONO? Senz’altro l’infinitudine
ma nella dimensione immateriale (Filone D’Alessandria). Come in Filone D’Alessandria infatti,
l’infinito plotiniano non è l’infinito dello spazio, nè l’infinito della quantità, bensì come infinita ed
inesauribie, immateriale potenza produttrice.In questo contesto la parola “Potenza” non assume il
significato di potenzialità, in quanto lgato al corporeo e materiale, bensì alla attività. L’uno è
insomma infinita energia creatrice, creatore di sè medesimo e di tutte le altre cose.
esaltata nella cosiddetta letteratura sapienziale non è altro, in sostanza, che la stessa Legge; e che gli altri supposti
attributi di Dio ipostatizzati non sono se non metonimie, grazie alle quali si evitava di pronunciare il nome sacro di Dio:
onde, dato il concetto di Dio personale, l'apparente ipostatizzazione. Comunque, poiché nel giudaismo il concetto di
Jahvè è stato sempre quello di un Dio vivente e personale, la cui azione è immediata (in contrasto con la concezione
metafisica e impersonale che ha di Dio la filosofia greca), non potrebbe mai trattarsi d'ipostasi o d'intermediarî tra
Jahvè e il mondo, nel senso proprio di questi termini.Treccani on line
97
98
Cfr. Severino, Cit. pagg. 190 e sgg.
Storia della Filodofia antica; Reale, Vol. IV
Filieri Andrea
46
Conseguenze:
 l’Uno non è Idea, ousia nel senso platonico, in quanto implicano finitudine e limite;
 l’Uno non è la sostanza immobile , eterna e separata, Intelligenza autopensantesi
finita.
L’Uno è allora, al di là dell’Essere, una trascendenza che ha antecedenti solo in Filone
d’Alessandria. Il principio supremo trascendente quindi non solo il mondo fisico, ma ogni forma di
finitudine, risultando quasi ineffabile. Diremo piuttosto che l’Uno non è una semplice unità, ma
l’Uno in sè, ossia la causa e ragion d’essere dell’unità delle cose. Esso è assolutamente semplice,
sebbene non una semplicità povera ma, al contrario, infinita potenza di tutte le cose. Nel senso che
tuttel le cose le porta all’essere e nell’essere le mantiene. L’Uno è anche il Bene, non il Bene per
per sè, visto che non abbisogna di nulla, ma per tutte le altre cose: un Bene assolutamente
trascendente.
Sulla base di quanto si è detto è forse possibile chiarire perchè l’Uno, per Plotino, è al di sopra
dell’Essere, al di sopra del pensiero: non nel senso che l’uno sia il non-essere, il non-pensiero,
piuttosto l’Uno sussiste non al modo delle Idee, in quanto molteplici, o al modo del pensiero,
sdoppiantesi in pensante e pensato.
La libera attività produttrice dell’Uno
Perchè c’è l’Assoluto e non il nulla? Vediamo:
1) L’Uno non è per caso, solo le cose divenienti sono per caso;
2) Non sussiste per libera scelta, quale quella che possa scegliere tra contrari;
3) Non esiste per necessità visto che è Lui la necessità degli altri Enti, la necessità gli è infatti
posteriore.
Potremmo o forse dovremmo dire invece che, per Plotino, essere ed operare nell’Assoluto
coincidono in quanto il primo principio si autopone, crea se medesimo ed è attività produttrice. 99
Ancora, per Plotino, la volontà corrisponde al suo atto: egli è volontà di essere quello che è, è
libertà totale ed assoluta: “L’espressione “Egli vuole ed agisce secondo la sua natura” non vale più
dell’altra “l’essere di lui corrisponde alla sua volontà ed al suo atto”Di conseguenza Egli è in tutto
padrone di sè, poiche fa rientrare anche l’essere nel suo libero arbitrio (...) Egli non è così com’è
perchè non poteva essere diverso, ma perchè questo suo “così com’è” è quanto di più alto si possa
immaginare . Da ciò deriva anche che Egli è amore di sè .
La processione di tutte le cose dall’Uno
Plotino risponde alla domanda sul perchè le cose procedano dall’Uno con alcune immagini di cui la
più celebre è quella della luce:come l’irraggiarsi di una luce da una fonte luminosa in forma di
cerchi successivi via via digradanti in luminosità. IL ptimo cerchio è il Nous o Spirito, ossia la
seconda ipostasi. Il cerchio che segue segna il momento dello spegnersi della luce e simboleggia la
meteria.
Vediamo: da tutte le immagini proposte si ricava già questo: il principio rimane e, rimanendo
genera , nel senso che il suo generare non lo impoverisce. Ancora, possiamo chiederci se il
generante è necessitato a generare: Plotino risponde ponendo una distinzione.
Esistono due tipi di attività:
99
Ibidem.
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47
1) L’attività dell’ente
2) L’attività che deriva dall’ente.
La prima è immanente all’ente, la seconda esce dall’ente e si dirige al di fuori100.
Analogamente, si dovrà parlare di una attività dell’Uno e di una attività che deriva dall’Uno,
quella attività che fa sì che dall’Uno derivi o meglio proceda un’altra realtà. Orbene, alla
fine di questo ragionamento, possiamo affermare che, come abbiamo visto, l’attività
dell’Uno consiste nel voler esser ciò che è, ossia nella libertà di essere ciò che è, cosicchè
l’attività che procede dall’Uno e che consegue necessariamente all’atttività dell’Uno,
(l’emanazione) costitutisce una necessità, in un certo senso voluta, ossia una necessita posta
da un atto libero, o meglio la conseguenza di un atto libero. In una battuta: la volontà
dell’Uno di essere la propria natura è la causa diretta dell’emanazione dalla sua natura. In un
certo senso, la creazione è libera o meglio la processione è una necessità che consegue da un
atto libero.
Lo spirito
Quando parliamo di Spirito, in Plotino, non possiamo semplicemente affermare che Esso è
la potenza che procede dall’Uno. Plotino, in riferimento a questo punto è assai preciso. Egli
parla:
1) Il rivolgersi della potenza all’Uno, il quale feconda riempie e colma la potenza
medesima;
2) Il riflettere di questa potenza su se medesima già fecondata.
3) Tale duplicità di momenti spiega, per Plotino, la nascita del molteplice o
meglio la molteplicità delle Idee. (Cosmo intellegibile).
Vediamo meglio: l’Uno è la potenza di tutte le cose; lo Spirito, a sua volta, è tutte le cose. Tale
affermazione significa che lo Spirito di Plotino è l’Essere Puro di Platone, quell’Essere che è
pienamente e in alcun modo affetto dal non essere. Plotino, in minura ancora maggiore fa dello
Spirito la dimora di tutti gli esseri ideali. Di più ancora, le Idee sono pensieri di Dio. Infatti nel
contesto plotiniano le Idee vengono ad essere non solo il contenuto del Pensiero, ma, esse stesse,
pensiero: ciascuna e tutte le Idee non sono solo nello Spirito ma sono esse stesse spiriti.
Lo Spirito poi è anche vita, il Vivente perfetto, Vita infinita. La vita della seconda Ipostasi è dunque
vita nella dimensione immateriale, è vita spirituale, al di fuori della temporalità. Del resto già
Aristotele aveva caratterizzato il suo motore immobile come la più alta forma di vita possibile, la
vita propria del pensiero e dell’intelligenza, appunto nella dimensione dell’eternità.
La terza Ipostasi
Lo Spirito, come abbiamo visto, è potenza infinita, inesauribile, ed in quanto tale trabocca e genera
un’altra realtà, gerarchicamene inferiore: l’Anima.
Ma qual è la caratteristica specifica dell’anima?. Ora, se la caraterisica principale dello Spirito
consiste nel pensare (Nous) , da cui la sua dualità Essere\Pensare, ed anzi la sua molteplicità (
100
Tutti gli esseri, afferma Plotino, fino a che permangono, producono ntorno a loro e dalla loro sostanza, una realtà che
tende verso l’esterno e dipende dalla loro attualità presente. Questa realtà è come un’immagine degli archetipi dai quali
è nata: così il fuoco fa nascere il calore, e la neve non trattiene in sè il freddo. Inoltra tutti gli esseri giunti alla
perfezione generano; perciò l’essere che che è sempre perfetto genera sempre: genera un essee eterno che da meno di
lui. (Enn. V,1,6)
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48
(L’Essere è una molteplicità di Idee), va anche detto che l’Uno, se vuol pensare, deve farsi Spirito:
dato che l’Uno come tale, non può pensare. Orbene, anche l’Anima pensa, contempla lo Spirito che
l’ha generata, ma la sua essenza consisite non nel pensare, ma nel dare vita a tutte le cose sensibili,
nell’ordinarle e governarle. Essa è la primgenia causa produttrice , il principio creatore e vificatore
di tutte le cose: “Compito dell’Anima, a dir il vero, si è di creare tutte le cose, poichè ella è ragione
e principio”.
In conclusione, come l’Uno doveva diventare spirito per pensare, così doveva diventare Anima per
generare tutte le cose del mondo vsibile: l’incorporeo genera il corporeo.
Il problema della generazione del mondo fisico
L’elemento caratteristico del mondo corporeo è la materia sensibile. Ora, secondo Plotino,
caratteristica di ogni materia è l’essere indefinita, indeterminata, illimitata. La materia sensibile, in
Plotino, presenta una differenza ontologica con la materia intelligibile.
Vediamo: in Plotino la materia sensibile diventa esempio di lontananaza e privazione estrema
rispeto all’originaria dell’Uno. In breve, Plotino definisce la materia sensibile come non essere.
Ossia non tanto come il nulla ma come il diverso dall’Essere.
Nello specifico, il mondo sensibile è costituito da materia e forma , ma a differenza della materia
intelligibile che è forza o potenza, la materia sensibile non è positiva capacità di ricevere la forma,
ma solo inerte possibilità di rifletterla , senza esserne a fondo veramente informata. Insomma, la
materia sensibile è tale da essere incapace di costituire una vera unità con la forma.101
In questo senso allora possiamo affermare che l’Anima crea il mondo fisico :
1) Dapprima pone la materia, che è come l’estermità del cerchio di luce che si spegne e diventa
oscurità
2) Successivamente dà forma a questa materia , quasi squarciandone l’oscurità e ricuperandola
alla luce.
3) Detto in altri termini le Idee che costituiscono lo Spirito sono contemplate e pensate
dall’anima come Forme e poi calate nel mondo fisico come determinazine razionale, come
logos o disegna razionale del mondo
L’uomo ed i rapporti tra anima e corpo
Secondo Plotino, l’uomo vero, è solo l’anima, anzi l’anima separata. Permeglio dire, Plotino insiste
nella dimensione di tre anime: o meglio tre potenze dell’anima.
 La prima non è se non l’anima considerata nella sua tangenza con lo Spirito (Tangenza che
non viene mai meno);
 il secondo uomo, per così dire, è l’anima o il pensiero discorsivo, che è in mezzo tra
l’intellegibile ed il sensibile;
 il terzo uomo, per così dire, è l’anima che vivivifica il corpo terreno.
L’uomo dunque è comprensibile solo nell’unione di questi tre momenti. A seconda che noi
lasciamo predominare la parte sensibile, oppure trascndiamo il sensibile tenendoci stretti a questa
partte superiore , decidiamo i nostri destini. Ma in che cosa consiste l’attività più alta dell’anima?
Riprendendo Socrate , Plotinio ritiene che l’attività più alta dell’anima consista nella libertà. Nello
specifico,per Plotino, la libertà, non può consistere nell’attività pratica, ossia nell’agire esteriore,
ma nella virtù e soprattutto nelle più alte virtù ed in paticolar modo nel pensiero: nella
contemplazione e nell’estasi. In buona sostanza, quello che nell’Ellenismo poteva essere trovato
nell’immanenza (la ricerca della felicità epicurea e stoica) per Plotino, diversamente, può senz’alro
essere cercato in questa vita, ma distaccandosi con lo spirito da tutto ciò che è materialee, per questa
101
Ibidem.
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49
via entrando in intima unione (sia pure solo qualche volta e solo per breve tempo con l’Assoluto
trascendente.
Porfirio
Porfirio, noto discepolo di Plotino, e grande commentatore degli scritti di Aristotele e
Platone, risulta importante nel panorama filosofico per la sua codifica dei cinque predicabili
(genere, specie, differenza, proprio ed accidente) che vanno a costituire una struttura logica
gerarchica nota come albero di Porfirio (scala praedicamentalis): la subordinazione dei
generi e delle specie, distinte attraverso differenze, procedendo dal genere sommo sino alle specie
infime
e
quindi
agli
individui.102
In
ordine
al
senso
di
predicabile
(praedicabilis), questo termine è stato coniato da Boezio nella sua traduzione
dell’Isagoge di Porfirio. In effetti sia Aristotele che Porfirio usano il termine sia
per indicare il il predicato che per indicare il modo in cui viene predicato ossia il predicabile. In
breve, il predicabile si riferisce nell’Isagoge a cinque termini (genere, specie, differenza, proprio ed
accidente) che esprimono cinque modi in cui un predicato si predica di un soggetto. Nello specifico,
il genere (genus) è il primo dei cinque predicabili: “il genere è ciò che si predica di più
realtà che differiscono per specie, per quel che riguarda l’essenza”. Porfiro esprime quindi
l’essenza delle specie con questa definizione, ponendo al vertice dell’albero porfiriano il genere
sommo ossia la “sostanza” e tutte le altre categorie.
Il secondo dei cinque predicabili è : “specie” (species). Termine non incluso da
Aristotele tra i predicabili. Consideradola solo come soggetto. Porfirio così la definisce: “ciò che è
subordinato al genere e di cui il genere si predica in relazione all’essenza”. In buona sostanza
Porfirio qui intende la specie come essenza dove l’essenza si definisce a sua volta in riferimento al
genere ed alla differenza, definita come “ciò che per natura divide le realtà comprese in uno
stesso genere”. Il circolo quindi si chiude: il genere “animale” (ad es.) si predica di più realtà:
uomini, scimmie, etc., che differiscono in quanto specie diverse. Tutte queste specie, a loro volta,
sono animali, se ne può predicare l’animalità; l’essenza di queste diverse specie si rintraccia nella
loro differente animalità le une dalle altre.
Il messaggio cristiano
Dopo la predicazione di Cristo in Palestina, l’area di diffusione del Cristianesimo fu
l’impero romano, in particolare la sua parte orientale. Da Oriente, provenivano San Marco e San
Paolo. Ma la diffusione della Parola di Dio si estese ben presto alla penisola italica e all’Africa
settentrionale, dove nasce Agostino. Tuttavia è Roma a costituire il maggior centro della Cristianità
102
Cfr. Isagoge, Porfirio, Bompiani, 2014
Filieri Andrea
50
in Occidente. Città su cui si riverbera il messaggio cristiano non solo nelle classi meno agiate, ma
nache in quelle elevate. Inizialmente il messagio cristiano viene visto con sospetto: in riferimento
al modello di povertà e pace proclamato. Iniziano così le prime accuse contro i cristiani e le loro
pratiche (I sec. d.c.: accusa di Nerone per l’incendio di Roma; Domiziano contro il monotesimo
cristiano avverso alla tradizione pagana). Solo nel 313 l’editto di Milano – Costantino- consente
di professare liberamente la religione cristiana chiudendo così, de facto, l’epoca delle persecuzioni.
Con Teodosio I, il Cristianesimo diverrà poi religione di stato. Si apre così l’era degli imperatori
cristiani: la Chiesa rafforza così il suo potere. In un impero quale quello romano oramai in crisi ed
in difficoltà, la nuova religione offre al singolo una via di salvezza e di solidità. Mentre il mondo
antico si dissolve, si apre una nuova visione della vita che caratterizzerà il nuovo medioevo
cristiano103.
In particolare, in via riassuntiva possiamo affermare che se l’ideale greco della virtù
coincideva con la contemplazione della verità, diversamente per il Cristianesimo la virtù dell’uomo
coincide con la fede. Fede accompagnata dalle operre cristiane e dalla carità. Ora, il sapere greco, la
sophìa, per il Cristianesimo è stoltezza presso Dio (Paolo). E’ l’annuncio di Dio ai credenti che
consente all’uomo la salvezza, non la sophìa greca104.
Quadro sinottico
.
Filosofia
397-401 Agostino, Confessioni
Storia
410 Sacco di Roma: Visigoti
413-427 Agostino, La città di Dio
476 Caduta Impero Romano Occidente
529Giustinianochiude la scuola di Atene
525 Boezio, Consolazione della filosofia
540 Regola di Benedetto da Norcia;
622Maometto abbandona la Mecca
728: nasce lo Stato Pontificio
732CarloMartello sconfigge gli arabi a Poitiers
800 Carlo Magno è incoronato imperatore
860 Scoto Eriugena, De Divisione Naturae
1076\77 Anselmo, Monologion e Proslogion
La patristica
103
104
Cfr. Roberta De Monticelli, l’Espresso.
Cfr. E. Severino, cit. pagg 50 e sgg.
Filieri Andrea
51
Nei primi secoli dopo Cristo la tradizione occidentale vede il delinearsi di una nuova
corrente di pensiero: la Patrisitca dal termine “Padre” ossia fondatori della Chiesa. Le teorie
filosofiche di qusta epoca sono ancora derivanti dalla Grecia classica: il platonismo e lo stoicismo.
Il Cristianesimo vi attinge sia sul piano dei contenuti che del lessico.
Agostino afferma che il platonismo si avvicina al cristianesimo per la concezione dell’anima e per
l’oggettiva conoscenza del Bene: oggetto di conoscenza e supremo principio morale. Inoltre i
platonici mettevano in evidenza l’assoluta trascendenza di Dio sebbene il Cristianesimo si
distaccasse da queste impostazioni per la tematica della Rivelazione e della Fede che conduceva alla
salvezza. Il rapporto con il pensiero greco va quindi lentamente distaccandosi dalle premesse
platonico\stoiche sino a considerare la filosofia una premessa della verità.
Agostino
Agostino, considerato homo religiosus e uomo di pensiero dalla tradizione successiva, nasce
nel 354 a Tagaste in Algeria. Sedotto dai piaceri in giovane età, scopre la filosofia e la letteratura.
In giovane età,nella sua ricerca dell’Assoluto, si lega al manicheismo che predicava l’esistenza di
due principi cosmici - Bene e Male - che reggono l’evolversi del Tutto. Successivamente decide di
dedicarsi totalmente a Dio, battezzato da Ambrogio, e ordinato sacerdote nel 391, poi vescovo di
Ippona sino alla morte.
Vero genio del Cristianesimo Agostino è noto per le Confessioni: il viaggio\percorso di un
anima attraverso il mondo verso Dio. Se vogliamo, l’esistenza concreta è posta da Agostino come
base e fondamento del pensiero di Dio. Come dire che nella propria vita, nella propria interiorità,
l’uomo deve trovare Dio. Anzi, solo nella propria ricerca interiore l’uomo trova Dio: “nosce te
ipsum” afferma socraticamene Agostino nella scoperta di Dio. Ancora: “noli foras ire, in te
ipsum redi” . E questo perchè “ in interiore homine habitat veritas”.
Agostino modifica dunque la nozione greca di conoscenza, di cui il saggio imperturbabile è
l’emblema: nozione quindi impersonale di conoscenza. Agostino è invece turbato nella propria vita
dalla ricerca di Dio: la conoscenza è dunque intesa come viaggio verso Dio e salva l’uomo nella
sua ricerca di Assoluto. In definitiva, l’homo christianus non vuole solamente la salvezza di
qualcosa dal tempo e dalla morte: è l’esistenza concreta che deve trovare salvezza (passioni,
sapere). E ciò che salva, che ci salva, è la Verità: una verità però personale105 che porta alla felicità:
Nulla est homini causa philosophandi, nisi ut beatus sit. In questa finalizzazione della
conoscenza alla felicità, Agostino è senz’altro erede della filosofia ellenistica, come pure
dell’identificazione tra beatitudo e sapientia. Ma la sapientia deve essere conoscenza del vero
105
Cfr. Lezioni di Filosofia, L’Espresso, Roberta De Monticelli
Filieri Andrea
52
bene: l’oggetto d’amore per eccellenza, ossia Dio. Un Bene non solo conosciuto ma goduto e
posseduto ed amato: questa è la felicità.
In effetti, in riferimento ad Aristotele, che parla di un Assoluto conosciuto in maniera
impersonale, conosciuto dalla pura intelligenza distaccata da questo mondo, dalle passioni,
<dall’Amore, Agostino oppone un percorso personale che discute e disputa con Dio stesso. E la
ricerca personale che arriva a Dio è anche una forma di beatitudine, di felicità:
inquietudo (mancanza e desiderio) e beatitudo (pienezza ed appagamento) sono le note
fondamentali delle Confessioni.
Essere e non essere
Se faccio quello che non voglio,
ammetto che la legge è buona; allora
non sono più io che lo faccio, ma il
peccato che abita in me. Difatti,io so
che in me,vale a dire nella mia carne,
non abita alcun bene, poichè il volere si
trova in me, ma il modo di compiere il
bene no. Perchè il bene che voglio non
lo faccio, ma faccio il male che non
voglio.
Paolo, Romani,7, 17-20.
Agostino viene tradizionalmente considerato colui che ha introdotto il peccato originale
nella Teologia: Agostino legge un passo paolino in una traduzione probabilmente erronea in cui ciò
che Adamo porta nel mondo è il peccato ma, con il peccato, la morte. Morte come eredità del
peccato che si trasmette in forza del peccato stesso. Ecco che allora Agostino può inizare le
Confessioni affermando che ognuno si porta dietro la sua morte, la sua finitudine. Ancora, ognuno
è responsabile della propria morte e lo è in forza della propria scelta, del deliberare in ogni
momento della propria vita: dalle scelte più banali alla scelta suprema tra Dio e Diavolo, tra
Essere e non essere. Tra l’Essere per eccellenza: necessario, atemporale e l’essere contingente,
temporale, finito (finitudine percettiva, temporale), transeunte, dipendente (mancanza d’essere).
In buona sostanza, la scelta dell’uomo risulta essere allora tra Dio ed il Nulla. Nulla verso
cui l’uomo, in quanto creato da Dio, tende inevitabilmente.
Ora, nella scelta dell’uomo verso Dio gioca un concetto essenziale per Agostino: la volontà.
Voluntas per Agostino, a differenza del mondo greco106, è quella sequenza sempre
rinnovata del filo dei giorni: l’intentio profunda di una vita. Il singolo quindi è sempre in gioco,
in quanto responsabile, del proprio essere secondo la voluntas che lo individua come singolo nel
mondo. E’ questo un tema fondamentale: ciò che ci individua come singoli, non è tanto
l’intelligenza, il sapere, quanto la voluntas che indizza il nostro esistere. Voluntas dettata da
Amor per Agostino, non verso la concupiscentia carnis, verso la curiositas (avidità di sapere) o
verso sè stessi (amor inordinatus, di tipo demoniaco) ma Amor ordinatus verso l’Altissimo che
orienta la creatura in direzione ascensionale come persona. Persona non solo collocata tra i savi o
dannati ma persona come scintilla di Dio, specchio dell’Universo .
La volontà allora è quella forza che interviene determinatamente nella conoscenza: per
conoscere alcunchè occorre volerLo. E si vuole ciò che si ama.107Si cerca per trovare l’Amato.
106
107
Vediamo:
Il Testo Filosofico, Cioffi, Luppi, Mondadori 2000.
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“pondus meum amor meus: eo feror quocunque feror” – il mio peso è il mio amore. DA LUI SON
MOSSO dovunque io muova .
La volontà è dunque principio di individuazione della persona, come desiderio universale di
felicità che ha come oggetto la beatitudo: ma sinchè la volontà non si decide alla conversione è
destinata all’inquietudo. In una battuta : la volontà tende alla conoscenza dell’oggetto d’amore,
che però può incorrere nell’errore, ossia nell’inquietudine, o nella verità ossia nella beatitudine.
Tempo
Nel mondo greco la concezione del tempo era ciclica: vi è dunque una ragione intrinseca per
cui tutto accade, così come ad una stagione succede un’altra. Viceversa, nel Cristianesimo, la
tematica delle Creazione e dell’Apocalisse produce un’altra visione: il tempo lineare, rettilineo e
progressivo. Questa idea suggerisce la progressione irrevocabile delle epoche storiche, così come
quella di progresso, una idea questa fondamentale in tutta la cultura occidentale.
Per Agostino, Dio prima della creazione, preparava un bastone per coloro che
avessero posto la domanda sull’origine del Tempo: il tempo infatti inerisce la creatura, non c’è
precisamente nell’eterno. Il modo d’essere dell’Assoluto non è il tempo. Dunque tra tempo ed
eternità quale rapporto sussiste? Agostino ha presente Platone quando il filosofo cita il tempo come
immagine mobile dell’eternità. Platone aveva probabilmete in mente il moto ciclico delle stelle che
sempre ritorna, potremmo dire partecipando dell’eterno. Ora, con Agostino, con la cristianità ed il
mondo biblico, il tempo ciclico si sfalda a a favore di un tempo storico: - il mondo fu creato per
essere un inizio.
Per altro verso l’eternità per Agostino108 non è un tempo senza fine bensì il presente di Dio.
L’oggi di Dio non scorre è presente eterno: Interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio
ossia il possesso simultaneo pieno di una vita interminabile che non passa e sfugge.
Il tempo vissuto è invece quello dell’esistenza umana: vive nell’incompiutezza e nel
rimpianto e nella preoccupazione del futuro fuggendo il presente. Qui c’è l’idea dell’aderire al qui
ed ora come ascesi: la resurrezione infatti non è prima\\dopo il tempo. Si tratta di nuovo quindi di
scegliere tra l’essere ed il non essere. Come Amleto nel suo monologo, noi siamo responsabili della
nostra morte in quanto scelta verso l’Assoluto.
Boezio
108
Roberta De Monticelli, Citato.
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Con la caduta dell’Impero romano d’occidente, si apre lo spazio per la formazione dei
regni romano barbarici, nei quali si assite ad una compresenza di continuità e rottura tra istituzioni e
cultura –filosofica\religiosa.
Boezio, romano e cristiano nel regno gotico di Teodorico, è nel IV secolo
Anselmo, Padre della Chiesa Latina, compie senz’altro una operazione quasi unica nel suo
genere : la fusione\intersezione tra Filosofia ed Teologia: Fides quaerens intellectum.
La dimostrazione del’esistenza di Dio prodotta da Anselmo d’Aosta - 354 d.c. - nel
“Proslogion” - unum argumentum - è comunemente conosciuta come argomento ontologico. Essa
consiste in una prima parte in cui, riferendosi all’idea di Dio, si sostiene che non sia possibile
pensare nulla di più grande. Una volta ideata, pensata tale Idea, intuitivamente, l’esistenza di Dio si
mostra da sè come qualcosa che non possa essere negata vista la grandezza di Dio.
Ora, ad Anselmo, questo non basta109 scendendo su un piano dimostrativo e confutativo piuttosto
che intuitivo. L’obiezione evidente risulta essere quella che attribuisce ad una Idea, qualsiasi essa
sia, la sua natura: la soggettività. Per cui, proprio in virtù della natura di Idea, non è possibile
pretendere che un’idea si riferisca necessariamente ad un reale esistente.
Vediamo: dal punto di vista confutativo, “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”
non esiste nel solo intelletto, ché, se così fosse, si potrebbe pensare qualcosa di ancora più grande.
Qualcosa che esiste sia nell’intelletto che nella realtà. Per cui, colui che nega l’esistenza di Dio, in
realtà non pensa a Dio come nulla di cui si possa pensare qualcosa di maggiore: il suo sarebbe un
concetto falso ed autocontraddittorio (PROSLOGION, capitoli II,III,IV).
.
109
Lucio Cortella, Storia della Metafisica, Cafoscarina 2015
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