1 IL PICCOLO INIZIO: VITA MATERIALE E REALTÀ

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IL PICCOLO INIZIO: VITA MATERIALE E REALTÀ
Carlo Sini
Come si sa, sul letto di morte Husserl si rammaricò di lasciare incompiuta la
sua ultima opera, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Vedeva
in essa, disse, «un piccolo inizio), nel quale era riuscito a rifarsi interamente a se
stesso. Naturalmente l’espressione «piccolo inizio» ha sollevato e solleva tuttora
sorpresa, stupore e sorrisi commossi: Husserl parla candidamente di piccolo
inizio a proposito di un’opera così ricca, complessa, decisiva, sebbene incompiuta, e lasciando poi in eredità altre migliaia e migliaia di pagine, edite e inedite…: ecco la grande, inconsapevole, persino ingenua modestia di un vero genio
e di un uomo totalmente dedito alla ricerca filosofica, ignaro, come annotò lui
stesso in una pagina di diario, di compiacimenti mondani e di mondane distrazioni, quale indubbiamente fu Edmund Husserl. Niente da obiettare, ovviamente, sennonché in queste osservazioni e compiacimenti moralmente intonati
ci si dimentica per lo più di far caso al contenuto effettivo delle parole di Husserl. Ha detto: un piccolo inizio; ma perché l’ha detto? E cosa intendeva veramente? Non è possibile che quelle parole vadano invece prese alla lettera, e
non solo come espressione di una personalità schiva e ignara di narcisistici
compiacimenti? È appunto al possibile contenuto filosofico della espressione
in parola che sono dedicate le riflessioni che seguono; certo, senza nulla togliere alla grandezza morale e umana della persona che le proferì in fin di vita.
Il tema fondamentale della Crisi è certamente quello del mondo-dellavita, della Lebenswelt. Intento dichiarato di Husserl è quello di arrivare e delineare una ‘scienza’ di questo mondo della vita, una scienza che egli giudica assolutamente inedita, mai tentata prima e neppure vista, al più intravista, ma sempre
mancata o fraintesa; una scienza che egli non esita a dichiarare paradossale e
piena di controversi e oscuri problemi, a cominciare da quello della soggettività
costitutiva e ‘trascendentale’ nella sua differenza dalla soggettività psicologica:
tema che restò incompiuto e che è uno dei meriti più grandi di Enzo Paci di
aver tentato di ripensare e di risolvere, proprio in senso fedelmente husserliano, nel suo fondamentale libro del 1963 Funzione delle scienze e significato dell’uomo.
Quando Husserl parla di questa istituenda scienza del mondo della vita, oltre a
rilevare il senso sicuramente nuovo e per molti versi problematico che qui la
parola ‘scienza’ assume, differenziandosi nettamente da ciò che il senso comune e gli scienziati stessi intendono per scienza, ovvero la scienza ‘obiettiva’ logico-naturalistica, non manca più volte di notare la precarietà del suo contenuto e del suo metodo. Per esempio nel § 44, richiamandosi alla necessità di cominciare interamente da capo per dare avvio alla scienza della Lebenswelt, Husserl aggiunge: «Lo facciamo necessariamente, come di fronte a tutti i compiti di
principio nuovi, che non possono servirsi nemmeno di un’analogia, con una
certa inevitabile ingenuità»1. Il «piccolo inizio», che si rifà interamente a se stesso, si chiarisce qui in riferimento a ragioni di contenuto: un così inaudito gesto
inaugurale non poteva che essere piccolo, fragile, persino ingenuo, rispetto agli
sviluppi che esso intendeva innescare. Non una questione di modestia personale, dunque (o non solo questo), ma uno stato di fatto della ‘cosa stessa’.
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Cfr. E.Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it.
di E.Filippini, Il Saggiatore, Milano 1961, p.183 (in seguito le pagine saranno indicate direttamente nel testo).
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Quanto alla natura degli ‘sviluppi’, alla loro portata e al compito infinito
che la sottende, la Crisi ne fornisce, come si sa, numerose descrizioni. Per esempio Husserl parla di «un nuovo compito» per la filosofia, e anzi di una
«nuova filosofia che va attuata attraverso l’azione», cioè di una nuova prassi filosofica e della «possibilità pratica di una nuova filosofia», ovvero di una nuova
pratica della teoria (p.47). E proprio di seguito al passo sopra richiamato relativo all’«ingenuità», Husserl scrive: «In principio è l’azione. L’azione rende il nostro progetto ancora incerto più determinato, lo rende sempre più chiaro, promuovendone la realizzazione» (p.183). Realizzazione che chiama in causa però
un futuro letteralmente infinito: in questo futuro il sapere «assume la forma di
una scienza universalmente responsabile, e in cui si attua un modo completamente nuovo di scientificità» (p.357). «Ciò assume, scrive ancora Husserl, la
forma di una prassi di genere nuovo, di una critica universale di qualsiasi vita e
di qualsiasi fine della vita, di tutte le formazioni culturali e di tutti i sistemi culturali che già sono sorti nel corso della vita dell’umanità e dei valori che li reggono espressamente o implicitamente; inoltre, una prassi che mira a innalzare,
attraverso la ragione scientifica universale, l’umanità, mediante multiformi
norme di verità, a trasformarla in un’umanità radicalmente diversa, capace di
una responsabilità di se stessa assoluta e fondata su intuizioni teoretiche assolute» (p.341).
Questi riferimenti sembrano più che sufficienti per chiarire come il
«piccolo inizio» di cui Husserl parlava stesse anzitutto nelle cose, cioè nella vastità, grandiosità e audacia del progetto coltivato da Husserl per la sua fenomenologia, intesa sia come progetto e avvio di una filosofia del futuro, sia come
erede della intenzionalità profonda ma prevalentemente implicita che abitava
sin dall’origine il gesto filosofico.
Resta nondimeno da chiedersi in che consistesse però, agli occhi di
Husserl, il tratto assolutamente nuovo e inaudito della enunciata e annunciata
scienza del mondo della vita. Dopo tutto, si potrebbe osservare, già da molto
tempo Husserl aveva avanzato e trattato il tema del «precategoriale», declinandolo in molti modi e percorsi, indubbiamente straordinari, sia negli scritti editi
sia, e più, negli inediti. Che cosa c’era dunque di così totalmente nuovo e sconvolgente nel dettato della Crisi, e anzi già nelle due celebri conferenze di Vienna
e di Praga che ne costituirono il germe iniziale? Potremmo rispondere che, a
differenza dal riferimento al precategoriale inteso e utilizzato come luogo di riconduzione e di radicamento di ogni analisi e descrizione «genetica» (si pensi
per esempio ai manoscritti di Esperienza e giudizio), il riferimento alla Lebenswelt
mette in campo l’idea di una vera e propria scienza universale e globale, abbracciante ogni altra forma di scientificità e addirittura tutti i problemi di senso
del vivere umano; il tratto unitario di questa nuova scienza e la sua portata infinita possono essere indubbiamente aspetti che giustificano quel senso di una
rivelazione inedita, mai prima intuita, che le parole di Husserl sembrano variamente suggerire. Vi è però ancora dell’altro che potrebbe essere scoperto, a
giustificazione della assoluta novità che Husserl attribuisce alle sue ultime indagini, sia in riferimento alla tradizione, sia al suo stesso lavoro. Cercherò ora di
illustrarlo richiamando un tratto caratteristico e certamente fondamentalissimo
della esposizione husserliana. Questo tratto concerne la rivendicazione o la rivalutazione, senza alcun dubbio stupefacente, della doxa.
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Naturalmente Husserl sa benissimo (e lo ricorda espressamente nella
Conferenza di Vienna del maggio 1935) che lo ‘stupore’ dal quale sorge la filosofia mira a una riconsiderazione e comprensione assolutamente disinteressata,
‘teoretica’ e non ‘pratica’, dei fenomeni del mondo; una comprensione che non
si accontenta certo della comune opinione, della doxa inconsapevole appunto, e
che mira invece a verità fondate e apodittiche, cioè proprio alla episteme filosoficamente intesa e sviluppata (cfr, p.344). Se è così, che senso attribuire allora
all’esplicita rivendicazione del mondo della doxa che emerge, in alcuni punti capitali, nel corso della Crisi? Husserl non è peraltro ignaro del carattere paradossale dell’argomento e delle perplessità che esso potrebbe suscitare. Vediamo.
Il tema del mondo della vita, dice Husserl, esige, per essere trattato fenomenologicamente, una «diversa scientificità»; ma come realizzarla? A essa «si
è sempre finora sovrapposta quella obiettiva», cioè una scientificità che si oppone alle verità della vita pre- ed extra-scientifica, la cui «fonte intima e profonda di verificazione» si radica infine nell’ «esperienza pura» (p.153). Cos’è però l’esperienza pura? Essa, dice Husserl, non è da identificarsi, come spesso si
fa, con i «dati della sensibilità, che si suppongono immediati, come se essi fossero effettivamente ciò che caratterizza immediatamente le datità puramente intuitive del mondo della vita». L’esperienza pura non è invece nient’altro che il
mondo della doxa, cioè qualcosa che, rispetto alla scienza obiettiva, è meramente «soggettivo-relativo». «Certo, aggiunge Husserl, per noi il ‘meramente’ ha
una sfumatura di spregio che esprime la diffidenza tradizionale per la doxa. Ma
nella vita pre-scientifica stessa questa sfumatura scompare; qui il ‘meramente’
sta a indicare una sicura verificazione, un complesso di conoscenze predicative
controllate e di verità precisamente definite secondo le esigenze imposte dai
progetti pratici della vita, i quali ne determinano il senso» (p.154). La scienza
obiettiva stessa, poi, non può farne a meno, in quanto la doxa è la sorgente ultima delle evidenze relative alle cosiddette «verificazioni empiriche» cui lo
scienziato ha bisogno di riferirsi. Qui, dice Husserl, lo spregio degli scienziati
moderni nei confronti della doxa, paragonata con l’ideale della «obiettività», non
cambia assolutamente nulla al suo modo d’essere, «come del resto non cambia
nulla al fatto che agli scienziati stessi questo elemento deve essere di comodo,
visto che vi ricorrono tanto spesso e inevitabilmente».
Successivamente, trattando della «nuova via» il cui fine è quello di rendere «oggetto di un interesse esclusivo e conseguentemente teoretico il mondo
della vita in quanto ‘terreno’ della vita umana nel mondo», Husserl osserva che
questa nuova via e la scienza cui essa mira costituiscono un progetto non poco
«singolare» e inusitato, dal momento che esso tratta «di una scienza che concerne la tanto disprezzata doxa», la quale «tutt’a un tratto acquista la dignità di
un fondamento della scienza e pretende quindi all’episteme» (pp.182-3). La cosa
è a tal punto inaudita che questa nuova scienza del mondo della vita ci costringe, dice Husserl (e come si è già ricordato), a cominciare interamente da capo.
Dobbiamo imparare a far conto proprio di quei caratteri di «relatività», proprio
di quelle validità e verità oscillanti tra l’essere e l’apparenza che intramano
l’intero mondo della vita con un continuo opinare: «il nostro compito esclusivo
è appunto quello di cogliere questo stile, questo “fiume eracliteo” meramente
soggettivo e apparentemente inafferrabile».
Proprio il riferimento alla doxa ci consente infine di comprendere nel
modo più adeguato e approfondito cosa significhi l’espressione famosa (ma
non sempre davvero intesa) «mondo della vita». Un mondo, ha scritto Husserl,
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caratterizzato da «qualsiasi attività vitale (…) da qualsiasi prassi umana, da qualsiasi vita prescientifica (…) una vita che si agita, tende in avanti e plasma
l’umanità intersoggettiva e il suo mondo: un mondo immenso e anonimo»
(pp.142-3).
I passi citati testimoniano da soli dello straordinario cammino
dell’ultimo Husserl. Egli, si potrebbe dire, si riappropria, nel suo modo caratteristico, dei temi complessivi trattati da Heidegger sotto la dizione dell’«esserenel-mondo»; proprio quei temi che Heidegger opponeva palesemente a una
sorta di fenomenologia staticamente e astrattamente «percettivistica» e «coscienzialistica», e per di più ignara di spessore storico. La verità è però che Heidegger aveva trattato quei temi in Essere e tempo, certo in modo geniale e straordinariamente fecondo, ma anche seguendo e immaginando articolazioni e sviluppi sostanzialmente improvvisati, erratici, accidentali, privi di qualsiasi ordine
fondato su necessità oggettivamente descrivibili, sebbene ci si desse le arie del
contrario col ricorrere a un tono pretenziosamente stentoreo o falsamente risoluto e risolutorio di una pretesa «ontologia dell’essere nel mondo» della quale si
fingevano già chiari l’indice e gli sviluppi (poi rivelatisi inconsistenti e impossibili). Quando Husserl si decise finalmente a leggere il geniale testo del suo allievo, che pure aveva provveduto a pubblicare, se ne accorse benissimo e osservò correttamente e giustamente che il tutto, benché assolutamente congenere al proprio pensiero, era privo di qualsiasi fondamento: una notazione della
quale non dovremmo mai dimenticarci, nel valutare il cammino della filosofia
del ’900.
Ora che il significato «oggettivo» del cosiddetto «piccolo inizio» è stato
forse sufficientemente documentato e illustrato, diviene infine possibile valutarne ulteriormente la consistenza e la portata con alcune sia pur rapide considerazioni molto personali.
Un mondo caratterizzato da qualsiasi prassi umana, da qualsiasi vita
prescientifica: una vita perennemente agitata che plasma in avanti di continuo
l’orizzonte del suo mondo, immenso e anonimo. Queste straordinarie espressioni designano dunque quegli atteggiamenti che sono propri della cosiddetta
doxa. Tutt’altro che qualcosa di semplice e di immediato; anzi, un vero e proprio «sapere» che obbedisce alle esigenze imposte dai progetti pratici della vita
quotidiana; un sapere che si giova di conoscenze predicative, cioè di veri e propri giudizi impliciti o espliciti che vengono di continuo confrontati con le esperienze di vita, e il cui controllo dà luogo a verità a loro modo ben definite. Ecco, come denomineremo tutto ciò, ovvero questo orizzonte che le parole di
Husserl hanno delineato? Si tratta, io direi, di «ciò che tutti sanno». Cos’è che
tutti sanno? Per rispondere dovremmo considerare le pratiche di vita comuni a
tutti, ciò che tutti condividono nel fare, nel dire e magari nello scrivere in un
tempo determinato, cioè in uno «spaccato» della vita umana sulla terra.
C’è insomma in ogni tempo e in ogni momento un saper fare generale
che ha tratti irrinunciabili: esso impone la sua forza cogente e condiziona ogni
altra attività o sapere particolari. Un uomo dell’età della pietra, tanto per dire,
deve necessariamente educarsi a un numero ben definito di capacità. Tutti in
quei tempi, sembra lecito dire, sapevano fare certe cose e forse le uniche o le
maggiori differenze riguardavano solo il sesso e l’età. Ma ecco che nel neolitico
i saperi si specializzano e si complicano enormemente (non hanno più smesso
da allora di complicarsi, verrebbe da osservare). C’è pur sempre un comune sa-
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pere, che concerne il «come si vive» in un villaggio neolitico, e poi ci sono pratiche distinte e specializzate che individuano figure sociali diverse, sino a formare vere e proprie «classi». Lo stesso si può dire anche oggi. La giovanissima
turista americana in viaggio da Milano a Firenze con il suo zaino, la guida turistica e la carta dell’«American Express» sa perfettamente come muoversi nel
mondo, quanto meno in quello cosiddetto «civilizzato», e come lei altri milioni
o miliardi di individui del nostro tempo, sebbene poi, per altri versi, la giovane
turista ignori una quantità sterminata di cose che non sono immediatamente
indispensabili al suo vivere e cavarsela nel mondo, il che naturalmente è vero in
misure variabili anche per tutti gli altri suoi contemporanei.
Ogni tempo ha una comune atmosfera del «sapere», e poi ha saperi
molto differenziati e specializzati. Una descrizione di questa atmosfera comune
è però tutt’altro che semplice. Quella che direttamente viviamo ci sfugge nei
suoi fondamenti ultimi ed essenziali proprio per la sua estrema familiarità: ci è
così prossima, è così ovvia da diventare per molti tratti quasi invisibile. Il sapere comune di altri tempi è invece un’atmosfera dimenticata, così lontana che è
difficile ricostruirla e rianimarla. Come si viveva nella Amsterdam del ’600, nella Roma di Orazio, nella Atene di Socrate? Certo, molte cose ci insegnano in
proposito gli storici, altre sono appannaggio di una comune cultura, ma una
gran parte del comune sapere, magari proprio i suoi tratti più banali, ma altrettanto indispensabili e caratterizzanti il soggetto umano di un tempo determinato, li ignoriamo. In quello che qui nominiamo come «ciò che tutti sanno» c’è
per esempio quel sottofondo comune e costante che fa sì che Augusto si intenda con i suoi servi non meno che con i suoi poeti, e servi e poeti tra loro e
con lui: vivono nello stesso mondo e si muovono insieme in esso nel modo più
conseguente e pacifico. Così è anche di Leibniz che in una famosa mattina va a
trovare Spinoza: siamo informati su alcuni contenuti di questo celebre incontro; sappiamo che i due discussero della possibile dimostrazione relativa alla esistenza di un essere perfettissimo, ma non sappiamo nulla o quasi nulla di cosa
potessero aver mangiato al risveglio, di come si dovesse fare per spedire il proprio bagaglio a una meta lontana del viaggio, di come e dove si acquistasse la
biancheria personale e così via: cose ovvie per loro e per i loro contemporanei;
proprio per ciò non venne in mente quasi a nessuno di parlarne e di trasmetterle ai posteri.
Potremmo convenzionalmente riassumere il sapere comune, ciò che
tutti sanno, con l’espressione «vita materiale»: un’espressione invero poco originale e neppure molto precisa per i nostri scopi. Grosso modo, però, si tratta
di quei saperi che gli Enciclopedisti cominciarono per primi a considerare attentamente e a documentare sistematicamente; forse mossi da una esigenza ben
precisa: quella di salvare dall’oblio un mondo, fondamentalmente contadino e
largamente analfabeta, che, con l’avvento dell’industrialismo e le sue rapide invenzioni e complicazioni tecnologiche, stava sprofondando nel nulla. Da allora,
certo, tutto il mondo della doxa è al centro della attenzione degli storici, sino
alle più recenti correnti degli storici francesi, interessati appunto alle comuni
pratiche di vita e alle loro modificazioni nel tempo: pratiche di lavoro, strumenti, attrezzi, credenze, mestieri, usi, abitazioni, tecniche amministrative, prassi
burocratiche, riti religiosi, superstizioni popolari e così via. Indubbiamente c’è
un modo di lavorare, di produrre, di consumare, di far famiglia, di viaggiare, di
studiare, di divertirsi, di fare la guerra, di comunicare ecc. che, nel suo essere
comune, è anzitutto responsabile di una falda fondamentale della figura della
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soggettività. Non si tratta per nulla di questioni superficiali o secondarie. In
ogni tempo c’è un patrimonio di conoscenze comuni senza le quali nessuno
potrebbe nascere e poi continuare a vivere. Bisogna per forza venire a sapere
certe cose, in modi definiti quanto mutevoli, per poi considerarle come contenuti ovvi e pacifici del vivere quotidiano di ognuno. Anche le più remote popolazioni del pianeta, anche le più piccole e nascoste comunità dell’Asia,
dell’Africa o dei due poli oggi devono, per esempio, avere qualche nozione di
come si vende e si compra, dove, come e che cosa, con quale moneta e di quale
valore, e poi come si comunica e ci si informa, quali attività promettono un
guadagno e quali no e così via: quelle comunità non potrebbero assolutamente
sopravvivere senza queste conoscenze «materiali», ma la loro acquisizione non
è indifferente per i costumi e le credenze «spirituali», anzi, è vero esattamente il
contrario. Nell’imporsi di pratiche di vita nuove e però indispensabili tutto
l’orizzonte e il modo d’essere degli individui cambia, si trasforma, dà luogo a
conseguenze impreviste e a figure inedite rispetto a quelle tradizionali. Ecco
che di continuo accadono, come diceva Husserl, «multiformi norme (io direi
piuttosto figure, ma è poi il medesimo) di verità».
In ogni tempo e in ogni luogo c’è una vita materiale che è quella che è;
poi ci sono le idee che gli esseri umani si fanno della loro condizione e in generale della «realtà» delle cose. Ogni «realtà» è connessa con l’azione, con la pratica («in principio è l’azione»), e lo stesso è da dirsi dei saperi, cioè in generale del
grande mondo della doxa: ci sono saperi condivisi, indispensabili per tutti, e ci
sono saperi molto specialistici, utili a tutti o a molti; infine ci sono saperi, come
oggi si direbbe, di nicchia, saperi che sono prerogativa di pochi o addirittura di
pochissimi. Uno di questi è di sicuro il sapere filosofico che sin qui si è sviluppato in Occidente; per esempio questo stesso discorso, per quanto ha di plausibilmente filosofico: esso raggiungerà certamente un numero assai ristretto di
persone.
La vita materiale e i suoi saperi impliciti ed espliciti, quel complesso di
conoscenze predicative (si diceva poc’anzi) che governano le esigenze imposte
dai progetti pratici della vita, non necessariamente coincidono con le idee che
gli esseri umani si fanno della loro condizione e della loro realtà. Certo, queste
idee non possono mai prescindere, come si è detto, dai saperi comuni, non
possono mai evitare di esserne alla lunga profondamente influenzate. Però seguono anche tradizioni e vicende relativamente proprie. Le condizioni della vita economico-materiale di Spinoza e di Leibniz, le loro conoscenze del senso
comune, non si traducono immediatamente e forse neppure mediatamente in
ciò che essi chiamano «l’essere perfettissimo» all’interno di specifiche pratiche
filosofiche e scientifiche. Ma la loro pratica culturale è nondimeno dipendente
e largamente vicaria rispetto a tutte le forme del fare materiale e sociale del loro
tempo. Ne deriva che, alla lunga, anche le loro idee ne sono profondamente
influenzate e determinate; nel contempo anche la pratica filosofica necessariamente muta: mutano le idee, ma anche il modo di diffonderle, di scriverle, di
stamparle, di usarle nelle scuole; mutano le scuole medesime, le figure dei maestri e degli scolari, la loro incidenza e importanza sociale, e quindi, di nuovo,
cosa pensano nelle loro teste e così via all’infinito.
Come farsi carico di questo (diceva Husserl) «fiume eracliteo apparentemente inafferrabile»? Come penetrare questo «mondo immenso e anonimo»?
Come tradurlo in un progetto filosofico, in una «filosofia pratica»? Forse
l’espressione «filosofia pratica» è la più appropriata, poiché di certo una teoria
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del mondo della vita così inteso non può dar luogo a un sapere obiettivistico,
ma piuttosto a una pratica teorica e a un esercizio. Quella che qui chiamiamo
«vita materiale» è costituita da pratiche o, per dir meglio, da intrecci di pratiche
che sono analizzabili e dicibili solo in altri intrecci di pratiche e mai per se stessi. Non possiamo altrimenti riferirci alla vita materiale e ai saperi comuni se
non attraverso parole e idee, cioè a figure di pensiero che appartengono a modi
definiti della vita materiale stessa; per esempio a ciò che sono solito indicare
con la parola ‘supporto’. Questo «circolo» (come diceva Heidegger) non è sormontabile, non lo si può spezzare e il solo desiderare di farlo, o rimpiangere di
non poterlo fare, mostra che non abbiamo ancora inteso la portata rivoluzionaria del «piccolo inizio»: esso interdice da un lato la superstizione della teoria
(come se la verità coincidesse con uno sguardo «da fuori» sulle cose e sul mondo); da un altro lato avvia all’esperienza di una nuova etica del pensiero che il
tema delle pratiche è appunto chiamato a svolgere. Qui l’evento della verità
chiede di essere frequentato nella pratica concreta, cioè nella iscrizione su un
supporto che costituisce nel contempo la distanza in figura dalla verità e quindi
la sua necessaria catastrofe «eraclitea».
Questo esercizio filosofico fa della verità un transito e non un «giudizio» o una «cosa» (sensibile o ultrasensibile, materiale o spirituale che sia): il
transito di una vita infinita e di un destino di rinascita, come già diceva appunto
Husserl nella Crisi. Che il tema delle pratiche abbia ricevuto, per quanto mi riguarda, un evidente impulso dal «piccolo inizio» di Husserl, oltre che dal progetto incompiuto dei grafi esistenziali di Peirce, è un fatto che testimonia di
qualcosa che è forse ancor meno di un inizio, pur essendo nel contempo un
debito immenso e inestinguibile.
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