Roberto Pedrazzoli: l’immagine & la parola Gianfranco Ferlisi Nessun pathos, nessuna romanticheria barbizoniana sembra animare i suoi paesaggi degli anni Settanta: i dettagli delle sue opere sono, nell’overture della mostra, frammenti immobilizzati per sempre da chissà quale accadimento. E il tempo pare come essersi sospeso sugli alberi massificati, gli alberi da supermercato, gli alberi che sembrano avere appreso la lezione della natura artificiale praticata da Gino Marotta e Ceroli che, nel 1969, avevano stupito il mondo con la loro mostra al Louvre (Ceroli, Kounellis, Marotta, Pascali, 4 artistes italiens plus que nature). Non c’era allora alcun divertissement, nessun capriccio in questa natura rivisitata: solo una stupefacente forza generatrice, densa di stereotipi pop e di alcune intuitive concettualità che si materializzavano tramite una pratica pittorica fortemente legata alla solida qualità della dimensione artigianale, alla sapienza di un fare antico. È da questi paesaggi che si distende il fil rouge in una Casa del Mantegna trasformata, più che mai, in una officina del pensiero e di grafemi capaci di evocare un percorso: è il percorso che dagli esordi conduce, lungo i labirinti di cinquant’anni d’Arte e di pittura, agli esisti artistici recenti di Roberto Pedrazzoli. E il cerchio e il quadrato, che dell’architettura della casa del Mantegna sono i moduli compositivi di una sorta di armonia musicale, replica di rapporti semplici in gioco con l’equilibrio tra le parti, appaiono - in una felice ma non troppo casuale coincidenza - nelle opere successive dell'artista, negli «Arcobaleni». Roberto Pedrazzoli - per parafrasare Francesco Bartoli - ricorre qui «all’eufemismo aurorale del cielo dopo il diluvio: parla di arcobaleni e di archi della pace». E il cerchio che si iscrive nel quadrato della tela si accende di valenze geometriche che vanno ben al di là del fenomeno ottico delle variopinte iridescenze: l’idea vincente del paesaggio artificiale conduce molto oltre la soglia della rappresentazione. Il segno pittorico diventa icona al fine di istituire una relazione forte con l’oggetto denotato, verso una attribuzione di significato che è già scrittura, segno arbitrario, e che, grazie a un codice, veicola il significato formale dell’immagine estetica. È naturale che tutto questo preluda all’apparizione della parola, che l’azzurro celestino voglia giocare con la scritta «cielo» oppure con «aria». Le allusioni, inevitabilmente, si rivolgono all’opera d’arte assoluta di un Eterno che sovrasta e sommerge quotidianamente gli affanni umani. Ma intanto la parola esibisce la propria epifania nella rarefazione dell’immagine, nell’alchimia poetica di una sintesi creativa di progettazione e oggettivazione, rivolta ad uno spettatore che voglia addentrarsi sul crinale del rapporto tra visibile e immaginabile. E così il paesaggio, ormai deprivato dei suoi luoghi comuni, conduce l’artista ad addentrarsi sulla forma delle lettere, sulla fascinazione della scrittura e dei suoi caratteri, lo porta verso un’indagine analitica della natura stessa di una immagine contemporaneamente presente ed assente, si concentra sull’evocatività della struttura della parola, delle sue imbastiture comunicative e significanti: le tele diventano quindi spazio soprattutto espressivo/narrativo, in cui il colore si vaporizza ed arretra impalpabile sullo sfondo, per esaltare «paesaggi scritti». E intanto sono gli anni Novanta, che si caricano di un’inedita attenzione al paesaggio urbano mantovano. L’amore per i capolavori di Leon Battista Alberti fa addentrare ora l'artista in una sua città trasparente, una città della luce e di diafani spettri luminosi. Pedrazzoli trasforma le facciate di Sant’Andrea e di San Sebastiano in un dramma atmosferico: i due edifici, con la loro monumentalità e magnificenza rinascimentale, si smaterializzano, diventano interpretazioni, omaggio e simbolo di una realtà interiore. Un tessuto pittorico costituito da un ampia gamma di azzurri sbiaditi, di rosa e di gialli molto attenuati restituisce l’alfabeto delle forma dell’architetture, liberato da qualsiasi residuo di pesantezza strutturale della pietra. Solo i rapporti armonici e le arcane geometrie di queste due magnifiche opere si palesano sotto l’incidenza della luce. Ed è ancora «paesaggio scritto» quello che accende l’intensa sensibilità poetica dei «mosaici» di inizio millennio, opere in cui la parola, che prima nominava e costruiva il paesaggio, ora non è più enunciata. La parola c'è e non c'è. E le tessere cromatiche, leggere e trasparenti, magici frammenti di grafemi e fonemi, si fanno sempre più prodigiose nel loro tramutarsi in segni di un teatro incantato e poetico, per l’accensione di sconosciute estasi, per la pregnanza di una sensibilità felice, per la scoperta di una energia primordiale e segreta che si rapprende nella bellezza evanescente del colore. Una vertigine di meraviglia - sulle orme di una ispirata sorpresa per le sue trame generative ed eleganti ci conduce perciò verso le seduzioni della pittura, in un mondo in cui questo maestro mantovano mette in scena tutta la sua capacità di sbalordirci. Come accade per le lettere liberate della serie dell’«Arlecchino». E ogni opera che tocca lo sguardo conduce a una realtà immaginifica, che aumenta le prospettive percettive ed emozionali, perché palesa lo statuto dell’opera d’arte, grazie all’inesauribile ed irriducibile polisemanticità del suo alfabeto, grazie anche alla sfuggente seduzione della sua alterità. L’invenzione linguistica e la parola-icona dipinta trasfigurano la superficie sotto l’incalzare di un irriverente gioco combinatorio ossessivo e ricercato, alimentato da una ricerca quasi alchemica, da accostamenti sempre coniugati all’immaginazione poetica. Tutto questo ci porta, alla fine del 2014, a una matura contaminatio pittorico letteraria, che è contemporaneamente riflessione e memoria, sintassi e discorso. E la riconoscibile visività della pratica pittorica di Pedrazzoli continua nel suo caparbio percorso verso il congiungimento dei due linguaggi: tra pittura e scrittura. Perché le parole scritte, insomma, posseggono e veicolano le stesse emozioni delle immagini. Perché, differentemente spezzate, infrante o reinventate, prese e trasgredite, tra un «ad libitum» e una necessaria sintassi del colore, le parole sono in grado di offrire la consustanziazione dell’arte e della poesia: è un gioco di fascinazione, in cui l’intensità della comunicazione visiva, fortemente caratterizzata sul piano della sensibilità poetica, non è solo un teatro di emozioni sedimentate nella forma della scrittura, ma un flusso continuo e appassionato di suggestioni, di lavoro, di impegno culturale, di vita, un flusso che si rapprende perfettamente nel sovrapporsi sempre più incontenibile della scrittura-colore. E la mostra alla fine regala, nella scansione delle fasi del ricordo, nell’organizzazione delle sezioni, tutta la sua costante dimensione emozionale, tutto lo stato di stupore e di piacere che il pittore ha portato alla luce dalla sua anima e, soprattutto, dalla sua intelligenza. Alla fine la sostanza di ciò che osserviamo si pone in un Verbo generatore che origina un mondo mai finito, una fitta trama di segni nei quali si condensa una speciale e personalissima poetica, quella di un’urgenza espressiva capace di mettere a nudo, in una complessa materialità formale, impulsi profondi e a volte misconosciuti. Il risultato è uno spettacolo di flagrante meraviglia e di ispirata sorpresa, la scoperta - riscoperta di un artista che ogni volta riesce a cogliere, e a far cogliere, il segreto dell’essenza dell’Arte.