A cura di - Fondazione Giovanni Agnelli

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Demografia
A cura di
MassimoLiviBacci,GianCarloBlangiardoeAntonioGolini
Scritti di
Gian Carlo Biangiardo, Franco Bonarini, Carlo A. Corsini, Paolo De Sandre,
Gustavo De Santis, Viviana Egidi, Renato Guarirti, Massimo Livi Bacci,
Enzo Lombardo, Fausta Ongaro, Dionisia Maffioli, Fiorenzo Rossi,
Antonio Santini, Italo Scardovi, Giovanni B. Sgritta
Edizioni della
Fondazione Giovanni Agnelli
Demografia / A cura di Massimo Livi Bacci, Gian Carlo Blangiardo e Antonio Golini; Scritti di Massimo Livi Bacci, Enzo
Lombardo, Dionisia Maffioli... [et ai.] - XIV, 582 p., 21 cm
1.
2.
I.
II.
Demografia. Studi
Rassegne bibliografiche. Demografia
Livi Bacci, Massimo
Blangiardo, Gian Carlo
Copyright ,0 1994 by Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli
Via Giacosa 38, 10125 Torino
tel. (011) 6500500, fax: (011) 6502777
e-mail: [email protected], Internet: http://www.fga.it
ISBN 88.7860-100-4
Indice
Capitolo primo
La demografia
Massimo Livi Bacci
1.
2.
3.
4.
5.
Popolazione e demografia
Il funzionamento del sistema demografico
Le componenti del sistema demografico
La ricerca delle cause
Teorie e paradigmi interpretativi: a) transizione
demografica e teorie della fecondità
6. Teorie e paradigmi interpretativi: b) altri spunti
7. Elogio della demografia. La demografia è utile?
Riferimenti bibliografici
p. 3
4
7
11
14
18
21
24
Capitolo secondo
Evoluzione diacronica della demografia
Enzo Lombardo
1. I primi passi nello studio della popolazione
2. L’«aritmetica politica» nel nostro paese
3. Due importanti strumenti di analisi: le tavole di
mortalità e le rappresentazioni grafiche
4. La statistica si organizza nel Regno unitario: la
produzione statistico-demografica dopo il 1861 e i
progressi nei censimenti della popolazione
27
30
34
36
VIII
Indice
5. Mutamenti nell’insegnamento della statistica come sintomi
del progressi della demografia
6. Verso una fioritura degli studi demografici: i primi
quarant’anni del nostro secolo
Riferimenti bibliografici
Bibliografia del padri Roberto Gaeta
e Gregorio Fontana (1776)
Capitolo terzo
Organizzazione accademica
Dionisia Maffioli
1. La collocazione accademica e la sua storia
1.1. La struttura dell’insegnamento universitario
1.2. L’insegnamento delle discipline demografiche
1.3. Possibili sviluppi dell’insegnamento
1.4. Centri di ricerca
1.5. Società scientifiche
1.6. La demografia italiana nel contesto internazionale
1.7. La produzione scientifica
2. La demografia negli studi pre-universitari
3. Conclusioni
Riferimenti bibliografici
Capitolo quarto
I metodi
Antonio Santini
1. Uno schema di riferimento
2. Osservazione statistica e metodi demografici
3. I metodi nell’osservazione macro-trasversale
4. Dall’analisi macro-trasversale a quella macro-longitudinale
5. Ulteriori avanzamenti nella macro-analisi
6. Da macro- a micro-analisi
7. Dal macro- al micro-trasversale
p. 40
43
50
58
63
67
75
79
81
86
90
93
95
97
99
105
107
109
112
118
119
121
Indice
8. Dal micro-trasversale al micro-longitudinale
9. Le biografie a confronto
10.Conclusioni
Riferimenti bibliografici
IX
p. 124
128
130
132
Capitolo quinto
Demografia e storia
Carlo A. Corsini
1. I significati
1.1. Demografia e storia
1.2. Il posto della demografia storica
2. I segni
2.1. Il quadro generale
2.2. La demografia storica in Italia
3. Esattezza e indeterminatezza
3.1. Alla conquista dell’autonomia
3.2. Un pezzetto di legno liscio e vuoto
Riferimenti bibliografici
139
139
143
146
146
160
167
167
170
173
Capitolo sesto
Demografia e biologia
Italo Scardovi
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Interrogativi sull’odierna demografia
La demografia tra «fenomeno» ed «epifenomeno»
La demografia tra «essere» e «dover essere»
La demografia nella grande tradizione italiana
Gli studi di demografia in Italia
Demografia e genetica di popolazioni
Un’osservazione critica
Riferimenti bibliografici
185
187
189
191
199
202
207
210
X
Indice
Capitolo settimo
Demografia e sociologia
Giovanni B. Sgritta
1. Premessa
p. 213
2. L’origine comune
215
3. Popolazione e società: le basi della scienza demografica e la
nascita della sociologia
219
4. Demografia e sociologia: contenuti e metodi negli studi italiani
del secondo dopoguerra
226
5. Recenti tendenze integrative negli studi demografici e sociali 229
6. Conclusioni
238
Riferimenti bibliografici
240
Capitolo ottavo
Demografia ed economia
Renato Guarini
1. Introduzione: il dibattito e la teoria
2. Variabili economiche e variazioni della popolazione
2.1. Fattori demografici e indicatori di reddito
2.2. Il consumo e le variazioni dinamiche e strutturali
della popolazione
2.3. Risparmio, investimenti e popolazione
2.4. Il lavoro e i fattori demografici
3. Componenti della popolazione e variabili economiche
3.1. Fertilità e variabili economiche
3.2. Mortalità e variabili economiche
3.3. Conseguenze economiche del movimento migratorio
4. Conclusioni
Riferimenti bibliografici
245
247
247
250
252
255
258
258
261
264
269
271
Indice
Capitolo nono
Riproduttività
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
1. Nuzialità, separazioni, divorzi (F. Rossi)
1.1. Introduzione
1.2. Nuzialità
1.3. Separazioni e divorzi
1.4. Commenti conclusivi
2. Fecondità (F. Ongaro)
2.1. Considerazioni preliminari
2.2. Fecondità generale e sue determinanti demografiche
2.3. Determinanti non demografiche di fecondità
2.4. Fecondità in gruppi circoscritti di popolazione
2.5. Uno sguardo d’insieme
3. Controllo e pianificazione del concepimenti (F. Bonarini)
4. Abortività (F. Bonarini)
5. Opinioni, preferenze, atteggiamenti (F. Bonarini)
Riferimenti bibliografici
Capitolo decimo
Strutture di popolazione
Viviana Egidi
1. Dagli individui alla popolazione: eterogeneità e strutture
2. Analisi strutturali: finalità delle ricerche
3. Quali strutture per le analisi di popolazione
4. La struttura per sesso
5. La struttura per età
5.1. L’invecchiamento della popolazione
5.2. Gli effetti delle componenti della dinamica demografica
sull’invecchiamento della popolazione
5.3. Età: intuitività e motivi di riflessione
6. Alcune altre strutture rilevanti per la demografia
6.1. La struttura per stato civile
6.2. Famiglie e strutture familiari
XI
p. 283
283
284
290
291
292
292
295
299
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349
351
352
355
355
356
XII
Indice
7. Quali prospettive per la ricerca?
Riferimenti bibliografici
p. 361
363
Capitolo undicesimo
Mobilità e insediamenti
Gustavo De Santis
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
La difficile definizione delle migrazioni
La descrizione del fenomeno
La ricerca delle cause
Gli effetti delle migrazioni e le migrazioni internazionali
verso l’Italia
Distribuzione territoriale della popolazione e
urbanizzazione
Previsioni
L’approccio microdemografico
Le prospettive degli studi sulla mobilità
Riferimenti bibliografici
379
381
385
389
393
396
398
400
403
Capitolo dodicesimo
Tendenze, conoscenze e governo
Gian Carlo Bkngiartio
1. Sensibilità e sensibilizzazione
2. Consumo e incentivo alla produzione di conoscenze
demografiche da parte dell’operatore pubblico
3. Le fonti istituzionali
4. L’apporto del mondo accademico
5. Due significative esperienze e alcune riflessioni
6. Le conoscenze demografiche a livello regionale per
l’approfondimento delle realtà locali e come strumento di
governo nel decentramento delle competenze
411
413
415
419
423
427
Indice
7. Alcuni contributi significativi
8. Osservazioni conclusive
Riferimenti bibliografici
XIII
p. 430
432
435
Capitolo tredicesimo
Demografia, politica ed etica
Paolo De Sandre
1. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche
di popolazione: a) coordinate per una lettura critica
2. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche
di popolazione: b) sull’aspetto politico
2.1. Orientamenti di «welfare»
2.2. Obiettivi di intervento con implicazioni demografiche e tipi
di intervento
2.3. Valutazione tecnico-scientifica e valutazione politica degli
interventi
2.4. Legami tra politiche e ricerca
2.5. Politiche di popolazione e riferimenti di valore
3. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche
di popolazione: c) sull’aspetto ideologico-etico
4. Contributo della demografia in alcuni momenti istituzionali
al dibattito sulle politiche di popolazione
5. Problematiche cruciali di tipo etico nelle politiche di
popolazione
5.1. Salvaguardia e promozione della libertà della persona e del
diritti fondamentali
5.2. Tutela della famiglia coniugale, valore sociale della prole,
parità uomo-donna
5.3. Controllo sociale e politico della dinamica demografica
come valore
6. Alcune opzioni di politica della popolazione da approfondire
6.1. Sulla possibilità di porre obiettivi generali definiti di crescita
demografica
6.2. Politica di sostegno delle nascite alleviandone i costi correnti
per i genitori e rinnovando regole di trasferimento eque tra
generazioni
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454
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455
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468
468
470
471
473
474
474
XIV
Indice
6.3. Politiche immigratorie e crescita economica del paesi
del Terzo Mondo
6.4. Invecchiamento demografico e risorse impiegate
475
476
7. Conclusioni
Riferimenti bibliografici
477
478
Bibliografia generale
Gian Carlo Blangiardo e Massimo Aglietti
485
Indice del nomi
571
Nota sugli autori
581
DEMOGRAFIA
Capitolo primo
La demografia
Massimo Livi Bacci
1. Popolazione e demografia
Niente risulta più sgradito a uno studioso del determinare la propria disciplina: definire un’attività di ricerca — cioè disegnarne i limiti o il perimetro — è, in fondo, quasi una negazione di questa; il corso della ricerca
è spesso imprevedibile e i suoi limiti risiedono tutti nell’ingegno e nella
curiosità di coloro che la praticano.
Demografia è la scienza della popolazione: lo studio del processi che
determinano la formazione, la conservazione, l’accrescimento o l’estinzione delle popolazioni. Tali processi, nella loro forma più aggregata,
sono quelli di riproduttività, mortalità e mobilità. Il vario combinarsi
di questi fenomeni, tra loro interdipendenti, determina la velocità delle
modificazioni della popolazione sia nelle sue dimensioni numeriche sia
nella sua struttura. Questa definizione va completata da un approfondimento dell’oggetto della ricerca: potremmo definire la popolazione come un insieme di individui, stabilmente costituito, legato da vincoli di
riproduzione e identificabile da modalità territoriali, politiche, giuridiche, etniche, religiose. Infatti una popolazione non è tale (almeno in senso
demografico) se non ha continuità nel tempo, assicurata dai processi di
riproduzione che legano genitori e figli e determinano il susseguirsi delle
generazioni. Inoltre una popolazione deve poter identificarsi e definirsi:
il criterio più comune è quello geografico, di appartenenza a un territorio; tuttavia l’appartenenza a una religione, a un’etnia, a una casta e così via costituisce criterio sufficiente a determinare quei «confini» essenziali per Io studio di una popolazione. Oggetto di studio della demografia
possono essere, a livelli diversi ma significativi di aggregazione, tanto la
popolazione di un villaggio quanto quella dell’intero pianeta.
Dettagliare oltre la definizione sarebbe pedante e di poca utilità. L’ambito così delimitato è abbastanza ampio da poter ricondurvi gran parte
delle definizioni elaborate dagli studiosi della materia, anche se non man-
4
Massimo Livi Bacci
cano coloro che alla demografia assegnano il compito molto riduttivo
di analisi meramente descrittiva e quantitativa delle popolazioni.
Se dalla forma si torna alla sostanza — al contenuto, all’oggetto —
della demografia, si potrebbe dire, in estrema sintesi, che essa cerca di
dare risposta a un quesito fondamentale (non dissimile da quello analogo che si pongono i biologi): perché certe popolazioni hanno più
«successo» di altre, cioè si riproducono, si espandono, si accrescono con
ritmi diversi? Quali sono i meccanismi che determinano l’accrescimento
differenziale del vari gruppi? Quali le relazioni reciproche tra variazione
demografica e i sistemi naturale e sociale che tale variazione assecondano o contrastano? L’insieme di indagini volte a dare risposta a tali quesiti dà corpo e contenuto alla demografia; si tratta di indagini che spesso
debbono dispiegarsi su lunghi archi di tempo perché i tempi e i ritmi del
mutamento demografico sono sovente lenti e graduali e non si intendono bene se non si osservano nel lungo periodo: archi temporali meno
lunghi, certo, di quelli considerati dalla genetica e dalla biologia evoluzionista (che hanno bisogno dell’osservazione di numerosissime generazioni successive), ma normalmente assai più estesi di quelli propri di altre scienze umane come quelle economiche e sociologiche.
2. Il funzionamento del sistema demografico
Si può rintracciare la linea evolutiva principale della demografia degli
ultimi decenni nella determinazione delle regole di sviluppo delle popolazioni formalizzzabili matematicamente; in altri termini uno degli obiettivi essenziali per la demografia è accertare quali sono e come funzionano i meccanismi che determinano l’accrescimento di una popolazione e
condizionano la sua struttura, per sesso e per età. E questo un aspetto
fondamentale della demografia, perché la conoscenza del quadro generale «formalizzato» delle regole che determinano dimensione e struttura
di una popolazione è la premessa necessaria per lo studio analitico delle
singole regole e del meccanismi componenti il sistema.
È apparso evidente già ai primi studiosi, agli «aritmetici politici», che
le dimensioni di una popolazione sono determinate dall’intensità relativa
di nascite e immigrazioni da un lato e di morti ed emigrazioni dall’altro.
Ne conseguiva intuitivamente che la velocità del ricambio (cioè
l’intensità del flussi delle nascite e delle morti, in caso di assenza di flussi
migratori o di popolazioni «chiuse ») fosse connessa con la struttura per
età di una popolazione: quando questa non varia di numero (è «stazionaria»), il peso delle classi giovani è tanto maggiore (e quello delle classi
La demografia
5
anziane tanto minore) quanto più alte sono la natalità e la mortalità e
viceversa; ne consegue altresì che, sempre in caso di stazionarietà della
popolazione, tanto più alte sono natalità e mortalità, tanto più ridotta
risulta la speranza di vita (cioè il tempo medio di permanenza di ogni
individuo nella collettività), cosicché esiste una relazione inversa tra
velocità del ricambio (espresso dal livello di natalità e mortalità) e durata della vita. Questo insieme di considerazioni viene messo a punto e
formalizzato in un percorso ideale che comprende Graunt, Halley e
Eulero (Keyfitz e Smith, 1977).
È nel nostro secolo che la demografia matematica ha fornito ulteriori
sviluppi alla conoscenza delle regole del sistema demografico, che solo
eccezionalmente opera per lungo tempo in regime di stazionarietà. Uno
del contributi principali di Lotka alla demografia matematica è quello comunemente noto come teoria della popolazione stabile: Lotka dimostrò (1907;
1939) che una popolazione chiusa (cioè senza movimenti migratori) e sottoposta a «leggi» di fecondità e mortalità invarianti nel tempo (ovvero a tassi di
fecondità e di mortalità per età che non variano di generazione in generazione e da un anno all’altro) finisce per assumere una struttura per età
stabile (cioè fissa nel tempo) che non è influenzata da quella originaria,
ma è unicamente determinata dalle due «leggi» ricordate. Qualsiasi sia la
struttura per età iniziale (al momento in cui, cioè, si assumono operanti
e fisse le leggi di mortalità e fecondità), quella stabile sarà da essa completamente indipendente e determinata unicamente dalle leggi stesse. Ciò non
vuol dire che la struttura iniziale non influisca sulle dimensioni della popolazione: ad essa infatti è legata una forza «inerziale» più o meno importante. L’inerzia sarà maggiore (e la popolazione crescerà di più fino al raggiungimento dello stato stabile) in una popolazione la cui struttura di
partenza sia molto giovane; sarà minore (e la popolazione crescerà di
meno) se la struttura di partenza è invecchiata anche se queste due ipotetiche popolazioni sono sottoposte a identiche leggi demografiche (in
questo esempio si ipotizza che la natalità sia maggiore della mortalità e
che la popolazione aumenti).
Il fondamentale contributo di Lotka ha poi ricevuto numerosi perfezionamenti e adattamenti. Si debbono a Coale (1963) e Bourgeois-Pichat (1990)
prove che le proprietà della popolazione stabile vengono approssimativamente conservate da popolazioni cosiddette quasi-stabili, ovvero da
popolazioni che, mantenendo una fecondità inalterata nel tempo, sperimentano invece un declino della mortalità come quello osservato nei
paesi in via di sviluppo nei due o tre decenni dopo la metà del secolo.
Si deve a Lopez (1961) la dimostrazione di un’estensione del teorema
di Lotka già intuita da Coale: conoscendo l’evoluzione temporale delle
6
Massimo Livi Bacci
curve di fecondità e di mortalità per età (le quali ovviamente non restano costanti, come vuole la teoria della popolazione stabile, ma nelle popolazioni concrete mutano, anche velocemente, anno dopo anno) durante un intervallo di tempo, è possibile determinare la struttura per
età della popolazione in un determinato istante che è — anche in questo
caso — completamente indipendente dalla struttura per età iniziale. Questo
teorema (della ergodicità debole), con le sue proprietà, è stato successivamente
perfezionato da Coale e Preston (1982).
Durante questo secolo, dunque, si è perfezionata e completata la costruzione di un modello demografico generale che lega l’accrescimento
della popolazione alle sue leggi di rinnovo e di estinzione e alla sua struttura, di cui la demografia matematica ha formalizzato le complesse relazioni, adesso ben note e comprese.
Lo schema della popolazione stabile, con le sue estensioni e generalizzazioni, non è fine a se stesso, ma ha permesso uno sviluppo notevole
delle conoscenze demografiche in due direzioni di notevole utilità. Una
prima utilizzazione dello schema permette di individuare le implicazioni di lungo periodo di determinati «comportamenti» demografici, consentendo di rispondere con esattezza a quesiti di questo tipo: se la popolazione italiana assumesse da oggi in poi leggi di fecondità e mortalità
determinate, fisse, quali sarebbero i parametri demografici nella situazione stabile di approdo (cioè: quali sarebbero natalità, mortalità, età
media al parto, struttura per età, tasso di accrescimento e così via)?
La seconda direzione di utilizzo è più concreta e fornisce elementi conoscitivi sulla realtà demografica non desumibili direttamente dai dati disponibili. Quando le popolazioni concrete approssimano situazioni di stabilità o di quasi stabilità, l’applicazione dello schema di Lotka (e le sue estensioni) permette di trarre da dati e conoscenze parziali gli elementi
mancanti (ma necessariamente legati e dipendenti dai dati parziali), né più
né meno come la conoscenza del corpo umano permette di ricostruire lo
scheletro di un individuo (e le misure antropometriche di peso, altezza e
così via) da pochi reperti ossei. Così dalla conoscenza della struttura per
età e del tasso di accrescimento di una popolazione desunti dai censimenti si potranno dedurre i livelli di fecondità o mortalità; o dalla conoscenza
di queste ultime (ad esempio dedotte da inchieste particolari) si potrà inferire la struttura per età e via dicendo. Ciò offre vantaggi notevoli nello
studio di popolazioni con dati frammentari o incompleti, come è il caso
delle popolazioni del passato o di molte popolazioni contemporanee in
via di sviluppo, conosciute solo parzialmente attraverso censimenti o indagini episodiche (Coale e Demeny, 1966; ONU, 1955; 1981; 1983).
La demografia
7
I colossali problemi connessi con la crescita delle popolazioni in via
di sviluppo e la necessità della loro conoscenza hanno dato un enorme
impulso (come diremo poi) alle applicazioni del principi derivati dalla
teoria stabile.
3. Le componenti del sistema demografico
Il quadro formale del funzionamento del sistema demografico sí è
perfezionato in parallelo con la comprensione del funzionamento delle
«componenti» che lo integrano. Potremmo, in via esemplificativa, riconoscere una «componente» della fecondità nella riproduzione; una della
nuzialità nella famiglia; una della morbilità nella mortalità; una della
mobilità nella migrazione. Sono partizioni in parte arbitrarie e di comodo:
ciò che va rilevato è che le componenti del sistema demografico hanno
suscitato grandissima attenzione, sono state scomposte e analizzate e il
loro funzionamento è adesso compreso a un livello assai superiore a quello
di qualche decennio fa.
La fecondità-riproduzione (strettamente legate alla nuzialità che
qui, per semplicità, si ignora) ha ricoperto un ruolo centrale anche per
via della sua importanza «politica»: agendo sulla fecondità si riuscirà a
frenare l’incremento demografico del paesi in via di sviluppo — uno
del problemi centrali della seconda metà del secolo XX. Soprattutto è
la fecondità (e il suo variare nel tempo) che modella la struttura per età
delle popolazioni.
Il sistema fecondità-riproduzione, tuttavia, era già ampiamente conosciuto nei suoi principali meccanismi sulla base delle statistiche aggregate raccolte dai sistemi statistici nazionali: la fecondità per età, ordine di nascita, durata del matrimonio — per generazioni e per contemporanei — è stata oggetto di studio, approfondimenti e confronti fin dall’inizio di questo secolo. Negli ultimi decenni numerosi perfezionamenti
ed estensioni di un nucleo già noto hanno notevolmente arricchito le
nostre conoscenze; tuttavia le vere innovazioni sono connesse alla disponibilità di dati ad hoc (e al loro sfruttamento), sia mediante la raccolta di dati individuali operata nelle ricerche di demografia storica con
i procedimenti di ricostruzione delle famiglie, praticamente «inventati»
da Henry (Gautier e Henry, 1958), sia mediante indagini dirette su
popolazioni contemporanee.
Le ricerche sono così approdate alla misura della fecondità in assenza
di controllo delle nascite: già Gini aveva elaborato il concetto di fecondabilità e proposto alcuni criteri di stima (Gini, 1924) mentre a Henry
8
Massimo Livi Bacci
(1961) si devono la definizione di fecondità naturale e la prova che anche in assenza di controllo volontario delle nascite (ad esempio in popolazioni storiche) la fecondità effettiva varia notevolmente, stimolando
le ricerche sui fattori di tale variazione, al di là degli effetti ben noti
dell’età o della durata del matrimonio. Ci si è così resi conto della notevole variabilità della fecondabilità (influenzata soprattutto dalla frequenza
del rapporti sessuali) e dell’eterogeneità della popolazione rispetto ad
essa; un posto centrale nelle ricerche l’ha anche avuto lo studio della
lunghezza variabile del cosiddetto «periodo non suscettibile » (cioè il periodo successivo al parto durante il quale non c’è ovulazione) e del suoi
legami con la durata dell’allattamento, così come si è studiata l’influenza della mortalità infantile sulla durata dell’allattamento e sull’intervallo
tra i parti. Con la disponibilità di dati più ricchi si è potuto stimare il
livello di infecondità e di sterilità permanente, così come la subfertilità
successiva alla pubertà. L’accumulo di dati e di conoscenza circa l’età
alla pubertà e alla menopausa, la fecondabilità, il periodo non suscettibile, la mortalità intrauterina, l’infertilità secondo l’età e così via, ha
permesso la ricostruzione di modelli della riproduzione e della nascita,
strumenti adatti alla descrizione delle vicende di una generazione durante il suo periodo riproduttivo.
Con gli anni cinquanta e sessanta è iniziato anche lo studio (spesso
guidato da finalità pratiche) della contraccezione secondo i vari metodi,
della diffusione e dell’incidenza degli stessi, della durata dell’impiego
e dell’efficacia, cosicché la conoscenza del meccanismi naturali della fecondità ha potuto accrescersi di quella del procedimenti di controllo.
Questi approfondimenti continui del meccanismi del sistema fecondità-riproduzione si ricompongono e ricongiungono con le conoscenze
aggregate ricordate all’inizio, riuscendo a esprimere il livello di natalità
di una popolazione in funzione delle «variabili intermedie» che la condizionano: frequenza del matrimonio, lunghezza dell’intervallo tra le gravidanze, contraccezione, aborto. Si è così riusciti a creare una griglia
analitica utilissima sia a fini di misura e descrizione, sia per l’interpretazione causale (Bongaarts e Potter, 1983).
Mi sono fermato, in particolar modo, sull’esempio della componente
fecondità-riproduzione (si veda il capitolo di Bonarini, Ongaro e Rossi,
«Riproduttività», in questa Guida, dove il tema è ripreso con ben altra
ampiezza) per segnalare che il grande progresso nelle conoscenze acquisite negli ultimi decenni deriva dall’integrazione di dati aggregati (generalmente riguardanti tutta la popolazione e raccolti dai sistemi ufficiali)
con dati individuali utilizzati a livello individuale (raccolti con indagini
La demografia
9
nominative storiche o inchieste ad hoc): i primi forniscono un indispensabile quadro di riferimento, i secondi, ne dettagliano le articolazioni.
Ma anche la conoscenza delle altre «componenti» ha fatto notevoli
progressi, forse non così evidenti come quelli messi a segno per fecondità e riproduzione. Le statistiche ufficiali, naturalmente, avevano reso
possibile lo studio dettagliato della mortalità in senso classico (tavole
di mortalità globali e dettagliate per causa di morte; analisi della mortalità infantile e così via), cosicché nell’ultimo dopoguerra poco restava
da fare in quest’area se non estendere e specificare le analisi descrittive.
Tuttavia i progressi conoscitivi sono andati, ancora una volta, in due
direzioni complementari. Da un lato si sono moltiplicate le analisi «formali» della mortalità, anche con il fine di giungere alla codifica di «modelli» di mortalità per età (le «tavole tipo», come vengono comunemente chiamate) che variano con una certa sistematicità a seconda del livello di mortalità (espresso, ad esempio, dalla speranza di vita alla nascita),
delle cause di morte prevalenti e così via (ONU, 1955; 1981; Coale e
Demeny, 1966; Petrioli, 1982). Questi studi — in particolare le tavole
tipo — hanno fornito il quadro di riferimento essenziale per completare
le informazioni lacunose e frammentarie tipiche del paesi in via di sviluppo nei quali non esistono sistemi di rilevazione capaci di fornire regolari statistiche del decessi; e poiché la distribuzione per età delle popolazioni stabili o quasi stabili è connessa, oltreché alla funzione di fecondità e alla sua forma, anche alla funzione di mortalità, le tavole tipo
hanno permesso di procedere all’elaborazione di popolazioni stabili tipo ad esse collegate e di vastissimo impiego pratico.
La seconda linea di sviluppo passa, ancora una volta, per l’acquisizione di dati più dettagliati desumibili con indagini speciali o accoppiando
(con notevoli difficoltà) informazioni sui caratteri individuali provenienti
dal sistema ufficiale (dati censuari e dati dello stato civile). Oltre che
per le variabili «esterne» che ovviamente influenzano il livello della mortalità (livello di sviluppo, progresso medico e così via), per quali ragioni
popolazioni, o sottopopolazioni, viventi in condizioni esterne approssimativamente simili hanno mortalità diversa? Si apre qui un’interminabile serie di interrogativi sui fattori (individuali, collettivi, di contesto)
che determinano i rischi di morte: la natura fisica dell’ambiente; le condizioni igieniche individuali e della famiglia; l’accesso alle cure mediche; l’ambiente e il tipo di lavoro; le abitudini individuali riguardanti
il cibo, il fumo, l’alcool, l’esercizio fisico, la guida... Si sconfina, ovviamente, nella statistica medica e nell’epidemiologia, ma è anche questo
uno del casi in cui i confini tra discipline sono mobili e artificiosi. Un
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Massimo Livi Bacci
contributo metodologico sostanziale della demografia parte da lontano:
dall’abitudine del demografi a considerare gli eventi (quelli strettamente demografici o ad essi strettamente connessi) in successione cronologica nell’arco della vita umana e nell’analisi statistica (dalla nascita al
matrimonio, al parto del primo, del secondo, dell’nesimo figlio, intrammezzata magari dal decesso del coniuge, alla vedovanza, al secondo matrimonio, fino alla morte). Queste analisi possono essere trasposte allo
studio delle traiettorie biografiche degli individui attraverso situazioni
(contemporanee o sequenziali) rilevanti per i rischi di morte. Siamo per
ora ai primi passi, né è detto che questi diano frutti a breve termine:
tuttavia si capisce come i progressi in questa direzione possano aiutare
ad approfondire la conoscenza del sistema mortalità (Caselli et al., 1990).
Del resto, in un’area più circoscritta — quella della mortalità infantile
— le analisi demografiche (specialmente quelle nei paesi in via di sviluppo ad alta mortalità) hanno buon successo nell’individuarne le componenti: età della madre, numero di figli avuti, durata dell’allattamento
e modi di nutrizione, immunizzazione-vaccinazione e così via.
Nello studio della componente nuzialità-famiglia — di cui darò solo
un accenno — i progressi sono stati notevoli a più livelli: ormai la conoscenza del meccanismi di formazione e dissoluzione del nuclei familiari
(nuzialità, nascita del figli, loro uscita dal nucleo familiare, scioglimento della coppia per vedovanza o divorzio e così via) è tale da permettere
la costruzione di verosimili modelli di simulazione che riproducono tipologie ben individuate nella realtà. Molto più difficile — perché la materia trattata è assai più sfumata e gli eventi molto eterogenei — è la descrizione, formalizzazione e scomposizione della componente mobilitàmigrazione, anche se le innovazioni metodologiche e concettuali a questo riguardo sono state parecchie. Questi accenni possono bastare per
trarre alcune conclusioni, qui schematicamente riassunte.
1) Negli ultimi decenni la conoscenza delle grandi componenti del sistema demografico ha compiuto grandi passi in avanti: esse sono state
scomposte in meccanismi assai dettagliati di cui si conosce molto bene il
funzionamento. Naturalmente si può andare, e si andrà, ancora più a fondo.
2) La demografia è in grado di presentare un quadro dettagliato e
integrato del funzionamento di fenomeni fondamentali della società e
fornisce conoscenze portanti e imprescindibili per le altre scienze umane.
3) Un fattore essenziale di questi progressi è da individuare nell’integrazione di metodi «macro», connessi per il solito con lo sfruttamento delle statistiche ufficiali, e di metodi «mieto» che utilizzano dati individuali desumibili da indagini particolari.
La demografia
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4. La ricerca delle cause
Ho sostenuto nelle pagine precedenti che i maggiori progressi compiuti dalla demografia negli ultimi decenni riguardano la costruzione di
un’architettura formale del funzionamento del sistema demografico: i
rapporti tra crescita e struttura, il modus operandi delle componenti della
crescita e del mutamento, ovvero del sottosistemi di fecondità-riproduttività, morbilità-mortalità, nuzialità-famiglia e mobilità-migrazioni.
L’integrazione di metodi basati su dati aggregati con metodi basati su
dati individuali ha grandemente contribuito ai progressi compiuti.
Costruita l’architettura principale (che, naturalmente, come la proverbiale fabbrica del Duomo, non è completata e sulla quale molto lavoro va ancora fatto), i demografi si trovano di fronte altri giganteschi problemi, tipici di ogni scienza sociale. Perché mai fecondità, mortalità, nuzialità, mobilità, crescita e così via mutano nel tempo e da popolazione
a popolazione? Perché la fecondità del Kenya è sei volte più elevata di
quella dell’Italia o la speranza di vita del Giappone è doppia di quella
dell’Etiopia? Sebbene le risposte a tali domande siano quasi intuitive,
risultano assai meno intuitive le risposte a domande, di natura analoga,
circa le ragioni delle differenze tra gruppi assai simili (popolazioni di
piccole aree, ceti sociali, categorie professionali e così via) che esibiscono, in contesti relativamente omogenei, comportamenti sensibilmente
differenti. L’elaborazione di risposte a domande di questo genere è il
pane quotidiano delle scienze sociali.
La demografia si è sbizzarrita a proporre quesiti ed escogitare risposte: come spesso accade, i primi sono formulati con velocità assai superiore ai secondi. La rapidità e l’intensità del dibattito, tuttavia, sono state
spinte da una potente molla: dall’accumulo straordinario delle informazioni quantitative sui fenomeni demografici e dall’espansione notevole
delle fonti del dati. Naturalmente questo accumulo è, esso stesso, la
conseguenza della crescente fame di conoscenza del fenomeni demografici, di cui una delle cause è stata certamente l’accelerazione della crescita nei paesi in via di sviluppo. Fatto si è che la descrizione del sistema
demografico attraverso dati censuari, statistiche dello stato civile (in
minor misura) e (soprattutto) indagini campionarie si è enormemente
arricchito. Il caso cinese ne è un esempio: dopo vent’anni di silenzio
«statistico», i censimenti del 1982 e del 1990 hanno messo a fuoco la
demografia di oltre un miliardo di individui; nel 1987, un’indagine
campionaria all’ 1% (comprendente oltre dieci milioni di persone)
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Massimo Livi Bacci
ha conseguito dettagli notevolissimi sui livelli e la struttura della fecondità. Inoltre, non solo la produzione del dati si è grandemente accresciuta,
ma è notevolmente migliorata anche la loro qualità, assieme alla conoscenza di errori e imperfezioni. Cito, di passaggio, oltre all’estensione a tutto il mondo di regolari censimenti decennali, il moltiplicarsi di speciali
indagini campionarie su questo o quell’aspetto del sistema demografico:
fra le tante, la serie d’indagini della World Fertility Survey (WFS) negli
anni settanta e nei primi anni ottanta, estesa a sessantadue paesi sviluppati e in via di sviluppo, diretta alla conoscenza del comportamenti fecondi, delle loro motivazioni, delle aspirazioni e aspettative in tema di
dimensione della prole, della conoscenza e della pratica del metodi di controllo delle nascite (Cleland e Hobcraft, 1985). E, ancora, la serie delle
indagini della Demographic and Health Survey (DHS), iniziate negli anni
ottanta su fecondità, mortalità e salute, estesa, nella prima fase terminata
nel 1990, a trentaquattro popolazioni in via di sviluppo (DHS, 1991).
L’accresciuta produzione di dati si è accompagnata a una maggiore
capacità di trattarli con l’avvento, la diffusione, la crescita di potenza
e, infine, la semplificazione del calcolo elettronico. Tale capacità ha significato, tra l’altro, la possibilità di utilizzare su larga scala dati individuali formulando ipotesi di lavoro ad hoc e verificandole, secondo procedimenti prima assai vincolati a precisi, rigidi e limitati piani di spoglio e di pubblicazione. Oggi il ricercatore è in grado di manipolare la
sua «base dati» secondo proprie ipotesi di lavoro. Prendiamo il caso della
fecondità: è evidente l’interesse di analizzarla secondo certe caratteristiche socio-economiche come, ad esempio, il grado d’istruzione, la professione e altre variabili; quando non esistevano indagini speciali atte
a collegare le variabili «esplicative» con quelle dipendenti si procedeva,
ad esempio, con indagini di tipo cross section. Una volta classificate le varie
aree geografiche secondo il livello di fecondità, il grado medio di
istruzione, l’incidenza delle attività agricole o industriali e così via, si
cercava di misurare la relazione tra le variabili supponendo che le relazioni osservate nelle sottopopolazioni (ad esempio una diminuzione di
fecondità al crescere del grado medio di istruzione) fossero valide anche
a livello individuale. Nel caso di indagini speciali (ad esempio, in un censimento, la domanda sul numero di figli avuti dalle coniugate) era possibile raggruppare, secondo schemi prestabiliti, gli individui secondo i livelli delle variabili esplicative scelte (ad esempio secondo il grado di istruzione) e misurarne la fecondità corrispondente, già operando un progresso conoscitivo notevole. Ma l’accesso diretto, da parte del ricercatore, ai dati individuali dell’indagine — con la possibilità di combinare
nel modo più vario le caratteristiche del singoli individui — ha arricchi-
La demografia
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to ulteriormente la potenzialità delle indagini demografiche: egli può agire
con la più grande flessibilità operando le necessarie ipotesi e verifiche.
La «base dati» non è più un duro masso da scolpire e incidere ma molle
pasta da plasmare. Naturalmente, a opportunità nuove si contrappongono problemi nuovi: da un lato la ricchezza delle banche dati, dall’altra le restrizioni all’accesso ai dati individuali per non violare i diritti alla
riservatezza.
Questa lunga premessa è necessaria per un motivo assai semplice: l’aumentata produzione del dati ha accresciuto enormemente la capacità di
descrivere il sistema demografico, ha moltiplicato i quesiti possibili e
ha anche potenziato gli strumenti per rispondervi. Si ritorna, così, al
problema della ricerca delle cause del variare del fenomeni demografici.
Potremmo immaginare tre fasi teoriche del procedere:
1) descrizione e analisi del variare del fenomeni. Ne sono cardine le
successioni temporali (serie storiche) e le analisi differenziali; a livello
aggregato, suddividendo il territorio, la popolazione, le famiglie e così
via in aree o in gruppi, secondo vari criteri, si può osservare l’incidenza
differenziale del fenomeno in questione;
2) tentativo di spiegare (in senso statistico) le regole del variare del
fenomeni, approfondendo le relazioni fra caratteri; questo procedimento è più efficiente quando si mantiene il riferimento individuale del caratteri (ad esempio mettendo in relazione il grado di istruzione di ciascun individuo con la sua fecondità) in modo tale da ricercare e individuare eventuali regolarità sistematiche, in tempi diversi ó in popolazioni diverse, ponendo in relazione una o più variabili «indipendenti» con
la variabile — o le variabili — dipendenti;
3) ricondurre le «spiegazioni» parziali di singoli fenomeni entro un
modello generale, un paradigma, una teoria interpretativa.
Rispetto al punto 1), le descrizioni del sistema demografico si sono
moltiplicate in modo straordinario negli ultimi decenni, soprattutto per
quanto riguarda la fecondità e la mortalità, meno per fenomeni più complessi e articolati o più sfumati, come i processi dinamici delle famiglie
o mobilità e migrazioni. Ma anche le indagini di cui al punto 2) si sono
sviluppate con vigore, attingendo alla massa di informazioni desumibili
da indagini ad hoc (in Italia ricordiamo l’indagine sulla fecondità del
1979, l’indagine Istat sulle strutture e i comportamenti familiari del 1983 e
l’indagine multiscopo, periodica, sulle famiglie anch’essa eseguita dall’Istat
a partire dal 1987) e sfruttabili a livello individuale. Ma si è trattato di
uno sviluppo avvenuto con un certo disordine, non essendo derivato da
un disegno unitario, sostanzialmente per tre ragioni:
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Massimo Livi Bacci
a) la difficoltà di mettere a punto variabili esplicative significative
e coerenti;
b) l’alta proporzione di varianza di ciascun fenomeno studiato che rimane inspiegata;
c) la frequente contraddittorietà del risultati, difficilmente interpretabile.
Ma dove i risultati permangono paurosamente carenti è l’ambito del
punto 3). Infatti, pur dando per risolti i problemi espistemologici relativi
al significato da attribuire al fatto che i fattori x, y e z spieghino una certa
percentuale della varianza di un determinato fenomeno in una data
popolazione, come spiegare «ad un tempo» il contemporaneo muoversi
(sotto la spinta di fattori discordi) del diversi fenomeni che integrano il
sistema demografico? Si prenda ancora una volta il caso della fecondità:
semplificando al massimo, su di essa agiscono, oltre a una serie di fattori
psico-sociali, culturali e economici, altri fattori demografici quali la
nuzialità, la mortalità infantile, la mobilità delle coppie e così via, i quali,
a loro volta, «rispondono» a indicatori di volta in volta diversi... Il
tentativo di immettere tutte le variabili in un grande sistema si rivela,
in pratica, impossibile e incontrollabile.
Ma spesso, fortunatamente, la ricerca non ha bisogno di procedere
da 1) a 2) e da 2) a 3); in altri termini, sarebbe ingenuo pensare che
per costruire paradigmi e teorie basti provvedersi di descrizioni dettagliate e di analisi multidimensionali e che da queste analisi a tappeto
possa scaturire, induttivamente, un compiuto schema intepretativo, così
come una pietanza raffinata non uscirà mai dalla combinazione sistematica degli infiniti ingredienti dell’alimentazione. Avviene in effetti
che l’esperienza, l’osservazione, la cultura (e quindi la capacità di apprendere dalle altre discipline) suggeriscano ipotesi e schemi e che la ricerca ne deduca e ne verifichi le implicazioni; che, cioè, si proceda da
3) a 2) e 1) ritornando, se del caso, a 3) per modificarlo, convalidarlo,
negarlo.
5. Teorie e paradigmi interpretativi: a) transizione demografica e teorie della
fecondità
Per la loro formazione, la consuetudine con la ricerca empirica, la
vicinanza con un nucleo forte «metodologico», analitico, i demografi
sono assai più a loro agio alle prese con quesiti di tipo quantitativo, cui
si può rispondere attingendo allo strumentario a loro disposizione, piuttosto che di fronte a quesiti magari semplici, ma la cui risposta richiede
La demografia
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una visione più ampia della società e dell’uomo. Ad esempio, a una domanda stravagante come «qual è la probabilità di concepire per un gruppo
di donne di una certa età, primipare, conviventi con un marito di un
anno maggiore, residenti in aree urbane, secondo il tempo trascorso dalla
nascita precedente, la durata dell’allattamento e il colore degli occhi?»
non è impossibile rispondere, sempre che si sia capaci di convincere un
ente finanziatore della sua rilevanza scientifica e sociale e si ottengano
i fondi per impostare l’indagine e sempre che si disponga di un numero
significativo di donne cui porre questa domanda e di ricercatori all’altezza del compito.
Assai più imbarazzante è il dover dare risposta a quesiti dell’altro
tipo, quale ad esempio: «perché siamo oggi sulla Terra cinque miliardi
di individui e non cinquanta miliardi — come alcuni ritengono che il nostro pianeta possa sostenere e nutrire — o cinque milioni — cifra che gli
antropologi stimano riferita all’umanità prima della rivoluzione del Neolitico?». Si tratta di una domanda assai semplice, invero, la domanda
della demografia o delle scienze biologiche; una domanda che probabilmente i padri fondatori delle due discipline — Malthus e Darwin — sempre ebbero presente durante la loro vita.
La critica più severa rivolta alla demografia degli ultimi decenni —
una volta riconosciuti i grandi progressi conoscitivi — è che essa si è dedicata all’analisi di crescente profondità del più intimi e nascosti recessi
del comportamento demografico, scavando verticalmente in quello che
potremmo chiamare «ignoto demografico» ma, allo stesso tempo, si è
ritirata orizzontalmente dal compito d’indagine dell’« ignoto sociale» (e
molti direbbero anche dell’ignoto biologico), quell’immenso territorio
che può essere studiato adeguatamente solo congiungendo le forze con
le altre discipline dell’uomo. Il paradosso si spiega alla luce di questa
tendenza, che ha certamente consolidato la disciplina ma rischia di renderla culturalmente povera.
Non voglio insistere nella critica: può ben darsi che non potesse essere diversamente, in un periodo di accumulo così rapido delle conoscenze empiriche, e che, dopo questa fase di accumulo, ne segua un’altra di più lenta elaborazione teorica; d’altro canto, qualche segno incoraggiante in questa direzione c’è. Del resto, critiche analoghe si potrebbero fare per altre discipline sociali. Un superamento del limiti attuali
è anche insito negli sviluppi della raccolta del dati: quando si comincia
ad andare oltre l’analisi del sistema demografico, estendendo l’indagine
alle caratteristiche di contesto o individuali (variabili ambientali o di
contesto come l’abitazione, la residenza; di comportamento come l’uso
del tempo, i consumi, le abitudini; qualitative, come l’istruzione, il red-
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Massimo Livi Bacci
dito, la professione e così via) si raccolgono dati, si utilizzano concetti,
si misurano fenomeni che interessano da vicino l’economista o il sociologo, portando inevitabilmente alla ricerca di problemi comuni. Anche
certe metodologie di analisi si avvicinano: si pensi all’analisi longitudinale, messa a punto con rigore dalla metodologia demografica, e alle sue
estensioni agli studi del ciclo del risparmio e del consumo, in economia, o
del ciclo di vita individuale e familiare, in sociologia.
Ritorniamo all’argomento centrale: in quale misura la demografia ha
saputo elaborare teorie o paradigmi interpretativi delle relazioni tra popolazione e società? È una domanda insidiosa, anche perché la tentazione
è di osservare che la disciplina non ha prodotto niente di paragonabile
all’ambizioso modello di equilibrio popolazione-risorse elaborato da
Malthus o che nel Novecento la demografia non ha elaborato l’equivalente della «teoria generale» di Keynes. A ben guardare, invece, le elaborazioni teoriche non mancano, anche se spesso limitate a settori circoscritti della realtà demografico-sociale.
Interpretazioni teoriche sui meccanismi del mutamento demografico
sono quelle che fanno capo alla teoria della transizione demografica (Coale, 1973): lo
sforzo, cioè, di comprendere i modi del passaggio da sistemi nei quali
fecondità e mortalità sono elevate a sistemi in cui esse sono basse (come è
avvenuto a cavallo del secolo nelle popolazioni occidentali); e altresì lo
sforzo di comprendere in quale misura il paradigma sia riproducibile in
contesti diversi e — soprattutto — in quale misura esso possa essere
utilizzato per i paesi in via di sviluppo in cui tale processo di transizione
è in corso o appena all’inizio. Il paradigma della transizione postula una
dipendenza stretta tra evoluzione economica e sociale ed evoluzione
demografica; in una prima fase la mortalità diminuisce a seguito della
scomparsa delle grandi crisi di mortalità (vaccinazioni; rarefazione delle
carestie) o del miglioramento del livello di igiene, di nutrizione e così via.
La diminuzione della mortalità significa maggior sopravvivenza del,figli e
quindi — per un numero dato di sopravviventi all’età adulta — una minor
«produzione» di figli. Ma questa minore fecondità è rinforzata
dall’accresciuto costo e dal più tardivo, contributo economico che i figli
danno in società che si fanno urbane e industriali, che richiedono un
maggior grado di istruzione e una durata più lunga di allevamento della
prole. D’altro canto la minor fecondità significa di per se stessa maggior
cura del figli e implica minor mortalità. La retroazione tra mortalità e
fecondità si esaurisce quando la mortalità raggiunge un suo minimo
quasi «biologico» e la fecondità vi si adegua.
Il paradigma della transizione demografica è un’utile sintesi di una
La demografia
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trasformazione estremamente complessa ma è scarsamente «riproducibile» o generalizzabile. La sua debolezza non sta tanto nelle numerose
deviazioni dallo schema (in non pochi casi il declino della fecondità inizia prima di quello della mortalità; la transizione della fecondità inizia
nella Francia rurale un secolo prima che non nell’Inghilterra industriale;
in molti casi valori e norme che presiedono alle scelte individuali sembrano
poco permeabili ai mutamenti economici o sociali e così via) quanto nella
presunzione che «prima» e «dopo» la transizione esista uno stato di
equilibrio demografico, in cui natalità e mortalità sono molto vicine e
la crescita nulla o trascurabile. Se la ricerca storica ha mostrato che
non era certo questa la situazione «prima » della transizione, l’esperienza contemporanea mostra che non lo è nemmeno «dopo»; mentre il cammino del paesi in via di sviluppo mostra un’enorme varietà di situazioni
non facilmente codificabili. D’altro canto è anche da respingere il «rilassamento» eccessivo delle «regole» del paradigma della transizione allo scopo di farvi rientrare, in qualche modo, le tante eccezioni.
Il dibattito attorno al paradigma della transizione è stato, però, produttivo di nuove ricerche e idee, particolarmente nell’area delle determinanti della fecondità. Si pensi, soprattutto, allo sviluppo della new
home economies e ai numerosi tentativi (Leibenstein, 1974; Becker, 1981) di
spiegare le scelte razionali delle coppie in funzione dell’utilità e del
costi della prole. Se, da un lato, con il crescere del reddito familiare il
costo del figli aumenta, la loro «utilità» complessiva declina: non tanto
la soddisfazione che si trae dall’esistenza del figli, quanto la loro utilità
in termini di sicurezza del genitori nella vecchiaia o la loro utilità in quanto
«produttori». Così, con una funzione di utilità complessivamente decrescente e una funzione di costo crescente, le famiglie tendono ad avere meno figli al crescere del reddito e al procedere dello sviluppo (Leibenstein, 1974). Oppure si può dire, con Becker (1981), che il costo
del figli, di per sé, non cresce con il crescere del reddito familiare: sono
piuttosto le famiglie che scelgono di spendere (investire) di più nei figli,
ovvero chiedono figli di «miglior qualità»; pertanto, per una «qualità»
data di figli (cioè per figli che hanno un determinato livello di istruzione, che vengono alimentati, vestiti, alloggiati in un certo modo e così
via), le famiglie tendono ad avere più figli al crescere del reddito. Questa relazione risulta nascosta, in ogni popolazione sufficientemente grande,
per il fatto che il controllo delle nascite è migliore nelle famiglie più abbienti (che quindi non hanno figli «indesiderati»). Questi originali spunti
(contenuti, per la verità, in embrione nelle prime formulazioni della transizione demografica) e i numerosi tentativi di generalizzazione (ad esem-
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Massimo Livi Bacci
pio, per incorporare il controllo delle nascite) di sintesi e di applicazione empirica di spiegazione della fecondità, sia nei paesi sviluppati sia
in quelli in via di sviluppo, non hanno peraltro dato i frutti sperati. Le
ragioni sono tanto teoriche (la difficoltà di postulare una funzione di
utilità; il trascurare l’influenza esterna di norme, valori e ideali e del
loro mutare nel tempo e così via) quanto empiriche (difficoltà di valutare gli elementi di costo e cosi via): più in generale, derivano dalla difficoltà di far dipendere le variazioni del flusso aggregato di nascite da meccanismi tutti interni alla famiglia e quindi di conciliare tendenze « macro » con comportamenti «micro».
In reazione alla fortuna (non uguagliata dai risultati) delle indagini
microeconomiche, non pochi studiosi tendono a interpretare i mutamenti
della fecondità in funzione del mutare di sistemi di valori o di impulsi
(anche economici) provenienti dal sistema sociale, la cui azione non può
essere adeguatamente spiegata da meccanismi micro visti esclusivamente a livello di scelte della coppia. Specialmente nei paesi sviluppati, a
bassissima fecondità, questa sembra sempre più obbedire a mutamenti
nei sistemi di valori propri di ciascuna generazione, sistemi che hanno
una forte variazione temporale ma una forte omogeneità da popolazione a popolazione. Così potrebbe spiegarsi anche l’omogeneità negli ultimi decenni del cicli di fecondità del paesi occidentali (ripresa del dopoguerra, declino a partire dalla metà degli anni sessanta; sostanziale stabilità su bassissimi livelli negli anni ottanta). Appaiono comunque redditizi quegli sforzi che tendono a definire e misurare i sistemi di valore
nelle varie generazioni e a riferirvi i comportamenti demografici delle
coppie. Sono tentativi, questi, che non dispiacciono agli storici (per un’intepretazione del mutamenti storici nel valore del figli si veda Ariès, 1960)
né a economisti come E asterlin (1978), il quale ha sviluppato una teoria
che spiega le alternanze di fecondità delle generazioni in termini di dimensioni numeriche delle generazioni stesse (quelle di minori dimensioni hanno favorevoli condizioni di vita perché la scarsa offerta di lavoro
genera alti salari, e in conseguenza hanno un più alto numero di figli;
per le generazioni più numerose invece il discorso si rovescia).
6. Teorie e paradigmi interpretativi: b) altri spunti
Nel tentativo di risolvere alcuni grandi temi inerenti alle relazioni
popolazione-società, non sono mancati spunti teorici di notevole interesse in altre direzioni. Questi hanno in genere riunito due condizioni:
La demografia
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1) sono stati elaborati sotto la spinta della necessità di unificare o
integrare conoscenze provenienti da discipline diverse;
2) hanno cercato e trovato prove e conferme in analisi di lungo periodo.
Nel campo delle relazioni tra popolazione e economia una linea di
ricerca classica che faceva capo a Kuznets (1973) e orientata a spiegare
gli effetti di lungo periodo della crescita demografica è andata esaurendosi negli anni sessanta. Pure, i temi affrontati erano di grande interesse, poiché si tentava di capire come il miglioramento delle risorse (capitale) umano per l’abbassarsi della mortalità e della morbilità, l’aumento
dell’istruzione e il miglioramento della formazione, i guadagni di scala
conseguenti alle dimensioni demografiche e sociali accresciute avessero
annullato e invertito la legge del rendimenti decrescenti: questi temi furono risuscitati negli anni ottanta non sempre con equilibrio e misura
(Simon, 1986). Negli anni sessanta e settanta sono proseguiti soprattutto i tentativi, iniziati da Coale e Hoover negli anni cinquanta, di individuare le conseguenze della rapida crescita demografica (e della sua eventuale decelerazione) su risparmi, investimenti e crescita economica (Coale
e Hoover, 1958); modelli e interpretazioni che, tuttavia, non hanno incontrato i successi sperati dal momento che la performance economica
del paesi in via di sviluppo sembra essere stata legata in maniera assai
contraddittoria alla crescita demografica, almeno a giudicare dall’esperienza dell’ultimo trentennio (Kelley, 1988).
Assai innovatore è risultato il paradigma sviluppato da E. Boserup
(1965) riguardante il molo della crescita demografica sullo sviluppo agrario, in cui le premesse del modello malthusiano sono rovesciate e la crescita demografica è vista come la variabile determinante dello sviluppo
agricolo, della crescita della produzione e della sua intensificazione. L’innovazione tecnica implica maggior input di lavoro (ad esempio quando
si passa da un’economia del taglia e brucia a una di coltivazioni annuali)
e non avverrebbe se la crescita demografica non la rendesse necessaria.
L’estensione all’economia primitiva (Cohen, 1977) o alla spiegazione del
successo della rivoluzione verde (Pingali e Binswanger, 1988) sono esempi
della vitalità dello schema di Boserup.
Demografia e storia hanno prodotto altre interpretazioni globali di
notevolissimo interesse delle relazioni tra società e demografia. La ricostruzione delle famiglie a fini demografici «reinventata» da Henry negli anni cinquanta ha permesso la ricostruzione dettagliata del funzionamento del sistemi demografici di antico regime — almeno per la parte
«stabile» non «sommersa» della popolazione (Livi Bacci, 1990). In alcuni casi fortunati — come per la popolazione del Quebec (Charbonneau
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Massimo Livi Bacci
et al., 1987) — è stato possibile ricostruire l’intero sistema di una grande
regione (sia pure poco popolata) e le ragioni della sua affermazione demografica. Più in ombra le interrelazioni con il sistema sociale ed economico, che, tuttavia, quando vengono studiate si rivelano molto produttive. È il caso della ricostruzione della popolazione inglese (Wrigley
e Schofield, 1981) e del tentativo di spiegare le interazioni tra crescita
demografica e crescita della domanda e del prezzi e caduta del salari reali
e ristabilimento di una situazione di equilibrio non con l’accresciuta mortalità ma con una diminuita nuzialità e natalità. Il modello malthusiano
viene confermato per l’Inghilterra anche se la variabile demografica sensibile alle alternanze economiche non è la mortalità ma l’accoppiata nuzialità-natalità.
Parziali, ma non meno interessanti, sono gli studi che hanno posto
in relazione le crisi di mortalità con i fattori che le determinano (carestie, epidemie), hanno valutato il loro impatto sulla crescita demografica, indagato sulle risposte demografiche e sociali alle crisi stesse (ristrutturazione delle famiglie e delle proprietà; accelerazione del ritmi della
nuzialità e della fecondità) mediante metodologie varie, inclusi modelli
econometrici. Anche qui, pur limitatamente allo studio dell’azione e della
reazione connessa con uno shock esterno (la crisi), si sono costruiti modelli interpretativi. Sul piano più stretto dell’epidemiologia storica, lo
studio dell’«unificazione biologica del mondo» (Leroy Ladurie, 1975;
McNeill, 1978), l’impatto di infezioni nuove su popolazioni «vergini»
(Crosby, 1986), il diverso accrescimento di gruppi nuovi che competono coni vecchi hanno accresciuto enormemente la conoscenza delle interazioni tra mortalità, morbilità e società. Ancora, nell’ambito degli studi
sia storici (Mc Keown, 1976; Livi Bacci, 1989) sia contemporanei, i temi della relazione tra produzione, sistema agrario, consumo, nutrizione
e crescita demografica si sono rivelati densi di spunti e di promesse.
Un’altra area dove paradigmi interpretativi possono svilupparsi — ancorché limitati a fenomeni più circoscritti, che non investono l’intero
sistema demografico — è quella del modelli epidemiologici. Spesso questi modelli, estremamente semplificati, interpretano le relazioni tra infezione, popolazione immune, popolazione suscettibile e mortalità prescindendo dalle caratteristiche demografiche (struttura per età, tasso di
accrescimento, peculiarità insediative e sociali della popolazione). L’intervento del demografo può notevolmente aumentare il potere esplicativo di questi modelli. Un caso oggi evidentissimo è quello delle infezioni da HIV, dove struttura per età della popolazione, esposizione al rischio tramite contatti sessuali, modi del contatti sessuali e metodi di
contraccezione debbono essere incorporati nei modelli esplicativi.
La demografia
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7. Elogio della demografia. La demografia è utile?
Il titolo del paragrafo contiene una domanda retorica, ma forse non
peregrina. Ci si potrebbe infatti domandare se le conoscenze che oggi
abbiamo del sistema demografico si sarebbero conseguite se la demografia non si fosse sviluppata come disciplina autonoma; se non avesse
reciso i legami di dipendenza dalla statistica; se fosse rimasta nell’alveo
della sociologia o se i suoi obiettivi di ricerca fossero rimasti esclusiva
pertinenza delle varie discipline (naturali o sociali) interessate via via a
fecondità, mortalità, migrazioni, famiglia. Anche così riformulata si tratta di una domanda retorica che non consente prove o smentite, ma speculazioni. Pure l’impressione netta è che lo sviluppo della «demografia »
come disciplina attiva, e non come oggetto passivo di ricerca nell’alveo
di altre discipline, sia stata una condizione essenziale del suo progresso,
come dimostra del resto lo stato depresso degli studi demografici in un
paese di grandissime tradizioni scientifiche come la Germania (dove la
demografia non ha status universitario) o la sua espansione in Nordamerica dove, pur se prevalentemente legata a dipartimenti di sociologia,
ha acquisito ampio riconoscimento e libertà di manovra. Naturalmente
c’è il rischio di scambiare l’effetto con la causa e quanto detto non oltrepassa l’ambito delle opinioni personali; ma proseguendo nell’esercizio
delle supposizioni, si può ben immaginare che se la demografia non fosse diventata adulta con un corpus compatto di metodi e di conoscenze,
la situazione sarebbe ben diversa. La sociologia avrebbe certo approfondito gli studi su matrimonio e famiglia, sulle strutture per età o sviluppato le analisi sull’urbano e il rurale; gli attuari avrebbero raffinato e moltiplicato le tavole di eliminazione; la statistica avrebbe migliorato i quadri
descrittivi e perfezionato le rilevazioni; la geografia umana avrebbe affrontato da par suo l’analisi della dislocazione territoriale e degli insediamenti; gli economisti avrebbero inserito qualche componente demografica rilevante nei loro modelli di analisi del consumo e del risparmio o
del mercato del lavoro; biologia, genetica ed epidemiologia avrebbero
esaminato separatamente vari aspetti della riproduttività e della
sopravvivenza. Se anche immaginassimo che tutte le conoscenze
parziali che oggi abbiamo si ritrovassero puntuali «sparse» nei vari
ambiti disciplinari, non v’è dubbio che la nostra conoscenza del sistema
demografico e delle sue relazioni con il sociale o il biologico sarebbero
assai minori; mancherebbe un corpus metodologico unificante (si veda
il capitolo di Santini, «I metodi», in questa Guida); verrebbe me-
22
Massimo Livi Bacci
no, soprattutto, la capacità di spiegare i fenomeni demografici nella loro complessità.
Quanto detto serve a chiarire un altro punto spesso in discussione,
cioè la cosiddetta «interdisciplinarietà » della demografia, disciplinacerniera tra il biologico e il sociale. Che cosa c’è, infatti, di più «interdisciplinare » di una scienza i cui contenuti si trovano sparpagliati nelle
varie discipline di cui sopra si è detto? Una demografia «cannibalizzata»
dalle altre scienze (sociali e naturali) dell’uomo è il colmo dell’«interdisciplinarietà» di cui si parla, a dritto e a rovescio. Certo è vero che
una demografia ripiegata sull’analisi esclusiva del «sistema demografico»,
disinteressandosi del più ampio sistema sociale o delle sue radici
biologiche (si veda il capitolo di Scardovi, «Demografia e biologia», in
questa Guida), rischia d’isterilirsi e di diventare una tecnica, una contabilità raffinata del fatti demografici.
Interdisciplinarietà non significa dunque eclettismo disciplinare, ma
capacità di interagire con le acquisizioni o le curiosità inappagate delle
altre discipline. Significa elaborare metodologie comuni nei fondamenti
logici (ad esempio le tecniche di analisi longitudinali; Io sviluppo del rapporti tra il trasversale e il longitudinale; le analisi del cicli di vita) o indagare su meccanismi di sviluppo della società (il ricambio tra generazioni; i processi di selezione del gruppi) che hanno valenze comuni in
ambiti diversi. Sotto questo profilo i contributi della demografia alla
conoscenza del sociale (assai meno per il biologico) sono molto più rilevanti di quanto comunemente non si percepisca, né è giustificato il timore che la demografia risulti gregaria o portatrice d’acqua di altre discipline con l’iniziale maiuscola, come la Storia, la Sociologia, l’Economia: il suo futuro, semmai, è legato alla cultura e alla formazione di chi
la pratica; alla capacità di resistere a una «domanda» di conoscenza orientata esclusivamente all’attualità; all’abitudine a interagire con altri linguaggi e altre tematiche.
Prima di chiudere questo capitolo introduttivo rivolto, più che altro,
a tratteggiare le caratteristiche generali dello sviluppo della demografia e
i relativi problemi, qualche parola sulla situazione italiana, cui la Guida
è prevalentemente dedicata. I vari capitoli tratteggiano lo stato di salute
degli studi demografici, sotto vari profili, e il lettore vi troverà diagnosi
precise e dettagliate. Farne una d’insieme non è semplice anche perché la
situazione si evolve con un certo dinamismo. In alcuni capitoli
(«Evoluzione diacronica della demografia», «Demografia e biologia») si
sono tratteggiati i fasti degli studi di popolazione nella prima parte del
secolo, fino all’ultima guerra; la personalità scientifica del maggiori
cultori; la rilevanza internazionale del temi trattati e del risultati;
La demografia
23
la capacità di studiare il sociale non dimenticando il biologico; la crisi
del dopoguerra; la «rimozione» delle tematiche demografiche per alcune compromissioni politiche; la faticosa ripresa negli anni sessanta, anche con il ritorno della demografia a piena dignità nell’insegnamento.
Molti di questi temi appartengono a un passato che appare quasi remoto. Fissiamoci sull’ultimo quarto di secolo (il periodo privilegiato da questa
Guida) e constatiamo, in rapidissima sintesi, tre punti principali.
Innanzitutto, la rapida crescita «quantitativa» della demografia: nelle
università sono ormai un centinaio i demografi «ufficiali» nelle varie
fasce; fuori delle università non sono pochi i centri di ricerca che si occupano di demografia; abbondanti sono stati i finanziamenti, né risulta
che progetti intelligenti e utili non siano stati impostati per mancanza
di risorse finanziarie. Va anche aggiunto che la società italiana è sempre
più sensibile alle tematiche demografiche e che esiste una domanda crescente di conoscenza.
In secondo luogo, a questa crescita quantitativa corrisponde anche
una crescita della produzione scientifica e della sua qualità. Tuttavia,
analizzando quanto viene fatto, occorre qualificare questo giudizio: la
demografia italiana è ormai- in grado di stare al passo con gli sviluppi
sul piano internazionale, ma vi sta a rimorchio, in buona parte. Pochi
degli sviluppi originali della disciplina negli ultimi decenni vedono contributi italiani in prima linea.
Infine, le ragioni del divario tra crescita «quantitativa» della disciplina e della domanda di conoscenza e minore crescita «qualitativa» sono numerose. La più consolatoria (ma forse la meno veritiera) è che si
tratta di uno sviluppo recente e che occorra dare tempo al tempo. La
realtà è che la demografia, assai più di altre scienze sociali, soffre ancora di un certo provincialismo, rivelato dalla scarsa mobilità del demografi; dalla forte incidenza nella loro formazione di percorsi di studio
che li rendono timidi verso altre discipline; dalla quantità di studi locali
poco legati a realtà più vaste; dall’assenza di interesse per fenomeni che
trascendono la realtà nazionale; dalla quasi totale assenza di studi sui
paesi in via di sviluppo; dall’esitazione e timidezza nel trattare temi che
esulano dal preciso ambito disciplinare. Sbarazzarsi di questo provincialismo è il compito, non facile, del prossimi anni.
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Capitolo secondo
Evoluzione diacronica della demografia
Enzo Lombardo
1. I primi passi nello studio della popolazione
Per molti popoli dell’antichità si ha notizia che venissero effettuati
conteggi di particolari sezioni del corpo sociale e che vi fosse una qualche forma d’attenzione per la popolazione e per i fenomeni che in essa
si concretano. Presso l’antica Roma vi furono simili rilevazioni e Tito
Livio fa risalire il più antico di tali conteggi al periodo di Servio Tullio
(587-534 a. C.), durante il cui regno furono calcolati 24.000 residenti
nella città di Roma. Dionigi di Alicarnasso racconta anche il modo in
cui Servio Tullio pervenì a tale risultato: istituì feste dette paragonales
e decretò che in queste riunioni ogni abitante portasse una moneta differente a seconda che fosse maschio oppure femmina, o ancora fanciullo impubere; il conteggio delle monete raccolte diede il numero della
popolazione distinta per sesso e, a grandi linee, per età’.
Attraverso metodi simili, Servio Tullio riuscì inoltre a conoscere il
numero di nati e di morti e del cittadiní che vestivano la toga virile a
Roma; designò poi funzionari incaricati di raccogliere le stesse informazioni nelle campagne. Queste operazioni, più tardi, durante la repubblica, vennero affidate a speciali magistrati detti censori, i quali avevano
il compito di registrare le nascite e le morti e, a ogni lustro, il numero
di cittadini per età e sesso, oltre alla natura e all’estensione delle terre
possedute, alla quantità di capitali e alla rendita di ciascuno.
D’altra parte molti autori si interessarono a notizie attinenti alle cose
dello stato, alla geografia e soprattutto agli effettivi militari di cui si
poteva disporre, come ad esempio Polibio, scrivendo del preparativi
della seconda guerra punica, o Giulio Cesare (nel libro I, cap. XXIX
1 Per chi voglia affinare il dettaglio delle notizie qui fornite e desideri maggiori informazioni anche bibliografiche, si rimanda a Gabaglio (1888) e anche, per riferimenti specifici per
la Francia, a Dupâquier (1985). Oltre alla bibliografia riportata al fondo di questo capitolo,
un’utilissima fonte integrativa si rinviene in Corsini (1989).
28
Enzo Lombardo
del Commentarii), che dà indicazioni numeriche del movimenti di popolazione a seconda degli uomini in grado di indossare le armi, degli anziani, del bambini e delle donne.
Un altro lineamento importante dell’attenzione del romani per gli
aspetti della vita umana lo rinveniamo nella costruzione della Tavola di
Ulpiano, per opera di Aemilius Macer, che rapporta la durata della vita
umana a seconda delle varie età raggiunte da una data persona, inserita
nel Digesto di Giustiniano. Si tratta di una tavola di certo non costruita
su osservazioni scientificamente elaborate, ma basata sulla conoscenza
empirica del numero approssimativo di anni che un bambino, ad esempio, sarebbe vissuto ancora; il carattere empirico di questi dati non li
rende certo meno importanti e informativi anzi, alla luce delle acquisizioni e delle conoscenze successive, testimonia del realismo e dell’accuratezza delle osservazioni del romani. Si riporta (tab. 1) la Tavola di Ulpiano, dandole un’organizzazione differente dall’originale.
Tabella 1. Lettura della Tavola di Ulpiano.
età
1-20
20
25-30
30-35
25-39
40-50
50-55
55-60
60 e più
restano da vivere anni
30
28
25
22
20
si toglie un anno ogni voltaa
9
7
5
a Ciò è da intendersi nel modo seguente: per ogni anno di età superiore a 39 e sino a 49 si defalca
un anno da 20, relativamente a quelli che restano da vivere. Sicché a una persona di 43 anni restano
da vivere: 20— (43 —39) = 20— 4 = 16 anni. Si tenga conto che le classi di età risultano chiuse a sinistra
e aperte a destra: ad esempio, a una persona di 55 anni ne restano da vivere 9.
Queste valutazioni non appaiono irreali e mostrano la notevole comprensione e consapevolezza del romani nell’apprezzamento dell’ordine
di grandezza della vita umana. D’altra parte già nella Bibbia (ad esempio nel salmo 90, 0 Dio, pietà della umana fratellanza) vi sono testimonianze di come nei tempi antichi vi fosse un’adeguata conoscenza dell’effettiva durata della vita degli esseri umani. Le vite di durata straordinaria attribuite nella Bibbia ai patriarchi appartengono a un passato
mitico e rispecchiano, forse, la tendenza a esagerare le età di coloro che
morivano avanti negli anni; ancora ai giorni nostri, nelle società in cui
Evoluzione diacronica della demografia
29
manca la registrazione anagrafica le persone anziane indulgono nel
vezzo di aumentare la loro età effettiva, non appena si presenta loro
l’occasione2.
Solo a partire approssimativamente dal Tre-Quattrocento iniziarono a comparire, sia pure in forma parziale e frammentaria, rilevamenti
demografici e censimenti (si vedano anche Bellettini, 1973; Fortunati,
1934). Del massimo interesse sono le prime rilevazioni effettuate nella
repubblica di Venezia e in altre parti d’Italia. Il motivo principale del
loro diffondersi va rintracciato nell’esigenza di conoscere le condizione
proprie e quelle del popoli con cui Venezia intratteneva relazioni commerciali e politiche; nel 1338 venne ad esempio eseguito un conteggio
del cittadini, dai venti ai sessant’anni, in grado di portare le armi. Tali
operazioni vennero via via perfezionandosi, le anagrafi più volte riordinate e i rilevamenti generali intensificati, tanto che in una legge del 1624,
tesa al riordino delle anagrafi, si riferiva con rammarico aver omesso
i censimenti per ben diciassette anni e si disponeva affinché essi assumessero cadenza quinquennale.
Parimenti a Firenze si hanno registrazioni della popolazione e tracce
se ne rinvengono nella Nuova Cronica di Giovanni Villani, là ove descrive
una stima indiretta della popolazione della città (in novantamila bocche
tra uomini, donne e fanciulli, nel 1338) sulla base del pane che occorreva
far affluire, ma anche in altre testimonianze di Zuccagni Orlandini
(1869). Molto nota — almeno fra i demografi — è la regolarità del
rapporto del sessi alla nascita, riferita da Villani (ben prima che si
iniziasse a tenere i registri del battesimi e delle sepolture, a Firenze, fra
il 1336 e il 1338, nel battistero di San Giovanni vi era l’uso di accantonare una fava nera per ogni bambino battezzato e una bianca per ogni
bambina). Successivamente, come ricorda Lastri (1755), fu tentata l’introduzione della registrazione delle nascite e delle morti, che, limitata
all’inizio per le nascite al solo battistero di San Giovanni, venne estesa
alla fine del Quattrocento alle altre diocesi.
D’altra parte se il Villani diede informazioni sul numero di forestieri,
viandanti e soldati, delle scuole e del bambini che le frequentavano,
delle chiese, del numero di frati e monache, degli ospedali e del letti
disponibili per i poveri e per gli infermi e fornì molte altre notizie anche quantitative sui commerci, sulle professioni, arti e mestieri che si
praticavano a Firenze e sui principali consumi alimentari, solo nel seco2Hopkins (1966) mostra come questa tendenza sia desumibile dalle lapidi del cimiteri, in
cui un quarto di quelle analizzate si riferiscono a decessi di persone di più di 70 anni; di
queste il 70% del decessi riguarda persone di più di 90 anni, il 3% decessi di centenari, un
congruo numero del quali avrebbe superato i 120 anni.
30
Enzo Lombardo
lo successivo venne tentata un’operazione catastale (iniziata nel 1427
su sollecitazione di Giovanni Averardo de’ Medici, ma dapprima riuscita
non con la voluta precisione e ripresa, emendata e completata solo alla
fine del secolo).
Operazioni censuarie similari e stime della popolazione si ebbero contemporaneamente in altre parti d’Italia: a Milano, a Genova, Bologna,
Parma, in Sicilia e nello stato pontificio. D’altra parte registrazioni di
tal genere, in modo più o meno continuativo o lacunoso, si ebbero anche negli altri stati europei e giova ricordare che il Graunt si basò proprio su tali registrazioni — che in Inghilterra all’inizio del Seicento avevano assunto una notevole regolarità — per le sue riflessioni che costituirono la prima organica trattazione del fenomeni demografici condotta
con metodo statistico.
In Italia, nei secoli XVI e XVII, fiorì una serie di studi, prevalentemente a carattere enciclopedico-descrittivo, che dovevano direttamente
contribuire alla nascita di quella Notizia rerum publicarum, che è scienza
politica che attinge alla geografia, alla storia, alle scienze giuridiche quanto
viene ritenuto utile a comprendere e far conoscere l’ordinamento e le
condizioni dello stato, e che giustamente Boldrini (1942, in particolare
cap. II) individua come uno del fondamenti storici della moderna statistica. Questo filone d’interessi doveva trovare sistemazione, pur fra i
molti contributi che venivano a ingrossarlo, nell’opera di Erman Conring alla seconda metà del Seicento e, in seguito, in quella di Gottifried
Achenwall che nell’università di Marburgo aveva iniziato a tenere, dal
1746, lezioni sulla dottrina delle cose notevoli dello stato (fra cui anche
l’aritmetica politica, ovvero, in termini attuali, la demografia).
2. L’«aritmetica politica» nel nostro paese
Scriveva nel 1773 il piemontese Giuseppe Vernazza di Freney (richiamato da Levi, 1974) che «l’abile calcolatore saprà da essi [dati] dedurre quelle proporzioni le quali, indicate primamente dagli inglesi, sono
poi divenute in tutti i colti giovani oggetto principalissimo di nobili studi»,
cogliendo così le origini e le finalità degli studi di popolazione che
andavano sotto il nome di «aritmetica politica»: il termine «demografia»
non apparirà che verso la metà dell’Ottocento in Francia per poi affermarsi,
attraverso discussioni e alterne vicende, anche in Italia.
All’origine della riflessione sugli accadimenti che interessano la popolazione troviamo il saggio di John Graunt del 1662, seguito poi dagli
scritti di Petty, Davenant, Halley, King, Price e da quelli di autori fran-
Evoluzione diacronica della demografia
31
cesi, olandesi, svedesi e tedeschi. In maniera diretta o indiretta questa
corrente di pensiero e le opere degli aritmetici politici europei ebbero
influenza e furono in mano agli studiosi italiani: ad esempio Cesare Beccaria (1852) fornisce informazioni sul lavoro di Deparcieux riguardo la
costruzione delle tavole di mortalità in cui cita l’olandese Keerseboom
e riporta le opinioni di King e di Short. Ma è solo con la pubblicazione
della traduzione dell’opera di A. De Moivre, A Treatise of Annuities on Lives
(pubblicata postuma a Londra nel 1756), preceduta e arricchita da un
lungo «Discorso preliminare», condotta dai sacerdoti Roberto Gaeta e
Gregorio Fontana (1776), che vennero diffusi in Italia i dati e le tesi
sostenute da molti aritmetici politici europei, come vedremo anche in
seguito3. Rammentiamo che nel libro si rinviene, come guida per gli
aspetti operativi delle rilevazioni, una «Norma per costruire i registri
natalizi, matrimoniali, mortuari assieme alle formule per il calcolo della
mortalità» che verosimilmente ha costituito un modello di riferimento
per consimili successivi progetti e per le pratiche applicazioni.
L’altro aspetto colto dai primi aritmetici politici italiani riguarda le finalità degli studi di popolazione che — come già aveva mostrato con
chiarezza Graunt — sono sì conoscitive del fenomeni naturali, fra i quali rientrano largamente, anche se modificati e alle volte profondamente
determinati dalle condizioni ambientali e sociali, gli accadimenti demografici, ma assumono anche un aspetto di tutto rilievo nel governo dello
stato per il tipo di conoscenze che forniscono e per il quadro quantitativo dell’economia che aiutano a tracciare. Quest’ultimo aspetto fa sì
che l’interesse per le rilevazioni demografiche, e più in generale per la
misura del fatti economici e per i fenomeni rilevabili statisticamente, si
intrecci con le forme e lo sviluppo dell’organizzazione dello stato, anche
nel nostro paese, agevolando e guidando, quasi costituendone l’aurorale
base conoscitiva, gli studiosi dell’Ottocento.
3 Questo libro presentò il lavoro di Abram De Moivre, grande matematico francese nato nel 1667 e rifugiatosi in Inghilterra dopo la revoca dell’editto di Nantes, per motivi religiosi. Egli aveva scritto nel 1711 il «De mensura sortis seu de probabilitate eventum in ludis
a casu fortuito penentibus», nelle Philosophical Transactions, London, XXV. Due anni dopo la
sua morte, nel 1754, furono pubblicati assieme alla rielaborazione del precedente scritto,
The Doctrine of Chances or a Method of Calculating the Probabilities of Events in Play, London, 1717
(17382) e al Treatise of Annuities on Lives. A questo fecero riferimento Gaeta e Fontana.
Non appaia superfluo né pedante riprendere qui la loro bibliografia: ciò serve a formarci un’idea tanto del legami e del riferimenti culturali del due autori, quanto del sentieri di comunicazione europea da loro aperti nel nostro paese. Tale «storia bibliografica del soggetto»
(essi asseriscono che i volumi sono da loro stati «per la massima parte veduti e consultati») è
qui sistemata in appendice alla bibliografia di fine capitolo, lasciandola nella forma da loro
stessi organizzata (utilizzando solo i rimandi alla bibliografia principale nei pochi casi di volumi presenti in entrambe le liste).
32
Enzo Lombardo
Vari e disseminati nella penisola furono i centri in cui si svilupparono studi di aritmetica politica. In particolare, come ricorda Levi (1974),
negli stati sabaudi l’interesse per la demografia nacque all’inizio del Settecento, crebbe per un cinquantennio e poi declinò nella seconda metà
del secolo a causa della sordità dello stato nei confronti delle rilevazioni
demografiche. Tale disinteresse portò i singoli studiosi, come ad esempio Balbo e Morozzo, il cui lavoro fu raccolto e pubblicato da Bonino
(1829), a perseguire l’analisi di particolari fenomeni, operando rilevazioni private, nel tentativo di attirare l’attenzione sull’importanza dello
studio scientifico e quantitativamente documentato della popolazione.
Vennero così presi in considerazione gli aspetti dell’elevatissima mortalità fra le truppe e l’individuazione delle cause e del provvedimenti da
assumere per contrarla; i provvedimenti per migliorare e rendere più efficienti gli ospedali e per ridurre il numero del mendicanti e impiegarli
nella vita produttiva, fino a gettare le basi per la costruzione delle tavole di mortalità (che non furono però messe a punto) da usare in tontine
che potessero aiutare — come era avvenuto in altri stati europei — le esauste
finanze dello stato.
A Firenze, in relazione continuativa con gli aritmetici politici europei, operò Marco Lastrí (1775; su di lui si veda Poli e Graglia, 1978),
che propose la stesura di una tabella descrittiva dello stato attuale del
popolo, che avrebbe permesso di individuare il numero delle case sia
abitate sia vuote, delle famiglie e degli abitanti, compresi gli impuberi
e gli adulti, distinti per sesso, cattolici regolari e secolari, ebrei ed eterodossi, e soprattutto mise «in carte» le sue ricerche sulla popolazione
fiorentina per un periodo di oltre trecento anni. Nel Veneto furono attivi sia i già citati Gaeta e Fontana, sia Zeviani e Toaldo, di cui ci occuperemo in seguito, nonché Ortes (1790) e Conti (1839). In Lombardia
troviamo Gioja, Romagnosi e C attaneo (1839) e soprattutto la rivista
Annali universali di viaggi, geografia, storia, economia pubblica e statistica
(1824-70), che molto contribuì alla diffusione delle idee e delle informazioni sulla popolazione.
Nel Meridione incontriamo de Samuele Cagnazzi, impiegato sia nella
ricerca sia nella didattica a Napoli e in Puglia (su di lui si vedano Carano
Donvito, 1928; 1938; Lombardo, 1989a) e Ferrara in Sicilia ove — a
Palermo nel 1836 — prese avvio il Giornale di statistica compilato dagli
impiegati nella direzione centrale della statistica di Sicilia.
Se vogliamo individuare un clinamen degli studi di aritmetica politica nel nostro paese, e per quanto tali periodizzazioni — più frutto di necessità semplificatrice a scala globale che strumento di approfondimento locale — possano tornare utili, dobbiamo coglierlo nella pubblicazio-
Evoluzione diacronica della demografia
33
ne del saggio sulla popolazione di Malthus (1798). Da questo punto di
vista ben ha ragione Costanzo (1957) nel rilevare che il lavoro di Malthus «chiude un’epoca e ne apre un’altra per lungo tempo dominata e
suggestionata dalla sua personalità e dall’opera sua, alla quale quasi tutti
coloro che dopo di lui hanno trattato l’argomento si sono riferiti per
approvarla o per combatterla». Tuttavia, già a stemperare questo riferimento, egli stesso richiama uno scritto di Ludovico Ricci che dieci anni
prima di Malthus prendeva posizione contro la «legge del poveri ». Si
ricorda inoltre l’opera di estremo interesse del sacerdote camaldolese
Giammaria Ortes (1790, ma composta nel 1775), sul principio di dipendenza della popolazione dalle sussistenze, principio che sarebbe stato
riconosciuto da Marx in aperta polemica con Malthus: sulle difficoltà
di una comparazione e di una spuria omologazione in vista di asserire
la priorità di Ortes, rinviamo a Uggè (1928).
Nel nostro paese, tuttavia, la transizione dal prima al dopo Malthus
non fu immediata nonostante l’opera fosse stata conosciuta abbastanza
preso, tanto che de Samuele Cagnazzi (1820), nell’aprile del 1819, aveva
letto alla Regia Accademia delle Scienze la memoria Sul periodico aumento
delle popolazioni (inclusa poi come incipit nel volume del 1820) in cui
criticava per la prima volta le tesi malthusiane, pur in un generale
riconoscimento del pregio e del valore dell’opera (Lombardo, 1989a).
La discussione sul saggio rnalthusiano, tradotto relativamente tardi in
italiano (1868), si protrasse per molti decenni coinvolgendo studiosi come
Messedaglia, Romagnosi, Ferrara e molti altri; ottime sillogi si devono a
Isemburg (1977) e a Fanfani (1934).
Vale la pena accennare, seppur brevemente, alla tesi di fondo di Malthus, che scriveva in un momento in cui la produzione agricola nazionale
era sempre più divenuta la base fondamentale dell’alimentazione umana;
egli constatava che le possibilità date a una popolazione di accrescersi
non sono assolute ma risultano commisurate alle possibilità del suolo
disponibile e messo a coltura di fornire mezzi di sussistenza per gli
abitanti; il gioco scambievole del freni repressivi (fame, epidemie, guerre)
opposti alla forza moltiplicatrice «naturale» della popolazione, e del
freni preventivi (ritardo o rifiuto come scelta cosciente e volontaria del
matrimonio) — ovvero, «tra comportamento incosciente e comportamento
virtuoso» come efficacemente sintetizza Livi Bacci (1987) — condiziona lo sviluppo della popolazione stessa.
In definitiva, merito di Malthus è di aver precisato, non unico autore
in questo compito, il quadro di riferimento del legami che in un sistema di
feedback pongono in mutua relazione numero di abitanti e risorse
economico-alimentari, e di aver arricchito e dato parziale sistemazione
34
Enzo Lombardo
— in verità nelle edizioni successive alla prima anonima e per parare i
colpi che gli venivano dai suoi oppositori — alla documentazione statistica e antropologica sul tema.
3. Due importanti strumenti di analisi: le tavole di mortalità e le rappresentazioni
grafiche
Verso la metà del Seicento, per opera di Graunt, venne pubblicata in
Inghilterra la prima tavola di mortalità di tipo moderno; successivamente
l’astronomo Halley, i fratelli Huygens e de Witt e Hudde (in Olanda)
contribuirono in vario modo all’aggiustamento e perfezionamento di
questo importante strumento demografico. Tuttavia solo nel secolo successivo si ebbe in tutta Europa una vera e propria fioritura di lavori e di
scritti sull’argomento e nacque la controversia fra Daniel Bernoulli e Jean
le Ronde d’Alembert, che metteva in campo due concezioni dell’analisi
della mortalità per il vaiolo, ovvero per la misura degli eventuali vantaggi
derivanti dall’inoculazione antivaiolosa.
Le motivazioni che muovevano gli autori a occuparsi del problema
della mortalità umana sono rintracciabili sia nel campo «pratico» della valutazione della durata della vita al fine di registrare e regolare nel miglior
modo possibile i premi per le assicurazioni sulla vita, che si erano notevolmente diffuse soprattutto negli stati dell’Europa settentrionale, sia nel
campo di una conoscenza più diffusa e più consapevole tesa al buon governo dello stato, o almeno a una più approfondita conoscenza del suoi
meccanismi di sviluppo.
Nel nostro paese l’interesse per questi aspetti dell’analisi demografica
tardò un poco a manifestarsi; comunque fra la metà del Settecento e i
primi anni dell’Ottocento Zeviani (medico a Verona), Toaldo (canonico
veneto nonché astronomo e matematico nell’università di Padova) e de
Samuele Cagnazzi (professore di statistica ed economia nell’università di
Napoli e consigliere del governo per le questioni di economia politica)
diedero alle stampe il risultato del loro studi sull’argomento, cui si aggiunse l’opera di Gaeta e Fontana dianzi ricordata, notevole per l’importanza della diffusione delle idee e per l’influente opera di collegamento
fra gli aritmetici politici del nostro paese e quelli europei.
A partire dagli scritti e dalle osservazioni di questi e di pochi altri autori attivi nel nostro paese, diviene evidente la necessità di avere a disposizione dati sufficientemente accurati — come già aveva messo in luce
Eulero (Sulla mortalità e la moltiplicazione del Genere Umano) — oltre che una
riflessione approfondita, legata alla qualità e alla specificità informativa
del dati, sui metodi di costruzione e sulle loro basi logiche.
Evoluzione diacronica della demografia
35
Il lavoro di affinamento delle ricerche in Italia si protrasse per buona
parte dell’Ottocento e ancora neI 1875, dopo i contributi di Pertile,
Prampero e altri, l’unica valutazione possibile della sopravvivenza era
affidata a una tavola di tipo halleyano, costruita da Rameri; d’altra parte
le difficoltà per la realizzazione di tali costruzioni erano radicate nella
stessa società italiana, nella sua organizzazione politica e nel larghissimo
analfabetismo diffuso in tutto il paese con punte particolarmente alte nel
Meridione (Badie, 1877).
L’impegno della Direzione generale della statistica per superare le
varie difficoltà fu notevole e si diresse sia verso gli aspetti teorici e di
comparazione con quanto veniva elaborato in Europa — in particolare
gli studi di Lexis in Germania — ad esempio con il lavoro di Armenate
(1876), sia verso quelli relativi al miglioramento del dati raccolti. L’esito
di tale impresa fu la pubblicazione nel 1887 di una nuova e più solida
tavola di mortalità per la popolazione italiana, ancorata alla mortalità
colta nel periodo 1876-87 e alla popolazione censita al 31 dicembre 1881;
negli anni successivi vennero elaborate e pubblicate nuove tavole di mortalità nel 1901 e per il periodo 1901-12 a opera di Bagni (1919). Inoltre
Mortara (1914) si applicò allo studio della mortalità secondo varie cause
di morte e alla costruzione della relativa tavola di eliminazione per causa
«che segnasse la probabilità di morte di quelle cause che sono intimamente
connesse all’esercizio di un dato lavoro». Lo studio e gli indirizzi conoscitivi
di Mortara (1925) furono di grande importanza per l’idea che ne era alla
base e che avrebbe meglio fatto conoscere le condizioni del lavoratori
italiani, indicando un percorso di lavoro che, verosimilmente, i successivi
eventi bellici interruppero e che in Italia non ha ancora avuto
realizzazione pratica nonostante molte nazioni europee abbiano
accumulato una notevole massa di studi sugli aspetti differenziali della
mortalità per condizione sociale e professionale.
Successivamente un ampio lavoro di risistemazione delle tavole di
mortalità sino allora costruite e l’aggiornamento per gli anni più recenti
fu compiuto da Gini e Galvani (1931); quel loro impegnativo e importante lavoro rese comparabili, unificandone almeno i criteri di costruzione, le varie tavole sino ad allora pubblicate e inoltre prese in considerazione anche la dimensione territoriale del fenomeno studiando le manifestazioni della mortalità neI nord, nel centro e nel sud del paese; nelle
loro analisi introdussero anche alcuni interessanti espedienti grafici per
la rappresentazione delle caratteristiche della mortalità sul territorio,
mediante un particolare cartogramma.
Da questa breve panoramica (si vedano al riguardo gli scritti di Boldrini e di Lombardo) emerge che nella seconda metà dell’Ottocento l’in-
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Enzo Lombardo
teresse e i progressi nello studio della mortalità furono notevoli e i collegamenti internazionali fitti e importanti. Il duplice interesse per questo genere di analisi — sul piano demografico e su quello assicurativo —
doveva chiarirsi in modo sempre più netto, sino a dar luogo a una vera
e propria bipartizione del campo di applicazioni e di stúdio a partire dai
primi decenni del Novecento. Tale distinzione doveva radicarsi non solo nell’attività teorica e pratica del demografi e degli attuaci, ma anche
manifestarsi in insegnamenti universitari completamente separati.
Il problema stesso dello studio della sopravvivenza aveva dato luogo, proprio al suo sorgere, a una interessantissima rappresentazione grafica
di due particolari aspetti di sintesi biometrica della mortalità. Fu dunque Christiaan Huygens (1669; si veda Lombardo, 1986) che a partire
dai «dati» di Graunt costruì la prima raffigurazione della funzione di
sopravvivenza. Per lunghissimo tempo lo strumento escogitato da Huygens rimase sepolto fra le sue carte e perché vi fosse una ripresa per i
metodi grafici in demografia si dovette attendere l’inizio dell’Ottocento, quando Fourier (1821) se ne servì ampiamente per illustrare un suo
studio sulla popolazione di Parigi; per una periodizzazione di questi interventi si veda Caselli e Lombardo (1990).
In Italia, sempre sulla base di contributi tesi alla razionalizzazione
della costruzione delle tavole di mortalità, Perozzo (1880; 1883) presentò alcune sue elaborazioni originali che tuttavia, in alcuni casi, proprio per la loro complessità interpretativa, non trovarono seguito. Ben
conosciuta anche all’estero invece fu la sua rappresentazione stereogrammativa, cioè tridimensionale, prospettica della popolazione della Svezia
secondo il tempo (anni dal 1750 al 1875), l’età e il numero di individui
presenti. Se si fa eccezione per l’attenzione che Gini (1914), Gini e Galvani (1931) e, in vari scritti, Benini e Mortara dedicarono costantemente a partire dai primi decenni del Novecento al tema delle rappresentazioni grafiche, non si ebbero per lungo tempo applicazioni significative
alla demografia.
4. La statistica si organizza nel Regno unitario: la produzione statisticodemografica dopo il 1861 e i progressi nei censimenti della popolazione
Se i primi quarant’anni dell’Ottocento possono riguardarsi — salvo
l’eccezione, pur importante, costituita da isolati studiosi come Gioi, de
Samuele Cagnazzi e Zuccagni Orlandini — come periodo di stasi per gli
studi demografici e statistici in Italia, con l’abbandono quasi totale delle pratiche amministrative tese alla raccolta sistematica di documenta-
Evoluzione diacronica della demografia
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zione e persino con la carenza e la diffidenza a pubblicare le notizie attinenti la popolazione, subito dopo iniziò una serie di attività che avrebbero portato all’organizzazione statistica dello stato unitario. Organizzazione che fu sancita con il R.D. 9-10-1861, n. 294 e che veniva allogata, con una «Divisione di statistica generale» che assunse subito la
denominazione di «Direzione della statistica generale», presso il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Inoltre la Direzione veniva assistita da una «Giunta consultiva di statistica» con compiti di indirizzo e di analisi dell’attività statistica e quindi anche demografica dello
stato unitario. Il nuovo organismo del nascente stato naturalmente sostituiva, inglobandoli, i preesistenti uffici statistici di Napoli, Palermo,
Firenze, Modena e Parma. L’organizzazione statistica rimase sostanzialmente immutata sino al 1926, quando fu costituito dal governo fascista
l’Istituto Centrale di Statistica (Istat).
Pietro Maestri, primo direttore dell’Ufficio italiano di statistica, seppe
sfruttare abilmente le competenze statistiche preesistenti all’unificazione nelle varie sedi, per inserirle sinergicamente nel nuovo organismo;
organizzò il primo censimento unitario (al 31 dicembre 1861), lo portò
a compimento, ne elaborò e pubblicò i risultati. Per sua formazione —
era medico con fortissimi interessi per la statistica demografica — Maestri tendeva a dar rilievo alle indagini sulla popolazione, indicando un
indirizzo che rimase costante anche neí decenni successivi quando altri
studiosi, come Bodio, Messedaglia e Correnti, gli subentrarono nella direzione della statistica italiana.
Nelle pubblicazioni di quel periodo si può leggere sia l’interesse per
i temi demografici, che assumevano un peso non indifferente rispetto
alla complessiva attività statistica nazionale, sia la testimonianza di un
lavoro effettuale per superare difficoltà e ritardi accumulati dai precedenti Uffici di statistica operanti negli stati preunitari. II primo numero
dell’Annuario statistico italiano uscì nel 1878 riportando anche informazioni numeriche corredate da estesi commenti relativi alla popolazione;
negli anni successivi ne fu regolarizzata la pubblicazione rendendola
annuale e ne fu arricchito il contenuto: ad esempio, nel 1911 furono
per la prima volta inseriti nell’Annuario cartogrammi per province e regioni. Sin dal 1863 iniziò la pubblicazione di Dizionari del comuni del regno, che contenevano tavole sinottiche delle circoscrizioni amministrativa, elettorale, giudiziaria ed ecclesiastica con l’indicazione della popolazione rilevata con i vari censimenti. Il movimento della popolazione
venne reso noto sin dal 1864 con i volumi periodici della Popolazione.
Movimento dello stato civile, con arricchimenti e puntualizzazioni che si
aggiunsero nel corso del tempo, in particolare nel 1900. I dati della
38
Enzo Lombardo
Statistica delle cause di morte furono pubblicati a partire dal 1882, mentre
quelli sulle migrazioni (Statistiche dell’emigrazione all’estero) iniziarono a
essere pubblicati nel 1877 e in seguito vennero perfezionati e ampliati. Si
cita poi la grande e importante Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie
del Comuni del Regno (1886) che rappresentò, sia per l’ampiezza della
materia trattata sia per il dettaglio territoriale che prevedeva la raccolta
di svariate notizie per i singoli comuni, un’acquisizione che fornì una
vivida rappresentazione delle condizioni economiche e sanitarie del
nostro paese; si tratta di un’indagine a cui il tempo non ha tolto
vivacità e immediatezza di immagini e che rappresenta un’utile lettura
anche oggi4.
Quételet (1828), i cui scritti e le cui idee erano ben conosciute dagli
statistici e dai demografi italiani, aveva raccomandato che i censimenti,
ben eseguiti secondo un piano uniforme e mantenuto tale nel volger del
tempo, a cadenza sufficientemente regolare e ravvicinata, dovessero essere tali da cogliere nel modo più preciso possibile lo stato fisico e morale di un popolo, il grado della sua forza e della sua prosperità, ed enucleare le eventuali tendenze che potessero compromettere il suo sviluppo e il suo avvenire. Se pure nel passato i primi censimenti della popolazione erano stati organizzati in Italia, antesignana di tali rilevazioni, sull’onda delle raccomandazioni del congressi internazionali di statistica
e cogliendo l’esempio delle nazioni più progredite statisticamente (Belgio, paesi scandinavi, Inghilterra, Germania, Francia e Stati Uniti), anche nello stato unitario italiano vennero organizzati censimenti generali
della popolazione di tipo moderno.
Ma quale era stata la molla che aveva sollecitato in Italia, come anche negli altri stati, il passaggio all’organizzazione del censimento inteso
secondo i moderni canoni? Questa transizione e il riconoscimento dell’importanza nella vita nazionale del censimenti, come l’aveva indicata Quételet, derivarono in larga misura dalla creazione degli stati nazionali e
dall’irrobustirsi delle amministrazioni centrali e periferiche. Tuttavia,
seguendo anche la corrente scientifica positivista imperante alla metà
dell’Ottocento, la documentazione statistica veniva vista come un’istituzione sociale e ci si preoccupava di organizzare al meglio la raccolta
e la divulgazione del dati nell’esplicito convincimento che il semplice
accumulo e la mera conoscenza numerica del fenomeni che si manifestano all’interno della popolazione, trovassero in se stessi la propria giusti4 Non è qui possibile dar conto dettagliatamente di tutta l’attività statistica resa palese dalle pubblicazioni. Si rimanda al volume Istat Dal censimento... (s. d.) oppure agli Annali
di statistica.
Evoluzione diacronica della demografia
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ficazione. I censimenti erano stati concepiti allo stesso tempo come un
arnese scientifico e come un mezzo di controllo della popolazione e di
affermazione della potenza dello stato. Si può anche rilevare che allora
ci si interrogava meno sui fini delle rilevazioni statistiche che non sulla
pratica delle stesse, ma ciò trova giustificazione nelle forti difficoltà cui
si andava incontro nella normalizzazione e generalizzazione di tali pratiche. Allo stesso momento una funzione che per lunghissimo tempo era
stata prerogativa della Chiesa passa alle organizzazioni statali: anche attraverso questo dislocamento di funzioni si delimitavano i campi di influenza delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche e si ribadiva l’interesse
dello stato per un controllo più accentuato e spinto in profondità suí
costituenti la propria base vitale.
Il primo censimento nazionale d’Italia, i cui dati iniziali corredati da
un ampio commento videro la luce nel marzo del 1864, si avvalse sia
dell’esperienza delle precedenti rilevazioni (come il censimento della
Lombardia e del Regno Sardo del 1857), sia delle pratiche già consolidate in altri stati europei. Il censo fu organizzato per «fogli di famiglia»,
detti schede nominative, che prevedevano la rilevazione di più caratteri in
modo individuale per ciascun componente (anche temporaneo) del nucleo
famigliare, di modo che la parte riepilogativa dell’operazione censuaria
risultò essere:
1) nella prima parte venne dato il numero di case, di famiglie e di
abitanti per comune del regno, distinguendo l’aggregazione comunale
in centri, casali e case sparse; inoltre la popolazione veniva divisa per sesso
e stato civile; vennero poi forniti i ragguagli fra popolazione e superfici
(densità ecumenica) per comune;
2) nella seconda parte si distinse la popolazione per età, sesso, stato civile e istruzione;
3) nella terza parte si diede conto degli abitanti suddivisi per professione, età, sesso e relazioni domestiche;
4) nella quarta parte si considerarono gli abitanti a seconda della loro
origine, mentre nella quinta si registrarono le migrazioni periodiche;
5) nella sesta, infine, la popolazione venne classificata per sesso, lingua, religione e infermità (cecità e sistema di fonazione).
Citiamo un solo dato a testimonianza dell’immane difficoltà in cui
dovette svolgersi il censimento e che sarebbe stata superata negli anni
molto lentamente: soltanto il 13% delle donne e il 28% degli uomini
di età superiore ai cinque anni era in grado di leggere e scrivere!
Non bisogna dimenticare, infine, il ruolo svolto dai Congressi internazionali di statistica — se ne tennero nove dal 1853 al 1876 tra cui quello
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Enzo Lombardo
del 1867 a Firenze —, in cui le questioni concernenti la formazione delle
statistiche, di quelle demografiche in particolare, e la conduzione del
censimenti furono ampiamente discusse anche sotto l’impulso e secondo la diretta ispirazione di Quételet.
5. Mutamenti nell’insegnamento della statistica come sintomi del progressi
della demografia
Nel 1806 de Samuele Cagnazzi assunse l’incarico governativo di docente di economia politica all’università di Napoli ma, prendendo le distanze dalla definizione ufficiale della disciplina, mise subito in atto la personale idea di separare la statistica dall’economia, almeno a livello didattico; fu quello il primo corso universitario nel nostro paese in cui apparve l’insegnamento di statistica e, in modo esplicito nella sostanza se non
nella titolazione accademica, della demografia. Infatti, come si desume dal
manuale pubblicato nel 1808, de Samuele Cagnazzi pone al centro del suo
insegnamento lo studio della popolazione: né, d’altra parte, poteva andar
diversamente poiché le indicazioni numeriche, i correlati empirici, maggiormente disponibili — forse sarebbe più esatto dire gli unici di qualche
ampiezza — a sua disposizione concernevano proprio la popolazione.
Come ci rammenta M. G. Ottaviani (1989), nello stesso torno di tempo apparvero a Pavia e a Padova insegnamenti consimili a quello di Napoli e solo molto più tardi, nel 1859, nell’ordinamento universitario del
Regno di Sardegna, introdotto dalla legge Casati, fu presente un insegnamento di «statistica e geografia » impartito nelle Facoltà di filosofia
e lettere a Torino.
La prima metà dell’Ottocento costituisce forse il periodo meno fecondo della scienza italiana e si instaura così una fase difficile anche per
gli studi di statistica e, correlativamente, per quelli di demografia; questa fase si protrae ben oltre l’Unità: solo dal 1885 la statistica divenne
insegnamento obbligatorio per conseguire la laurea in giurisprudenza e
lo rimase sino al 1923. Parallelamente il sistema di istruzione superiore
si arricchisce di un altro organismo di formazione, le Scuole superiori
di commercio (la prima a Venezia nel 1868, ma già nel 1923 se ne annoveravano nove) che, a seguito della legge Gentile di riassetto della pubblica istruzione, dovevano tramutarsi nelle attuali Facoltà di Economia
e Commercio. Questi altri organismi di istruzione superiore costituirono — proprio per la specificità degli argomenti che erano chiamati a trattare — un importante veicolo di diffusione della statistica e, contestualmente, della demografia.
Evoluzione diacronica della demografia
41
Come abbiamo già notato, le questioni di studio delle popolazioni, quale che sia la loro estensione disciplinare, vengono presentate per un lungo periodo all’interno degli insegnamenti di statistica; sole eccezioni – verosimilmente dovute alla circostanza di non dipendere dal Ministero della
Pubblica istruzione – si rinvengono a Firenze ove nell’Istituto di scienze sociali Cesare Alfieri, a partire dai primi del 1880, viene impartito un
programma completo di demografia, come ci ricorda Virgilii (1891), accanto a un insegnamento di principi di statistica e all’inizio del nuovo secolo, all’Università commerciale L. Bocconi, dove trova posto un insegnamento di statistica demografica ed economica, secondo uno schema di organizzazione dell’insegnamento simile a quello dell’istituto fiorentino.
Si ricorda che l’ultimo scorcio dell’Ottocento vede non solo qualche titubanza e incertezza nell’accoglimento del termine demografia, coniato e proposto
in Francia alla metà del secolo, per designare l’insieme di tecniche e di teoria
con cui osservare gli accadimenti che si verificano in seno agli aggregati umani
(alcuni propendono per il termine demologia, teorizzando talvolta anche possibili
distinzioni di argomenti da far rientrare sotto il dominio dell’uno o dell’altro
termine), ma anche discussioni dottrinarie alle volte aspre tanto da far nascere il
sospetto che il contendere fosse altrove (si veda Nobile, 1989). La delimitazione del campo di studio appare più come una ricerca di status della disciplina
e, forse, di autonomia dalla statistica, che non come esigenza legata a concreti
problemi di analisi e di specificità degli argomenti da trattare, ché ancora
troppo elevata risultava l’area di sovrapposizione – almeno nel nostro paese – e
i legami del fenomeni analizzati con la statistica nell’ultimo scorcio dell’Ottocento. Tuttavia questa ricerca di autonomia può anche trovar ragionevole
giustificazione nella ristrettezza di tempo in cui un solo corso di statistica
costringe l’insegnamento e, se guardiamo agli statuti della Bocconi e dell’Alfieri,
dianzi richiamati, riceviamo un’ulteriore conferma a tale motivazione. Per
quanto concerne l’organizzazione generale del contenuti della materia
insegnata v’è sufficiente accordo fra i vari autori pur con ampliamenti e
sottodimensionamenti specifici nella trattazione, relativi alle scelte del singoli
autori5. Ancora una volta possiamo far riferimento all’Arte statistica di de
Samuele Cagnazzi per cercare di cogliere quella che doveva essere l’organizzazione teorica trasfusa nella pratica didattica dello scorso secolo e nei
primissimi anni del successivo: egli dedica l’incipit del secondo volume proprio
5 Possiamo qui rammentare, oltre al testo di Benini (1901), anche alcune altre opere che
ebbero rilievo nel panorama nazionale nel periodo a cavallo del 1900: Mayr e Salvioni (1879;
18862); Majorana Calatabiano (1891); Messedaglia (1890); Colajanni (1904); Contento (1909).
42
Enzo Lombardo
all’analisi della popolazione e specificamente, seguendo la cadenza da
lui imposta, agli argomenti che seguono:
Capitolo I — Stato della Popolazione: 1. Sua formazione; 2. Numero
degli abitanti; 3. Classificazioni.
Capitolo II — Stato d’incremento e decremento delle Popolazioni: 1. Viste
generali; 2. Matrimoni; 3. Nascite; 4. Morti.
Capitolo III — Durata della vita: 1. Formazione delle tavole di probabilità; 2. Uso delle dette tavole di probabilità.
De Samuele Cagnazzi introduce inoltre, almeno come indicazione di
studio e della necessità di raccogliere documentazione statistico-numerica,
altri elementi di gran rilievo come l’analisi antropologica, in senso fisico,
degli uomini, la descrizione quantitativa delle abitazioni e Io studio delle
condizioni sanitarie della popolazione sino a giungere a una specifica parte
dedicata alle cause di spopolamento di un territorio fra le quali annovera le
crisi di mortalità, la diffusa ed esorbitante mendicità, la pratica del celibato,
la sterilità del matrimoni e «la poca vigilanza per le pregnanti e fanciulli» (in
termini moderni, la mortalità infantile); l’autore non esclude dall’ambito
degli interessi di studio osservazioni sull’educazione pubblica, ovvero
sull’istruzione degli abitanti delle nazioni, che egli vedeva come uno degli
elementi propulsori, se non il principale, del benessere nazionale, e alla cui
realizzazione e ampliamento e miglioramento si era interessato nel regno di
Napoli sia con studi teorici di pedagogia sia come consigliere del governo.
Questa impostazione, che trovava peraltro le sue radici nell’aritmetica politica sviluppatasi in Europa, da de Samuele Cagnazzi ben conosciuta per tramite del suoi autori di maggior rilievo, oltre che nell’attività
scientifica svolta nel suo soggiorno fiorentino, esercita forte influenza
sui successivi autori con gli opportuni aggiustamenti e aggiornamenti
dovuti anche, se non forse soprattutto, ai progressi notevolissimi avutisi
nelle rilevazioni del vari fenomeni. Nel 1877 Messedaglia (1886) introduce, mutuandoli dal linguaggio della fisica, i termini di statica e dinamica
delle popolazioni, di chiaro significato e in uso ancor oggi, mentre nel
campo degli aspetti sociali della demografia illustra la necessità di considerare i flussi migratori. Al volger del secolo poi, come abbiamo dianzi
rammentato, Benigni, dando sistemazione alla materia per fini didattici,
pubblica i suoi Principii la cui organizzazione può darci un altro punto di
riferimento per cogliere lo stato dell’arte nel momento. Egli riconosce
come «più razionale e didatticamente più opportuna» la suddivisione
degli argomenti demografici intorno a due poli costituiti dalla teoria
qualitativa e dalla teoria quantitativa della popolazione. La prima considera il demos — egli specificava — «l’aggregato sociale nelle sue va-
Evoluzione diacronica della demografia
43
rie forme di coesione, come una risultante delle qualità, doti o attitudini
fisico-psichiche degli individui, che lo compongono, e insieme come una
causa modificatrice..., onde si elaborano poi nuove foggie di aggruppamenti.
La seconda studia la popolazione nelle sue condizioni di continuità e di accrescimento, massime nel contrasto che può sorgere tra la moltiplicazione
degli individui e la limitata grandezza e feracità del suolo che li deve nutrire. Coesione e continuità sono appunto i fatti salienti delle società umane, intorno ai quali si esercita con diverso intento l’indagine del sociologi e del demografi».
Lasciando trascorrere un quarto di secolo, possiamo scegliere il quadro sinottico delineato da Niceforo (1924) per cogliere — certo sacrificando molte distinzioni che pur sarebbero necessarie a una visione più
fine del problemi disciplinarmente accolti e delle posizioni — quella che
sarà la tendenza nell’insegnamento e nella manualistica per gli anni futuri, a cui pur con profonde novità si ispireranno i due trattati pubblicati
subito dopo la seconda guerra mondiale ma organizzati e concepiti, nella
loro prima forma, avanti tale data: quelli di Boldrini (1956) e di Federici
(1956). Ecco dunque il progetto del Niceforo con le sue quattro
partiture in categorie, a loro volta specificate dalle sottocategorie:
a) Stato della popolazione: 1. numero degli abitanti (assoluto, relativo al
territorio o densità); 2. numero del comuni e delle altre ripartizioni amministrative, numero delle abitazioni (distribuzione nei comuni e degli
abitanti); 3. popolazione agglomerata e sparsa, rurale e urbana.
b) Composizione della popolazione per: 1. caratteri fisici e razza; 2. religione, lingua, nazionalità, luogo di origine, sesso, età; 3. stato civile, numero delle famiglie; 4. moralità e delinquenza; 5. professione, cultura, ricchezza, classi sociali, grado di civiltà.
c) Movimento della popolazione, A): 1. nuzialità, natalità, mortalità (biometria, morbilità, cause di morte); 2. emigrazione e immigrazione, migrazioni interne (continue e stagionali).
d) Movimento della popolazione, B): 1. movimento di circolazione e rotazione (all’interno della classe, da classe a classe sociale).
e) Teoria della popolazione: 1. studio statistico delle leggi, o regolarità,
d’ordine generale che governano la struttura e la vita della popolazione.
6. Verso una fioritura degli studi demografici: i primi quarant’anni del nostro
secolo
Dal periodo che va dall’inizio del nostro secolo sino alla seconda guerra
mondiale il dibattito scientifico e la definizione di linee di ricerca in campo
demografico, ma potremmo asserire, più in generale, in campo statisti-
44
Enzo Lombardo
co (Pietra, 1939), risultano talmente ricche che non sí riesce a fissare
il contributo di ogni singolo studioso se non all’interno di grandi linee
di orientamento della ricerca scientifica. D’altra parte questa fioritura
di studi e di proposte di ricerca che era iniziata già dal 1870 e che perviene a completa maturazione nel corso del primi decenni del Novecento, non può non ascriversi — come mette in luce Fortunati (1939) e come abbiamo già più volte sottolineato — alla grande copia di dati e di
elementi di conoscenza acquisiti all’elaborazione in maniera crescente
nel volger del tempo.
All’ingresso del nuovo secolo un grande affresco del principali progressi
demografici, dalla costituzione dello stato unitario sino al primo decennio del nostro secolo, lo dobbiamo a Benini (1911) e, per quanto riguarda
il dirompente fenomeno delle emigrazioni dal nostro paese, a Coletti
(1911). L’occasione di un tal lavoro, che si estese a molti rami della scienza, si rinviene nell’esigenza manifestata dal governo Giolitti, nel 1909,
di misurare e documentare i molti progressi compiuti in vari rami della
nostra organizzazione sociale e scientifica nel corso del tempo; a tale compito attesero numerosi studiosi coordinati dal presidente dell’Accademia
del Lincei.
Benini, dunque, mise in luce e tentò un raccordo tra i fatti demografici dell’Italia preunitaria con quella postunitaria, ma soprattutto e in special modo per quanto qui ci interessa, si soffermò nella descrizione del
principali accadimenti colti con gli ultimi quattro censimenti (1861, 1871,
1881 e 1901): la struttura per sesso e stato civile della popolazione; i mutamenti nelle professioni; i vistosi miglioramenti nel campo dell’istruzione
che pur rimaneva un punto di lacerazione sociale per gli alti tassi di analfabetismo che ancora all’inizio del secolo XX nel sud sfioravano i tre quarti della popolazione; le condizioni di particolari nuclei linguistici presenti
nel paese; la dislocazione degli stessi, sia a seconda delle origini degli abitanti, cogliendo così — almeno in parte — gli effetti lasciati dalle migrazioni interne verificatesi in passato; le religioni praticate. La sua analisi
si estese eriche al movimento naturale della popolazione (nascite, matrimoni, morti) e alla considerazione analitica di alcuni anni che si erano mostrati peculiari per qualche fenomeno demografico specifico come, ad
esempio, il 1908 «che lasciò, col terremoto del 28 dicembre, nelle provincie funestate una eredità con molto passivo». Oltre ad alcuni aspetti
metodologici dello studio demografico, peraltro già presenti nel suo manuale (Benini, 1901), troviamo la segnalazione della scarsità delle pubblicazioni statistiche, che «non permette se non risultati modesti comparativamente agli sforzi necessari».
Evoluzione diacronica della demografia
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Come abbiamo rammentato nel paragrafo precedente, l’insegnamento
universitario della disciplina costituiva occasione per pubblicare il risultato delle personali ricerche e per diffondere le conoscenze e i differenti
punti di vista sostenuti dai diversi autori. Tuttavia un momento molto
importante per cogliere quanto era venuto concretandosi sia sul piano
delle linee teoriche sia sul piano effettuale dell’impegno di ricerca, lo
rinveniamo nel Congresso internazionale per gli studi della popolazione
(Roma, 7-10 settembre 1931), che raccolse numerose comunicazioni straniere, consentì il confronto dell’attività del demografi italiani e, in particolare, costituì l’occasione per la presentazione di molti studi che venivano condotti dal Comitato italiano per Io studio del problemi della
popolazione fondato e presieduto da C. Gini, originariamente costituitosi come membro della International Union for the Scientific Investigation of Population Problems (si veda Leti e Gastaldi, 1989). Secondo
quanto ricorda lo stesso Gini (1934), che introdusse i lavori e presiedette
il congresso, e considerando la vastità del settori abbracciati dalle relazioni
presentate, specificamente dagli italiani, si trae l’impressione da un lato
di essere in presenza di un grande processo di integrazione fra la
demografia e le altre scienze che con essa si trovano a studiare — seppur
da angoli visuali e con differenti accentuazioni — fenomeni similari,
dall’altro di un lavoro imponente di analisi empirica, nei dati e sui dati.
Per avere un’idea, seppur molto approssimativa e frettolosa, della
vastità di interrelazioni scientifiche che, nel nostro paese, collegavano
e fecondavano gli studi demografici, ricordiamo che al congresso gli ambiti
disciplinari in cui furono presentati contributi andavano dalla biologia
ed eugenica alla geografia e all’antropologia; dalla medicina e igiene alla
sociologia e all’economia; erano presenti inoltre studi specifici tesi ad
analizzare aspetti di metodo, come la misura dell’omogamia nelle coppie e della fecondità, oppure la rappresentazione cartografica della densità di popolazione e la determinazione del baricentro della popolazione
insediata su di un dato territorio. Nelle comunicazioni più strettamente
demografiche, che occupano due ponderosi volumi degli atti, vennero
affrontati svariati argomenti: da Livi, Bachi e Somogyi il tema della demografia degli ebrei; da Valenziani la demografia delle popolazioni primitive; da Uggè il futuro della popolazione italiana; da Gini e da Luzzatto Fegiz la periodicità del fenomeni demografici. E ancora altri fenomeni furono oggetto di studio e trovarono occasione per una sistematica esposizione, come l’influenza dell’infanticidio e dell’aborto sullo sviluppo della popolazione (Albertí); i principali fattori interni dell’accrescimento naturale della popolazione e le loro relazioni (Mortara, Gini
e Somogyi); la mortalità differenziale in differenti classi sociali (Castril-
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Enzo Lombardo
li); i celibi e i coniugati nella popolazione nativa e nella popolazione immigrata delle grandi città (Gini); problemi particolari di demografia (De
Castro, Insolera, D’Addario, Antonucci e Nobile) e inoltre aspetti di
demografia storica. Moltissime comunicazioni provenivano dalla collaborazione di enti diversi, il più importante del quali appariva essere l’Istat, da pochi anni costituito.
L’opera di organizzazione culturale e di effettuale coordinamento delle
ricerche di Gini in campo demografico proseguì intensa anche negli anni successivi e durò sino al conflitto mondiale, e l’occasione per un bilancio esteso a tutte le discipline statistiche (Fortunati, 1939; Gini, 1939;
Medolaghi, 1939; Paglino, 1939; Pietra, 1939) — in realtà si trattò di
una rassegna del progressi di tutta la scienza italiana — fu offerta dai
lavori della Società italiana per il progresso delle scienze. In tale occasione Gini individua un filone della «demografia storica» e un altro della «demografia integrale», che viene a essere caratterizzato dall’aver fatto
convergere negli studi della popolazione «non solo le ricerche di pura
statistica, ma — sempre con la scorta del metodo quantitativo — anche
quelle di Biologia, di Antropologia, di Igiene, di Medicina, di Sociologia, di Economia, di Storia... e che trova il suo massimo esponente nel
Comitato italiano per lo studio del problemi della popolazione, costituito e presieduto dallo stesso Gini. Gini ci dà una spiegazione importante da registrare, poiché ai nostri occhi il processo, da lui auspicato
e al quale si era applicato, di integrazione del vari campi del sapere
potrebbe apparire piuttosto come una spontanea tendenza — apparentemente in atto anche oggi — di abbattimento di steccati e di rilasciamento di frontiere, che non un deliberato e fermamente perseguito progetto e forma di pensiero.
Ma accanto alle posizioni di Gini coesistevano altri non meno importanti interessi e itinerari di ricerca per i quali va rilevato, come caratteristica peculiare della demografia italiana, la costante presenza dell’analisi del fattori logici nel contesto degli studi di popolazione. Mortara, che doveva diventare, oramai non più in Italia, presidente della
più importante organizzazione mondiale del demografi (Unione internazionale per lo studio scientifico della popolazione), si era occupato,
a partire dai primi del Novecento, sia di economia sia di demografia e
statistica; i suoi contributi metodologici (soprattutto relativi alle tavole
di mortalità) e le sue analisi circa l’influenza delle condizioni sociali sui
fenomeni demografici avevano assunto un rilievo che solo il brutale allontanamento dall’insegnamento universitario doveva temporaneamente interrompere nel 1938, prima che riprendesse a occuparsi di demografia in Brasile (si veda per una meno cursoria presentazione della sua
Evoluzione diacronica della demografia
47
figura Mortara, 1985). Livi aveva iniziato la sua attività pubblicistica
e di attiva ricerca in demografia sin dal 1914: studiando (Livi, 1937)
le opere di Darwin fu condotto a «meditare sul fondamento naturale del
fatti sociali » e pervenne a una puntuale critica delle teorie dell’organicismo sociologico e ad analizzare le forme associative come permeate e
informate da alcuni caratteri della nostra specie «sicché — egli ebbe a
scrivere — pure apparendomi sempre più manifesta la convenzionale falsità delle teorie che, per amor dell’evoluzionismo biologico, avevano voluto attribuire alle società umane l’essenza di un «organismo animato»
mi confermai nell’opinione che non si poteva, per lo studio delle società
stesse, tagliare ogni collegamento col mondo naturale»; con naturalezza
egli tuttavia non reseca dalla sua analisi l’importanza di altri fattori di
associazione, a rischio — come egli stesso afferma — di un certo dilettantismo e di arrestarsi alla mera formulazione di ipotesi di lavoro nell’affrontare la trattazione organica di problemi che spaziano nel mondo biologico, zoologico, demografico e che attengono alla sfera degli studi antropologici, storici e giuridici. Questa importante silloge del suoi studi
fu completata in un successivo volume apparso tre anni più tardi, teso
all’esposizione del principali aspetti e regolarità caratterizzanti gli aggregati umani (si veda anche Livi Bacci, 1974, per una completa analisi
della sua opera). Boldrini nel 1946 aveva pubblicato un volume di demografia, riscritto dopo dieci anni, in cui, fedele ai suoi interessi per
l’antropometria e per la statistica, sosteneva «il principio che esclusivamente statistico può essere il metodo della Scienza della popolazione (corsivo mio) », e vi raccoglieva il frutto delle sue precedenti ricerche (Uggè,
1969). Non va dimenticato infine — a testimonianza della vivacità culturale di un periodo che, almeno nelle manifestazioni ufficiali e nelle
linee programmatiche di governo a cui forse alcuni del luoghi accademici
non erano alieni, può ritenersi chiuso al dibattito e all’accettazione di
una pluralità di posizioni — che alcuni del più giovani studiosi avviatisi
agli studi demografici nel periodo fascista (fra i quali Nora Federi- ci),
iniziarono a porsi interrogativi e dubbi sulla coerenza e legittimità
scientifica di alcune posizioni ufficiali in tema di politica della razza;
dubbi che dovevano costituire il seme di una successiva critica fattasi
più matura, circostanziata e decisa, dopo la caduta del regime, quando
il dibattito culturale potè riprendere senza le pastoie dell’illiberalità della
dittatura (si veda per alcuni riferimenti bio-bibliografici della studiosa
richiamata Sonnino et al., 1987).
Ci resta da accennare a un tema importante e difficile, sul quale ancora
manca una compiuta analisi: quello del rapporti fra la demografia, gli
studiosi di tale disciplina e le politiche di popolazione messe in atto
48
Enzo Lombardo
dal regime fascista. Tali rapporti attraversano con una serie cospicua di
rimandi incrociati il periodo considerato e di cui ciascuno può cogliere
molti aspetti parziali, ma attendono una sistemazione complessiva nel
quadro più generale della politica fascista nei confronti della scienza e
delle organizzazioni scientifiche: per il caso della matematica si veda l’interessantissimo saggio di Vesentini (1990), che indica una strada di ricerca da ripercorrere anche per la nostra disciplina.
Se gli aspetti concreti e gli effetti della politica popolazionista del
fascismo sono stati sufficientemente chiariti e sicuramente documentati
nei dettagli normativi, già da scritti del periodo (Istat, 1934; 1943) e
successivamente da molti autori (Glass, 1967; Sori, 1975; Treves, 1976;
Nobile, 1990, fra gli altri), gli indirizzi di ricerca demografica in senso
proprio, impressi e modellati dal governo fascista e i legami, più o meno
diretti ed espliciti, fra il mondo accademico e sfera politica per quel che
riguarda la demografia, attendono ancora di essere studiati e compiutamente descritti. Naturalmente tale studio acquista un suo specifico interesse soltanto se si accetta e si riconosce che il sistema delle conoscenze demografiche — in generale scientifiche — non si esaurisce in un accumulo lineare e non contraddittorio delle conoscenze, ma è pervaso e marcato da tensioni e conflitti, da ideali e ideologie diverse, da aspettative
e da interessi che si confrontano nel contesto sociale. D’altra parte —
così allora come ora — la nostra immagine, la nostra raffigurazione della
popolazione e della natura, sia quella più usuale, familiare e legata alle
impressioni personali, sia quella che ci viene fornita dalla scienza, è stata costruita e viene continuamente riassestata scegliendo quegli aspetti
della realtà circostante che, in determinate condizioni storiche e sociali,
ci sembrano degni della nostra attenzione e ci appaiono costituire problemi aperti.
Alcune osservazioni di grande rilievo sulla politica fascista e sui suoi
effetti si rinvengono nei Ricordi della mia vita di G. Mortara (1985),
in cui le poche pagine destinate a ricordare gli effetti delle discriminazioni razziali mostrano il dramma che doveva coinvolgere gli studiosi
ebrei ma, indirettamente, anche quelli non ebrei che con i primi avevano spesso vincoli di amicizia e consuetudine di lavoro. Molto interessante è anche lo scritto di Steve (1990), di carattere più generale e sistematico, che ha esaminato — nel quadro relativo a molte scienze tracciato a più mani da vari studiosi — le conseguenze culturali della politica
fascista e, in particolar modo, quella dell’ultimo scorcio della dittatura
e delle «conseguenze culturali delle leggi razziali», come recitava il tema del convegno organizzato dall’Accademia nazionale del Lincei in col-
Evoluzione diacronica della demografia
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laborazione con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e con l’Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti.
Non è privo d’interesse, infine, rammentare come la costituzione della
Società italiana di statistica (SIS) nel 1939, con il programma di sviluppare ricerche scientifiche nel campo delle discipline statistiche sia nell’ambito del metodi sia in quello delle applicazioni, rappresentò un forte stimolo anche per la demografia e costituì un momento privilegiato
di scambio, con i periodici congressi scientifici, fra tutti i cultori di tali
discipline. Analoga funzione svolsero le riviste: M etron, fondata da Gini
nel 1921, a carattere internazionale, più dedicata agli aspetti metodologici ma non aliena dal presentare anche contributi demografici; Genus, fondata nel 1934 sempre da Gini, completamente dedicata agli studi di popolazione; il Supplemento statistico ai nuovi problemi, fondata da
Pietra nel 1935, per alcuni anni l’organo ufficiale della neonata SIS (si
veda Leti e Gastaldi, 1989).
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1763 in welke twee laatste jaaren de Kinder-Pokjes gegrasseert hebben in
‘s Gravenhage» in Memorie dell’Accademia di Haarlem, torno VIII, 1, 1765.
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Italiani
Lastri M., op. cit., 1775.
Zeviani E., op. cit., 1775.
Capitolo terzo
Organizzazione accademica
Dionisia Maffioli
1. La collocazione accademica e la sua storia
La collocazione della demografia nel quadro dell’insegnamento universitario si fonda sulle vicende e sulle modalità della sua progressiva
affermazione accademica. Senza volerne qui ripercorrere le tappe, che
si possono cogliere nel capitolo secondo attraverso la storia dello sviluppo disciplinare, pare opportuno richiamarne i momenti essenziali, a miglior comprensione della situazione odierna.
Nata contemporaneamente alla statistica come suo primo e principale oggetto, la demografia ne è inizialmente considerata parte integrante
e le prime tappe dell’affermazione accademica delle due discipline coincidono; sul piano didattico contenuti demografici sono dunque rinvenibili, per tutto il secolo XIX e fino ai primi decenni del XX, negli itinerari formativi delle facoltà e delle scuole in cui erano impartiti corsi di
statistica.
Secondo la concezione dell’epoca, la statistica era ritenuta elemento
di formazione necessario nel quadro degli studi di economia, geografia,
politica, giurisprudenza: di tutte quelle materie, cioè, che riguardano
«l’ordine economico, morale e sociale» degli stati (Zuradelli, 1822). La
demografia rientra in questo ordine di preoccupazioni scientifiche e pratiche: viene dunque insegnata, come parte della statistica, nelle facoltà
di giurisprudenza e in quelle di lettere e filosofia (corsi di geografia e
statistica).
Di questa forte integrazione fra statistica e demografia si trova testimonianza in testi universitari, trattati e manuali dell’epoca, che sono il solo riferimento rimasto del contenuti trasmessi con l’insegnamento: in tali
opere, a parti concernenti aspetti di statistica metodologica e applicata,
si affiancano ampie trattazioni di temi demografici. Ne sono esempi illustri
i testi di de Samuele Cagnazzi (1808-09), del Gioja (1839), le lezioni del
Messedaglia (1877), i trattati di Mayr e Salvioni (1879, LI ediz. 1886),
Tammeo (1896), Bosco (1906), Colajanni (1910), Mortara (1920). Il
64
Dionisia Maffioli
primo testo italiano dedicato interamente alla demografia — sia pure intesa in accezione più ampia di quella attualmente accolta — è quello di
Benini (1901). Una rassegna del testi italiani di demografia e una ricognizione del loro contenuti si può trovare in Nobile (1987).
La rigidità dell’ordinamento universitario dell’epoca (legge Casati)
fa sì che l’integrazione delle due discipline sul piano didattico perduri
a lungo, anche dopo il riconoscimento dell’autonomia scientifica della
demografia, riconoscimento che si può ritenere ormai consolidato sul
piano internazionale quando, nel 1878, si tiene a Parigi il primo Congresso internazionale di demografia. L’affermazione accademica della
demografia come disciplina indipendente e autonoma può avvenire in
Italia solo con il nuovo assetto delle strutture universitarie instaurato
dalla legge Gentile nel 1923.
Nel nuovo quadro normativo, la statistica diviene la struttura portante
di scuole e facoltà ad essa intitolate, in cui la demografia — individuata
da uno statuto disciplinare autonomo — costituisce insegnamento obbligatorio. Del 1927 è la fondazione delle Scuole di statistica, mentre il 1937
segna la data di nascita della prima facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali, creata a Roma per opera di Gini e Cantelli, in un periodo di grande fiorire degli studi demografici italiani. E di quest’epoca
anche la nascita del Comitato italiano per lo studio della popolazione
(Cisp) e delle società scientifiche di statistica e demografia (SIS, Sieds).
La nuova collocazione accademica della demografia si rispecchia nelle
caratteristiche della produzione manualistica dell’epoca: sono i testi di
Niceforo (1924), Vinci (1927), Livi (1940-41) e il testo a più voci curato
da Gini (1935 e 1937), che circoscrive la trattazione ai soli fenomeni
demografici. Fa eccezione il testo di Luzzatto Fegiz, che sviluppa, accanto
alla trattazione demografica, una parte su «Produzione e reddito
nazionale», cogliendone peraltro le complesse interrelazioni con il tessuto
sociale e non tralasciandone i fondamenti biologici. Alla vigilia della seconda
guerra mondiale — che chiude una fase di grande espansione degli studi
demografici — accanto alla facoltà romana sono attive scuole di statistica
a Padova, Bologna, Firenze, Milano, Palermo. Corsi complementari di
demografia sono inoltre istituiti in numerose facoltà di economia e
commercio e di scienze politiche.
Nel dopoguerra, la ricerca e l’insegnamento della demografia attraversano anni di ristagno. Fra le cause molteplici della crisi, un posto rilevante
spetta alla diffidenza — per quanto ingiustificata verso una disciplina che
era stata piegata a usi impropri, a sostegno delle politiche popolazioniste
e, indirettamente, razziali del regime fascista. A metà degli anni cinquanta
sopravvivono nell’università italiana soltanto 14 corsi di demografia, a
Organizzazione accademica
65
nessuno del quali è attribuita una cattedra, nemméno nella facoltà di
scienze statistiche, demografiche e attuariali di Roma, i cui ordinamenti
prevedono, fra i fondamentali, due insegnamenti di demografia.
Sul finire degli anni cinquanta e nel decennio successivo le grandi
trasformazioni socio-economiche in atto — in cui un ruolo importante
è giocato dalle correnti migratorie interne, che modificano profondamente l’assetto della popolazione sul territorio e rimescolano i comportamenti demografici regionali — determinano un rinnovato interesse per
la fenomenologia demografica e il rifiorire di studi e ricerche. Ne segue
una ripresa anche sul piano accademico. La produzione manualistica si
rinnova, con opere originali, che fanno spazio a nuovi sviluppi disciplinari o li segnano esse stesse. Sono i testi di Boldrini (1956), Federici
(1956) e il trattato di Mortara sull’economia della popolazione (1960).
Nel 1957 viene creato a Roma, per iniziativa di Mortara, un Istituto di
demografia, oggi divenuto l’unico dipartimento di scienze demografiche
esistente in Italia. Nel 1961 viene bandito il primo concorso di
demografia, che dà luogo a tre cattedre (Palermo, Firenze, Bologna), cui
si aggiungono, quattro anni più tardi, quelle di Padova, Roma e Bari.
Da allora l’affermazione accademica della demografia è stata rapida: in
parte perché ha seguito il movimento di espansione dell’università italiana, ma anche per gli effettivi spazi che si sono offerti alla diffusione
della disciplina, con l’interesse suscitato da problematiche di grande rilievo sia scientifico sia sociale e politico per le dinamiche demografiche
in atto in Italia e nel mondo. Sulle fasi storiche dell’insegnamento della
demografia si vedano Federici (1969), Nobile (1985; 1989) e, per quel
che concerne le parti in comune con l’insegnamento della statistica, Ottaviani (1985; 1987; 1989). N. Federici si è anche a più riprese occupata
della formazione demografica e del posto che essa deve occupare all’interno delle scienze sociali (1968; 1971; 1973; 1977; 1987).
Attualmente l’insegnamento universitario della demografia si articola in oltre ottanta corsi, di cui un cinquantina sono a livello istituzionale mentre i restanti approfondiscono particolari aspetti metodologici
o tematici. L’imporsi di nuove problematiche e il perfezionarsi e l’arricchirsi dell’apparato metodologico hanno portato, infatti, a una ramificazione della disciplina. A seguito di tali sviluppi, un percorso formativo completo in demografia non può essere più garantito da un solo insegnamento, ma deve essere articolato in più fasi. Ai fondamenti impartiti
con un corso istituzionale devono seguire approfondimenti in diversi
settori e direzioni, che non possono essere garantiti se non da una pluralità di insegnamenti a ciò finalizzati. Attualmente le università italiane
offrono una serie di insegnamenti che coprono un ampio spettro di
66
Dionisia Maffioli
competenze disciplinari: demografia, che fornisce i fondamenti della disciplina sul piano sia del metodi sia del contenuti; analisi demografica,
che ne illustra più compiutamente le basi logico-formali ed esplora ed
esplicita la rete di collegamenti interni fra i fenomeni demografici e i
processi di ricambio della popolazione; teorie della popolazione e modelli demografici, che introduce allo studio di modelli intesi a definire
le forme di processi demograficamente rilevanti, sulla base di retrostanti impostazioni teoriche; economia della popolazione, disciplina talvolta
coltivata e insegnata da economisti anziché da demografi, che studia le
teorie economiche della popolazione e analizza le interrelazioni fra
dinamiche demografiche ed economiche; demografia investigativa, che
fornisce gli strumenti metodologici per l’approfondimento di particolari problematiche; demografia sociale, che mette l’accento sulla dimensione sociale del comportamenti demografici e sugli aspetti differenziali; demografia storica, che insegna l’uso di fonti pre-statistiche per investigare sui meccanismi evolutivi di lungo periodo. Altri settori disciplinari molto affermati all’estero e coltivati anche in Italia da un numero
crescente di studiosi (demografia regionale, demografia del paesi in via
di sviluppo, demografia bio-sanitaria) non trovano per ora corrispettivo
in un insegnamento autonomo; l’eventuale riconoscimento della loro autonomia didattica incontra però largo consenso nella comunità nazionale del demografi.
Ancor oggi l’iniziale collocazione della demografia ne delimita l’organizzazione accademica, essendo gli insegnamenti di demografia impartiti essenzialmente nelle facoltà di statistica, economia e commercio,
scienze politiche e solo eccezionalmente in altre facoltà. In questo la situazione italiana è anomala nel contesto internazionale, dove gli studi
demografici non sono generalmente collegati agli studi statistici ma —
sulla base di affinità di contenuto piuttosto che di metodo — agli studi
sociologici, geografici, storici, economici. Va peraltro aggiunto che, in
base all’ordinamento didattico nazionale — che detta nelle linee fondamentali il contenuto didattico degli studi universitari — l’insegnamento
della demografia come materia complementare potrebbe essere attivato
nei corsi di laurea in architettura, pianificazione territoriale e urbanistica, sociologia, giurisprudenza, sebbene finora queste possibilità siano
rimaste allo stato virtuale.
Oltre alla formazione finalizzata al conseguimento della laurea, l’università italiana organizza corsi di studi a diversi livelli; nell’ambito del
corsi di diploma, di durata inferiore a quella del corsi di laurea e preordinati «al conseguimento del livello formativo richiesto da specifiche aree
professionali» (legge 19-11-1990, n. 341), la demografia è presente co-
Organizzazione accademica
67
me insegnamento fondamentale per il diploma in scienze statistiche, di
durata biennale. I corsi di dottorato di ricerca, istituiti con decreto del
ministro della Pubblica istruzione del 15-6-1982, soddisfano esigenze
di approfondimento ai fini della ricerca scientifica e del reclutamento
della docenza universitaria. Un corso di dottorato in demografia, di durata triennale, organizzato in consorzio dalle Università di Roma, Firenze e Padova e tenuto alternativamente nelle tre sedi, è stato istituito
fin dall’anno accademico 1983-84. Un corso analogo è stato in funzione
per un solo ciclo triennale presso l’Università di Bologna.
A completamento del quadro della presenza della demografia nelle
strutture dell’insegnamento universitario vanno infine menzionate le scuole
di specializzazione e i corsi di perfezionamento post-universitari, aventi
un obiettivo di approfondimento ai fini della formazione professionale.
Per lo più, le specializzazioni nell’area della ricerca sociale, della pianificazione urbanistica, dell’igiene e della medicina preventiva, della statistica
sanitaria, nelle sue articolazioni biomedica e epidemiologica, che offrono
una formazione più o meno esplicitamente orientata a finalità di programmazione e pianificazione, contemplano l’insegnamento della demografia, essendo la popolazione oggetto e soggetto primario di ogni intervento
programmatorio. Alcuni approfondimenti sull’argomento si possono trovare in Birindelli e De Sarno Prignano (1987).
1.1. La struttura dell’insegnamento universitario
Nell’anno accademico 1990-91 vi erano 82 insegnamenti demografici.
I dati forniti sono basati sui repertori pubblicati in Bollettino della SIS, 18,
marzo 1990 e 19-20, settembre 1990, che si riferiscono al 1° novembre
1989, opportunamente aggiornati, attivati presso 37 delle 58 sedi universitarie del paese. Precisamente, trascurando variazioni minori di denominazione, si tratta di: demografia (55 corsi), demografia storica e/o storia della popolazione (7), demografia investigativa (5), economia della popolazione (5), teorie della popolazione e modelli demografici (3), analisi demografica (2), demografia sociale (2). Vi è poi un piccolo numero di corsi
che aggiungono alle nozioni di base alcuni approfondimenti o una trattazione di alcuni aspetti di altre discipline: demografia e teorie e modelli della popolazione (i.), demografia ed economia della popolazione (1), demografia e statistica sanitaria (1); complessivamente, quindi, si contano 58
corsi in cui vengono impartiti i fondamenti della disciplina e 24 che potremmo chiamare di approfondimento o di specializzazione. La dislocazione territoriale degli insegnamenti è evidenziata nella tabella 1, che illustra anche le alterne fasi dell’espansione accademica.
68
Dionisia Maffioli
Tabella 1. Insegnamenti di discipline demografiche nelle università italiane.
Anni accademici
Sede universitaria
Ancona
Bari
Bologna
Brescia
Cagliari
Camerino
Campobasso
Cassino
Catania
Ferrara
Firenze
Genova
Macerata
Messina
Milanol
Modena
Napoli 2
Padova
Palermo
Parma
Pavia
Perugia
Pescara
Pisa
Rende (CS)
Roma
Siena
Teramo
Torino
Trento
Trieste
Udine
Venezia
Verona
Totale
1
2
1924.25
19)4-35
1955-56
1
1
1
1
1
1
2
1
2
1
1
1
1
1
1
4
2
1
2
1
1
1
1
4
4
1
1990-91
1
8
8
1
1
1
1
1
1
6
4
4
1
2
4
5
1
2
2
1
2
12
2
3
1
1
3
1
1
1
1
1
5
23
14
82
Università Statale, Università cattolica del Sacro Cuore, Università commerciale L. Bocconi.
Università di Napoli, Istituto universitario navale.
Organizzazione accademica
69
In quali facoltà e corsi di laurea sono impartiti questi insegnamenti?
Abbiamo visto come, in conseguenza della storia del suo sviluppo disciplinare e della sua istituzionalizzazione, la demografia sia generalmente
affiancata a studi di statistica o, in via subordinata, di economia. In Italia
vi sono tre facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali (nelle
università di Roma La Sapienza, Padova e Bologna, in ordine di anzianità
di fondazione) che, pur essendo a contenuto prevalentemente statistico,
si pongono (come il nome stesso suggerisce) quali sedi più indicate a dispensare una formazione demografica; presso queste facoltà sono istituiti tre del quattro corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche
(SSD) esistenti in Italia, il quarto essendo collocato presso la facoltà di
economia e commercio dell’Università di Messina. Con l’attuazione del
piano di sviluppo dell’università per gli anni 1986-90, è stata prevista l’attivazione di due nuovi corsi di laurea in scienze statistiche, demografiche
e attuariali rispettivamente presso la facoltà di economia e commercio
dell’Università di Firenze e presso la facoltà di scienze economiche e sociali
dell’Università della Calabria, nonché di un corso di laurea in scienze statistiche e attuariali presso la facoltà di scienze economiche e sociali a Benevento.
Nei quattro corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche per
ora esistenti sono impartiti 17 degli 82 insegnamenti di discipline demografiche complessivamente attivati. I rimanenti sono impartiti presso corsi di laurea in scienze statistiche ed economiche (SSE) o scienze
statistiche e attuariali (SSA; 7 insegnamenti), in economia e commercio
o affini (32), in scienze politiche e giurisprudenza (13), in materie letterarie (magistero) (1), in medicina e chirurgia (1) o presso corsi di diploma in statistica (11; tab. 2). Sono dunque meno numerosi gli insegnamenti di demografia offerti nel quadro di un complessivo progetto di
formazione demografica di quelli destinati a complemento di una formazione altrimenti qualificata. Tuttavia la presenza della demografia nei
quadri formativi di curricula universitari che ad essa non si richiamano
espressamente non ha carattere di sistematicità. Materie demografiche
sono in effetti insegnate solo in 10 del 30 corsi di laurea in scienze politiche e in 27 del 51 in economia e commercio e affini. Insieme con i
corsi di laurea in economia e commercio, ne sono stati conteggiati anche diversi altri di studi economici, che si possono in qualche modo considerare assimilabili: corsi di laurea in scienze (o discipline) economiche
e sociali, in economia aziendale, in economia marittima e del trasporti,
in economia politica, in scienze bancarie e assicurative. Sono invece sempre presenti nei corsi di laurea in scienze statistiche, pur non configurando un itinerario formativo completo in demografia se non in alcuni
del corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche.
70
Dionisia Maffioli
La posizione e il ruolo della disciplina dipendono naturalmente dal
corso di laurea in cui essa è inserita. Si possono distinguere quattro diversi regimi.
1) Scienze statistiche e demografiche. In quanto finalizzati a fornire
una formazione anche demografica, questi corsi di laurea prevedono nel
loro ordinamento diversi insegnamenti di tale area disciplinare, due del
quali — uno a livello istituzionale e uno a livello avanzato — sono inclusi
fra i fondamentali. Complessivamente, nei quattro corsi di laurea di questo tipo esistenti, vengono impartiti, oltre ai 4 corsi istituzionali, anche
13 corsi di approfondimento (sui 24 complessivamente dispensati in ItaTabella 2. Insegnamenti di discipline demografiche, secondo la denominazione e il corso di laurea
(1990-91).
(*) Presso questi corsi di laurea, a Roma e Padova sono mutuati gli insegnamenti demografici impartiti al corso di laurea in SSD.
1 Le cifre fra parentesi indicano il numero di corsi di laurea o di diploma, per ciascun tipo,
presso cui sono attivati insegnamenti di demografia.
2 Sono stati assimilati a economia e commercio i corsi di laurea in scienze economiche, in
scienze economiche e bancarie, in scienze (o discipline) economiche e sociali, in economia del
trasporti e commercio internazionale.
3 In due casi, Bari e Camerino, i corsi sono tenuti congiuntamente per il corso di laurea in
scienze politiche e per quello in giurisprudenza.
4 Sono considerati fra questi anche un corso di demografia storica e storia della popolazione (Firenze, diploma di statistica) e uno di storia della popolazione (Roma, corso di laurea
in Economia e commercio)
5 Si tratta di: demografia e teorie e modelli di popolazione (Milano, Bocconi), demografia
e economia della popolazione (Campobasso, Scienze economiche e sociali), demografia e
statistica sanitaria (Firenze, Medicina e chirurgia).
Organizzazione accademica
71
lia): 4 di demografia investigativa, 3 di teorie della popolazione e modelli demografici, 2 di analisi demografica, 2 di economia della popolazione, 1 di demografia storica e 1 di demografia sociale. Gli insegnamenti sono affidati a professori ordinari più frequentemente che negli
altri corsi di laurea (47% del casi contro 28 di media generale; si veda
la tab. 3). Non tutti i corsi di laurea in questione consentono, comunque, il perfezionamento di una formazione demografica. Si configura
anzi una gamma di situazioni che va dal caso in cui sono attivi solo i
corsi di demografia e di demografia investigativa, a quello che offre un
ciclo di studi demografici potenzialmente completo.
2) Scienze statistiche e attuariali, scienze statistiche ed economiche,
diplomi in statistica. In questi corsi, l’ordine degli studi prevede la demografia tra gli insegnamenti fondamentali, con la sola eccezione di due
corsi di diploma (Milano, Università Statale e Cattolica). Generalmente
la formazione demografica dispensata si esaurisce nel corso istituzionale,
anche se corsi di livello avanzato possono essere compresi fra i complementari ed essere talvolta fra quelli consigliati per un orientamento
o indirizzo: questo avviene soprattutto dove, per la presenza nella medesima facoltà di un corso di laurea in SSD, è possibile mutuarne gli
insegnamenti. Complessivamente i 6 corsi di laurea in SSE e SSA e gli
11 corsi di diploma forniscono, oltre ai 15 insegnamenti fondamentali
di demografia, 3 soli corsi di demografie avanzate autonomamente attivate (demografia storica e economia della popolazione a Firenze, diploma di statistica; demografia investigativa a Bari, SSE), ma, per le ragioni
sopra dette, numerosi corsi di livello avanzato sono disponibili a Roma,
Padova e Bologna. Va comunque aggiunto che nei corsi di laurea
Tabella 3. Insegnamenti di discipline demografiche secondo il corso di laurea e la qualifica
accademica del docente (1990-91).
Corso di laurea
o diploma
SSD
SSE, SSA,
Dipl. stat.
Econ. comm.
Sc. polit.
Altro
Totale
Ordinari
Associati
Altro1
Totale
V.A. % V.A. % V.A. % V.A. %
8 47
3 18
6 35 17 100
1 Supplenza, incarico, contratto.
10
4
3
1
26
56
12
23
50
32
6 33
14 44
7 54
30 37
2
14
3
1
26
11
44
23
50
32
18
32
13
2
82
100
100
100
100
100
72
Dionisia Maffioli
e diploma in questione, per ragioni di tradizione o per la personalità scientifica del docenti che vi operano, esistono in genere potenzialità notevoli di formazione demografica. Anche in questa sede l’insegnamento
è impartito in larghissima misura da professori ordinari (55%).
3) Economia e commercio, scienze politiche e affini. L’insegnamento
della demografia non è necessariamente previsto dall’ordinamento di
questi corsi di laurea, ma di fatto vi compare come opzionale in un numero consistente di casi: in oltre metà del corsi di laurea in economia e
commercio e in oltre un terzo di quelli in scienze politiche. Se in nessun
caso l’insegnamento della demografia è considerato fondamentale,
tuttavia esso può essere assunto come caratterizzante alcuni indirizzi,
in genere di tipo economico generale nelle facoltà di economia e commercio, di tipo politico-sociale o politico-economico nelle facoltà di scienze
politiche. Il corso istituzionale, che è raramente accompagnato da un
corso di livello avanzato, viene generalmente inserito nei piani di studio come materia del secondo biennio. Data la diffusione sul territorio
nazionale del corsi di laurea in parola, è in quest’ambito che si riscontra
il maggior numero di insegnamenti di materie demografiche: in tutto
45 insegnamenti di cui 38 a livello istituzionale e 7 a livello avanzato.
I corsi sono tenuti da ordinari meno frequentemente che nei casi precedenti (12% a economia e commercio e 23% a scienze politiche), essendo più spesso affidati a docenti di seconda fascia (54% a scienze politiche, 44% a economia e commercio contro una media generale del 37%).
4) Altri corsi di laurea. In quest’ambito la presenza della demografia è
del tutto eccezionale. Di fatto esistono attualmente insegnamenti della
disciplina solo a Medicina e chirurgia (Firenze, corso di demografia e
statistica sanitaria) e materie letterarie (Bari, corso di demografia storica).
Quest’area è tuttavia passibile, a norma di ordinamento didattico
nazionale, di considerevole espansione.
Elementi di ulteriore specificazione della collocazione accademica della
demografia si possono ottenere prendendo in considerazione i dipartimenti e gli istituti che coordinano — i primi autonomamente e i secondi
come articolazioni organizzative delle facoltà — la ricerca e la didattica
demografica. In Italia il Dipartimento di scienze demografiche dell’Università di Roma La Sapienza è il solo interamente imperniato sugli
studi demografici (tab. 4). In altri tre dipartimenti sono organizzati gli
insegnamenti di almeno tre diverse discipline demografiche: sí tratta del
Dipartimento di scienze statistiche dell’Università di Padova, del Dipartimento statistico dell’Università di Firenze e del Dipartimento di
scienze statistiche Paolo Fortunati dell’Università di Bologna. I primi
due, in consorzio con il predetto Dipartimento di scienze demografi-
Organizzazione accademica
73
Tabella 4. Dipartimenti e Istituti che organizzano l’insegnamento di almeno tre diverse
discipline demografiche.
Denominazione
Dipartimento
di scienze
demografiche
Sede
Roma4
Discipline I
Corsi laurea 2
Demografia,
SSD, SSA, SSE,
Analisi dem.,
Dipl. stat.
Dem. invest., Sc. pol.
Dem. sociale,
Teor. e mod.
N. docenti3
9
Dipartimento
di scienze
statistiche
Padova
Demografia,
Dem. invest.,
Teor. e mod.
SSD, SSE,
Dipl. stat.
3
Dipartimento
statistico
Firenze
Demografia,
Econ. popol.,
Dem. storica
e Storia pop.
Dipl. stat.,
Ec. comm.,
Sc. pol.
4
Dipartimento
di scienze
statistiche
Paolo Fortunati
Bologna
SSD, SSE, Dipl. stat.,
Dipl. stat.,
Ec. comm.
5
Istituto
di scienze
demografiche
e sociali
Bari 5
Demografia,
Analisi dem.,
Dem. invest.,
Dem. storica,
Econ. popol.,
Teor. e mod.
Demografia,
Dem. invest.,
Dem. storica
SSE, Ec. comm.,
Dipl. stat.
7
1 Non si tratta di tutti gli insegnamenti organizzati dai dipartimenti e istituti, ma esclusivamente di
quelli di natura strettamente demografica. Presso ciascun dipartimento o istituto possono essere organizzati
più corsi della stessa discipline, impartiti in diversi corsi di laurea, o sdoppiati a causa del numero degli
studenti.
2 Si tratta del corsi di laurea presso i quali vengono impartiti gli insegnamenti organizzati da dipartimenti e istituti.
3 Sono considerati esclusivamente i docenti di discipline demografiche.
4 A Roma esistono insegnamenti di discipline dernografiche anche presso il Dipartimento di studi
geoeconomici, statistici, storici per l’analisi regionale (demografia e storia della popolazione) e presso
l’Istituto di statistica economica della Facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali (economia
della popolazione).
5 A Bari esistono insegnamenti di discipline demografiche anche presso il Dipartimento per lo studio
delle società mediterranee (demografia) e presso il Dipartimento di scienze storiche e geografiche (demografia storica).
che, hanno attivato il dottorato di ricerca in demografia attualmente in funzione. Vi sono poi due istituti che, pur non essendo esclusivamente intitolati
alla demografia, fanno riferimento nella loro denominazione a studi demografici: a Bari l’Istituto di scienze demografiche e sociali; a Palermo l’Istituto
di statistica sociale e scienze demografiche e biometriche.
74
Dionisia Maffioli
In conseguenza di questa situazione, gli insegnamenti di demografia
sono prevalentemente inseriti in istituti e dipartimenti di statistica oppure nella cui denominazione è comunque espressamente citata una componente statistica: 45 degli 82 insegnamenti di demografia (il 55%) sono attivati in 8 dipartimenti e 14 istituti di questo tipo (tab. 5). All’unico
dipartimento di demografia esistente e ai due istituti che nel loro nome
fanno esplicita menzione di una componente demografica fanno capo
altri 19 corsi (23%); i rimanenti 18 si collocano in strutture varie a
prevalente contenuto economico (22%).
La collocazione delle discipline demografiche in diversi corsi di laurea
dovrebbe comportare anche l’insegnamento di contenuti più o meno
differenziati e variamente articolati e accentuati: solo in tal modo
sarebbe garantita l’armoniosa integrazione della demografia nei vari contesti didattici e il dispiegamento delle potenzialità formative degli studi
demografici, sul piano sia professionale sia culturale in senso lato. Allo
stesso modo, l’inserimento della materia in ambiti di ricerca orientati
a problematiche esogene e più ampie dovrebbe favorire lo sviluppo degli aspetti interdisciplinari. Va però valutato in quale misura tale integrazione si realizzi, sul piano didattico e su quello della ricerca, o non
Tabella 5. Insegnamenti di discipline demografiche secondo la denominazione e il dipartimento o istituto di appartenenza.
Dipartimento
Istituto
Anal. Dem..
Demografia dem. inv.
Dip. D.
(1)
Dip. S.
(4)
Dip. S/A (4)
Dip. E/A (4)
Dip. A
(2)
Ist. D/A (2)
Ist. S/A
(14)
Ist. E/A
(3)
Ist. A
(2)
Altro
(4)
NI
(1)
5
9
5
3
1
7
17
3
1
3
1
1
1
Totale
55
2
(41)
1
2
Corsi avanzati
Dem.. Dem. Teor. Econ.
Tot.
Tot. Altro gen.
soc. stor. mod. pop.
1
1
2
1
1
2
2
4
10
1
1
1
1
1
1
1
1
2
1
1
3
4
1
1
1
5
2
7
3
5
24
3
N. medio
insegn.
9
19
6
4
2
10
22
3
2
4
1
9,0
4,7
1,5
1,0
1,0
5,0
1,3
1,0
1,0
1,0
1,0
82
2,0
* Le cifre in parentesi indicano il numero di dipartimenti o istituti di ciascun tipo, presso i quali sono attivati corsi di
discipline demografiche.
D = Scienze demografiche; 5 = scienze statistiche; E = scienze economiche; A = altre discipline; D/A SIA E/A = dipartimenti o istituti
che si richiamano a più discipline; ad esempio: Dipartimento di statistica e matematica, Istituto di scienze demografiche e sociali
e altri. Altro = laboratori, seminari, unità pre-dipartimentali.
Organizzazione accademica
75
vi siano invece margini di miglioramento. Un importante momento di
riflessione sul tema dell’insegnamento della demografia a livello nazionale è stato rappresentato dal convegno organizzato nel febbraio 1985
dal Dipartimento di scienze demografiche dell’Università La Sapienza
di Roma, dedicato a L’insegnamento della demografia e la formazione dei demografi in Italia. Omaggio a Nora Federici, i cui atti hanno costituito il volume a cura di Sonni-no et al. (1987). In ambito internazionale si erano
avute precedenti occasioni di dibattito: con la sessione speciale del
Congresso internazionale dell’Uissp (Liegi, 1973) imperniata sui temi
de L’enseignement de la démographie e L’information démographique et le róle des
démographes, organizzata e introdotta da N. Federici; e, successivamente, con la «Chaire Quételet 1984», che il Dipartimento di demografia di
Lovanio ha dedicato a La démographie en perspective. Visages futurs des
sciences de la population et de leur enseignement.
1.2. L’insegnamento delle discipline demografiche
Una valutazione dell’adeguatezza dell’insegnamento rispetto ai curricula in cui è inserito non può prescindere dalla considerazione di quelli
che sono, al di là delle etichette costituite dalle denominazioni del corsi, i
contenuti effettivamente trasmessi. Alcune notizie in tal senso sono
state raccolte mediante un’indagine fra i docenti condotta nel 1985 dal
Dipartimento di scienze demografiche dell’Università La Sapienza di Roma, con l’obiettivo di una riflessione globale sull’insegnamento universitario della demografia. L’indagine era stata organizzata in vista del già
menzionato convegno in omaggio a Nora Federici.
La documentazione raccolta in quell’occasione, analizzando i programmi e i testi consigliati, senza peraltro entrare nel merito dell’effettiva
pratica didattica (Pinnelli, 1987), non evidenzia chiare diversificazioni
del corso di demografia di livello istituzionale a seconda del contesto
formativo, almeno per quanto concerne l’impianto generale del corso
e la partizione della materia. Ciò che risulta maggiormente variabile è
la richiesta di acquisizione di specifiche abilità ad alto contenuto tecnico che fanno appello a discrete conoscenze statistico-matematiche, come
la costruzione di tavole di mortalità e l’elaborazione di previsioni
demografiche. Questo tipo di richieste è generale nei corsi di laurea in
scienze statistiche, meno frequente in quelli di economia e commercio,
raro negli altri, sia in ragione di differenti esigenze formative, sia per
la diversa preparazione di base degli studenti. Ciò che l’indagine non
rivela è il livello di approfondimento delle singole parti in programma,
il dosaggio di ciascuna nell’economia generale della trattazione, le pro-
76
Dionisia Maffioli
porzioni tra discussione delle problematiche e presentazione del metodi, il grado di evidenziazione della rete di relazioni che legano gli accadimenti demografici al tessuto sociale. Se la riduzione del bagaglio di
strumenti analitici è, nei casi sopra citati, giustificata, lo è però a fronte
di un potenziamento di quelle parti che mettono in luce l’interesse della chiave di let-tura demografica nei diversi quadri formativi; ove questo non avvenga, il rischio che si corre è l’estraneità della disciplina rispetto agli interessi culturali del discenti e quindi la sua marginalizzazione sul piano accademico.
L’analisi del libri di testo non contribuisce a chiarire la situazione,
data la grande uniformità del panorama da questo punto di vista: ma
questa stessa uniformità suggerisce una limitata differenziazione del
corsi. Molto largamente usata è l’Introduzione alla demografia di Livi Bacci
(1981; 19902), consigliata dalla quasi totalità del docenti. Si tratta di un
testo di prevalente impostazione metodologica che, senza trascurare gli
aspetti sostanziali, presenta in modo compatto e con esemplare chiarezza un ampio bagaglio di strumenti di analisi anche sofisticati, inquadrandoli criticamente nel contesto problematico dal quale hanno origine. Diffuso è pure Istituzioni di demografia di N. Federici (1979), che per
l’ampio respiro, la completezza della trattazione, la ricchezza delle
problematiche demografiche, sociali, economiche, biologiche dalle quali
viene fatta scaturire la presentazione degli strumenti di analisi, risulta di
grande validità per l’approfondimento della problematica demografica e
degli orientamenti disciplinari, anche in una prospettiva storica. Altri
testi, prodotti in anni recenti, hanno una diffusione più limitata: si tratta
di Petrioli (1982), che richiede da parte dello studente buone conoscenze matematiche, essendo molto incentrato sul versante dell’analisi demografica e dando largo spazio all’elaborazione di modelli formali;
Blangiardo (1987), corredato da una ricca serie di applicazioni ed
esemplificazioni del metodi di analisi; Chiassino e Di Comite (1990),
rielaborazione di precedenti stesure, che dà spazio agli indicatori della
transizione demografica e alla tematica del tasso nullo di incremento.
Abbastanza usato è infine il testo di esercizi preparato da docenti del
Dipartimento di scienze demografiche di Roma (AA.VV., 19862).
Molto spesso a fianco del libro di testo vengono consigliate o suggerite altre letture, destinate soprattutto alla preparazione di parti specialistiche del programma; poiché si tratta in gran parte di opere monografiche di natura prevalentemente metodologica, non pare che ad esse sia
affidato il compito di orientare la trattazione verso le problematiche
sostanziali più pertinenti a ciascun contesto formativo, almeno per quel
che concerne i corsi di laurea in economia e commercio e in scienze po-
Organizzazione accademica
77
litiche. Un problema di integrazione con le altre discipline emerge anche laddove i docenti lamentano una mancanza di coordinamento, di
integrazione e di lavoro interdisciplinare con docenti di discipline affini. Pur non essendo certo questa una specificità del demografi ché
tutta l’università e la scuola italiana, e non solo italiana, soffrono di questa
difficoltà — l’insufficiente integrazione interdisciplinare determina un
certo isolamento della demografia e — specialmente nei casi in cui essa
sia la sola materia del settore presente nel curriculum universitario —
rischia di ridurne l’efficacia formativa, non consentendo l’acquisizione
degli strumenti conoscitivi necessari per cogliere i collegamenti tra le
vicende demografiche e il tessuto delle altre discipline. Non pare condizione sufficiente a superare queste difficoltà la formazione culturale del
docenti di demografia, che è in buona parte omologa a quella della facoltà in cui svolgono la loro opera didattica: di tipo statistico per i docenti nei corsi di laurea in statistica e di tipo economico per i corsi di
laurea in economia e commercio.
Per quanto riguarda i corsi di livello avanzato o specialistico, il discorso è variamente articolato, a seconda della disciplina. Si è già detto
come la maggior parte di questi insegnamenti vengano impartiti, con
l’unica eccezione della demografia storica, nell’ambito del corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche. Ben pochi hanno diversa collocazione, né sembra che ci sia stretta attinenza tra gli approfondimenti
proposti e il corso di studi nel quale sono attivati. L’esistenza di competenze disciplinari presso le varie sedi universitarie o altre contingenze
locali sembrano giocare un ruolo preponderante rispetto alla definizione
di un complessivo disegno formativo.
I pochi corsi di analisi demografica e di teorie di popolazione e modelli demografici sembrano di contenuto abbastanza omogeneo nelle diverse sedi in cui sono impartiti e corrispondono a quanto, anche su un
piano internazionale, viene associato a tali denominazioni. Per quanto
riguarda il secondo di questi insegnamenti, c’è da osservare che le teorie
di popolazione sono generalmente intese in accezione limitata e funzionale
allo sviluppo di modelli formali. È però diffusa l’opinione che i due
nuclei tematici di tale corso potrebbero dar luogo ciascuno a un
insegnamento autonomo, disgiungendo lo studio del modelli demografici da quello delle teorie della popolazione. Queste ultime potrebbero
così avvantaggiarsi di una trattazione più diffusa e collegarsi opportunamente allo studio delle politiche volte a favorire o a ostacolare determinati comportamenti demografici e alla valutazione della loro efficacia: tema quest’ultimo che attualmente compare solo di sfuggita in diversi insegnamenti di materie demografiche (demografia sociale, econo-
78
Dionisia Maffioli
mia della popolazione e così via), mentre se ne possono cogliere senza
sforzo sia l’importanza sul piano scientifico sia la valenza professionalizzante.
L’insegnamento della demografia storica si presenta sostanzialmente uniforme nelle diverse sedi in cui è impartito. Di solito viene articolato in una parte che illustra le fonti e le metodologie di analisi proprie
della disciplina e in un’altra che, anche in ragione del risultati più copiosi e interessanti finora ottenuti dalla ricerca nel settore, verte sulla
mortalità e la fecondità dell’Italia del secoli XVIII e XIX.
Più problematica è la situazione della demografia investigativa. Tale
insegnamento, il cui nome rimanda a un’antica contrapposizione tra una
demografia «descrittiva », dall’obiettivo circoscritto all’ordinata esposizione del fatti attinenti la popolazione, e una demografia invece «investigativa» perché destinata a indagare sulle cause del fatti e sulle leggi
che li governano, era inizialmente l’unico corso destinato ad approfondire Io studio del fenomeni demografici; accoglieva perciò vari elementi
oggi integrati nel quadro di nuove branche disciplinari. I corsi attualmente esistenti presentano contenuti vari e disomogenei, che — a seconda delle altre discipline demografiche presenti nelle diverse sedi, del loro contenuti e della loro impostazione — possono consistere nella presentazione di argomenti di analisi demografica, nella studio di problemi
metodologici particolari (stime retrospettive, previsioni derivate, uso di
dati difettosi), nell’approfondimento di particolari metodologie di ricerca
(demografia differenziale, evoluzione storica).
Per quanto riguarda il corso di economia della popolazione, si riscontra
una difformità di contenuti e anche un diverso taglio degli argomenti,
in ragione sia della vastità della materia e delle diverse prospettive in
cui è possibile inquadrarla, sia della diversa formazione del docenti, che
può essere prevalentemente demografica o prevalentemente economica. Vi sono corsi che privilegiano la modellizzazione del fenomeni demoeconomici, oppure l’analisi delle forze di lavoro, i rapporti fra popolazione, ambiente e risorse, la famiglia come unità di consumo, i risvolti
demografici del fatti economici e le conseguenze delle dinamiche demografiche su vari aggregati di natura economica (domanda e offerta di lavoro, pensioni, risparmi, consumi, spesa pubblica e così via). Data l’importanza conoscitiva sempre maggiore assunta dalle conseguenze che gli
attuali e contrapposti regimi demografici hanno determinato tanto nei
paesi in via di sviluppo quanto in quelli più progrediti, è diffusamente
sentita l’esigenza che la disciplina dispensi un’organica e compiuta formazione sulle interrelazioni fra economia e demografia, a livello sia micro sia macro, anche allo scopo di illuminare le strategie politiche volte
Organizzazione accademica
79
ad armonizzare le tendenze demografiche con lo sviluppo economico e sociale.
In quanto alla demografia sociale, di cui non esistono che due corsi,
la materia mette l’accento sullo studio delle determinanti delle differenze
di comportamento demografico tra i gruppi sociali, sulle conseguenze
sociali delle tendenze demografiche, sulle politiche di popolazione e sulla
loro efficacia, sugli aspetti culturali e psico-sociali del comportamento
demografico.
A sussidio dell’insegnamento vengono usati diversi manuali (De Sandre, 1974; Granelli Benini, 1974; Sonnino, 1979; Giovannetti, 1981;
Natale, 1983) o dispense (De Bartolo, Appunti di analisi demografica;
Pinnelli, 1985; Pinnelli e Víchi, 1989; Santini, 1988). A integrazione
del testi, i docenti propongono di solito la lettura di materiale vario —
monografie, articoli di riviste, atti di convegni, sovente in lingua straniera.
Ciò consente di mantenere l’insegnamento ancorato ai continui sviluppi
disciplinari e alle più recenti acquisizioni della ricerca, anche in una
prospettiva internazionale. E tuttavia auspicabile un impegno per la
produzione di organici e completi strumenti didattici in lingua italiana,
in cui trovi compiuta sistemazione il corpo delle conoscenze disciplinari.
1.3. Possibili sviluppi dell’insegnamento
I contenuti delle discipline attualmente esistenti non esauriscono l’insieme delle tematiche oggetto di studi sufficientemente maturi e consolidati da meritare uno spazio adeguato nel quadro di una completa formazione demografica. Come si è già accennato, è diffusa l’opinione che
diversi nuclei tematici, sinora coltivati in Italia da un limitato numero
di studiosi ma molto affermati all’estero, possano costituire l’ossatura
di corsi d’insegnamento autonomi. Già attualmente questi contenuti formano in genere oggetto di trasmissione didattica nei corsi di dottorato
di ricerca.
Fra questi, vale la pena di segnalare lo studio della demografia del
paesi in via di sviluppo, che si differenzia da quello tradizionale sotto
il duplice aspetto delle problematiche e delle tecniche di analisi. Queste
ultime sono condizionate dal ricorso a fonti diverse da quelle più familiari al demografo — cioè soprattutto di inchieste anziché di censimenti
e di sistemi di registrazioni di stato civile — ma soprattutto dalla necessità di trarre il massimo di informazione da dati difettosi o incompleti,
mediante particolari accorgimenti metodologici. Tali esigenze hanno dato
notevole impulso agli sviluppi dell’analisi demografica, fra i quali vanno
80
Dionisia Maffioli
menzionati almeno gli approfondimenti sui modelli di popolazione stabile e quasi-stabile e l’estesione di concetti e relazioni al caso di non
stabilità. Quanto allo studio della fenomenologia demografica del paesi
in via di sviluppo, essa è connotata da situazioni in gran parte inedite,
specialmente riguardo le interazioni con il contesto economico e culturale, che richiedono l’acquisizione di specifici quadri interpretativi. La
novità delle dinamiche in atto in quelle regioni ha grande rilievo scientifico, in quanto porta a rivedere principi e concetti e a nuove formulazioni teoriche. La loro importanza sul piano politico e sociale e le loro
ripercussioni a livello planetario sono elementi che ulteriormente consigliano l’insegnamento di queste tematiche.
Un altro argomento di rilievo che ha una collocazione marginale nei
corsi attualmente impartiti riguarda il sistema informativo e la qualità del
dati demografici. L’assenza di una sufficiente attenzione a questo tema
può favorire nel discente l’erronea convinzione che la scelta delle informazioni necessarie per la ricerca demografica e la loro raccolta possa essere
delegata ad altri senza inconvenienti o che le statistiche ufficiali soddisfino
automaticamente tutte le necessità di conoscenza nel settore. Su un altro
versante, la carenza di competenze nel campo della produzione del dati
priva la formazione demografica di un elemento che potrebbe avere rilievo sul piano professionale. Trattandosi di un tema ovviamente cruciale, da
varie parti si preconizza la creazione di un insegnamento che affronti organicamente lo studio critico delle fonti cui può fare appello la ricerca demografica, oggi assai più ricche e numerose che nel passato, riservando particolare riguardo alle fonti non convenzionali da cui proviene la massa delle
informazioni per epoche o paesi in cui non opera il tradizionale abbinamento censimento-stato civile. L’importanza formativa del tema non risiede peraltro in una puntuale conoscenza del sistema informativo esistente,
che pure è necessaria: l’insegnamento deve garantire la consapevolezza che
il bagaglio di concetti e metodi della scienza demografica non può essere
limitato dalle specie di dati esistenti, ma che sono al contrario gli orientamenti di ricerca a dover dettare le prospettive di osservazione dei fenomeni, i criteri di analisi e di misura, la forma degli indicatori e quindi i contenuti e i modi della rilevazione del dati. Sul problema dell’integrazione tra
fonti e metodi della ricerca demografica si veda De Sandre e Santini
(1987), in cui gli autori tracciano la struttura sequenziale di un itinerario
formativo orientato alla ricerca demografica.
A conclusione di questo breve sguardo sui contenuti dell’insegnamento delle discipline demografiche, qualche osservazione va fatta riguardo lo
spazio limitato riservato ai temi connessi alle interrelazioni della demografia con le altre discipline. L’interpretazione del fenomeni demogra-
Organizzazione accademica
81
fici, l’indagine sulle cause e sulle conseguenze che essi determinano nel
contesto sociale coinvolgono competenze disciplinari diverse, che vanno dalla biologia alla storia, dall’economia alla sociologia e alla psicosociologia. È probabilmente dai settori di frontiera in cui la demografia
si congiunge con altri campi del sapere che dovranno venire in futuro
avanzamenti significativi di conoscenza. Attualmente le acquisizioni in
questi settori non formano che occasionale oggetto di trasmissione didattica, se si esclude il caso già esaminato dell’economia, nel quale comunque il corpo di conoscenze consolidate non ha ancora ricevuto sistemazione organica in un quadro unitario. Sembra senz’altro opportuno prevedere non un proliferare di corsi, ma certo una maggiore attenzione a questi aspetti che - oltre a essere fondamentali per il futuro della
ricerca - sono nello stesso tempo dotati, per l’aderenza ai problemi che
emergono dal sociale, della possibilità di inserirsi efficacemente nei profili
formativi per specifici campi d’azione professionale.
Quanto fin qui osservato si riferisce all’attuale collocazione accademica della demografia. Il discorso potrebbe essere molto più generale
se si dovesse tener conto delle potenzialità di espansione dell’area di formazione demografica e quindi del contenuti che sarebbero opportuni
nell’eventualità dell’inserimento della disciplina in quei corsi di laurea
nei quali l’ordinamento didattico nazionale ne prevede la possibilità (che
sono, come si è detto, architettura, pianificazione territoriale e urbanistica, sociologia, giurisprudenza) o nei quali, semplicemente, si ritengano
utili complementi di formazione demografica (che potrebbero essere
individuati, secondo le indicazioni emerse dalla citata indagine presso i
docenti, nelle facoltà di lettere, magistero, medicina, ingegneria, agraria).
In questi casi si tratterebbe di calibrare gli argomenti classici orientandoli
nelle opportune direzioni, o anche di prevederne di nuovi, in funzione
della formazione culturale o professionale propria di ciascuno del corsi di
studi in cui la demografia sarebbe inserita. Per alcune riflessioni in merito
a questo argomento – che richiederebbe una trattazione troppo ampia per
lo spazio qui disponibile – si rimanda a Colombo (1987).
1.4. Centri di ricerca
L’università è la sede istituzionale della ricerca demografica, che ha
centri particolarmente vivaci dove l’aggregazione di un certo numero
di studiosi dell’area favorisce la confluenza e lo sviluppo degli interessi
di ricerca. Tali centri rappresentano spesso un punto di riferimento anche per demografi che svolgono la loro attività in sedi in cui la disciplina è più isolata.
82
Dionisia Maffioli
Il finanziamento della ricerca nelle università avviene attraverso il
Consiglio universitario nazionale (CUN), che distribuisce i fondi annualmente destinati alla ricerca dal Ministero dell’Università e della Ricerca
scientifica e tecnologica. In base alla legge n. 382 del 1980, che ha provveduto al riordinamento della docenza universitaria, il 60% di tali fondi è ripartito fra i vari atenei, i quali li attribuiscono a singoli ricercatori
e gruppi di ricerca, mentre il restante 40% viene assegnato — con decreto del ministro e su proposta del comitati consultivi del CUN — a progetti di ricerca reputati d’interesse nazionale e di rilevante importanza
per lo sviluppo della scienza. Mentre è praticamente impossibile individuare la parte del fondi appartenenti alla quota del 60% che nei singoli
atenei è stata devoluta alla ricerca demografica, sono disponibili informazioni sulla destinazione del fondi appartenti alla quota del 40%, riservata a progetti di particolare rilievo. Le somme attribuite nel 1989
e nel 1990 dal Comitato consultivo per le scienze economiche e statistiche a ricerche di natura demografica si aggirano intorno ai 280 milioni
di lire. Le cifre menzionate non rappresentano che un ordine di grandezza, dato che i dati pubblicati sull’argomento classificano le ricerche
demografiche insieme a quelle in statistica sanitaria e in statistica sociale; l’attribuzione di ciascuna ricerca a una delle tre discipline è stata operata esclusivamente sulla base del titolo della ricerca, che in alcuni casi
non consente la certezza sulla natura del contenuti.
Una sommaria analisi delle informazioni relative al periodo 1982-90
consente di individuare i temi di ricerca che sono stati maggiormente
privilegiati. Spazio particolare è stato dato all’investigazione su problemi emergenti e di grande attualità sul piano sociale e politico, oltre che
scientifico: le migrazioni internazionali e la presenza straniera in Italia,
le condizioni demografiche del bacino del Mediterraneo e le loro ripercussioni sullo sviluppo economico dell’area. Non sembra casuale il parallelismo tra le vicende migratorie del paese e le preoccupazioni e gli
interessi tanto del ricercatore quanto dell’erogatore del fondi di ricerca.
Altri temi molto frequentati — anche in questo caso si tratta di tendenze evidentemente connesse con gli andamenti demografici in atto — sono le conseguenze economico-sociali di vari fenomeni demografici, in
particolare dell’invecchiamento della popolazione. Spazio ragguardevole è
stato poi assegnato a ricerche nel campo della demografia storica, che
attraversano attualmente una fase di rigoglio, e a studi sulla mortalità,
tema fra i più coltivati dalla demografia italiana. Comparativamente
meno presenti risultano altri temi classici, fra i quali la fecondità, la
nuzialità e la famiglia, che hanno fruito di altri canali di finanziamento:
naturalmente l’assegnazione di fondi riflette le richieste del ricercatori
Organizzazione accademica
83
prima ancora che le scelte del CUN; inoltre il quadro dipinto non può
che essere parziale, mancando la considerazione della quota del 60%
erogata dai singoli atenei.
Una parte consistente della ricerca e delle attività demografiche viene poi sostenuta finanziariamente dal Consiglio nazionale delle ricerche. Risorse cospicue vengono destinate ai cosiddetti «progetti finalizzati», di ampio respiro e di riconosciuto interesse interdisciplinare, fra i
quali attualmente compaiono ricerche sull’invecchiamento della popolazione e le sue conseguenze, sull’evoluzione della famiglia, sulle ripercussioni delle tendenze demografiche sul mercato del lavoro. Inoltre in
media cinque o sei progetti di ricerca demografica l’anno, per un’ammontare pari a circa il 35-40% della quota del fondi riservata dal Ministero a progetti di rilievo, vengono poi finanziati su proposta del Comitato per le scienze economiche, sociologiche e statistiche. Anche in questo
caso temi quali gli spostamenti di popolazione, la presenza straniera in
Italia, le conseguenze socio-economiche dell’evoluzione demografica risultano predominanti. Rilevante è la presenza di ricerche su temi a cavallo tra demografia e altre discipline, nonché gli studi di demografia
storica. Non mancano del resto ricerche anche importanti sui temi classici
della fecondità e della mortalità. È da aggiungere che il CNR contribuisce
alla ricerca demografica anche in altre forme, sovvenzionando istituzioni,
coprendo le spese di congressi e convegni e i costi di stampa di opere
varie.
Oltre che nelle sedi universitarie, la ricerca demografica viene condotta anche da alcune altre istituzioni, tra cui va innanzitutto menzionato il Comitato italiano per lo studio del problemi della popolazione
(Cisp), che ha lungamente operato neI campo della ricerca demografica,
dando importanti contributi in diversi settori. La sua creazione, nel 1928,
fu una ricaduta italiana della costituzione dell’Unione internazionale
per lo studio scientifico della popolazione (Uissp), di cui inizialmente
costituiva una sezione nazionale. E impossibile menzionare tutte le iniziative portate avanti dal Cisp nel corso degli anni; fra quelle più lontane neI tempo, si accenna, per la loro originalità, alle spedizioni scientifiche condotte negli anni 1933-40 per studiare popolazioni demograficamente isolate, presso le quali fosse più agevole trovare verifiche di
quelle influenze contemporanee di fattori biologici e sociali sui fenomeni
demografici, postulate dall’indirizzo di «demografia integrale» che
caratterizza dall’inizio l’attività del Cisp e che conserva tuttora la sua
validità. Merita inoltre di ricordare le varie importanti operazioni di promozione della demografia storica, a partire dalla vasta opera condotta
per l’approntamento di repertori delle fonti archivistiche italiane per
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Dionisia Maffioli
gli studi demografici fino al 1848, alla creazione nel 1970 di un attivo
Comitato per lo studio della demografia storica, che diede vita autonoma, sette anni più tardi, alla Società italiana di demografia storica. Tra
le iniziative che hanno avuto rilievo in anni recenti si segnalano inoltre
gli studi sulle aree di spopolamento, sulle migrazioni, sulla famiglia e
sulla condizione femminile nella CEE. Negli anni settanta particolare
importanza ha avuto la promozione di studi, allora all’avanguardia, sull’evoluzione della famiglia: è dall’interesse risvegliato da tali iniziative
che ha poi preso le mosse l’innovativa ricerca dell’Istat, sulle famiglie,
di cui si parla più avanti. Negli anni ottanta il Cisp ha dato l’avvio alla
ricerca sulla presenza straniera in Italia, che attualmente coinvolge studiosi di numerose università e contribuisce in modo importante alla conoscenza di un fenomeno di enorme rilevanza sociale e politica, i cui
contorni sono molto sfuggenti. Elenchi completi delle pubblicazioni del
Cisp sono riportati sulla rivista Genus, edita (dal 1934) dal Comitato
sotto il patrocinio del CNR; la rivista ospita lavori sia di demografia
pura, sia di indagine sui legami fra fenomeni demografici e aspetti biologici e socio-economici delle popolazioni che li esprimono. Genus ha
grande diffusione internazionale, in quanto viene gratuitamente distribuita a tutti i soci dell’Unione internazionale per lo studio scientifico
della popolazione (Uissp), insieme ad altre tre prestigiose riviste di demografia: la britannica Population Studies, la francese Population e la statunitense
Population Index. Pur prefiggendosi come funzione principale la diffusione
di studi e ricerche italiani, Genus accoglie anche lavori stranieri in lingua
inglese o francese. Di fatto la diffusione internazionale della rivista ne
fa uno spazio molto ambito e la presentazione di lavori di autori
stranieri, specialmente di paesi che non dispongono di propri strumenti di
comunicazione scientifica, è molto frequente.
Nel 1981 è stato creato l’Istituto di ricerche sulla popolazione (IRP),
organo del CNR con il compito di portare avanti l’indagine demografica
su problemi di particolare rilevanza politica, economica e sociale. Nell’ambito della sua attività istituzionale, l’IRP collabora con l’università
e altri enti di ricerca italiani e stranieri e presta la sua consulenza a enti
pubblici, organismi e commissioni governative. Dalla sua fondazione,
l’Istituto ha svolto un’intensa attività di ricerca e di promozione della
ricerca, spesso privilegiando la dimensione sociale, economica e politica
del fatti demografici, in armonia con i suoi scopi istituzionali. Migrazioni, invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro, previsioni, politiche demografiche, sono temi sovente al centro dell’attenzione,
senza che siano tuttavia trascurate altre problematiche sia classiche sia
innovative. Un importante settore di conoscenze che l’IRP ha esplorato
Organizzazione accademica
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mediante una serie di indagini ad hoc riguarda il grado di consapevolezza
degli italiani nei confronti delle tendenze demografiche in atto nel paese
nonché gli atteggiamenti dell’opinione pubblica in merito a possibili
azioni di politica demografica, capaci di incidere sugli andamenti della
nuzialità e della fecondità.
Nella sua attività di promozione della ricerca, l’IRP ha creato numerose occasioni di incontro e di dibattito, organizzando convegni,
seminari, giornate di studio su temi di attualità e di interesse scientifico. Tra le numerose pubblicazioni curate dall’IRP ricordiamo i Rapporti sulla situazione demografica italiana, al secondo del quali ha contribuito
gran parte del demografi italiani, ciascuno per il settore di sua competenza. Tale opera rappresenta una sorta di stato dell’arte della ricerca
demografica in Italia, oltre che un aggiornato e completo, anche se
sintetico, panorama delle tendenze demografiche in atto nel paese
(IRP-CNR, 1988). L’IRP ha partecipato — insieme con l’Istat e con
gruppi di ricercatori di diverse università, fra le quali in primo luogo
quelle di Padova, Roma e Firenze — alla seconda inchiesta nazionale
sulla fecondità (INF2). La prima si è svolta nel 1979, nel quadro del
World Fertility Survey, che ha coinvolto una sessantina di paesi del
cinque continenti. In Italia l’indagine, portata avanti da studiosi delle
Università di Padova, Firenze e Roma, coordinati da De Sandre, si è
svolta nel 1992 in parallelo ad analoghe operazioni in diversi paesi europei e in un quadro di comparabilità internazionale coordinato dell’Economic Commission for Europe delle Nazioni Unite.
Anche l’Istat ha dato, particolarmente nell’ultimo decennio, importanti contributi alle ricerche di popolazione, andando oltre la consueta
raccolta e pubblicazione del dati che tradizionalmente sono alla base
delle analisi demografiche. Venendo incontro a precise necessità della
ricerca, che tende ad allargare i suoi orizzonti per cercare in più ampio
contesto l’origine del suoi processi evolutivi, l’Istat ha innovato la raccolta delle informazioni, intraprendendo indagini speciali su temi di
grande interesse sociale concernenti aspetti fortemente dinamici e poco
noti della vita del paese. Anche in passato l’Istat ricorreva, per particolari esigenze conoscitive, allo strumento delle indagini speciali, sia occasionali (come le indagini sulla fecondità del 1931 e 1961), sia periodiche,
come l’indagine sulle forze di lavoro. Abbiamo così avuto nel 1983
l’indagine sulle strutture e sui comportamenti familiari, che per la prima
volta ha superato l’ottica della famiglia di diritto per tentare di cogliere i
contorni della famiglia di fatto, di individuarne la natura, di accertare la
struttura del rapporti interni fra i membri nonché la rete del legami
interfamiliari (Istat, 1985; 1986); vi è poi stata l’indagine sulla mortalità
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Dionisia Maffioli
differenziale, intesa a verificare l’esistenza, anche in Italia, di importanti differenze sociali di mortalità già osservate in altri paesi europei
(Istat, 1990), mentre dal 1987 ha preso l’avvio la serie delle Indagini
multiscopo sulle famiglie, che investigano su numerosi aspetti del contesto
familiare (Istat, 1989): alcuni aspetti particolarmente rilevanti vengono
stabilmente presi in considerazione (strutture familiari, condizioni
abitative, istruzione, attività lavorativa, fonti di reddito, caratteristiche
anagrafiche e malattie acute), numerosi altri sono trattati di volta in volta
in modo monografico (storia riproduttiva, malattie cronico-degenerative,
condizioni dell’infanzia, condizioni degli anziani, alimentazione, uso del
tempo, fatti delittuosi subiti, incidenti domestici, sport, molti altri). Da
queste indagini, che sono il frutto della collaborazione, tradizionale in
Italia, tra l’Istituto nazionale di rilevazione e l’ambiente della ricerca
accademica, sono venute informazioni di grande importanza per
l’approfondimento di particolari fenomeni demografici, oltre che per la
ricerca sociale in genere. L’Istat ha partecipato, come si è già detto,
all’organizzazione della seconda inchiesta nazionale sulla fecondità, non
solo mettendo a disposizione le competenze del suoi ricercatori, ma anche assumendo in gran parte i costi dell’operazione.
1.5. Società scientifiche
Non esiste in Italia una società scientifica che, analogamente a quanto
avviene sul piano internazionale con l’Uissp, abbia la finalità di promuovere e coordinare gli studi e le ricerche in tutto l’ambito considerato
di pertinenza della demografia e che accolga nel suo seno tutti i demografi italiani. La vita associata degli studiosi della disciplina si svolge
perciò essenzialmente in due forme:
a) con la partecipazione alle attività di società scientifiche a più ampio raggio che accolgono nel loro ambito anche la tematica demografica, come la Società italiana di statistica (SIS) e la Società italiana di economia, demografia e statistica (Sieds) o di società più specializzate che
si occupano di una sola branca della demografia, come la Società italiana di demografia storica (Sides);
b) con la partecipazione sul piano internazionale alle attività dell’Uissp
e di altre società internazionali, tra cui l’European Association for Population Studies (Eaps).
La Società italiana di statistica (SIS), nata nel 1939 per volontà di
un eminente demografo e statistico, Corrado Gini, accoglie fra i suoi
membri la maggior parte del demografi italiani. Nella società (che ha
Organizzazione accademica
87
un migliaio di associati) convivono, accanto alla metodologia statistica,
diversi settori disciplinari accomunati dal ricorso al metodo statistico:
innanzitutto la statistica economica, biometrica, sanitaria, sociale e la
demografia, che sono i settori tradizionalmente coltivati in Italia nel quadro degli studi di statistica applicata; ma anche nuovi settori in via di
affermazione riguardanti la statistica per le scienze fisiche e naturali,
per le scienze ambientali, per la tecnologia e la produzione industriale.
In questo quadro composito, l’attenzione riservata alla demografia è in
via di principio pari a quella destinata alle altre statistiche applicate, in
base alla linea di politica scientifica adottata dalla società, che riconosce
uguale interesse a ciascuna componente disciplinare presente al suo interno. Questo orientamento si esprime innanzitutto nell’assicurare uguale
spazio a ciascun settore disciplinare nelle riunioni scientifiche, che la
società tiene con cadenza biennale, mediante un:oculata scelta del temi
intorno ai quali strutturare i lavori. In tale prospettiva si può affermare
che i principali filoni di ricerca demografica portati avanti in Italia hanno trovato uno spazio in questi ultimi anni all’interno della SIS e che
una certa attenzione è stata destinata anche alla promozione di tematiche nuove. Negli anni ottanta la presenza di temi demografici in apposite sessioni delle riunioni scientifiche è stata costante: Problemi di esperienze
di previsioni in campo demografico ed economico-sociale (1982), Componenti socioambientali della mortalità differenziale (1984), Determinanti della fecondità: progressi nei criteri di osservazione e di analisi (1986); Sviluppo demografico del paesi
del Mediterraneo: conseguenze economiche e sociali e Struttura e ciclo di vita della
famiglia (1988); Trattamento di dati individuali in demografia. Prospettive di
nuova collaborazione fra statistici e demografi e Analisi demografiche per paesi con
statistiche carenti (1990). Si può osservare come, in armonia con le preoccupazioni scientifiche della SIS, il taglio degli argomenti sia tale da mettere in
luce prevalentemente gli aspetti metodologici, oppure quelli interdisciplinari. Sul piano del contenuti, si nota l’assenza della problematica relativa alle migrazioni e alla presenza straniera in Italia, che è pure stata nel periodo in questione occasione di un importante dibattito in sedi esterne
alla SIS, mentre all’interno non ha trovato eco che grazie alle comunicazioni spontanee.
Temi demografici sono stati parimenti trattati in altre adunanze della
SIS (convegni, giornate di studio, tavole rotonde, forum). In questi casi
sono state per lo più discusse problematiche generali, di cui i sin-goli
settori disciplinari presentano particolari sfaccettature che vengono
considerate in parallelo. Rientrano in questa categoria i convegni sulla
qualità del dati, sull’organizzazione di servizi statistici, sull’informazio-
88
Dionisia Maffioli
ne statistica nei mezzi di comunicazione di massa, sui sistemi urbani,nonché quello già ricordato sul ruolo delle discipline statistiche nella formazione nell’insegnamento pre-universitario. Tematiche demografiche
sono state infine oggetto del corsi di formazione che da qualche anno
la SIS affianca alle sue più significative manifestazioni.
Valutazioni più problematiche vanno però espresse se il peso della
demografia nel quadro delle attività della SIS deve essere giudicato in
base al numero globale di contributi a contenuto demografico presentati nelle varie manifestazioni della società, tenendo conto quindi anche
di quelli spontanei. In un lavoro di ricognizione su questi aspetti, preparato in occasione del cinquantenario della SIS, N. Federici (1989) sottolinea una presenza relativamente scarsa di lavori demografici fra quelli
prodotti nell’ambito della SIS nell’intero cinquantennio: i contributi specifici, uniti a quelli in cui la demografia compare come parte di un quadro interdisciplinare, rappresentano circa il 14% del totale e comunque
non rispecchiano per intero la portata della ricerca demografica nel paese.
L’esigenza vivamente sentita di una possibilità di espressione concernente, senza limitazioni, tutti gli aspetti e i settori delle scienze demografiche si era concretata in alcuni tentativi di mettere in funzione
all’interno della SIS una struttura organizzativa esclusivamente e specificamente finalizzata a promuovere gli studi demografici. Tali tentativi
non erano però stati finora coronati da successo duraturo. Da alcuni anni, tuttavia, opera all’interno della società un Comitato di coordinamento
per la demografia, che ha organizzato alcune interessanti iniziative (tra
cui un forum sulle ricerche in tema di mortalità differenziale nel maggio
1990 e uno sulle interconnessioni fra tendenze demografiche e mercato
del lavoro nel maggio 1991) e per il quale si auspica, dopo un periodo
di rodaggio delle modalità organizzative, lo svolgimento di un’organica
e complessiva attività di promozione scientifica, tenendo conto del più
sperimentati e fruttuosi filoni di ricerca nazionali e degli orientamenti
che emergono sulla scena internazionale, secondo l’auspicio espresso da
N. Federici (1989).
Altro sodalizio entro cui si organizza la vita associata degli studiosi
di demografia è la più piccola Società italiana di economia, demografia
e statistica (Sieds). Creata nel 1938 come evoluzione di un Comitato
di consulenza per gli studi della popolazione nato nel 1937 per opera
di un altro illustre demografo, Livio Livi, la Sieds è stata fin dall’inizio
prevalentemente orientata verso studi applicativi piuttosto che metodologici. Organo della società è la quadrimestrale Rivista italiana di economia, demografia e statistica, fondata nel 1947, che accoglie contributi
appartenenti al dominio di tutte le discipline annunciate nel titolo, ma
Organizzazione accademica
89
tra i quali prevalgono in qualche misura quelli di indole economica. Gli
sviluppi più recenti dimostrano che la società si assegna come area di
intervento soprattutto lo studio interdisciplinare di fenomeni di particolare rilievo economico-sociale e politico. Il tema della XXX Riunione
scientifica (maggio 1988), che esplorava l’evoluzione della popolazione
e l’assetto economico-sociale dell’Italia sino al Duemila, è un indice
palese degli ormai consolidati orientamenti societari.
La Società italiana di demografia storica (Sides) è di creazione più
recente (1977) delle due precedenti. Coglie i frutti di un’evoluzione disciplinare maturata negli anni precedenti anche in virtù dell’opera del già
menzionato Comitato per lo studio della demografia storica attivo fin
dal 1970 in seno al Cisp. La rapida espansione del suoi associati e la
qualità delle iniziative da essa promosse, che hanno dato straordinario
impulso alle ricerche nel settore, ne fanno una scuola ormai affermata,
anche a livello internazionale. Occasioni importanti di dibattito e di
approfondimento di diverse tematiche sono stati rappresentati da una
serie di convegni nazionali (tra cui La ripresa demografica del Settecento,
1979; Demografia storica delle città italiane, 1980; La popolazione italiana del
secolo XIX, 1983; La popolazione delle campagne in Italia nel XVII e XVIII
secolo, 1987) e internazionali, questi ultimi organizzati in collaborazione
con enti e società straniere, e soprattutto con le omologhe società
francese e iberica (Funzionamento demografico delle città, 1981; Problemi di
storia demografica dell’Italia medievale, 1983; Strutture e rapporti familiari in epoca
moderna: esperienze italiane e riferimenti europei, 1983; Infanzia abbandonata e
società in Europa, 1987; Fonti archivistiche e ricerca demografica, 1990). Il
Congresso luso-ispano-italiano di demografia storica (1987), patrocinato
dall’Uissp, ha coperto nelle sue cinque sessioni una vasta gamma di
problematiche riguardanti le vicende della popolazione del Mediterraneo occidentale. La pubblicazione degli atti del convegni ha reso
disponibili materiali di grande interesse.
La Sides organizza anche corsi di formazione tecnica e metodologica
per i giovani studiosi che si avvicinano al campo della demografia storica, consentendo loro di stabilire collegamenti con la comunità degli studiosi e di avviare o consolidare progetti scientifici. Dal 1984 viene pubblicato un Bollettino che, oltre a diffondere le notizie sull’attività della
società, ospita articoli, saggi, interventi, nonché sezioni permanenti di
bibliografia e repertori di studi e ricerche. La vivace crescita del settore è
testimoniata anche dal numero di pubblicazioni italiane citate nella
Bibliographie internationale de démographie bistorique, che dal 1978 compone
un quadro abbastanza rappresentativo, anche se non esaustivo, della
produzione nel settore.
90
Dionisia Maffioli
1.6. La demografia italiana nel contesto internazionale
Abbiamo menzionato, fra le forme di vita associata del demografi
italiani, la partecipazione all’attività di diverse istituzioni scientifiche
internazionali. Esaminare questo aspetto significa, d’altra parte, introdurre il discorso più generale del ruolo che la demografia italiana riveste
sulla scena mondiale. Una ricognizione sintetica ma esauriente delle forme
di partecipazione italiana alle attività della comunità internazionale del
demografi nell’ultimo cinquantennio si può trovare in Cagiano de Azevedo (1988).
La collaborazione italiana ai lavori dell’Uissp ha radici antiche e prestigiose. La costituzione di tale sodalizio fu auspicata in occasione del
lavori del primo Congresso mondiale della popolazione (Ginevra, 1927).
La fondazione avvenne l’anno successivo grazie all’opera di un comitato
promotore nel quale ebbe larga parte Gini, allora presidente dell’Istituto
centrale di statistica. Il nuovo organismo si prefiggeva lo scopo di
promuovere la conoscenza scientifica sui fattori storici, sociali, economici, culturali influenzanti la struttura e l’evoluzione delle popolazioni
e i loro reciproci rapporti. Rifondato dopo la guerra a New York con
l’attivo contributo di un altro studioso italiano, Livio Livi, l’Uissp svolge un’attività cruciale per i demografi di tutto il mondo. Gli studiosi
italiani hanno dato, attraverso gli anni, un contributo di servizio nei suoi
organi direttivi con vari compiti e cariche (Gini, 1928-31, vicepresidente;
Livi, 1937-47, vicepresidente; Boldrini, 1947-49, vicepresidente; Livi,
1949-50, vicepresidente; Mortara, 1954-57, presidente e in seguito presidente onorario fino al 1969; Colombo 1963-69, vicepresidente; Livi
Bacci, dal 1973 dapprima segretario generale e tesoriere, poi vicepresidente e infine presidente). Anche in seno alle Commissioni e gruppi di
lavoro in cui si articolano le attività scientifiche dell’Unione si riscontra
una partecipazione altamente qualificata, anche se numericamente ridotta, di demografi italiani. Firenze ha ospitato, nel 1985, la riunione
scientifica della società (che si tiene con cadenza quadriennale), rinnovando il successo di analoga riunione tenutasi a Roma nel 1953. I demografi italiani sono in gran parte iscritti all’Uissp; in termini di numero di soci la presenza italiana nell’Unione è cospicua (terza in Europa
e sesta nel mondo, dopo Stati Uniti, India, Canada, Francia e Regno
Unito).
Indipendentemente dai lavori dell’Unione, l’Italia ha partecipato e
in varia misura contribuito a tutti i grandi appuntamenti della demografia internazionale. È stata attivamente presente nelle conferenze mon-
Organizzazione accademica
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diali della popolazione organizzate con cadenza decennale dalle Nazioni
Unite (Roma 1954, Belgrado 1965, Bucarest 1974, Città del Messico
1984). Nelle ultime due occasioni una delegazione ufficiale, composta
da accademici e guidata da esponenti governativi, ha illustrato le prese
di posizione italiane in materia di politica della popolazione. Tra le due
manifestazioni e proprio in base all’esperienza maturata nel corso della
prima, è stato creato un Comitato nazionale della popolazione presso
la Presidenza del Consiglio del ministri, competente in materia di iniziative di carattere demografico a livello nazionale e internazionale.
Un apporto significativo e altamente qualificato, anche se espresso
da un numero molto limitato di studiosi, è andato nel corso degli anni
anche a diverse istituzioni internazionali che riservano un’attenzione alle
problematiche demografiche: alla Commissione della popolazione delle
Nazioni Unite, al Gruppo per la demografia sociale promosso dallo stesso organismo, al Gruppo per la demografia del Comitato internazionale
di documentazione per le scienze sociali dell’Unesco.
Attiva è la presenza sulla scena europea, che ha visto qualificati e
abbastanza numerosi contributi italiani alle Conferenze demografiche
europee periodicamente promosse dal Consiglio d’Europa e dal Comitato europeo della popolazione costituito al suo interno. Altri stimoli
alla presenza italiana in quest’ambito vengono dalla partecipazione ai
lavori dell’European Association for Population Studies, di recente creazione, che ha due italiani fra i suoi soci fondatori e pubblica l’European
Journal of Population. Un contribuito ragguardevole va inoltre ai lavori
dell’Aidelf (Association internationale des démographes de langue frangaise), che dal 1988 è presieduta da un italiano.
Tuttavia si può osservare come la presenza italiana, costante a livelli
elevati e certamente significativa per la qualità scientifica del contributi,
non si sia finora manifestata con la presentazione, nelle riunioni scientifiche
delle varie società e sulle riviste internazionali, di un numero di lavori
anche quantitativamente adeguato alle dimensioni della demografia italiana,
che, come abbiamo visto, costituisce una presenza numericamente
rilevante all’interno dell’Uissp. Inoltre i contributi italiani risultano in
genere opera di studiosi affermati, mai di giovani ricercatori.
Complessivamente la partecipazione italiana resta, com’è sempre stata,
essenzialmente legata a iniziative di carattere individuale e alla personalità e agli interessi scientifici di pochi studiosi. Non c’è un coinvolgimento corale, organicamente espresso dalla comunità del demografi nazionali. In particolare, la partecipazione ai lavori dell’Unione sembra costituire un’occasione di crescita e di confronto solo in parte sfruttata.
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Dionisia Maffioli
Le ragioni di questa situazione sono senz’altro molteplici e certamente
un peso rilevante è da attribuirsi alle barriere linguistiche. Tuttavia non
si può ignorare il fatto che l’attenzione della demografia italiana è stata,
dal secondo dopoguerra e fino a tempi recenti, fondamentalmente orientata — sia pure con rilevanti eccezioni — su temi di prevalente interesse
nazionale, mentre sono stati in gran parte trascurati filoni di studio che
nel frattempo si venivano imponendo sulla scena internazionale. L’esempio forse più clamoroso riguarda la demografia del paesi in via di
sviluppo che l’Italia, unico fra i paesi dove sono attivi importanti centri
di ricerca demografica, ha fino a tempi recenti quasi completamente ignorato; con la luminosa eccezione dell’opera che Mortara ha svolto fino
agli anni sessanta, non peraltro nell’università italiana ma in America
Latina, dove l’avevano condotto le vicende politiche, mentre su di essa
si esercitava l’attenzione del demografi di tutto il mondo, per quanto
riguarda sia gli aspetti sostanziali, sia il profilo metodologico.
L’assenza di un interesse italiano in questo settore, unito alla mancanza di una attività di formazione per, e di cooperazione con, demografi del Terzo Mondo, ha certo avuto effetti deprimenti sulla partecipazione italiana al dibattito scientifico internazionale. In questo particolare settore di studi si nota però un risveglio di interessi e un fervore
di iniziative che preludono a nuovi sviluppi, anche in connessione con
le vicende migratorie del paese e con il rapido incremento della presenza straniera sul territorio nazionale, che hanno determinato una maggiore sensibilità per le problematiche in questione. Nel contempo l’attenzione scientifica e la cooperazione italiana allo sviluppo registra un
crescente impegno nel campo delle cosiddette «attività di popolazione»,
in armonia con il riconoscimento che «la lotta contro la fame e per lo
sviluppo è resa più difficile dalla continua crescita demografica» (risoluzione parlamentare del 6-4-1982; si veda anche Ministero degli Affari
esteri, Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, Nuova disciplina
della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo (legge n. 49 del
26-2-1987). Finora soprattutto volta a sostenere iniziative multilaterali
del Fondo delle Nazioni Unite per le attività in materia di popolazione
(Fnuap; si tratta prevalentemente del sostegno a programmi di
pianificazione familiare o di salute materno-infantile; si veda Maffioli e
Orviati, 1987), la cooperazione italiana ha comunque finanziato anche iniziative di ricerca e di formazione scientifica in demografia, attuate da
istituti universitari in collaborazioni con studiosi e istituzioni di paesi
in via di sviluppo. Tali forme di cooperazione potrebbero in futuro espandersi, in parallelo alla vieppiù riconosciuta importanza delle dinamiche
di popolazione ai fini dello sviluppo.
Organizzazione accademica
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Anche in altri settori della ricerca demografica si possono scorgere i
sintomi del crescente interesse attribuito al sempre maggior coinvolgimento nella comunità scientifica internazionale e all’allargamento di orizzonti che deriva dall’accesso a un più ampio circuito di idee, informazioni, collaborazioni. Centri di ricerca, società scientifiche, istituzioni
accademiche moltiplicano, come si è visto, le occasioni di incontro internazionale, promuovono attività scientifiche con studiosi stranieri, cercano le strade di un più fitto interscambio. L’attuale cospicua presenza
di italiani ai massimi livelli di responsabilità delle principali organizzazioni internazionali del settore è di buon auspicio per lo sviluppo di un’azione coordinata di promozione del settore.
1.7. La produzione scientifica
Esprimere un giudizio sull’efficienza del sistema accademico della demografia che siamo andati illustrando non è certo un compito agevole,
anche perché sarebbe necessario stabilire preventivamente metri di giudizio (in termini di soddisfacimento di determinate esigenze? In termini
di rapporto fra finanziamenti e risultati?) e di paragone (con altri paesi? Con
altre discipline?) di non facile individuazione. Nel corso dell’esposizione
precedente si sono forniti molteplici elementi di valutazione, che si
lasciano all’apprezzamento del lettore. Qui si vogliono fornire alcune
indicazioni sulla produzione scientifica italiana nel quadro internazionale, che possono costituire ulteriori elementi di giudizio.
Non esistono in Italia repertori bibliografici che diano conto in modo esaustivo e aggiornato delle pubblicazioni in campo demografico. I
lavori più recenti di tale natura risalgono agli anni settanta (Golini, 1966;
Golini e Caselli, 1973). Per una panoramica su questo aspetto è tuttavia
possibile ricorrere all’ausilio del repertori internazionali pubblicati sulla
rivista Population Index, curata dall’Office of the Population Research
della Princeton University per conto della Population Association of
America. L’area geografica coperta dalla rivista si estende al mondo
intero, anche se le citazioni riguardano principalmente lavori redatti in
lingue europee. Per quanto riguarda le opere in lingua italiana, le citazioni apparse su Population Index, che per il periodo 1985-90 comprendono poco meno di 300 titoli, non possono certo dirsi esaustive. Restano probabilmente escluse dalla recensione pubblicazioni di interesse locale e articoli apparsi in periodici o atti di convegni che trattano tematiche prevalentemente non demografiche. Non sono inoltre segnalati i
lavori di demografia che compaiono negli atti delle riunioni della SIS e
del convegni della Sides. Tuttavia i repertori di Population Index forni-
94
Dionisia Maffioli
scono un quadro significativo del tipo di studi che vengono condotti
in Italia, o perlomeno di quelli che arrivano alla ribalta internazionale.
Vale perciò la pena di esaminarli, tenendo conto di qualche distorsione, la più importante delle quali sembra consistere in una sottovalutazione della presenza di studi di demografia storica. Per quest’area di
studi, un quadro più accurato è fornito dalla Bibliographie internationale de
la démographie historique, che si pubblica a partire dal 1978.
In base alle segnalazioni comparse nel periodo 1985-90, la ricerca
demografica italiana pare prediligere i temi della mortalità, della fecondità e delle migrazioni (tab. 6), anche se una parte consistente delle segnalazioni sul tema della mortalità riguarda lavori di carattere epidemiologico piuttosto che demografica. Una certa attenzione sembra essere
stata riservata, specialmente nel primo del due trienni in cui si articola
Tabella 6. Lavori di autori italiani citati su Population Index secondo il settore disciplinare.
Lavori italiani
Settore disciplinare
Studi generali e teorie
Studi regionali
Distribuzione spaziale
Tendenze e crescita popolazione
Caratteristiche e strutture
Mortalità
Fecondità
Nuzialità e famiglia
Migrazioni
Demografia storica
Interrelazioni con l’economia
Interrelazioni non economiche
Politiche
Metodi di analisi, modelli
Totale
1985-87
4,03
3,36
1,34
0,67
8,05
31,54
18,79
2,01
17,45
2,01
4,03
2,01
2,01
2,68
100,0
1988-90* 1985-90
Totale
citaz.
1983**
Totale
citaz
1985***
Totale
citaz.
1990****
100,00 100,00
100,00
100,00
100,00
3,91
3,91
4,69
4,69
4,69
26,56
15,63
4,69
21,88
3,91
1,56
1,56
0,78
1,56
3,97
3,61
2,89
2,53
6,50
29,24
17,33
3,25
19,49
2,89
2,89
1,81
1,44
2,17
2,90
2,90
4,30
7,40
5,10
17,10
20,70
8,50
13,70
3,90
5,10
2,20
3,90
2,30
1,80
2,44
4,63
3,60
3,86
19,41
21,34
6,43
16,45
3,08
6,04
4,24
4,37
2,31
2,00
3,10
2,50
4,30
5,50
13,60
25,40
12,10
14,30
0,80
6,10.
3,60
5,20
1,20
Fonte: Golini (1984). Per gli studi sui paesi sviluppati Populaion Index, XLIX (1983).
Sono stati compresi nella categoria gli autori di nazionalità italiana residenti in Italia,
includendo i lavori scritti in collaborazione con stranieri e/o pubblicati all’estero.
* Sono stati considerati solo i primi tre numeri della rivista, che è trimestrale.
** Golini (1984). Per gli studi sui paesi sviluppati Population Index, XLIX (1983).
*** Population Index, LI (1985).
**** Population Index, LVI (1990).
Organizzazione accademica
95
l’osservazione, allo studio di caratteristiche strutturali della popolazione. L’arco temporale considerato è troppo ridotto perché si possano discernere significative evoluzioni di tendenza; tuttavia non sembra casuale l’incremento degli studi classificati sotto la voce «migrazioni», tenendo presente lo sviluppo della ricerca in questo settore e la corrispondente concentrazione di finanziamenti.
Gli orientamenti della ricerca italiana sono abbastanza in linea con
quanto avviene sul piano internazionale, dove pure i temi della fecondità,
della mortalità e delle migrazioni sono prevalenti negli anni presi in
esame (1985-90) e tali risultano anche a precedenti ricognizioni (Golini,
1985). Tuttavia non mancano alcune peculiarità nazionali. Innanzitutto,
contrariamente a quanto avviene all’estero, in Italia gli studi sulla mortalità
sembrano maggiormente coltivati di quelli sulla fecondità, e ciò corrisponde a
quanto osservato circa le ricerche in corso e l’entità del relativi
finanziamenti. Agli studi sulla nuzialità e sulla famiglia è stata riservata
un’attenzione complessivamente minore che all’estero. La progettata
indagine nazionale sulla fecondità — che riguarderà anche la nuzialità e
le nuove forme di costituzione delle coppie — dovrebbe comportare un
incremento di attenzione per questi aspetti della vita del paese. Alquanto
trascurati appaiono nel periodo in questione gli studi sulle inter- relazioni
tra demografia ed economia o altre discipline e sulle politiche di
popolazione, anche rispetto a un contesto internazionale dove pure tali studi
occupano spazi ridotti. Sintomi di una nuova vivacità nel settore risultano
però dalla crescente attenzione che le ricerche in corso dedicano ad
aspetti interdisciplinari, anche qualora non li contemplino come oggetto
primo (si veda sopra il paragrafo Possibili sviluppi dell’insegnamento).
2. La demografia negli studi pre-universitari
Prima di chiudere il discorso sulla collocazione accademica della demografia si ritiene opportuno gettare un breve sguardo alla presenza —
o assenza — della componente demografica nel complessivo iter formativoscolastico dello studente italiano.
La demografia non costituisce materia d’insegnamento nei corsi di
studi pre-universitari: condivide in ciò la condizione di altre discipline
sociali, non accolte nel quadro di programmi scolastici ancora prevalentemente impostati secondo una concezione esclusivamente umanistica
delle scienze sociali. Non mancherebbero tuttavia gli spazi per la trasmissione di diverse rilevanti tematiche della popolazione attraverso le
strette connessioni che le legano a discipline — quali storia, geografia,
96
Dionisia Maffioli
scienze biologiche — di tradizionale presenza nella scuola. L’importanza
delle vicende demografiche nel definire le condizioni di sviluppo delle società umane, la molteplicità delle relazioni fra dinamica della popolazione e territorio, il rapporto dialettico fra uomo e natura non solo consentono, ma talvolta richiedono — e i programmi rinnovati delle scuole medie in qualche caso più o meno esplicitamente Io riconoscono — l’approfondimento di specifici apporti conoscitivi della demografia, nelle sue articolate connessioni con la realtà storica, territoriale, ambientale, biologica. La collocazione della demografia a un crocevia in cui confluiscono e si saldano i contributi di numerose discipline, appartenenti all’ambito delle scienze umane e delle scienze naturali, al pari dell’applicazione
del metodo scientifico di indagine del fenomeni garantito anche dallo
strumento statistico, conferiscono alla disciplina alte potenzialità educative e formative che andrebbero valorizzate. La forte valenza politica e
sociale di alcune tematiche demografiche attuali aggiunge motivi per ritenere
importante la presenza della demografia nei quadri interpretativi della realtà
storico-sociale che vengono forniti allo studente italiano.
I limitati spazi esistenti nei programmi di alcuni ordini di scuole non
sono, tuttavia, convenientemente sfruttati. I nuovi, ma ormai consolidati, orientamenti disciplinari della storia e della geografia, i programmi di scienze che sottolineano l’importanza della struttura e della dinamica della popolazione in relazione alle condizioni dell’ambiente, avrebbero dovuto promuovere un’assunzione di tematiche demografiche maggiore e più qualificata di quella riscontrata da un’indagine condotta nel
1985 (Lombardo e Maffioli, 1987) sui libri di testo.
La riflessione sul tema dell’insegnamento pre-universitario della demografia è stata particolarmente intensa a cavallo fra gli anni settanta
e ottanta (Federici, 1973; 1975a; 1975b; Pinnelli, 1973; 1979; Lombardo e Pinnelli, 1975; Lombardo, 1979a; 1979b; Pinnelli e Sonnino,
1981; Lombardo e Maffioli, 1987). In quegli anni era attiva una commissione scientifica della SIS dedicata a Il ruolo della statistica nella scuola
dell’obbligo e nella scuola superiore, che estendeva la riflessione anche
alla demografia e aveva organizzato significative occasioni di incontro
e di dibattito sull’argomento; né sono mancate in quel periodo occasioni di discussione e di confronto in sede internazionale, cui la demografia
italiana ha dato contributi di rilievo (Federici, 1973; 1975a). Il dibattito
ha poi perso di slancio, anche in relazione alla fase di ristagno che
attraversano i lavori per la riforma degli studi secondari. Le passate
discussioni avevano portato, comunque, a una sostanziale convergenza
di opinioni e di posizioni sull’opportunità e le modalità dell’insegnamento
pre-universitario della demografia nel quadro della riforma. L’ipotesi di
Organizzazione accademica
97
un’adeguata presenza nell’area delle scienze storico-sociali è generalmente
ritenuta preferibile e più realistica di quella di una poco praticabile introduzione indipendente della disciplina, che dovrebbe contendere lo
spazio alle altre scienze sociali. L’assenza di steccati disciplinari potrebbe rivelarsi vantaggiosa e favorire il miglior dispiegamento del potenziale formativo della demografia.
Nell’attesa della riforma, l’opportunità — altamente auspicabile — di
trasmettere contenuti demografici attraverso la trattazione parziale che
ne possono fare altre discipline richiama un impegno per l’aggiornamento
degli insegnanti e per la produzione di adeguati sussidi didattici; fra le
non numerose iniziative in corso in questa direzione, si ricordano i corsi
di aggiornamento per docenti delle scuole secondarie superiori che il
Dipartimento di scienze demografiche dell’Università La Sapienza di Roma organizza da alcuni anni, nel quadro delle attività dell’Irrsae. Un gruppo di lavoro che opera per la promozione dell’insegnamento pre-universitario della statistica e della demografia è stato creato all’interno della
SIS e ha dato luogo fra l’altro alla nascita della rivista Induzioni, che
ospita lavori di ricerca didattica.
L’esigenza del riconoscimento del valore formativo della demografia
nell’ambito dell’educazione scolastica non è del resto che un aspetto della
più vasta istanza di aggiornamento culturale dell’opinione pubblica in
genere, come fondamento di un corretto apprezzamento della risonanza
sociale del comportamenti demografici individuali e come necessario
presupposto di politiche di popolazione socialmente condivise e democraticamente fondate (Sonnino, 1987). La divulgazione scientifica non
è stata molto praticata dai demografi italiani, ma riceve attualmente maggiore attenzione, sia con un uso più frequente e più accorto del mass
media (Golini, Palomba e Menniti, 1987; Guarna e Pazzano, 1987), sia
con la pubblicazione di libri che, pur rispettando esigenze di accuratezza
e di qualità scientifica, sono accessibili anche a un pubblico di non
specialisti e di gradevole lettura (Sonnino, Livi Bacci, Lombardo, Volpi).
3. Conclusioni
L’articolata presenza della demografia a tutti i livelli della formazione universitaria, il numero di cattedre che le sono attribuite e la loro
rapida crescita negli ultimi anni testimoniano un’affermazione accademica che fa riscontro allo sviluppo e al consolidamento della disciplina.
La collocazione accademica in vari contesti e livelli formativi prefigura
un insegnamento flessibile, destinato al conseguimento di finalità
molteplici: alla formazione del demografi, che possono essere orientati
98
Dionisia Maffioli
sia alla ricerca sia alla professione, si affianca, su un altro versante, l’integrazione della demografia in profili formativi esogeni, ai quali essa apporta i suoi specifici contributi conoscitivi. L’analisi condotta nelle pagine precedenti ha cercato di mettere in luce il modo in cui l’insegnamento soddisfa queste svariate esigenze. Motivo di soddisfazione è l’esistenza, presso alcune sedi universitarie, di corsi di studi che danno la
possibilità di seguire un iter completo di formazione demografica: la necessità di ridefinire i profili formativi imposta dalla rapida evoluzione
disciplinare, su cui si esercita un’attenta riflessione (De Sandre e Santini, 1987), risponde a un’esigenza di risistemazione globale della materia e fa parte di normali processi di aggiustamento. A questo riguardo
soccorre del resto, per chi si orienta alla ricerca e alla docenza universitaria, la flessibile organizzazione del dottorato.
Per quanto concerne gli aspetti professionali della preparazione demografica, questi non sembrano essere sempre chiaramente individuati
e coerentemente perseguiti. Se la demografia non costituisce la struttura
portante di un corso di laurea, corrispondentemente all’assenza di una
figura professionale specifica, non mancano tuttavia in diversi contesti
le possibilità di utilizzazione di competenze demografiche di tipo professionale, analogamente del resto a quanto già avviene in altri paesi, dove l’uso di proiezioni e dati demografici è prassi costante in tutte le attività di progettazione per costruire strutture, vendere prodotti, fornire
servizi pubblici e privati: «per i demografi sfornati dalle università americane... l’occupazione in questo settore costituisce uno degli sbocchi
principali» informa Keyfitz (1987, p. 384), riferendosi agli. Stati Uniti.
Un’adeguata valorizzazione delle valenze professionali della demografia,
condotta precisandone le finalità e rafforzando i collegamenti con il
mondo del lavoro, darebbe concretezza a quella richiesta, che i demografi sovente avanzano, di maggior considerazione per la variabile demografica in vari campi d’azione: dal politico, all’amministrativo, a quello delle attività produttive.
C’è infine da chiedersi se una riflessione adeguata sia stata destinata
alla definizione del contenuti dell’insegnamento della demografia nelle
facoltà non statistiche quali economia e commercio, scienze politiche
e altri; in questi casi l’analisi svolta suggerisce l’immagine di una demografia spesso chiusa nella sua autonomia e poco collegata al contesto formativo e di ricerca in cui è inserita. A questi corsi di demografia, che
sono i più numerosi nell’università italiana, è affidato il compito cruciale
di evidenziare il sovente misconosciuto ruolo del fattori demografici
nelle varie manifestazioni dell’attività umana. Vale quindi la pena di dedicarvi un’attenta considerazione.
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Vinci F., Lezioni di statistica demografica, Padova, Cedam, 1927.
Volpi R., Storia della popolazione italiana dall’Unità ad oggi, Firenze, La Nuova
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Zuliani A., «L’attività della commissione su «Il ruolo della statistica nella scuola
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— Aspetti quantitativi della recente evoluzione dell’Università italiana, seminario
tenuto al Dipartimento di statistica, probabilità e statistiche applicate dell’Università La Sapienza di Roma, giugno 1986.
Zuradelli G., Saggio di una teorica della scienza statistica, Pavia, Fusi e C. success.
de’ Galeazzi, 1822.
Capitolo quarto
I metodi
Antonio Santini
1. Uno schema di riferimento
La ripartizione del sistema demografico in sotto-sistemi definiti in
funzione della sue varie componenti, introdotta da Livi Bacci nel primo
capitolo di questa Guida, costituisce una cornice di riferimento opportuna ed efficace nella prospettiva di definire le grandi linee del processo
di maturazione subito nel tempo dalla demografia. L’obiettivo di disegnare un quadro di sintesi dei grandi progressi e delle profonde trasformazioni registrati sotto il profilo teorico e tecnico dai metodi demografici negli anni, richiede peraltro che la riflessione venga indirizzata su
direttrici di fondo trasversali rispetto alle tradizionali suddivisioni tematiche della demografia. Legare la disamina degli sviluppi della metodologia demografica ai diversi «oggetti» che rientrano nel suo orizzonte
di interessi implicherebbe, in effetti, una sua eccessiva frammentazione
e il rischio di vederla sostanzialmente trasformarsi in una sterile elencazione1.
Per semplificare la trattazione e per meglio comprendere i caratteri
essenziali dei metodi della demografia e del processo evolutivo da que1 Anche se la demografia si caratterizza, come si dirà più precisamente in seguito, per
dei fondamenti di analisi che consentono a tutti i processi da essa studiati di confluire in un
quadro unitario, molte tecniche o sottocapitoli dell’analisi stessa sono legati alle specifiche e
differenti entità oggetto di studio. Nessun demografo, ormai, è in grado di dominare non
dico tutti i settori in cui si ripartiscono gli studi di popolazione, ma neppure spesso tutti i
sub-settori. Quand’anche ne fosse capace, gli sarebbe comunque impossibile contenere entro dimensioni appropriate tutti i progressi nei metodi e nella modellistica registrati nella
disciplina in un arco temporale sufficientemente ampio da garantire l’apprezzamento del
processo di maturazione teorica e tecnica che li ha prodotti. Se si guarda ad esempio l’indice
della rivista bibliografica Population Index che trimestralmente aggiorna su quanto in tema di
popolazione si pubblica nel mondo, vediamo che esso si struttura in diciannove settori
tematici; limitando l’attenzione ai soli tradizionali grandi capitoli della demografia vediamo
anche che il settore dedicato, poniamo, alla mortalità si articola in sette subsettori ciascuno
dei quali si differenzia dagli altri non solo per l’oggetto (mortalità generale, infantile, perinatale, tavole di mortalità e così via) ma anche per i metodi pertinenti: lo stesso avviene per i
settori fecondità o migrazioni.
106
Antonio Santini
sti subito, anziché procedere per capitoli tematici, è conveniente fare
riferimento a una diversa e ancor più elementare schematizzazione:
precise coordinate nella ricerca delle direttrici generali di tale processo
sono di fatto riconoscibili nel rapporto che lega i criteri di analisi
all’osservazione dei fatti della popolazione. In tal senso, quelle si
configurano come caratterizzate da due dimensioni: una riguardante la
prospettiva temporale dell’osservazione stessa (tempo) e una attinente al
carattere delle unità di studio all’uopo adottate (osservazione).
Alla base di questo schema — che semplifica ma non nasconde una
realtà assai complessa, le cui implicazioni, niente affatto meccaniche e
tanto meno ovvie, verranno in seguiti meglio chiarite — sta l’idea che gli
eventi demografici — nascite, morti, matrimoni, migrazioni — osservati
e rilevati nel momento in cui si manifestano (asse trasversale) sono le
«variabili risultato» di processi che si manifestano nel tempo lungo il ciclo vitale (asse longitudinale) delle micro-unità elementari (individui) o
complesse (famiglie) facenti parte delle macro-unità (coorti) che compongono l’aggregato demografico2. Nel contempo, e di conseguenza,
lo schema prefigura anche un «logico» o «naturale» sviluppo degli approcci osservazionali e di analisi, sottintendendo così la considerazio2 Per dare fin da adesso un senso alla contrapposizione trasversale-longitudinale che
verrà meglio chiarita in seguito si può, a titolo di esempio, fare riferimento alle nascite
annuali. I bambini messi al mondo in un anno di calendario provengono dalle donne in
età 15-49 anni compiuti (periodo fecondo), nate pertanto in 35 anni successivi o, come si
suoi dire, appartenenti a 35 generazioni successive. Il totale dei nati dell’anno è, dunque,
il risultato della somma di tante esperienze generazionali parziali (35, quante sono le etàgenerazioni considerate) che sono colte attraversando — e quindi trasversalmente — le
generazioni contemporaneamente osservate nell’anno in questione. E quanto viene di
anno in anno fornito dalla statistica ufficiale e specificato nei tabulati Nati per età della
madre. Una generazione di donne (le donne nate in uno stesso anno) produce invece figli
a età successive e quindi in anni di calendario successivi: il totale verrà ricostruito
sommando nel tempo — longitudinalmente — le esperienze parziali vissute in età e anni
successivi fino al termine del periodo fecondo.
I metodi
107
ne di specifiche strategie di ricerca all’intersezione degli elementi delle
due dimensioni: macro-trasversale, micro-trasversale, macro-longitudinale,
micro-longitudinale. Inoltre, le linee direzionali dello schema non rappresentano la mera indicazione di una successione di tappe rnetodologiche
che, pur con sovrapposizioni, di fatto si è andata nel tempo consolidando;
sono in più l’espressione della graduale, ma netta e ininterrotta tendenza
dei demografi ad avvicinare la ricostruzione delle modalità «reali» che caratterizzano nel tempo l’apparizione degli eventi demografici e i connessi cambiamenti di struttura demografica, in quanto — come si è appena ricordato — «risultato» di processi di cui sono protagoniste le differenti unità riconoscibili nella popolazione; sono inoltre un’indicazione
del progressivo passaggio a strategie di ricerca in cui, quanto meno, l’osservazione e l’analisi del reale sia coerente con tali modalità. Ma queste
considerazioni quasi si configurano già come risultati cui è bene, invece,
pervenire con ordine.
2. Osservazione statistica e metodi demografici
I metodi della demografia sono strettamente dipendenti dal particolare sistema di osservare e di rilevare le caratteristiche e i fatti della popolazione e non se ne può capire la natura, e tanto meno l’evoluzione,
senza prima chiarire questa relazione. La puntualizzazione non è convenzionale: se è vero, infatti, che in tutte le discipline quantitative tra
fase di «elaborazione metodologica» e fase di «osservazione-rilevazione
dei dati» esistono necessariamente legami di dipendenza o interdipendenza molto stretti, in demografia questo rapporto presenta delle connotazioni affatto singolari, tali da condizionare profondamente i metodi
di analisi e di ricerca.
La demografia ha di fatto una particolarità che non è dato ritrovare
in alcun altra scienza, salvo l’economia: l’osservazione dei fenomeni che
costituiscono oggetto dei suoi studi le viene garantita — storicamente e
fino al secondo dopoguerra in maniera pressoché esclusiva — da organismi amministrativi, dagli Istituti nazionali o, comunque, dai servizi ufficiali di statistica. Per certi aspetti questa prerogativa, che fino al momento in cui non si sviluppa la teoria dei campioni risponde a uno stato
di necessità per le caratteristiche dell’«oggetto» studiato, ha costituito e
costituisce un fatto indubbiamente positivo: la statistica ufficiale ha infatti garantito alla demografia un impianto di osservazione di cui nessun’altra delle scienze umane (salvo, appunto, l’economia) può beneficiare e una conseguente vasta, completa e corrente informazione. Ma i
servizi ufficiali di statistica sono stati creati per rispondere innanzitut-
108
Antonio Santini
to alle necessità conoscitive dei poteri pubblici, piuttosto che a preoccupazioni di ordine scientifico; e se è vero che lo scopo di garantire una buona
amministrazione non è stato perseguito indipendentemente e neppure
separatamente dal progresso della scienza — in particolare nel nostro paese3 —, l’osservazione dei fatti della popolazione ha avuto e ha ancora obiettivi diversi dallo sviluppo delle conoscenze demografiche.
La necessità di affidare l’osservazione dei fatti della popolazione a un
organismo specializzato lontano dai luoghi in cui si conduce la ricerca e si
insegna ha prodotto effetti pesantemente negativi. Tra demografia e servizi ufficiali di statistica si è infatti creato uno stretto legame di dipendenza
che, seppure ha contribuito a radicare la disciplina all’osservazione, ha indotto per lungo tempo i demografi a elaborare i loro metodi condizionatamente alla natura dei dati ufficiali e ha soprattutto agito nel senso di favorire una ipertrofia dell’osservazione stessa a scapito della riflessione teorica
e dell’analisi.
Tutto ciò è evidentemente legato al fatto che per ben amministrare
contano soprattutto le informazioni correnti della contabilità demografica
e quelle periodiche sugli stock, per le quali si richiede il massimo di dettaglio
e di precisione con riferimento sia al territorio sia ai caratteri strutturali
demo-socio-economici. Ma è alla natura stessa della disciplina demografica
che occorre risalire per individuare le ragioni di fondo del suo particolare
rapporto con l’osservazione. Si consideri, per ben capire, quanto è accaduto all’altra scienza che tradizionalmente attinge le sue informazioni dalla
stessa fonte, l’economia, e insieme il caso di un’altra disciplina che da qualche tempo mostra interesse per l’osservazione ufficiale, la sociologia.
L’economia politica, nel consolidarsi come scienza, ha potuto fare a meno,
o quasi, per molto tempo, della parte statistica perché è in grado di offrire
— oltre al settore delle teorie — un vasto campo di osservazione, di studi e
di ricerche al di fuori della statistica, quello relativo ai meccanismi; analogamente la sociologia, i cui progressi sono maturati senza apporto, o quasi, di
osservazione statistica. Non poteva essere così per la demografia poiché,
per usare le parole di Henry (1969b), non vi sono meccanismi da descrivere
se non quelli di manifestazione-osservazione: i meccanismi della malattia e
della morte competono alla medicina; quelli della riproduzione all’anatomia
e alla fissologia; quelli del matrimonio, in quanto costume (rito), alla
sociologia e all’etnologia. «Al di fuori dell’osservazione statistica, non resta
di proprio alla demografia che le dottrine e le teorie di popolazione».
3 In Italia la statistica ufficiale ha sempre visto alla sua guida figure prestigiose di studiosi che hanno promosso e sostenuto l’attività scientifica all’interno dei servizi stessi: si
pensi a Gioja, a Zuccagni-Orlandini, a Bodio, a Gini.
I metodi
109
3. I metodi nell’osservazione macro-trasversale
In conformità con í compiti e le attività istituzionali dell’organismo
rilevatore, la raccolta delle informazioni statistiche sulla popolazione veniva condotta, secondo l’«osservazione classica», quasi esclusivamente
attraverso due serie di operazioni: i censimenti periodici, che forniscono
la consistenza e le strutture demografiche, e la registrazione continua dei
fatti dello stato civile, da cui provengono i dati sugli eventi (nascite, morti,
matrimoni e cosi via) variamente classificati — cui si aggiungono, in
particolari casi, i rilievi anagrafici per quanto riguarda le migrazioni.
Peraltro, qualunque osservazione viene eseguita in vista di un’analisi dei
dati raccolti: dalla nascita dei servizi di statistica fino agli anni cinquanta
l’analisi trasversale o per periodo è stata pressoché la sola a essere praticata. L’oculata combinazione dei dati forniti dalle due fonti, censimento e
stato civile, è il fondamento stesso dell’analisi trasversale: la misura della
mortalità attraverso la tecnica delle tavole di sopravvivenza del momento
o per contemporanei ne rappresenta il prototipo4.
Senza affrontare qui un puntuale esame critico di questo tipo di
analisi, basterà ricordarne i caratteri distintivi più generali. In primo
luogo il privilegio assegnato per lungo tempo alle misure di probabilità
o ai tassi a queste assimilabili: questa sorta di état d’esprit probabiliste trascende i tradizionali legami tra demografia e calcolo delle probabilità —
legami, peraltro, di fatto non molto stretti o, quanto meno, limitati ai
suoi risultati più elementari5 — e spinge i demografi a sezionare la
4 Supponiamo il caso di una popolazione ove, in un dato anno (in un dato momento) di
osservazione, coesistono circa 100 generazioni, cioè gruppi di persone la cui nascita si scagliona
in 100 anni diversi e successivi; durante quell’anno ogni generazione corre un certo rischio
di morte e, combinando in maniera opportuna le statistiche dei decessi provenienti dallo
stato civile e quelle della popolazione per età provenienti da un censimento o da un suo
aggiornamento, si può ordinatamente misurare tali rischi partendo dalla generazione che ha
un’età compresa tra O anni compiuti e 1 anno - la più giovane -, proseguendo poi con la
generazione che ha un’età tra 1 e 2 anni e così via fino alla generazione dei centenari.
Parlando tecnicamente, per ogni generazione osservata in quell’anno è possibile determinare
una probabilità di morte qx, e le 100 generazioni forniranno la serie q0, q1, q2, q100.
Se si sottopone una «generazione immaginaria» - o, come normalmente si dice, «fittizia»
- di 10” neonati alle condizioni di mortalità definite da quelle probabilità, si ottiene una tavola
di sopravvivenza del momento che riassume le «condizioni di mortalità dell’anno».
Emblematico è a questo riguardo il saggio di Perozzo (1883). Va comunque notato che,
grazie agli schemi rigorosi del calcolo delle probabilità, i demografi hanno evitato il pesante
errore - spesso commesso, invece, in altre discipline osservazionali, anche in epoche non
troppo remote - consistente nello studiare soltanto gli «eventi» e a trascurare le popolazioni
al cui interno quelli si manifestano.
110
Antonio Santini
popolazione alla ricerca di categorie quanto più possibile omogenee, per
il fatto di essere caratterizzate da certi attributi comuni (la popolazione
coniugabile per la nuzialità, le donne coniugate per la fecondità
legittima6) e avere, quindi, un rischio meno diversificato di vivere un
dato evento. La finalità di ricercare «la probabilità di subire un certo
evento» è naturale nell’analisi trasversale, dove concetti oggi più familiari, quali quelli di «intensità» e «cadenza» di un processo demografico7,
non hanno reale significato.
In secondo luogo, l’importanza conferita al problema della sintesi
dei tassi specifici per età o durata: la preoccupazione di trovare dei
corretti indici sintetici che diano misura della dimensione quantitativa
dei fenomeni al netto delle strutture sembra sostituirsi e gradualmente
prevalere — in particolare nel periodo tra le due guerre, che ha segnato
il culmine dell’analisi trasversale — all’état d’esprit probabiliste: ai tassi
«espressione del rischio» si preferiscono tassi che per somma conducano a quelli che oggi siamo abituati a chiamare tassi totali8. Ne sono prototipo il tasso netto di riproduzione Ro, cui avventatamente, negli anni
tra le due guerre, furono assegnati poteri previsivi (Ryder, 1949), e in
genere gli indicatori di fecondità: a questo riguardo vanno ricordati
l’indice sintetico di fecondità matrimoniale di Gini (1932), che per la
prima volta utilizzava dati tutti provenienti dallo stato civile e, man mano che le informazioni statistiche divengono più ricche, gli in numerevoli tassi di riproduzione «al netto» di ulteriori fattori (oltre alla mortalità, la nuzialità, la parità; si vedano ad esempio Whelpton, 1946; Del
Chiaro, 1940; de Vergottini, 1960), senza dimenticare l’ampio lavoro di
Bourgeois-Pichat (1950) sulla fecondità legittima, apparso in uno dei primi
Cahier dell’Institut national des études démographiques (Ined) — siamo
6 È sufficiente riferirsi a uno qualsiasi dei manuali di demografia in uso fino agli anni cinquanta, per trovare ancora evidenti tracce di questo modo di pensare (ad es., Boldrini, 1956).
7 Si intende per intensità di un processo demografico (fecondità, nuzialità e così via) il
numero di eventi (nascite, matrimoni ecc.) vissuto in media dagli individui appartenenti a
una generazione (o coorte) effettiva (nati, dunque, nello stesso anno o periodo di tempo).
Con il termine di cadenza ci si riferisce invece alle modalità temporali che caratterizzano
l’apparizione degli eventi nella storia della generazione, quindi alla loro distribuzione per
età, che normalmente vengono sintetizzate da un indice statistico di posizione (età media,
età mediana): i due concetti sono appropriati solo alle generazioni (coorti) reali.
8 Questi indici sintetici trasversali (TFTM, TNTM, R) vengono normalmente interpretati come numero medio di eventi per testa – concetto appropriato a una generazione, come
prima si diceva – del periodo, o come intensità del fenomeno in una generazione fittizia –
concetto introdotto per ragioni di comodo e, di fatto, assolutamente astratto – dimenticando che in realtà si tratta semplicemente di indici (implicitamente) standardizzati con
metodo diretto in riferimento a una popolazione rettangolare e che quindi altro non sono
se non il numero di eventi osservati ricondotto a una struttura-tipo.
I metodi
111
già, quindi, in epoca successiva alla seconda guerra mondiale — tutto
pervaso dallo sforzo di pervenire a misure di sintesi in funzione della
durata del matrimonio e dell’età al matrimonio.
Infine la ricerca del «fondamentale» nei fenomeni della popolazione:
attraverso l’analisi trasversale si è sempre cercato di raggiungere un apprezzamento dei comportamenti di fondo estraendoli dalle fluttuazioni
dell’attualità tendendo, per garantire una maggior solidità a tale apprezzamento, a suddividere la popolazione seguendo nuovi criteri. Ogni volta
delusi, si è continuato nondimeno a introdurre nuovi fattori con la
speranza di trovare, infine, l’invariante, cioè un indice o una serie di indici
poco variabili nel tempo. Ciò ha condotto logicamente a chiedere sempre
di più all’osservazione statistica ufficiale (sia al censimento, sia allo stato
civile), rappresentando, in questo senso, un progresso.
Sono questi i caratteri più significativi del modo classico di osservare e
misurare per periodi sfruttando le due fonti fondamentali fornite dalla
statistica ufficiale; sono questi i connotati che distinguono, appunto,
l’approccio macro-trasversale: essi sono peculiari alla tendenza a privilegiare
quello che Bourgeois-Pichat (1987) definisce come il lato «egoistico» dei
fenomeni demografici, tendenza che ha prevalso fino al secondo
dopoguerra, per la quale la popolazione è intesa come un complesso di
elementi autosufficienti che, pur facendo parte di un sistema di ordine
superiore, tendono ad affermarsi come totalità9.
È in questa prima fase, comunque, che si ritrovano i contributi più
validi e originali degli studiosi italiani al metodo demografico. Nel campo
degli studi di mortalità, anche se a rigore non si può parlare di apporti
innovativi10, importanti progressi e perfezionamenti nella tecnica di
calcolo delle probabilità di morte e in genere nella costruzione delle
tavole di sopravvivenza vengono introdotti da Vinci (1925a; 1925b),
da Mortara (1914) — cui si devono, tra l’altro, le uniche tavole di
mortalità per singole cause di morte11 da Gini (1928), da Gini e Galvani
9 Peraltro, se si guarda dal lato statistica ufficiale, a prima vista il presente non è decisamente
differente dal passato quanto ai modi e ai mezzi di osservazione: il censimento e le statistiche di
stato civile costituiscono ancora gli elementi portanti del sistema. E radicalmente mutato, invece,
l’approccio dei demografi nell’analisi e nelle strategie conoscitive dei fenomeni della popolazione,
che li ha spinti a liberarsi progressivamente dai vincoli dell’osservazione classica.
10 Di carattere propriamente innovativo è il contributo del matematico Cantelli (1914)
alla determinazione delle probabilità di eliminazione, di interesse prettamente attuariale.
11 E interessante ricordare come a Mortara (1943 e 1949) si debbano anche i primi
studi - condotti durante il suo forzato esilio brasiliano - sulla mortalità di popolazioni
sprovviste di rilevazioni statistiche correnti di movimento. Per quanto in seguito superati
sul piano sia teorico sia tecnico, tali studi costituiscono un esempio significativo di
ingegnosità e di rigore metodologici.
112
Antonio Santini
(1931), da Galvani (1937). Dello stesso tenore e di analoga importanza sono i pionieristici sforzi di Mortara (1908; 1909) di costruire, nel campo degli studi di nuzialità, delle tavole di sopravvivenza e di variazione dello stato civile per celibi e nubili: un tipo di analisi mai ripreso in seguito fino alla
fine degli anni trenta, quando Somogyi (1937), sfruttando il ricco materiale
informativo che la statistica ufficiale italiana ormai produceva regolarmente sotto la guida di Gini, redasse delle tavole di nuzialità, di vedovanza, di
eliminazione combinata per morte e matrimonio che, nell’ottica macrotrasversale, rappresentano quanto di più completo e rigoroso si sia prodotto in merito nel nostro paese. È nel campo degli studi di fecondità, peraltro, che i demografi italiani danno prova di più brillante inventiva: Mortara
(1933; 1934; 1935), Lenti (1935; 1937; 1939), de Vergottini (1937a; 1937b)
utilizzano con criteri originali le nuove statistiche dei nati per anno di matrimonio dei genitori, o per età della madre, secondo l’ordine di generazione per introdurre uno schema descrittivo — la tavola di fecondità per ordine di nascita — che ancor oggi viene utilizzato, pur in una differente
prospettiva. Savorgnan (1923; 1924; 1925) sfrutta le genealogie delle aristocrazie europee per studiarne sterilità e fecondità matrimoniale, anticipando una metodologia che poi, perfezionata, prenderà piede tra i demografi storici e troverà una definitiva sistematizzazione nell’opera di Henry
(ad esempio: Henry, 1956; Henry e Fleury, 1965). Si è già detto dell’indice
di fecondità matrimoniale di Gini: occorre aggiungere che il metodo da lui
introdotto è stato poi esteso (Henry, 1953) e applicato anche nella misura
di fenomeni diversi dalla fecondità legittima allo studio (trasversale) della
divorzialità (Henry, 1952) o della fecondità generale (Calot„ 1981), ed è
oggi universalmente noto come «standardizzazione con il metodo della cadenza-tipo ». Ma i più rilevanti contributi metodologici di Gini sono quelli
che riguardano i problemi della fecondabilità: le sue ricerche in questo
campo (Gini, 1924; 1925), condotte sulla base di un metodo ingegnoso
che sfrutta le statistiche dei primogeniti classificati secondo il numero dei
mesi trascorsi dal matrimonio, hanno costituito e costituiscono tuttora un
fondamentale punto di riferimento per questa branca degli studi demografici (si vedano, ad esempio, Henry, 1961a; 1961b; Léridon, 1973).
4. Dall’analisi macro-trasversale a quella macro-longitudinale
Negli anni cinquanta si apre una fase di totale ripensamento dei metodi demografici: da allora la demografia acquista caratteri sempre più
netti di autonomia liberandosi definitivamente dalla scomoda e ridutti-
I metodi
113
va etichetta di «statistica applicata alla popolazione», attraverso una separazione — inizialmente solo teorica — dal modo di osservare della statistica
ufficiale. Si fa strada in alcuni demografi, e si diffonde e si consolida poi
rapidamente, l’idea che l’analisi e la misura dei fenomeni demografici debba adattarsi alle reali modalità di manifestazione dei fatti della popolazione,
modalità che non corrispondono o comunque sono indipendenti dai criteri con cui gli organismi amministrativi li rilevano. Gli eventi che danno origine al movimento della popolazione altro non sono se non esperienze demografiche vissute dalle unità elementari che compongono l’aggregato —
gli individui, in prima istanza — nel corso del loro ciclo vitale; di conseguenza, per comprendere come il movimento, e il risultante mutamento, si
manifesti nel tempo della popolazione occorrerebbe ricondursi alle singole
esperienze individuali e osservarne le modalità di sviluppo temporale. Poiché, tuttavia, la demografia non si interessa alle vicende individuali ma a
quelle collettive, si individua una macro-unità di osservazione e di studio in
cui siano riprodotte a livello aggregato le caratteristiche reali delle esperienze demografiche vissute a livello individuale, e in cui si possano pertanto
collocare correttamente nel tempo i fenomeni della popolazione e risalire,
successivamente, agli opportuni metodi di misura. A questa macro-unità i
demografi assegnano il nome di coorte, definendo, in generale, come tale
l’insieme di persone che hanno vissuto un certo evento durante uno stesso
periodo di tempo: un anno o, più raramente, un limitato numero di anni.
Nasce così l’analisi per coorte o analisi macro-longitudinale che si diffonderà rapidamente in molte altre scienze sociali e dell’uomo.
In realtà, sul piano fattuale l’approccio macro-longitudinale nello
studio dei fenomeni demografici che, in seguito ai primi studi empirici
di Whelpton (1954) e Hajnal (1947; 1950) e ai successivi sviluppi teorici
di Henry (1959; 1963b; 1966a) e Ryder (1964a; 1965; 1968), si sviluppa
nel secondo dopoguerra dominando fino alla metà degli anni settanta,
non esce dal quadro dei rapporti prima delineati tra demografia e
statistica ufficiale. Infatti, sono ancora i dati di movimento raccolti dallo
stato civile e quelli di popolazione provenienti dai censimenti e dai loro
aggiornamenti a costituire gli «ingredienti» dell’analisi. L’osservazione
classica viene semplicemente adattata sfruttando l’adeguamento delle
classificazioni appositamente predisposto dai servizi di statistica —
laddove più facilmente e rapidamente questi sono sensibilizzati alle
nuove esigenze12 — oppure, più semplicemente ma più grossolanamen12 Ci si riferisce in primo luogo all’introduzione della doppia classificazione temporale degli eventi (durata e coorte). In Italia, per gli eventi demografici diversi dai decessi,
tale classificazione è stata introdotta solo negli anni ottanta.
114
Antonio Santini
te, modificando i criteri di aggregazione13 o, infine, ricostruendo retrospettivamente attraverso le indagini abbinate ai censimenti14.
A rigore si deve notare che l’idea di studiare quello che accade in una
generazione di persone nate nello stesso anno (quindi in una particolare
coorte) risale, in realtà, a epoche molto più lontane. Ma i primi tentativi di
applicazione — per molti aspetti assai approssimativi — forse perché limitati allo studio della mortalità, il processo che meno di ogni altro richiede a
livello descrittivo l’adozione di un approccio longitudinale15, non provocarono alcun rilevante cambiamento negli schemi teorici, nei quadri concettuali, nei metodi. Al contrario, questo nuovo approccio rappresenta un
fondamentale punto di svolta per il metodo demografico. Pur nella iniziale, e in fondo riduttiva, semplice prospettiva di sfruttare diversamente l’osservazione classica per riprodurre a livello macro modalità di manifestazione dei fenomeni coerenti con quanto avviene a livello micro, ci sono già
palesi segni di evoluzione nei metodi di analisi demografica che si sforzano
di reintrodurre l’aspetto globale dei fenomeni: si utilizzano vari tipi di coorti, si fa riferimento ai cicli di vita, si affaccia l’idea di una demografia della
famiglia. Anche nella fase macro, per il fatto stesso di passare da quadri
descrittivi «fittizi» a quadri descrittivi «reali», tutti gli sviluppi dell’analisi
longitudinale tendono, contrariamente all’ottica dell’analisi trasversale, a inserire l’individuo in un sistema gerarchico superiore.
Probabilmente proprio favoriti dal fatto che, operando su popolazioni esaustive, possono dispensarsi dal considerare gran parte dei problemi statistici che diverranno poi prevalenti quando saranno costretti a
ricorrere alle indagini campionarie, i demografi dedicano inizialmente i
loro maggiori sforzi soprattutto a consolidare (qualcuno direbbe: a
creare) i fondamenti dell’analisi sfruttando l’osservazione classica. Mutano gli obiettivi conoscitivi: alla domanda «qual è la probabilità per un
celibe trentenne di sposarsi tra 30 e 31 anni?» si sostituisce l’altra «qual è
la probabilità che un celibe di una data generazione sia ancora tale a 31
anni?» e, insieme, «quali modalità temporali caratterizzano il comportamento nuziale dei celibi coevi?». Si comprende che gli eventi sono il
13 Un esempio di questo più grossolano adattamento al nuovo modo di condurre
l’analisi è rappresentato dalle tavole di fecondità di Livi Bacci e Santini (1969).
14 E il caso, ad esempio, delle indagini sulla fecondità eseguite in Gran Bretagna
(Hajnal, 1950). E interessante notare come in nessuna delle indagini censuarie - quindi
neppure in quelle italiane -, insieme all’età al matrimonio e al numero di figli nati nel
matrimonio, sia mai stata chiesta la data di nascita dei figli, trascurando così un elemento
estremamente importante delle biografie demografiche.
15 Gli studi sui problemi di eterogeneità che si vanno conducendo da qualche tempo
dovrebbero, peraltro, indurre a rivedere molte delle vecchie idee in merito.
I metodi
115
«risultato» di specifiche «propensioni» demografiche ma al lordo degli effetti prodotti da altri rischi cui simultaneamente sono sottoposti gli individui: conseguentemente, per i vari fenomeni si definiscono misure della dinamica «allo stato puro» individuando il peso dell’interferenza dei fenomeni concorrenti che perturbano le misure tratte dall’osservazione. Si
chiariscono e si evidenziano gli effetti selettivi connessi al modo di osservare. Nell’ottica della «teoria degli eventi ridotti» (Henry, 1966a; Wunsch,
1968) si accerta che la manifestazione dei vari fenomeni, condizionatamente alla natura degli eventi che li caratterizzano e delle sotto-popolazioni in cui si producono, possono essere ricondotti a un unico modello
descrittivo e si verifica di seguito che le misure in demografia non sono,
per così dire, «neutre» ma indicatori la cui forma statistica è imposta dalle
modalità stesse di manifestazione dei fenomeni (Santini, 1974; 1990).
Ponendo così le basi per rigorose analisi longitudinali, si individuano
con precisione i limiti delle tradizionali misure trasversali e si garantisce
una loro conseguente sostanziale rivalutazione. Di fondamentale
importanza — sebbene forse non sufficientemente meditati, se non addirittura mal compresi, da buona parte della comunità scientifica — sono
stati a questo riguardo i modelli (Ryder, 1964b) e le tecniche (Pressat,
1969; Ryder, 1980) di traslazione, che non solo hanno favorito la corretta
«lettura» degli indici sintetici di periodo in termini di componenti
quantitative e temporali delle manifestazioni demografiche delle coorti,
ma hanno fornito anche gli strumenti per una determinazione empirica
della distorsione di cui tali indici sono affetti (Santini, 1990).
La possibilità di riconoscere e determinare in quantità e tempo i parametri caratteristici dei processi demografici all’interno di macro-unità
reali, la capacità di traslarne l’evoluzione nelle manifestazioni di periodo,
dettero subito ai demografi la sensazione di aver finalmente trovato una
soluzione definitiva e convincente al problema del «fondamentale» e del
«transitorio » dei fenomeni della popolazione (Henry, 1966b; Ryder,
1964b; 1965). Sul piano descrittivo, in effetti, quella sensazione non era
priva di valide giustificazioni, se si fa riferimento alla classica
schematizzazione delle componenti dinamiche di un fenomeno caratteristica dei modelli statistici di scomposizione delle serie storiche — cui
evidentemente si deve far ricorso in un contesto osservazionale trasversale: il movimento di fondo, la congiuntura, la casualità o, se si preferisce, l’evoluzione di lungo, medio e breve periodo, trovano un naturale
corrispettivo, almeno per i processi demografici che hanno una dimensione quantitativa, rispettivamente nell’intensità finale delle coorti,
nei movimenti intercoortici della cadenza, negli adattamenti transitori di
116
Antonio Santini
quest’ultima, componenti che gli schemi traslativi sono in grado di riconoscere e riprodurre (Ryder, 1980; Martelli, 1989). Ma se si esce dal
contesto meramente descrittivo e ci si trasferisce su quello delle determinanti dei fenomeni demografici, le conclusioni sono diverse. Ogni
misura di intensità totale (numero di figli per donna, proporzione di coniugate almeno una volta e così via) in una coorte, che per essere una
misura finale di processo ne rappresenta la tendenza di fatto, è pur sempre
la sintesi di un comportamento demografico raggiunta attraverso un
ininterrotto integrarsi di fattori relativi al passato dei soggetti osservati e
fattori del momento, per i quali rispettivamente la coorte e il periodo
costituiscono proxy assai grossolane. Il ruolo giocato da questi due tipi di
fattori — cui normalmente si aggiunge quello costituito dall’età — sulle
manifestazioni demografiche è controverso (Hobcraft et al., 1982) e la
convinzione di una prevalenza dei «fattori di periodo» sui «fattori di
coorte» è parso a taluno un buon motivo per regredire alle analisi di tipo
trasversale o, comunque, per mettere in dubbio la preminenza dell’approccio longitudinale nell’analisi demografica. Condurre l’osservazione e l’analisi in prospettiva longitudinale non significa necessariamente
prefigurare una gerarchia nei fattori esplicativi16: se gli eventi demografici
sono esperienze biografiche, significa semplicemente rispettarne le
naturali modalità di manifestazione; se gli eventi di un periodo sono la
somma di «risultati» raggiunti in momenti diversi della loro storia dalle
macro-unità elementari costituenti l’aggregato demografico, occorre
poterli leggere e interpretare come traslazioni di quelle storie.
Indiscutibilmente questa fase evolutiva del metodo demografico, che
culmina (senza peraltro esaurirsi) all’inizio degli anni settanta, è quella in
cui si raggiungono i risultati in assoluto più rilevanti: l’analisi demografica
che, secondo le modalità prima indicate, si sviluppa e si consolida
fornendo, finalmente, fondamenti e princìpi generali alla disciplina è
certamente il maggiore — una delle gemme della demografia, è stato
detto —, al punto che per qualcuno (Pressat, 1984) garantisce la specificità stessa della disciplina; ma insieme con l’analisi, un’ampia serie di
modellizzazioni e concettualizzazioni di basilare rilevanza metodologica
su vari versanti, dalla nuzialità nel rapporto di dipendenza con il «mercato
matrimoniale» (Akers, 1967; Henry, 1968; 1969a; 1969b; 1972; 1973;
Pollard, 1971), alla fecondità — in particolare la fecondità natura16 Peraltro, molti sociologi e demografi (Ryder, 1965a) sostengono — o hanno a
lungo sostenuto — la preminente importanza della coorte come aggregato sociale:
Mannheim (1952) sostiene addirittura che la collocazione logica e la rilevanza sociale
della coorte sono grosso modo corrispondenti a quelli propri della classe sociale.
I metodi
117
le nelle sue diverse «componenti» di fecondabilità, sterilità e così via
(Henry, 1961; 1963; Bourgeois-Pichat, 1965; Bongaarts, 1965; Léridon,
1973), sulle orme dei ricordati studi pionieristici di Gini — e alla riproduzione (Henry, 1965).
La demografia italiana è in un primo tempo relativamente sorda ai
nuovi stimoli provenienti d’oltralpe o d’oltremare — salvo pochissime,
anche se significative, eccezioni (Colombo, 1953; 1954); soltanto alcuni tra i ricercatori che iniziano a formarsi negli anni sessanta si avvicinano alle nuove idee e i pochi che lo fanno si limitano a fornire contributi applicativi (Istituto di statistica dell’Università di Firenze, 1968;
Livi Bacci e Santini, 1969; Ciucci, 1971; Santini, 1972; Ventisette, 1973;
Natale e Bernassola, 1973) o di sistematizzazione (De Sandre, 1974; Santini, 1974). Certo questo atteggiamento di «conservazione» — almeno
sul piano della ricerca empirica — fornisce convincenti giustificazioni nell’evoluzione dell’attività degli organismi ufficiali di statistica che si registra nel secondo dopoguerra. La crescita continua e molto rapida dei
bisogni di informazione di ogni genere sull’attività economica giunge
di fatto ad assorbire la maggior parte delle risorse e del personale dei
servizi di statistica, provocando una separazione tra i bisogni informativi
dell’amministrazione e le istanze conoscitive della ricerca demografica.
Questo distacco tra demografia e statistica ufficiale si manifesta in tutto
il mondo occidentale, ma nel nostro paese assume nel tempo caratteri
sempre più evidenti e dimensioni che alla fine degli anni settanta
sembrano preoccupanti: rispetto a tutti gli altri paesi europei che vantano tradizioni quanto a produttori di statistiche, l’aggiornamento dell’Annuario di statistiche demografiche italiano registra un ritardo notevole e decisamente
limitate sono poi le proposte innovative introdotte, quasi che
l’osservazione per informare non dovesse più essere anche informazione
per conoscere. La demografia italiana, che inizia a riaffermarsi superando i
contraccolpi dell’uso distorto che di essa aveva fatto il fascismo,
privilegia l’analisi applicata individuando come principali obiettivi
conoscitivi tematiche peculiari alla realtà italiana e rilevanti sul piano
politico-sociale — le differenziazioni regionali, i movimenti migratori,
l’ancora elevata mortalità infantile, ad esempio — che affronta secondo
i tradizionali approcci macro-trasversali, rinnovando peraltro la sua strumentazione attraverso l’impiego di tutta le nuove tecniche che la metodologia statistica fornisce via via per l’analisi dei dati 17.
17 Non è possibile fornire a riguardo specifiche indicazioni bibliografiche data la vasta
e significativa letteratura esistente. Per un quadro completo fino al 1972 si veda la
bibliografia curata da Golini e Caselli (1973).
118
Antonio Santini
5. Ulteriori avanzamenti nella macro-analisi
L’introduzione, la diffusione e il consolidamento dei metodi dell’analisi longitudinale costituiscono peraltro soltanto una parte degli enormi
progressi compiuti dalla demografia negli anni sessanta e settanta, anche
se ne rappresentano il capitolo di gran lunga più significativo. Uscendo
per un momento dalla logica dello schema inizialmente proposto ed evitando così di spingerne troppo oltre la semplificazione, va segnalato infatti che è sempre in questo arco di anni che si costruisce gran parte di
quel vasto capitolo della demografia — da considerarsi a rigore, e in via
di principio, neutro rispetto alla «contrapposizione» trasversale- longitudinale — riguardante i modelli di popolazione, che ha avuto delle importantissime ricadute sui metodi e sugli strumenti di analisi. In primo luogo
la modellistica post-lotkiana (popolazioni malthusiane, stabili, quasi-stabili, instabili; Coale, 1957; Lopez, 1961; Bourgeois-Pichat, 1966; Le Bras,
1971; Coale, 1972; Pollard, 1973): la ripresa e l’estensione dei fondamentali concetti che stanno alla base del modello di popolazione stabile di
Lotka trae origine, sul piano teoretico, dall’esigenza di denunciare sia
l’«illusione» della popolazione stazionaria (che aveva dominato gli anni
trenta e quaranta e che è alla base di molte cattive, se non errate, analisi18)
sia quella della stazionarietà dei fenomeni demografici e apre la strada
all’introduzione di nuove categorie (ad esempio la nozione di potenziale di
crescita, o di decrescita) e di nuovi princìpi (quello di ergodicità debole, che regola le popolazioni instabili, contrapposto a quello di ergodicità forte, proprio
delle classiche popolazioni stabili), all’ampliamento dei vecchi concetti (ad
esempio quello di popolazione malthusiana, che assume connotazioni specifiche all’interno di tre differenti famiglie — H, G e F — e delle connesse
popolazioni quasi-malthusiane, quasi-stabili e semi-stabili), alla rivalutazione
di concetti da tempo introdotti in differenti contesti (il valore riproduttivo
di Fisher, ad esempio). Da un punto di vista pratico, a questa modellistica si fa riferimento per dare rigorose soluzioni ai complessi problemi di
stima dei caratteri e dei parametri demografici fondamentali delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo e, più in generale, delle popolazioni con
rilevazioni demografiche carenti o parziali: sfruttando appropriatamente
le relazioni del modello stabile — una novità assoluta nel campo degli
18 Un esempio classico riguarda i meccanismi dell’invecchiamento della popolazione:
prima delle analisi di Coale (1957), ragionando sul modello stazionario si tendeva generalmente ad attribuirne l’origine all’allungamento della vita umana, essendo invece il declino
della natalità il solo responsabile.
I metodi
119
studi storici — Livi Bacci (1968) ricostruisce, ad esempio, la demografia
della Spagna tra i secoli XVIII e XX; un gruppo di ricercatori dell’Università di Princeton applica sistematicamente quegli schemi per studiare le
popolazioni dell’Africa tropicale (Brass et al., 1968). i nuovi schemi teorici
e l’emergere dei gravi problemi demografici dei paesi in via di sviluppo
favoriscono in seguito la messa a punto di una ricca strumentazione e di
tecniche e metodi appropriati: si predispongono schemi-tipo (di mortalità, nuzialità, fecondità, popolazioni stabili; Coale e Demeny, 1966; Ledermann, 1969; Coale, 1971; Akers, 1965; Nazioni Unite, 1984) — al riguardo vanno altresì ricordati i contributi di Petrioli (1982) e di Petrioli e Berti
(1979) —, si amplia e si perfeziona il settore dei controlli di completezza
delle informazioni e delle stime indirette dei parametri demografici fondamentali per popolazioni con statistiche carenti o insufficienti, sulla scia delle ricerche di W. Brass (1971; 1975); tutte tematiche caratterizzate da forti
interconnessioni (per un quadro completo si veda Nazioni Unite, 1983) 19.
Peraltro, gli apporti al metodo demografico di questo settore della ricerca appaiono in prospettiva ancora più ricchi ed efficaci dopo che Preston e Coale (1982) hanno riformulato in forma generalizzata il modello di
popolazione stabile la cui struttura non è più determinata da un tasso di
incremento intrinseco r costante a tutte le età ma da tassi di incremento
variabili a seconda dell’età: questo sviluppo dello schema lotkiano, oltre ad
avvicinare le situazioni reali alle condizioni del modello, rappresenta un
progresso teoretico che va nello stesso senso del nuovo modo di
concepire la popolazione proprio dell’analisi longitudinale: significa anche
riaffermare che ogni generazione costitutiva dell’aggregato ha una sua
storia e che l’analisi di una struttura in cui semplicemente si accostano
persone di età diverse — quindi appartenenti a differenti generazioni —
per dedurne la descrizione o la proiezione di un fenomeno legato
all’avanzamento nelle età degli individui, può condurre a degli errori.
6. Da macro- a micro-analisi
Il raggiungimento di un alto grado di chiarezza metodologica, già nel
corso degli anni settanta, stimola la demografia a tentare una «separazione» dalla statistica ufficiale. La spinta a indirizzare la ricerca anche
verso un accertamento «autonomo» degli eventi e dei caratteri demo19 È importante rilevare il grande impulso che sempre in questi anni riceve la demografia
matematica grazie soprattutto ai nuovi approcci formali che per gran parte della modellistica
vengono suggeriti da Lesile (1948), Keyfitz (1968; 1977) e Rogers (1968).
120
Antonio Santini
grafici può essere attribuita – schematizzando al massimo – al bisogno
di dare risposte appropriate a tre fondamentali esigenze.
1) L’iniziale compromesso attraverso cui i demografi, come prima si ricordava, hanno adattato e talvolta forzato al nuovo contesto l’osservazione
continua classica degli eventi, assicurata dalle registrazioni di stato civile, ha esaurito ben presto la sua potenzialità descrittiva, come facilmente si comprende. Il concetto di popolazione che sta alla base del meccanismo dinamico caratterizzante l’approccio longitudinale dell’analisi demografica la
configura non tanto come un insieme di individui, quanto come un insieme di
biografie, di vicende individuali che nel tempo ininterrottamente si formano,
si accavallano, si estinguono. Poiché la demografia non studia i comportamenti individuali ma quelli collettivi, si introduce in funzione di un particolare attributo qualitativo (che ha sempre una dimensione temporale) l’unità
di ordine superiore costituita dalla coorte, in cui si osservano simultaneamente tutte le biografie che hanno in comune quell’attributo. Ma con l’aggregazione degli individui in coorti, si perde ovviamente la possibilità di cogliere unitariamente la sequenza delle diverse esperienze demografiche così
come si manifestano nelle singole biografie: nella coorte, pertanto, ogni categoria di eventi viene separata dalle altre e definisce un processo di popolazione. Ciò che occorre, peraltro, mantenere anche all’interno dei singoli processi è il carattere sequenziale della successione di tutte le esperienze demografiche che si risolvono negli eventi, insieme a quelle che ne condizionano
l’apparizione: ciò, come ben si comprende, presuppone la possibilità di accostare l’uno all’altro gli eventi che riguardano una stessa persona: in altre
parole ipotizza che esista una continuità dell’osservazione a livello individuale e non – com’è per le registrazioni di stato civile – solo a livello di popolazione. Se non c’è continuità nell’osservazione degli individui, diviene
impossibile rilevare l’ultimo di una serie di eventi rinnovabili, ad esempio la
maternità, il trasferimento di residenza, il mutamento di professione, che
spesso è di enorme importanza per l’analisi20.
2) L’osservazione classica impone, salvo qualche rara eccezione, che
alla misura dei fenomeni demografici si pervenga attraverso un opportuno accostamento delle informazioni provenienti dallo stato civile e
quelle fornite dai censimenti. L’esperienza ha mostrato chiaramente che
spesso è molto difficile e talvolta impossibile ottenere attraverso operazioni di rilevazione separate numeratori e denominatori comparabili, soprattut20 L’importanza di stabilire l’età all’apparizione dell’ultimo di una serie di eventi non rinnovabili nella biografia di una persona è particolarmente evidente nel caso della prolificazione
quando si passa da un regime di fecondità naturale a uno di fecondità controllata. Coeteris paribus
l’abbassamento dell’età alla nascita dell’ultimo figlio, come ha dimostrato chiaramente Henry
(1956), è una palese testimonianza dell’assunzione di una strategia di controllo.
I metodi
121
to quando intervengono dei caratteri qualitativi: l’esempio più classico è
quello della professione che non viene mai dichiarata allo stesso modo
dal censito, dal padre di un bambino, dal parente di un defunto. A ciò si
aggiunga l’impossibilità di affrontare in maniera adeguata l’analisi di tutti
quei fenomeni che si manifestano in coorti definite da attributi che il
censimento non contempla (ad esempio la parità) o riferite a categorie
di popolazione di cui non si riesce ad aggiornare nel tempo l’entità per
mancanza delle necessarie informazioni di movimento.
3) La struttura e l’evoluzione delle popolazioni umane e delle loro
componenti sono risultanti di fenomeni complessi che devono impegnare l’osservazione e l’analisi di tutte le discipline comportamentali.
Diviene sempre più pressante, pertanto, l’esigenza di allargare il campo di
osservazione nello studio dei fenomeni della popolazione oltre i confini
delle variabili risultato (nascite, matrimoni e così via) anche a quelle di
processo, inserendo dunque nell’analisi anche le variabili che per la loro
natura influenzano direttamente il risultato, le cosiddette variabili intermedie
(Davis e Blake, 1956), nonché quelle motivazionali e di contesto in una
cornice di convergenze e intersezioni interdisciplinari sul piano sia
metodologico sia contenutistico.
7. Dal macro- al macro-trasversale
Non si fa fatica a comprendere che queste tre esigenze possono
venire simultaneamente soddisfatte solamente attraverso un’osservazione seguita, intendendo come tale — nell’accezione autentica di Henry
— qualunque tipo di osservazione che garantisca nel tempo la continuità
a livello individuale, indipendentemente dal fatto che essa provenga dal
seguire il corso degli eventi man mano che si producono o piuttosto
derivi da una ricostruzione a posteriori. Sono le istanze espresse al
precedente punto 1) che costituiscono, dunque, il nodo centrale del
problema almeno in una prima fase. Ovviamente la continuità a livello
individuale potrà essere ottenuta mediante procedure diverse:
— seguendo l’individuo a partire da una certa data, registrando tutti
gli eventi che lo riguardano;
— interrogando a una certa data ogni soggetto sulla sua storia passata;
— combinando i due criteri, interrogando uno stesso individuo a intervalli regolari su quanto è avvenuto nel lasso di tempo intercorso dalla
precedente intervista.
È chiaro che il primo criterio richiede l’impianto di un sistema nominativo di osservazione permanente che non appare gestibile se non
122
Antonio Santini
da un’istituzione pubblica; oltre a essere particolarmente complesso e
tecnicamente oneroso, deve garantire il superamento degli spinosi problemi connessi alla segretezza e al rispetto della privacy dei cittadini.
Peraltro esso non rappresenta un’ipotesi meramente teorica: già alcuni
paesi in Europa organizzano (o sono in grado di organizzare) la rilevazione dei fatti demografici (e non demografici) sfruttando un numero di
codice individuale e nella provincia canadese della Columbia Britannica
un sistema di questo tipo esiste da oltre trent’anni (le piccole dimensioni
numeriche della popolazione sembrano, coeteris paribus, rappresentare un
requisito essenziale a questo riguardo). C’è piuttosto da rilevare la sua
inadeguatezza a cogliere tutti gli eventi che si può avere interesse a
inserire in una biografia, in genere tutti i cambiamenti di status che non
derivano da un’esperienza demografica, se non attraverso accertamenti
aggiuntivi periodici di tipo retrospettivo.
Il secondo criterio rimanda alle indagini normalmente indicate come
retrospettive. Come è stato ricordato precedentemente, in margine
all’osservazione classica non sono stati rari i casi di inchieste esaustive di
questo tipo condotte, in genere, in concomitanza dei censimenti sulla
fecondità delle coniugate: tuttavia, fino al dopoguerra, in nessun caso —
quindi neppure nelle indagini inglesi — insieme all’età al matrimonio e al
numero di figli nati nel matrimonio, è mai stata chiesta la data di nascita
dei figli, trascurando così un elemento di importanza capitale per la
ricostruzione delle biografie demografiche. In effetti, un’indagine
retrospettiva potrà garantire un’osservazione seguita soltanto se colloca
con precisione nel tempo gli eventi rilevati. Ciò non è, tuttavia, ancora
sufficiente all’analisi longitudinale nella prospettiva in cui ci siamo posti.
L’analisi longitudinale richiede, infatti, che venga raccolto un gran
numero di dati su ciascuna persona; al limite essa richiede una biografia
che sia il più possibile completa. Non è, dunque, pensabile per questo
modo di osservare il ricorso a un’inchiesta esaustiva che, in quanto tale,
può fornire una gamma di informazioni limitata e, di norma, pesantemente affetta da errori, essendo pressoché impossibile un controllo diretto delle risposte21. L’indagine campionaria — senza peraltro escludere
altri tipi di indagine parziale22 — è pertanto lo strumento idoneo alla
ricostruzione retrospettiva delle biografie.
21 Sono a riguardo esemplari le vicende dell’indagine italiana sulla fecondità della donna
eseguita in occasione del censimento del 1961 e non a caso – indipendentemente dalle
ristrettezze di bilancio dell’organo rilevatore – dal mondo della ricerca non è più affiorata la
richiesta, che fu invece a quell’epoca pressante, per nuove iniziative in quella direzione.
22 Ad esempio l’indagine francese triple biographie condotta nel 1981 sull’insieme degli
individui nati tra il 1911 e il 1935.
I metodi
123
Con il terzo criterio si definiscono, com’è evidente, le folkw-up surveys,
in cui normalmente si identificano le indagini seguite e che in linea
teorica — prescindendo cioè dalle difficoltà di mantenere sotto osservazione il collettivo dell’inchiesta e dai costi relativi — sembra rappresentare la soluzione più appropriata a soddisfare le esigenze dell’analisi
longitudinale, per motivi facilmente riconoscibili.
Il primo passo che i demografi compiono è, ovviamente, quello di
affidarsi alle indagini campionarie del primo tipo23: ma, come ricorda
Bourgeois-Pichat (1987), gli inizi non sono incoraggianti. Realizzando
inchieste ambiziose, in cui si stilano biografie quanto più complete descrivendo la nascita, l’infanzia, l’entrata nella scuola, gli studi perseguiti, la
scelta della professione, il matrimonio, l’arrivo dei figli, le loro malattie, la
partenza dal focolare domestico, la morte del congiunto, la pensione, le
migrazioni e così via, i demografi riescono a organizzare una
documentazione anche molto particolareggiata per poi accorgersi di non
disporre di metodologie adatte ad analizzare tutti i dati raccolti. Per
studiare longitudinalmente dei campioni, in particolare dei piccoli
campioni, si debbono affrontare problemi statistici molto complessi. Se
prima, nella fase macro, i demografi potevano svolgere analisi longitudinali disinteressandosi — come si accennava all’inizio — ai problemi
degli intervalli di fiducia, dei test di ipotesi e di altri criteri di valutazione
perché operavano su popolazioni esaustive, dal momento in cui
cominciano a lavorare su inchieste non possono più ignorare i limiti dei
campioni e non sanno procedere all’analisi dei dati raccolti accontentandosi il più delle volte di analisi sommarie molto deludenti rispetto
alle speranze accarezzate durante la fase di raccolta dei dati, dando
l’impressione di sforzi sproporzionati ai risultati. Devono così aspettare
che nuove tecnologie siano approntate dagli statistici.
La storia della World Fertility Survey (WFS), la grande indagine trasversale — con ricostruzione retrospettiva longitudinale delle gravidanze
— iniziata su scala mondiale nei primi anni settanta sotto la direzione di
S’il. M. Kendall, cui ha partecipato anche un gruppo di ricerca italiano24,
è soprattutto la storia del progressivo inserimento nella ricer23 Occorre dire che i primi esempi di osservazione seguita si ritrovano in demografia
storica: il metodo di «ricostituzione delle famiglie» introdotto da Henry (1956) si colloca,
infatti, in questa prospettiva. Sebbene lo sfruttamento diretto delle fonti primarie, í
registri parrocchiali, e il conseguente accostamento nominativo degli eventi in essi
registrati ai singoli individui sia stato, in certa misura, «imposto» dall’assenza di informazioni statistiche «ufficiali», l’esperienza maturata in demografia storica ha avuto un
ruolo non marginale nell’evoluzione più generale dei metodi della demografia.
24 .1l gruppo era formato da studiosi delle Università di Firenze, Padova e Roma e
diretto da De Sandre (1983, a cura di).
124
Antonio Santini
ca demografica di tecniche e metodologie statistiche spesso già introdotte e vagliate in altri contesti disciplinari — ad esempio in biologia e
in econometria — la storia quindi di un grande e importante arricchimento nella strumentazione necessaria per l’analisi dei dati individuali.
Senza entrare nel merito di tali acquisizioni (Coppi e Pinnelli, 1990)
si devono, comunque, menzionare, sottolineandone l’importanza pervasiva nella prospettiva dell’analisi longitudinale dei dati individuali, gli
sviluppi che in ambito WFS — ma il rilievo si estende in realtà anche ai
risultati di altre indagini — vengono dati alla event-histoty analysis (Pullum,
1984; Keilman, 1985), nelle forme delle tavole di sopravvivenza, dei
modelli markoviani e, soprattutto, dei modelli di sopravvivenza con
variabili esplicative (hazard models).
Peraltro, non è da condividere l’opinione di chi sostiene, sulla base
dell’esperienza WFS, che i più importanti sviluppi del metodo demografico a partire dalla metà degli anni settanta sono derivati, o almeno
connessi, al passaggio da unità di analisi aggregate a unità di analisi individuali (Pullum, 1984; Hobcraft, 1984). I grandi progressi cui ha dato
origine questo passaggio da macro- a micro-osservazione non riguardano, infatti, il metodo demografico quanto piuttosto la ricerca demografica, intesa come complesso di strumenti e tecniche, (alcune) acquisizioni
sostantive e soprattutto come elaborazione di nuovi obiettivi e strategie
conoscitivi e intensificazione di interazioni e integrazioni con altre
discipline in una prospettiva che tende sempre di più ad affermare il lato
«altruista» della demografia.
8. Dal micro-trasversale al micro-longitudinale
La fase micro-longitudinale — se si prescinde dai risultati delle ricerche nominative condotte su popolazioni storiche — si configura più
come una serie di aspirazioni che come un complesso di acquisizioni: se
chiare acquisizioni esistono, esse sono tutte in negativo e riguardano
l’insufficienza di quanto finora si è fatto o si è tentato per comprendere la
realtà demografica.
In effetti, si può a buon diritto dubitare che nell’approccio macro la
demografia sia ormai in grado di superare il livello descrittivo o quello
della misura, indipendentemente dalla significatività e dall’utilità dei
metodi o dei modelli elaborati. Tutti i demografi ne sono ormai convinti e
due tra i più importanti risultati raggiunti dalla macro-analisi negli ultimi
anni costituiscono comunque un buon esempio. L’estensione delle
relazioni di una popolazione stabile a tutte le popolazioni proposta
I metodi
125
da Preston e Coale (1982) rappresenta, come già detto in precedenza, uno
dei progressi teoretici più stimolanti e potenzialmente più utili nel campo
delle stime demografiche: il fatto di poter ritrovare in una popolazione
concreta (quindi non stabile), la cui struttura dipenda dalle cumulate dei
tassi di accrescimento specifici per età, relazioni analoghe a quelle che
caratterizzano una stabile con tasso di accrescimento costante, ha
consentito a Coale e ad altri di ottenere importanti risultati in vari campi
(si veda, ad esempio, Coale e Caselli, 1990). Analogamente, tutta la
modellistica nota come «demografia multidimensionale », sviluppatasi
all’interno dellintemational Institute for Applied Systems Analysis (Iiasa)
soprattutto a opera di Rogers (1975) — e in particolare quella relativa
all’analisi degli stagìng processes (Willekens, 1988) —, pur nei limiti delle
ipotesi markoviane, ha certamente rilevanti potenzialità analitiche e
applicative (previsioni demografiche); ma nell’un caso e nell’altro non si
va al di là dell’ambito della descrizione e della misura. Per contro, se la
demografia vuol consolidare la sua autonomia scientifica — si affermava
alcuni anni fa nel convegno in omaggio a N. Federici — deve in qualche
modo uscire dall’ambito descrittivo e impostare la sua metodologia verso
contesti e processi causali (De Sandre e Santini, 1987).
Dal canto suo, l’approccio micro-trasversale non ha risposto alle attese
sia per l’uso unidirezionale della metodologia (Coppi e Pinnelli, 1990), sia
per la «povertà» dello schema generale di riferimento adottato — nel caso
della WFS, ad esempio, questo si articolava su una serie di variabili socioeconomiche esplicative, sulle variabili intermedie del modello di Bongaarts
(1978) e su alcune variabili decisionali — sia soprattutto perché attraverso
le indagini trasversali non è stato possibile ricostruire la «processualità»
dei meccanismi che determinano il comportamento demografico.
Ormai va prevalendo l’idea che ogni variabile demografica, si riferisca
a un singolo evento in un dato istante o sia la cumulata totale o parziale di
una serie di eventi, è la conseguenza di percorsi comportamentali e, nel
caso di eventi che implichino una scelta, decisionali in contesti
condizionati (Robinson e Harbison, 1980). In questo senso, ad esempio,
la nascita di un bambino va vista — secondo uno schema molto
plausibile (De Sandre, 1986) — come il risultato demografico di un processo decisionale condizionato (preferenze circa i figli in totale e residui e
sui modi di regolare le nascite, bilancio costi-benefici e così via) che
a) si forma in funzione delle caratteristiche bio-demografiche dei partner e di una serie di fattori di contesto (ambiente; norme e preferenze,
risorse e opportunità connesse con il sistema socio economico, i gruppi,
la famiglia; la struttura demografica della popolazione) attraverso la me-
126
Antonio Santini
diazione della percezione soggettiva di tali influenze e gli incentivi/disincentivi fattuali che ne possono modificare gli effetti e
b) agisce attraverso le variabili intermedie (fecondabilità, esposizione e
frequenza ai rapporti genitali, copertura anticoncezionale e così via).
Il caso della morte va, ovviamente, impostato in termini diversi: la
morte è un evento inevitabile che non ha una dimensione quantitativa (si
verifica o non si verifica) ma solo una dimensione temporale (si verifica
prima o dopo nell’arco dell’esistenza). Fatta questa necessaria premessa,
anche il decesso va peraltro visto come il risultato, l’ultimo atto, di una
storia di vita durante la quale l’individuo — con il suo patrimonio biogenetico — passa attraverso situazioni (ambienti) ed esperienze di varia
natura che progressivamente lo portano a subire prima la malattia (o
l’incidente) e quindi la morte (Santini, 1984). Di conseguenza, un’ipotesi di
lavoro sensata potrebbe essere quella di considerare l’età alla morte legata
alla specificità di tali situazioni ed esperienze, all’ordine con cui
compaiono nella storia personale e dal tempo trascorso in ognuna di esse
da ciascun soggetto (Caselli et al., 1990). E superfluo sottolineare che
strategie di ricerca coerenti con questi schemi concettuali richiedono la
soluzione di molti e difficili problemi connessi con:
a) l’individuazione delle variabili, in termini di ricostruzione degli
eventi che formano una carriera e di determinanti, e la necessità di collocarle esattamente nel tempo, sempre che ciò sia possibile;
b) l’esigenza di tener conto, oltre che dei fattori individuali, anche
dei fattori di contesto;
c) la disponibilità di una strumentazione statistica in tal senso appropriata;
d) l’integrazione, indispensabile, dell’analisi demografica e della strumentazione statistica con le acquisizioni maturate in ambiti disciplinari
differenti.
Si tratta dunque di problemi relativi al modello teorico, al modello
statistico, alla ricostruzione delle biografie.
Dati gli enormi progressi fatti dalla statistica nella predisposizione di
modelli appropriati d’analisi di dati longitudinali individuali, e visto che
alcune ipotesi teoriche, seppur parziali, già esistono, si può a buon diritto
ritenere che gli ostacoli maggiori da superare siano ancora quelli relativi
all’osservazione. A questo riguardo vale quanto è stato detto in generale
nel precedente paragrafo: non conviene entrare ora nel merito delle
caratteristiche tecniche e delle difficoltà pratiche relative ai due tipi di
approccio che sono più praticabili, cioè l’indagine retrospettiva e
l’indagine prospettiva; basterà sottolineare che la scelta in merito ve-
I metodi
127
de gli specialisti relativamente divisi e che quando si debbano rilevare
solo variabili oggettive molti elementi farebbero propendere verso
l’inchiesta retrospettiva (Courgeau e Lelièvre, 1989).
Per l’analisi della mortalità la questione presenta, peraltro, caratteristiche in parte diverse. Se, com’è ovvio, per questo processo non si
può pensare a un’osservazione retrospettiva, anche quella prospettiva
presenta problemi non indifferenti: o si conduce il follow-up per durate
irragionevolmente lunghe o si integra la biografia troncata a sinistra con
una massiccia indagine retrospettiva25; per lo studio della mortalità probabilmente non si potranno mai trovare soluzioni pienamente soddisfacenti. Sono però possibili soluzioni di compromesso in grado di portare
comunque a risultati più significativi di quelli consentiti dall’osservazione
classica. In primo luogo l’accoppiamento attraverso un linkage nominativo
delle osservazioni dello stato civile con i caratteri individuali rilevati ai
censimenti: è quanto già da tempo fanno i paesi scandinavi. Per citare
solo un caso, il record linkage della Norvegia — che un gruppo di ricerca italobelga sta studiando da qualche anno (Caselli et al., 1989) — attualmente
copre l’arco venticinquennale 1961-85 e può anche «incorporare» le
informazioni proveniente dal registro dei tumori. Concepiti e introdotti
per rimediare agli inconvenienti, che prima si ricordavano, derivanti dalla
combinazione di dati provenienti da fonti di natura diversa, i record linkages
possono utilmente essere sfruttati per definire non intere traiettorie di
vita ma alcune non marginali «carriere» al loro interno (quella
professionale, ad esempio, o quella scolastica) e costruire fife histories come
una successione di «stati» — ciascuno definito dall’associazione delle
modalità assunte dalle caratteristiche e dalle carriere nei quali un soggetto
transita o rimane per periodi più o meno lunghi di tempo. Una seconda
possibilità, di gran lunga preferibile, è quella di dar vita a un sistema di
registrazioni correnti e seguite su un gruppo limitato di soggetti: in
sostanza realizzare non per l’intera popolazione, ma per un suo
campione, un’osservazione corrispondente al primo dei tre criteri
prefigurati nel precedente paragrafo. Il sistema — che è da tempo in
uso in Gran Bretagna e che ha consentito all’Opcs e ai suoi ricercatori di
raggiungere importanti risultati nelle analisi di mortalità differenziale — è
in grado di tener conto nelle storie individuali solo degli eventi accertabili
nell’ambito delle attività dei servizi ufficiali di statistica (Opcs, 1978).
Particolare considerazione merita l’utilizzazione delle storie individuali nello studio della mobilità spaziale, uno dei capitoli della demo25Non a caso le poche indagini follow-up condotte finora negli Stati Uniti in tema di
mortalità riguardano solo individui appartenenti a particolari fasce di età.
128
Antonio Santini
grafia a un tempo più complessi e più oscuri: al di là del fatto che nessuno
dei mezzi di rilevazione utilizzati dall’«osservazione classica» è in grado di
fornire precise e complete misurazioni degli spostamenti della popolazione sul territorio, che è spesso impossibile distinguere tra migrazioni e migranti e che, in ogni caso, i dati — o le valutazioni — ottenute sono sempre al
netto di altri eventi demografici «concorrenti», l’obiettivo conoscitivo cui
deve tendere l’analisi, più che la misura del semplice fenomeno migratorio,
è quello delle interrelazioni tra migrazione e altri fenomeni demografici e
sociali. La ricostruzione di storie di vita attraverso indagini retrospettive, a
passaggio unico o, meglio, a passaggi ripetuti — ma anche attraverso un
panel — è destinata in questo senso a risolvere sia i problemi descrittivi,
con la raccolta completa e continua — nel senso prima precisato — di informazioni dello stesso tipo di quelle fornite dai censimenti e dall’anagrafe, sia
problemi esplicativi: conoscendo un certo numero di caratteristiche individuali prima e dopo la migrazione questa potrà essere utilizzata alternativamente come variabile indipendente al fine di ricercarne gli effetti sull’evoluzione della popolazione studiata o come variabile dipendente da porre in
relazione al mutare di quelle caratteristiche. Questi obbiettivi sono di grande rilevanza conoscitiva: da una parte l’effetto delle migrazioni sui comportamenti demografici, economici e sociali di una popolazione; dall’altra
il ruolo giocato dagli eventi demografici, economici e sociali che modificano la struttura di una popolazione e simultaneamente influiscono sulla sua
mobilità spaziale. L’inchiesta triple biographie dell’Ined (Courgeau, 1988) è
un esempio estremamente significativo delle potenzialità conoscitive, pur
scontando numerose e rilevanti difficoltà logiche e metodologiche, di questo tipo di approccio26.
9. Le biografie a confronto
Le implicazioni per gli sviluppi del metodo demografico derivanti dall’analisi delle biografie individuali vanno al di là delle problematiche prima
discusse: esse toccano i fondamenti stessi dell’analisi demografica e in
26 Nei censimenti demografici, più frequentemente a partire da quelli degli anni settanta,
vengono un po’ dovunque inserite alcune domande di tipo retrospettivo sui mutamenti di
residenza. Data la natura delle rilevazioni censuarie tali domande sono forzatamente limitate nel
numero e nelle specificità delle informazioni richieste; possono quindi fornire degli elementi di
conoscenza molto ridotti. Vi è inoltre una diffusa tendenza da parte delle popolazioni a rifiutare
il censimento come mezzo per accertare caratteristiche e fatti ritenuti appartenere
esclusivamente alla sfera privata degli individui: non sono stati pochi i casi in Europa di
manifestazioni pubbliche contro il carattere «inquisitorio» dei censimenti.
I metodi
129
questa prospettiva — apparentemente meno ambiziosa poiché si caratterizza per obiettivi essenzialmente descrittivi — possono assumere
grande rilevanza.
In una tavola rotonda sul tema della ricerca in demografia organizzata
in occasione della Chaire Quételet 1984 (Loriaux, 1984) qualcuno pose la
domanda: l’analyse démographique au sens strict n’est pas en train de s’essoufler? In effetti la
domanda, pur provocatoria, non era irragionevole: dopo un ventennio di
importanti acquisizioni conoscitive e in virtù della consapevolezza faticosamente raggiunta sulla complessità dei meccanismi e delle determinanti
dei processi demografici si può essere di fatto ancora convinti dell’adeguatezza dell’analisi demografica a fornire una buona e sufficiente descrizione delle manifestazioni dei processi stessi? Specificatamente a
provocare queste incertezze sono due punti cardine dell’analisi classica: il
presupposto di omogeneità della coorte e la necessità di ricercare misure
«pure» dei fenomeni.
Come si diceva all’inizio, una popolazione può essere pensata come
un complesso di biografie e ognuno degli eventi demografici che in essa
si manifestano come una particolare esperienza tra le tante, demografiche
e non demografiche, che in sequenza caratterizzano un’esperienza biografica. A livello macro, quando cioè si utilizzano dati aggregati, l’unità di analisi diventa necessariamente la singola esperienza demografica (la morte,
la nascita, il matrimonio) e la biografia scompare nella sua interezza per ridursi a due (o tre) momenti significativi: quello in cui si manifesta l’evento studiato, quello del suo evento-origine e/o quello che segna l’origine della biografia. Questi ultimi due momenti (o almeno uno di essi)
servono all’analisi classica per definire la macro unità di studio costituita dalla coorte. Tutto ciò implica:
— che la coorte sia omogenea rispetto al rischio di subire l’evento
studiato: solo in questo caso, infatti, la storia statistica della coorte è la
stessa storia statistica degli individui che la compongono. Si sa bene,
tuttavia, che questa omogeneità è un’astrazione, una condizione che non si
può raggiungere neppure tenendo conto di tutte le differenzialità eventualmente conosciute. Per ridurre l’eterogeneità di una coorte potremmo,
infatti, suddividerla in tante sub-coorti ciascuna definita da un differente
attributo differenziale. Questo attributo rimarrebbe, peraltro, come
carattere immodificabile della sub-coorte per tutto il tempo in cui gli
eventi studiati si manifestano; verrebbe così garantita soltanto un’omogeneità all’origine, ma non si terrebbe conto dell’eterogeneità che si
produce in funzione di esperienze diverse vissute nel corso del tempo;
130
Antonio Santini
— che ogni fenomeno venga isolato dagli altri, che sia cioè misurato allo stato puro eliminando l’influenza dei fenomeni concorrenti.
Tutto ciò è perfettamente legittimo quando il fenomeno perturbatore
è la mortalità che cancella ogni informazione su quello che avrebbe
potuto essere il comportamento degli individui se fossero sopravvissuti. Si può e si deve porre, in questo caso, l’ipotesi di indipendenza
tra mortalità e fenomeno studiato. Per gli altri fenomeni perturbatori
questa ipotesi, necessaria nell’analisi classica, implica una limitazione
delle conoscenze: quei fenomeni agiscono, infatti, sul comportamento
demografico; tra essi e il fenomeno studiato può esistere un’interazione e può essere estremamente importante capirla e misurarla.
Courgeau e Lelièvre (1989) dimostrano, sulla base dell’esperienza
dell’inchiesta triple biographie prima ricordata e mediante una rigorosa
formalizzazione e generalizzazione dei metodi in essa impiegati, che
l’analisi delle biografie individuali ricostruite nella loro complessità e
completezza secondo i criteri precedentemente indicati consente di
superare ambedue i problemi. Considerandola, infatti, come un processo stocastico complesso, ciascuna biografia individuale può essere
adottata come unità di analisi in luogo dei singoli eventi. Ed è facile
intuire, anche per quanto si è esposto in precedenza, che l’analisi delle
biografie così intesa non rappresenta solo un mezzo per cercare delle
risposte a interrogativi rimasti finora aperti ma conduce a riformulare
le basi della stessa analisi demografica.
10. Conclusioni
Favorita dalla ricordata «dipendenza» dalla statistica ufficiale, ma
soprattutto dalla cosiddetta «tirannia del quantificabile » e dal fatto che
tra le funzioni ad essa assegnate vi è quella di dar conto dei mutamenti
quantitativi dell’aggregato prodotti dal ricambio generazionale in termini di componenti naturali e migratorie, la demografia da sempre si
è mossa su un piano essenzialmente descrittivo. Con gli sviluppi di nuovi
metodi di analisi e di ricerca sorretti da una più rigorosa definizione dei
meccanismi di manifestazione dei processi di popolazione, che hanno
spinto sia verso la raccolta di dati a livello individuale e non solo aggregato, sia verso una sistematica integrazione, al di là delle variabili tradizionali (demografiche), dei fattori interagenti nei processi di popolazione, non si è soltanto risposto all’esigenza di capovolgere un’ottica «passiva» nei confronti dell’osservazione e della descrizione del reale, che
I metodi
131
per troppo tempo aveva limitato la ricerca demografica semplicemente
a elaborare tabelle di dati censuari e di stato civile già confezionati, fornendo così la cornice logica e tecnica per la raccolta, il controllo, la gestione, l’analisi dei dati utili allo studioso. Si sono piuttosto compiuti
i primi passi verso l’obiettivo, più volte qui indicato, del superamento
dell’ambito descrittivo e della misura, in cui tradizionalmente veniva
circoscritto il compito del demografo, in favore di un’impostazione metodologica più chiaramente e rigorosamente orientata in direzione di contesti e processi causali. Dunque, il progresso metodologico — le più recenti tendenze degli studi in tema di popolazioni umane lo indicano chiaramente — è strettamente connesso, se non dipendente e contestuale,
all’arricchimento di aspetti «contenutistici» e all’acquisizione di conoscenze proprie delle altre scienze dell’uomo con conseguenti indispensabili riferimenti sia a schemi concettuali integrati (cioè coerenti con approcci interdisciplinari consistenti) sia a teorie entro cui collocare le ipotesi
di ricerca.
Nel riconoscere in questo orientamento di ricerca decisive potenzialità
verso la conoscenza del reale e nell’assegnargli quindi, nonostante le
enormi difficoltà di interazione, un carattere di priorità per il futuro
della demografia, non si intende fare tabula rasa con la «vecchia» tradizione: c’è infatti spazio per ulteriori contributi descrittivi ad esempio, sfruttando ancora l’osservazione classica, per tracciare nel tempo
profili delle caratteristiche e dei comportamenti generazionali — e modellistici, relativi sia alle componenti, sia ai processi tendenziali, sia a
simulazioni su interazioni componenti-strutture e così via, in termini
più strettamente demografici.
In tal senso è evidente che la maturazione della riflessione e dell’elaborazione metodologica in demografia è ben lungi dall’essersi
conclusa e impone un impegno prioritario della comunità degli studiosi
della disciplina. Pur nella consapevolezza che la disponibilità di un ricco e
aggiornato bagaglio strumentale non consente da solo di arrivare a capire
l’origine dei fenomeni demografici né a offrire persuasive e complete
linee interpretative, si deve infatti essere ben consapevoli che nella fase
attuale e nelle prospettive della ricerca sempre di più il metodo adeguato diventa una componente interna al processo di conoscenza demografica..
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Capitolo quinto
Demografia e storia
Carlo A. Corsini
1. I significati
1.1. Demografia e storia
Stando al suo contenuto semantico, per demografia s’intende comunemente lo studio della popolazione; in termini più generali e in un’accezione più
completa, demografia è la scienza della popolazione. Ma ogni definizione è come
un vestito: è funzione del corpo che racchiude (benché, proverbialmente, l’abito non faccia il monaco). Nel caso specifico della demografia la metafora
rende bene il senso che essa sottende. In quanto scienza sociale — o, in generale, del sociale — la demografia si riferisce a una popolazione, a un insieme
di persone che vivono o che hanno vissuto o che, poste certe condizioni, vivranno in un certo futuro.
Si tratta dunque di individui che sono collocati nel tempo. Un tempo
che non è necessariamente l’oggi, perché la demografia non ha per oggetto di
studio soltanto le popolazioni contemporanee; non indaga soltanto gli eventi
che condizionano oggi una qualunque popolazione — le nascite, i decessi, le
migrazioni, i matrimoni — e allo stesso modo non ne analizza le caratteristiche strutturali così come oggi si presentano all’occhio dello studioso, fissate
a un momento preciso (come avviene con il censimento). Questo tempo può
ben essere il domani, proprio perché, come ogni scienza costruita sul sociale e
per padroneggiarne la conoscenza, anche la demografia tende il suo sguardo al
futuro, cercando di prevedere quali saranno gli scenari che saranno raggiunti
in anni a venire. In quest’ottica — del futuribile — si possono collocare tutti
gli ormai noti precursori della demografia (in quanto scienza pienamente autonoma), Graunt e Petty, Keerseboom e Siissmilch, Derham e Halley, Wargentin e i due Huygens, Townsend e Cantillon, Condorcet e Godwin, Malthus e Darwin (è chiaro che l’elenco non è esaustivo; recenti trattazioni, molto
originali e interessanti, si trovano in La Vergata, 1990, e Micheli, 1991).
Pur partendo dalla percezione del loro presente, tutti cercarono la «sta-
140
Carlo A. Corsini
bilità» negli eventi umani, qualunque forma questi eventi potessero assumere. Tutti mirarono alla ricerca dell’invariabile nella variabilità del
mondo: un invariabile la cui conoscenza permettesse di «prevedere» il
futuro, di regolare gli eventi umani, quale che fosse, in ultima fase, l’Ente
sovrano dominante sulle sorti dell’umanità. La ricerca del prevedibile
è dunque parte (direi) ineliminabile dello studio del presente.
È evidente che questa ricerca pone le sue radici nel passato, inteso
come dimensione di eventi vissuti. Un passato che segna con evidenza
la «storia;di ciascun essere umano, condizionandolo passo dopo passo.
Un passato che non coinvolge però direttamente ciascun essere vivente
in quanto tale, immediatamente, ma cumulativamente: sul destino del
figlio non intervengono — geneticamente — soltanto i destini dei due genitori, ma anche quelli dei nonni, dei bisnonni e così via all’indietro,
generazione per generazione. E appunto in quest’ottica che lo studio
dei fenomeni umani — della popolazione, per intendersi, così come lo
pone la demografia — si intreccia fortemente con lo studio dei fenomeni
naturali, ancora una volta alla ricerca della componente «costante» degli
eventi umani, tanto quanto si lega strettamente all’indagine sul futuro.
Anche a questo riguardo è comune, direi, la posizione di molti dei
precursori ora richiamati con quella di altri studiosi che vennero dopo:
ancora da Malthus e Darwin, a Spencer e Wallace, da Bertillon e Quételet a Westergaard e Lotka.
È la durata, dunque, che tiene un posto determinante nella storia
della popolazione ed è questa storia che è bene padroneggiare per meglio conoscere il presente, per analizzare più compiutamente la popolazione così come si presenta oggi all’osservazione dello studioso nelle sue
caratteristiche attuali, in tutto l’intreccio delle sue determinanti. In questo
quadro lo strumento per eccellenza di questa ricerca, la statistica, che
all’analisi demografica fornisce appunto l’insieme di norme che ne regolano l’attuazione, non è solo un insieme di tecniche, un corpo di osservazioni; è diagnostica ed ermeneutica allo stesso tempo. Diventa una
scienza alla quale, con l’aiuto del calcolo delle probabilità, si vuol assegnare il ruolo di esorcista della conoscenza.
Per quanto concerne la demografia, la durata ha pertanto un significato ben preciso: coinvolge direttamente ed esplicitamente lo studioso
dei fatti umani perché costituisce il riferimento necessario, il senso immanente, d’ogni indagine sulla popolazione. Non si riferisce soltanto al
modo con cui taluni fatti (nascite, decessi, matrimoni, migrazioni, strutture) si dispongono nel tempo (lungo l’anno di calendario 1994, oppure
nell’intervallo 1764-69, oppure alla mezzanotte del 31 dicembre 1981,
tanto per fare qualche esempio), perché questa è la loro condizione d’es-
Demografia e storia
141
sere, il loro farsi sostanza misurabile; ma si riferisce anche al modo con
cui quei fatti vengono osservati, diventano cioè oggetto di studio.
E questo che rende ineliminabile la comunanza fra demografia e storia. Sia nella ricerca demografica, sia nella ricerca storica, il tempo —
inteso come storia umana — si presenta all’osservazione in tre distinti
aspetti, in tre dimensioni (si veda Saraceno, 1986, per un approccio più
sociologico); ma si tratta comunque di definizioni, quindi soggettive,
disposte solo per comodità di suddivisione, perché sostanzialmente, di
fatto, non esiste alcuna differenziazione — il tempo è unico, che lo si
intenda:
— come tempo vissuto, misurato dall’età biologica, che fa riferimento alla durata di vita del singolo individuo, dalla nascita alla morte: ogni
evento spezza la linearità di questo periodo in tante fasi o cicli, ciascuno dei quali ha ovviamente connotazioni diverse rispetto agli altri: il
matrimonio o la migrazione, ad esempio, chiudono una fase di vita e
ne aprono un’altra ben diversa;
— come tempo storico, che colloca ogni individuo in termini di appartenenza a una determinata generazione o coorte; il tempo storico è
allora la «lente» con la quale si legge la storia vissuta — in funzione degli
eventi che la costellano e che la caratterizzano — di un insieme di individui: coloro, appunto, che costituiscono una generazione (i nati nell’anno 1810) o una coorte (tutti coloro che si sono sposati nel corso del 1932,
ad esempio);
— come tempo sociale: in un’ottica, cioè, molto più vasta, in cui l’individuo di per sé scompare come specifico e singolo oggetto di studio
e cede il posto a una popolazione, comunque essa possa esser definita
o delimitata, cioè a un collettivo più aggregato nel quale le caratteristiche possedute da ciascun individuo assumono rilevanza in quanto riferibili all’insieme di tutte le caratteristiche possedute da tutti gli individui che costituiscono il gruppo, la popolazione, l’universo: proprio il gruppo, la popolazione e l’universo — comunque definibili — costituiscono
l’oggetto specifico della ricerca in demografia.
Sia il tempo sociale, sia quello storico — ripeto che si tratta di definizioni di comodo — colgono l’individuo in seno a un gruppo più o meno
vasto; ma mentre nell’ottica del tempo storico l’individuo è «osservato», ancora in funzione dell’età biologica, come componente di un dato
sottosistema demografico, o sotto-popolazione, avente caratteristiche differenziali o selettive (tutti coloro che si sono sposati in un anno di calendario, qualunque sia la loro età al matrimonio, sono seguiti, ad esempio, per misurarne la fecondità in base al numero di figli generati nel
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Carlo A. Corsini
corso della convivenza matrimoniale; i nati in un anno di calendario, ad
esempio, sono seguiti per misurarne la nuzialità, cioè per studiare le modalità con cui accedono al matrimonio e così via), nell’ottica del tempo
sociale l’individuo è considerato come appartenente a una popolazione
formata da altri individui che non sono selezionati o scelti come oggetto
di studio in funzione delle caratteristiche biologiche comuni di età
(qualora presenti, le caratteristiche comuni sono ininfluenti per la definizione dell’oggetto di studio). Dal punto di vista della dimensione del
tempo sociale, dunque, l’oggetto di studio può essere un’intera popolazione, quella di una nazione o di un gruppo religioso, di un’etnia, o una
qualunque sotto-popolazione, entità che sono definite in base a criteri di
rilevanza soprattutto sociale, com’è la famiglia, ad esempio. In questa terza dimensione il criterio di appartenenza è quindi indipendente dall’età
(cronologica o biologica) dei singoli componenti, nel senso che tutti coloro che fanno parte della sotto-popolazione vengono presi in esame.
È quasi banale rilevare che un’ulteriore, ma non diversa, prospettiva — spostando i termini di riferimento — potrebbe essere assunta collocando l’oggetto di studio (l’individuo, la coorte, il gruppo) nel tempo
cronologico: ecco allora la tripartizione braudeliana del tempo individuale, del tempo congiunturale e della lunga durata1. Gli eventi possono dunque essere studiati come fa il cardiologo con le pulsazioni cardiache: analizza la disposizione dei singoli battiti per coglierne le aritmie,
oppure legge per esteso il cardiogramma per individuarne le fasi dei processi fisiologici e per metterne in evidenza i fenomeni di fondo, quelli
inerziali. Ciascuna delle tre dimensioni temporali degli eventi sopra riferite corrisponde evidentemente a una direzione di ricerca che ha connotazioni specifiche differenziali, perché tutte richiedono materiali di
studio e metodi d’analisi diversificati, ma tutte appartengono al territorio di studio sia della demografia sia della storia. L’una e l’altra spaziano dal singolo individuo all’intera popolazione. Perché allora esse seguitano a mantenere confini separati, paradigmi diversi? La risposta appare ovvia: il corpo è sì lo stesso ma diverso è il vestito; e il vestito è appunto fornito dai metodi di osservazione che informano di sé l’indagine
che l’una e l’altra hanno come scopo — l’uomo e la sua storia — oltre
che, beninteso, dalle ipotesi che sottostanno alla ricerca e dagli scopi
finali di questa.
1 Molto è stato scritto sulle ripartizione della «durata», dall’apparire degli scritti di
Braudel sull’argomento (1949; 1958). Si deve a Braudel l’elaborazione del concetto di «lunga durata» e di aver messo in evidenza l’interazione fra una storia quasi inerziale, formata
da strutture, i suoi cicli o congiunture e gli eventi individuali.
Demografia e storia
143
Questa centralità dell’uomo fornisce piena giustificazione dei recenti
sviluppi della demografia in altri campi, si potrebbe dire dell’irruzione
della demografia sul territorio di altre scienze e — se si vuole, da un
punto di vista opposto — della «cattura» degli interessi e dei metodi di
indagine specifici della demografia da parte di altre scienze (altre anche
rispetto alla storia) come l’antropologia, l’etnografia, l’economia, la sociologia e la genetica, per fare qualche riferimento. Si tratta soprattutto
di una crescente comunanza di interessi che vede scomparire progressivamente quella rigidità di orizzonti tematici che ha finora cristallizzato
i rapporti fra le diverse scienze che si occupano dell’uomo. E proprio
la nuova percezione della «storicità» delle vicende umane, nella loro complessità e nella loro interazione, che ha reso più facile, per così dire, Io
smantellamento di posizioni disciplinari arroccate. Fare storia è cercare
messaggi e significati occultati sotto la superficie grezza dei fatti umani;
investigarli per averne spiegazione. E si tratta di fatti vivi, o che comunque corrispondono a persone che sono state vive, non semplici invenzioni della fantasia, senza corpo.
1.2. Il posto della demografia storica
Demografia e storia sono allo stesso modo scienze d’osservazione e
quindi scienze del concreto: ma le loro ipotesi di lavoro devono comunque essere verificate e controllate con i fatti. Di per sé l’ottica demografica si oppone alla ristrettezza di una storia meramente évènementielle
proprio perché porta il ricercatore a considerare le popolazioni, le società, nelle loro strutture e nei loro modi d’essere attraverso i fenomeni,
gli eventi oggetto d’indagine: appunto le nascite, i decessi, i matrimoni,
le migrazioni, che come si è detto costellano la vita individuale e la vita
collettiva a diversi livelli d’importanza — in termini d’ipotesi di ricerca,
ovviamente — e a diverse dimensioni temporali. Il senso della storia, il
senso del cambiamento è strumento d’interpretazione di fondamentale
importanza ed è la percezione di questo senso che dà l’abitudine all’osservazione diacronica e alla spiegazione attraverso la successione degli
eventi. I fatti delle società del passato possono essere ritrovati a beneficio
della comprensione del presente mediante i procedimenti e i materiali
propri della storia: documenti scritti d’ogni natura, vestigia archeologiche,
tradizioni orali e cosi via.
In questo consiste il posto che la demografia storica si è costruita
all’interno della demografia. E ben vero che ogni scienza e ogni disciplina non vive di per sé in un ambiente sterilizzato: ciascuna è tributaria
delle altre e, in particolare per quanto concerne la demografia e le altre
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Carlo A. Corsini
scienze sociali (economia, sociologia, antropologia e così via), nessuna
può sfuggire a questa interdipendenza. Ciò che appare più interessante
e per certi versi più importante è che neppure le scienze della natura
sfuggono a questa reciprocità: come avviene per la genetica e per la biologia, ad esempio, verso le cui tematiche la demografia ha sempre mostrato attrazione (si ripensi, a grandi linee, all’evoluzione della demografia come disciplina, come si può leggere nel capitolo secondo di questo stesso volume) e anzi una crescente attenzione, a fronte della quale,
da parte di queste scienze, si segnala un crescente interesse per le metodiche d’introspezione caratteristiche della demografia. Tutte vedono allargarsi il campo d’indagine, crescere i problemi e le implicazioni dei
metodi d’investigazione. Come d’altra parte è tramite la genetica di popolazione che può essere realizzata l’unione tra la demografia e le altre
scienze dell’uomo, così è tramite la demografia storica che può essere
realizzata l’unione tra la demografia e la storia tout-court. Questo non
significa che il singolo studioso dei fatti umani — quale che sia la profondità della ricerca che lo coinvolge — debba necessariamente e sempre
più «comprendere» questi fatti al loro massimo: non è infatti immaginabile la polivalenza della conoscenza, nel senso che non si può pensare
a un singolo studioso (dei fatti umani, in particolare) che sia capace di
«dominare» la conoscenza dell’oggetto di studio in tutta la sua estensione, che sia cioè in grado di analizzare e interpretare nella loro complessità e nella loro compiutezza tutti i fattori che operano su un determinato fenomeno demografico.
Tuttavia si può ben legittimare una polivalenza di interessi nella ricerca. Anche se, dobbiamo ammetterlo, sul piano dell’epistemologia resta aperto il dibattito a proposito della definizione e delle reciproche
posizioni di ciascuna scienza, è pur vero che sempre più, in ogni ricerca
sul sociale, si fa strada e si rafforza la convinzione della interdisciplinarietà o — come altri potrebbero definirla — della multidisciplinarietà di
approcci. Tale convinzione tanto più è convincente nel campo delle ricerche che coinvolgono la demografia, l’antropologia, la sociologia, l’economia e dunque, a diverso titolo, la storia.
In questo quadro si colloca dunque in modo peculiare il ruolo o, meglio, la presenza della demografia storica che — proprio perché settore
(anche se questo termine non è del tutto soddisfacente) della demografia tout-court — rappresenta l’area disciplinare che meglio si qualifica
come strumento di passaggio tra scienze diverse: è l’area disciplinare che
con maggior facilità riesce a veicolare istanze di ricerca che (epistemologicamente) appartengono a scienze differenziate. Si potrebbe dire che
Demografia e storia
145
la demografia storica è la terra di confine le cui frontiere hanno le difese
più fragili.
Si guardi al contenuto della disciplina. Anche per effetto della rapida
presa di potere della demografia e della sua conquista di autonomia nel
campo delle scienze dell’uomo, una rapida evoluzione si è prodotta in
termini di corposità, o di dimensione, della stessa demografia storica,
soprattutto per quanto concerne la distinzione — il chiarimento, si
potrebbe dire — fra storia della popolazione, o storia demografica, e demografia storica. La distinzione può apparire banale o meramente didattica, ma non è del tutto così. La demografia storica è, sinteticamente, lo studio dei fatti umani deI passato: l’occhio indagatore del demografo sposta la sua attenzione dai fatti immediatamente percepibili del
contemporaneo a quelli non più visibili del passato, utilizzando bensì
le stesse metodiche d’investigazione. il procedimento di base è lo stesso: si tratta di una traslazione nel tempo di ipotesi da verificare, di problemi da risolvere. L’oggetto è lo stesso: è una realtà umana da ricostruire nell’articolazione delle sue componenti. Si tratta comunque di
un’indagine accorta di problemi e di fenomeni demografici in un contesto
specifico, ma, questa volta, collocati all’indietro nel tempo. La demografia
storica pertiene comunque al gremio della demografia e possiede tutte le
certezze (i metodi d’indagine e di misura) e tutte le incertezze (i problemi
da indagare) di quest’ultima: analizza gli stessi fenomeni, ancorché colti
nel passato.
Anche la storia demografica è la ricostruzione del passato di una popolazione mediante gli stessi elementi (serie di nascite, decessi, matrimoni, strutture e così via), ma tali dati sono utilizzati in via del tutto
strumentale: ci si avvale dei dati di popolazione con finalità semplicemente descrittive perché l’oggetto di studio è tutt’altro che la «popolazione» considerata in demografia. Si tratta cioè di indagini storiche nelle
quali i dati di popolazione sono sfruttati come dati d’appoggio, come
dati esogeni, ausiliari di ricerche che hanno per oggetto altri argomenti,
non come dati che hanno una specifica valenza di studio. Non si cercano
le cause degli eventi storici (guerre, pestilenze e così via) nei fatti
demografici, né si cercano gli effetti degli eventi storici sui fenomeni demografici. Così, ad esempio, storia demografica è la ricerca dello storico della medicina sui dati di popolazione per studiare l’evoluzione di
una data malattia, ma senza misurarne la specifica cadenza e la specifica
intensità. La scomparsa (o la prima apparizione) di una nuova malattia
non è funzione soltanto del modo con cui essa viene rilevata «statisticamente», per effetto di un’accresciuta conoscenza dovuta sia al perfezionamento degli strumenti tecnici di diagnosi, sia al successo del ricerca-
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Carlo A. Corsini
tore nella «caccia» ai virus patogeni, né soltanto delle mutate condizioni igieniche, sanitarie e ambientali nelle quali vive la popolazione in oggetto; ma è funzione anche del modo in cui questa stessa popolazione
ha «vissuto» o sperimentato quella malattia nel passato (effetto di generazione, si potrebbe dire: se si tratta di una malattia immunizzante,
come nel caso del vaiolo, normalmente solo le nuove generazioni ne saranno colpite) e del modo in cui, più specificamente, questa popolazione sta vivendo o sperimentando la malattia, in funzione della sua mutevole o mutata composizione per età e sesso, per condizioni sociali ed
economiche e così via.
Non vorrei risolvere sommariamente la dicotomia fra demografia storica e storia demografica con una banale trasformazione, assegnando rispettivamente all’una quello che nell’altra ha il ruolo di sostantivo. A
mio avviso, la distinzione fra le due sta semplicemente nel fatto che chiunque può fare storia demografica; solo il demografo accorto può fare demografia storica.
2. I segni
2.1. Il quadro generale
Si è detto che l’evoluzione della demografia storica, almeno in quest’ultimo scorcio di secolo, coincide con una sorta di specificazione dei
contenuti e delle finalità della demografia: più precisamente, si potrebbe dire che la demografia storica riflette le esigenze di specificazione
(in termini di esigenze di dati e di misure, come vedremo fra poco) della
demografia. Ebbene, la maggioranza delle ricerche, pur fondamentali,
condotte fino agli anni cinquanta di questo secolo, a opera soprattutto
di storici (e che pertanto appartengono, se vogliamo mantenere la distinzione sopra fatta, al campo della storia demografica), hanno avuto
il merito indiscusso di sollecitare le ricerche sulla popolazione e di aprire la discussione, che sembrava sopita, sui problemi demografici e sulla
loro rilevanza come esplicatori della storia. Si pensi all’opera di Beloch
(1888a; 1888b; 1889a; 1889b; 1908; 1909a; 1909b; 1909c; 1909d), che
pure tanto ha apportato alla conoscenza della storia della popolazione
dell’Italia, in particolare, cosi come tanto ha operato con le sue pubblicazioni stimolando i ricercatori a frugare fra le carte sepolte negli archivi; certamente, a posteriori, i risultati allora conseguiti possono apparire di semplice contenuto. Ma ogni autore, ogni ricerca, si colloca in una
fase specifica dell’evoluzione della scienza. Così, ad esempio, nel perio-
Demografia e storia
147
do in cui Beloch conduceva ricerche negli archivi di stato in Italia per
raccogliere dati statistici sulla popolazione, l’affermazione del metodo
quantitativo nello studio dei fenomeni di massa si estendeva alle ricerche di statistica (nel cui ambito disciplinare, all’epoca, si collocava la
demografia) storica proprio perché queste rappresentavano un’applicazione naturale del metodo sperimentale, allora al centro degli interessi
degli studiosi. La conoscenza statistica del passato veniva a corrispondere all’esperimento nel quadro delle scienze naturali e soddisfaceva l’esigenza di «sperimentazione» anche nelle scienze umane. E nessun altro
campo meglio si prestava a tale applicazione di quello concernente la
popolazione, perché di essa erano facilmente reperibili dati quantitativi,
seppure nascosti negli archivi.
E la storia economica che fornisce i primi impulsi agli approfondimenti – al ‘irruzione, come si è detto prima – della demografia nella storia,
prendendo la strada dello studio delle crisi economiche e, più in generale, dello studio della produttività e delle sue relazioni con l’aggregato
di consumo: vale a dire, con la popolazione. Il processo di crescente richiesta di dati di popolazione non è dunque, in questa fase, originato
nell’ambito della demografia, ma è un fatto esogeno: «per lo storico economico la demografia è una disciplina ausiliaria molto importante, che
rientra per molti versi nell’ambito dei suoi interessi e che gli consente
di studiare alcuni problemi assai più approfonditamente di quanto non
gli sarebbe stato possibile con i metodi propri della sua disciplina» (Kula, 1972, p. 348). Poiché la demografia si interessa all’uomo e agli aggregati umani - la famiglia, i gruppi etnici e sociali - è nello studio di
questi aggregati che la demografia «si ricollega agli interessi della storia
economica. Per di più, siccome molti problemi tipici della demografia
si prestano soltanto a indagini di lungo periodo, i demografi stessi sono
spesso costretti a studiare intervalli sempre più estesi al passato».
Questa ancillarità della demografia storica, intesa come disciplina del
tutto strumentale, è opinione peraltro condivisa ancora oggi da molti
studiosi, anche fra gli stessi demografi, perché comune è l’opinione che
il «passato» è il periodo per il quale non esistono, o sono carenti, informazioni statistiche sulla popolazione. Ancor oggi, fra molti studiosi, demografi e non, è diffusa l’opinione che la demografia storica si distingua dalla demografia semplicemente per íl fatto che essa spazia indietro
nel tempo e che si tratti di un settore di ricerca scandagliato, in un piano nostalgico-antiquario, da studiosi che «per fuggire dal rumore presente che li stordisce, incapaci di immergersi nel silenzio che c’è in questo rumore, si dilettano in echi e in tintinnii di suoni morti» (Miguel
De Unamuno, riportata da Ungari, 1974).
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Carlo A. Corsini
Il problema delle fonti (come fra poco vedremo) è peculiare della demografia storica ed è quello che, ontologicamente, riesce a dare il significato più preciso del suo divenire come settore specifico — più correttamente si potrebbe dire il settore più specialistico, se non ci fosse pericolo
di essere mal intesi — della demografia; del suo essere strumento d’investigazione autonomo basato su informazioni quantitative (questa è,
ovviamente, una condizione ineliminabile) ricavate da fonti che nel passato — benché sia comunque un passato dai confini molto sfumati — non
sono state create con lo scopo preciso di studiare la popolazione (Hollingsworth, 1969; Van de Walle e Kantrow, 1974; Imhof, 1981).
La demografia storica utilizza dunque fonti di dati, cioè documenti
di qualunque natura, che possono anche non avere preliminarmente alcuna specifica valenza demografica, nel senso oggi comunemente assegnato ai dati della demografia. Lo scopo resta quello (immanente) della
demografia: ricostruire le vicende storiche di una data popolazione, o
di un gruppo demografico comunque individuato, colte nella dinamica
degli eventi (i flussi: nascite, decessi, matrimoni, migrazioni) e delle strutture (AA.VV., 1968; Drake, 1974; Willigan e Lynch, 1982). Così concepita, la demografia storica si pone come la congiunzione (naturale) fra
ricerca storica e ricerca demografica: in questo senso è il contatto con
la storia che ha contaminato la demografia creando una trasformazione
(un allargamento) dei suoi confini tematici.
Peraltro è a partire da una generazione di studiosi, appunto quella
che operava nel corso degli anni cinquanta, e da questa con crescente
intensità trasmesso alle generazioni successive, che si è assistito a un aumento d’interesse verso i fatti demografici, da più fronti disciplinari;
non solo dalla storia in generale, e dalla storia economica e sociale in
particolare, ma anche dall’antropologia, dalla genetica e dalla biologia2.
Questa irruzione della demografia nella storia ha contribuito indubbiamente ad allargare le idee stesse della ricerca demografica, se non altro
perché ogni società, ogni cultura, ha una sua eredità demografica. Ma
si badi bene: questa irruzione non si giustifica banalmente e soltanto
come il risultato dell’esigenza di trovare nuovi dati di documentazione
2 L’evoluzione naturale della popolazione, la sua riproduzione, implica ovviamente
l’azione di fenomeni biologici: nascita, maturazione e senescenza, morte. E anche per
questo che la demografia è stata considerata scienza biologica, strettamente legata alla
biometria e all’antropologia fisica. Sarebbero veramente da tenere a portata di mano, per
la loro importanza, i contributi di Lotka (1937; 1939); ma, del resto, è sufficiente riflettere
sul titolo della sua opera più importante - e che tanto ha condizionato l’evoluzione della
metodologia demografica -, la Théorie analytique des associations biologiques: I Principes; IL
Analyse démographique avec application particulière à l’espèce humaine.
Demografia e storia
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sul passato di una popolazione, bensì come rivendicazione tutta generale, come una specie di diritto a fare storia, a calarsi nel passato, pur con
i problemi e le metodiche specifiche della disciplina.
Il processo che ha portato all’attuale fisionomia della demografia storica non è stato né breve, né lineare, ma anzi piuttosto tumultuoso, a
partire dalla fine degli anni cinquanta. Anche se è improprio — nell’evoluzione delle scienze sociali — cercare di rintracciare l’origine (o gli originatori) di un nuovo metodo d’indagine, di un paradigma innovatore, è
ormai comunemente condiviso che l’attuale fase della demografia storica
ha una sua data di nascita, il 1956, anno in cui Fleury e Henry (non a caso un archivista e un demografo) pubblicarono un Manuel de dépouillement et
d’exploitation de l’état civil ancien con il quale spiegavano, con taglio didattico ma
profondamente innovatore, come fosse possibile fare storia della popolazione (non meravigli che allora si parlasse di storia della popolazione e
non ancora di demografia storica) partendo dai registri parrocchiali e dallo
stato civile (vedremo, tra poco, qual è la differenza fra le due fonti). E non
fu certo un caso che questo manuale fosse tenuto a battesimo dall’Institut
national d’études démographiques (Ined), un organismo statale nato nel
1945 per guidare e coordinare la ricerca demografica in Francia in ogni settore e, a partire appunto &l 1956, anche in quello storico, mediante la costituzione di una sezione (unité de recherche, come venne denominata) di demografia storica che venne trasformata, a partire dal 1979 (quando all’Ined
venne dato un nuovo assetto organizzativo), in Département de démograhie historique et médicale. Due considerazioni avevano dettato la pubblicazione di questo manuale:
1) l’esistenza e l’abbondanza di documenti di base necessari per lo
studio della popolazione in tutta la Francia continentale alla ricerca delle radici e delle motivazioni di quella che sembrava una peculiarità della
Francia: l’anticipato — rispetto ad altri paesi — avvio del controllo della
fecondità e del declino delle nascite iniziato a partire grosso modo nell’ultimo quarto del secolo XVIII, in concomitanza (così appariva) con
la Rivoluzione;
2) la necessità di dare il via a una ricerca che prendesse la strada non
della mera rilevazione aggregativa — mediante semplice conta di nascite, decessi, matrimoni nel tempo — ma della ricostituzione delle famiglie, l’unico (a quel tempo) strumento che potesse fornire le informazioni di base necessarie per analisi approfondite delle caratteristiche e delle
condizioni demografiche che avevano determinato quella che, con una
metafora ripresa dagli eventi politici contemporanei, venne definita appunto «rivoluzione demografica».
150
Carlo A. Corsini
Peraltro, Henry (1953), già con un articolo pubblicato sulla rivista
Population (edita dallo stesso Ined), aveva richiamato l’attenzione degli
studiosi sull’esistenza di questa ricca documentazione, sottolineandone
l’importanza ai fini della conoscenza della demografia del passato; in
seguito, in collaborazione con Fleury (Fleury e Henry, 1956) e con Biraben (Biraben, Fleury e Henry, 1960), venne impostando un programma d’indagine nazionale coordinato appunto dall’Ined. Ancora Henry
(1956) aveva ricostruito la storia delle Anciennes familles genevoises fra i secoli XVI e XIX, mentre due anni dopo comparve quello che da allora
costituisce per la demografia storica un contributo d’indiscutibile importanza e un riferimento ormai divenuto canonico, dedicato a La population de Crulai, paroisse normande (Gautier e Henry, 1958), nel quale si
sperimentavano i nuovi metodi d’analisi demografica — o meglio, si
calavano in una realtà del passato metodi d’indagine che solo tecnicamente erano da considerarsi nuovi: lo spirito che li dettava era ben vecchio — centrati sulla ricostituzione delle genealogie familiari.
Ma questa esigenza, questo desiderio innovatore di comprendere
più compiutamente una realtà — anche se del passato — non era di
unica spettanza di demografi di professione e non si originava soltanto
in un ambiente comunque legato a tematiche demografiche, come l’Ined,
o nel quale si agitavano idee e problematiche concernenti la popolazione
e i suoi destini. In un orizzonte molto più vasto una nuova storia stava
negli stessi anni facendosi strada: una nuova concezione di fare storia i
cui autori furono Febvre e Bloch e il nutrito gruppo che operava intorno a Les Annaks. Una nuova concezione che era, in sostanza, di natura
metodologica. La (nuova) storia deve far uso di tutto ciò che reca l’impronta dell’uomo: lingua, forme del paesaggio, tecniche di coltivazione, segni d’ogni genere — etnologici, antropologici e così via — aprendosi senza riserve ai metodi e ai risultati di altre discipline, esaltando il
valore della ricerca specialistica purché questa non si esaurisca in se
stessa ma metta in luce nuovi compiti e nuove vie di approccio alla
storia nel suo insieme. Lo storico non può semplicemente accumulare
fatti: egli stesso deve «creare» l’oggetto del suo studio. Come scriveva
acutamente Bloch (1969, p. 41), «la storia vuoi cogliere gli uomini al di
là delle forme sensibili del paesaggio, degli arnesi o delle macchine, degli scritti in apparenza più freddi e delle istituzioni in apparenza più
completamente staccate da coloro che le hanno create. Chi non vi riesce non sarà, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il
buon storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là
sa che è la sua preda».
Demografia e storia
151
Si trattava, in definitiva, dì una riaffermazione del carattere scientifico della ricerca storiografica. Una riaffermazione la cui paternità, com’è ovvio nel vasto orizzonte delle scienze, è di tanti. Ho ricordato la
cosiddetta scuola francese perché è quella che, tutto sommato, ha dato
il maggior impulso alla riqualificazione scientifica della disciplina, con più
forte insistenza (forse, con maggiore evidenza); non si deve peraltro
dimenticare che anche da altri paesi le stesse esigenze e le stesse esperienze venivano manifestate pressoché contemporaneamente, anche se
con minor enfasi, come, ad esempio, in Inghilterra (si vedano Glass e
Eversley, 1965). Tale orientamento ebbe un impatto clamoroso su generazioni stanche della retorica della storia convenzionale, delle sue interpretazioni soggettive e apodittiche, delle sue controversie spurie. L’interesse per le tendenze di lungo periodo e per la dinamica della crescita
economica implicava quasi di necessità l’accentuazione dei fattori storici: proprio negli stessi anni cinquanta si perfeziona la new economie history, o
cliometria (per un suo inquadramento generale si veda Barraclough,
1977). Erano comunque gli anni nei quali altre scienze andavano
affinando i propri metodi, mettendo a fuoco altri e più pressanti problemi,
legati alla necessità di spiegazione dei fatti economici e sociali: tra
queste la statistica. In ogni campo la ricerca vedeva ovunque un aumento
dell’uso di tecniche quantitative, combinate con un più forte apporto
teorico e con una più diffusa applicazione ai problemi storici.
Le singolarità e la varietà dell’esperienza storica viene dunque ad assumere un rilievo del tutto particolare per quanto concerne la demografia.
Sia sul fronte degli storici sia su quello dei demografi si cercano nuove
spiegazioni, nuove verifiche, nuove strade da battere, connettendo insieme problemi economici e problemi demografici o, meglio, legando fra
di loro dati di popolazione e dati economici. Si mira così a spiegare la
crescita economica del secondo dopoguerra riconoscendo alle circostanze
demografiche tutta la loro importanza, così come le trasformazioni nelle
strutture e nella dinamica demografica di quegli anni vengono sottoposte a
nuove analisi cercandone le radici nelle trasformazioni della struttura e
della dinamica economica. Ma contemporaneamente vanno consolidandosi in entrambi i settori disciplinari nuove esigenze di analisi: in
modo specifico nuovi metodi di analisi longitudinale (contrapposti a
quelli che ormai appaiono superati dell’analisi trasversale) si generalizzano, prospettando la necessità di ampliare í riferimenti temporali,
per recuperare le informazioni che le statistiche correnti non possono
fornire. Questi nuovi modi di pensare la realtà spingono a sfruttare (meglio
sarebbe dire: a ri-utilizzare) i materiali che pure già si conoscevano e
che erano disponibili in abbondanza: appunto i dati di popolazione.
152
Carlo A. Corsivi
Allora: in modo specifico per quanto concerne la demografia storica,
questa nuova mentalità portava a elaborare una metodologia microanalitica appropriata (su cui fra poco ci soffermeremo) nota come «ricostituzione delle famiglie», descritta, appunto, in modo particolareggiato
nel Manuel sopra richiamato e applicata analiticamente agli abitanti che
avevano vissuto a Crulai fra i secoli XVII e XVIII. Una metodologia
che trovò, in seguito, la sua esemplificazione e la sua illustrazione
ancora in un volume di Henry (1980) dedicato alle tecniche di analisi.
Tale metodologia non era, d’altro canto, di esclusiva invenzione dei demografi: ancora in Francia, ad esempio, Goubert (1960) se ne era servito — indipendentemente da Henry e Fleury — nel suo vasto lavoro sul
Beauvaisis, e prima ancora, nel 1942, Hannes Hyrenius l’aveva utilizzata per uno studio sulla minoranza svedese di Estonia3.
L’idea di ricostituire le famiglie non era affatto nuova: era, ed è, lo
strumento di base dei genealogisti. Questi studiosi erano particolarmente
agguerriti in Germania già dai primi del Novecento, perché, grazie a
una legge del 1933 che rendeva obbligatoria ai cittadini del Reich la prova
delle loro origini ariane e, dal 1937, alla costituzione di un servizio genealogico ufficiale, ebbero modo di perfezionare l’applicazione della tecnica di ricostituzione delle genealogie riportando le informazioni contenute nei registri parrocchiali su moduli a stampa, così da pubblicare in
forma omogenea tutte le informazioni concernenti appunto la storia genealogica di ciascun cittadino a partire dal secolo XVII o XVIII. Secondo i programmi predisposti, tutta la popolazione della Germania avrebbe dovuto essere oggetto di tali ricostituzioni, che avrebbero dovuto dare
luogo a circa trentamila Ortssippenbucher (genealogie di villaggio), ma la
seconda guerra mondiale bloccò il lavoro iniziato; di questo enorme
programma vennero pubblicati appena una trentina di volumi comprendenti tali genealogie (Imhof, 1981; Knodel, 1988).
Ancora alla fine degli anni trenta, negli Stati Uniti, a cura della Società genealogica della Chiesa dei santi dell’ultimo giorno (mormoni) era
stata messa a punto una scheda di ricostituzione di genealogie che, seppure impostata con scopi eminentemente religiosi, permette comunque
approfondite analisi demografiche (Bean, Mineau e Anderton, 1990).
La strada da battere, dunque (quella della ricostituzione delle genealogie e, attraverso queste, della storia degli eventi del ciclo di vita di
ciascun individuo: nascita, matrimonio, cadenza delle nascite dei figli,
3 Si tratta di una ricerca peraltro rimasta quasi del tutto sconosciuta fino a che non ne
venne dato da Terrisse (1975) un resoconto in un fascicolo speciale della rivista Poputation
integralmente dedicato alla demografia storica.
Demografia e storia
153
decesso), esisteva già da tempo ed era già stata in qualche modo percorsa: il compito di Henry fu di disegnarne meglio il percorso e di renderlo
più agevole, chiarendone le tappe di percorrenza e gli sbocchi finali.
Dalle schede di famiglia, in definitiva, possono trarsi informazioni
dettagliate altrimenti irrecuperabili per epoche precedenti l’istituzione
dello stato civile, ma anche per gli anni nei quali oggi noi viviamo — escludendo, ovviamente, la possibilità di intervistare direttamente le persone
sui loro comportamenti demografici, in termini di fecondità e di matrimonio. La caratteristica essenziale di tale metodo di ricerca era l’impiego di modelli ipotetico-deduttivi, sfruttando appieno le tecniche che
la demografia andava affinando, quelle appunto che si riferiscono alle
persone-anno, cioè alle durate di vita vissute in un certo stato, o alle
durate alle quali si verificano certi eventi (come la nascita di un figlio,
ad esempio), per determinare l’effetto di particolari eventi sul corso di
vita di una popolazione, ricostituita appunto come aggregazione di individui di cui si conoscono le tappe fondamentali di vita. Si tratta di
una (nuova) strada che mette in tutta evidenza la riconciliazione fra storia e demografia, sfruttando la contemporanea riconciliazione fra storia
ed economia — riconciliazione perché, come accennato, si tratta in definitiva di un rafforzamento metodologico di legami antichi — che è percorsa da un interesse per le tendenze di lungo periodo e per la dinamica
della crescita demografica ed economica: è questo dunque il tessuto connettivo fra economia, storia e demografia.
La via aperta da Henry e Goubert con il passare del tempo attrae
un numero crescente di ricercatori: piano piano parrocchie, villaggi, borghi, città del passato vengono ricostruite nella loro dimensione umana,
nelle loro vicende vissute. La micro-demografia della famiglia si diffonde in Francia apportando indiscutibilmente un sostanziale contributo
alla conoscenza della «rivoluzione contraccettiva» del secolo XVIII (Ganiage, 1963; Valmary, 1965; Charbonneau, 1970; Bardet, 1983; Ganiage, 1988, per citarne soltanto alcuni). Alla fine del 1980 risultano pubblicate ben 558 monografie che si riferiscono ad altrettanti comuni sparsi
in tutto il paese (Dupaquier, 1984).
La famiglia, come insieme di persone che condividono — seppure per
porzioni di durate di vita — la stessa storia, viene così a cadere al centro
dell’attenzione dei ricercatori. Ecco dunque, a partire dagli anni sessanta, un’altra «rivoluzione» nel campo delle scienze sociali: mentre in Francia la famiglia è utilizzata come fase intermedia per lo studio dei fenomeni demografici — in particolare per l’analisi della fecondità, proprio
perché all’interno della famiglia, partendo dal matrimonio della coppia
di genitori, si collocano le nascite dei figli — in Inghilterra (ma anche
154
Carlo A. Corsini
per la mancanza, comparativamente ai paesi di religione cattolica, di rilevazioni di flusso — nascite, decessi, matrimoni — organiche e generalizzate all’intera collettività), l’attenzione dei ricercatori è indirizzata
allo studio della struttura della famiglia e alle sue variazioni nel tempo
attraverso liste di abitanti, enumerazioni nominative e censimenti.
La famiglia, come insieme di persone residenti sotto lo stesso tetto,
diviene oggetto specifico d’indagine ai fini della misura della relazione
fra processi economici e processi demografici. E un’ottica specifica, se
vogliamo, ma caratteristica dell’Inghilterra, il paese di più antica industrializzazione. Il problema delle cause e delle condizioni della rivoluzione industriale è per i demografi e per gli storici inglesi (così come il
problema delle cause e delle condizioni della rivoluzione francese lo è
per i demografi e gli storici francesi) l’argomento che detta la formazione
di un circolo di ricercatori, soprattutto storici, demografi, statistici: nel
1964 viene creato il Cambridge Group for the History of Population and
Social Structure, diretto da Peter Laslett, poi divenuto un centro di
rinomanza internazionale. L’anno seguente viene pubblicato il famoso
volume The World We Have Lost (Laslett, 1965), nel quale si illustra il
programma di ricerca del gruppo4. Le condizioni di fondo che hanno
reso possibile l’industrializzazione possono essere spiegate appunto
ricostruendo la storia della microstruttura sociale, la famiglia; l’analisi della
dinamica di questa microstruttura, corroborata e sostenuta con altri dati
di natura economica, lungo il tempo, può fornire le informazioni utili a
comprendere le ragioni e l’articolarsi delle trasformazioni economiche
dell’intera società. I ricercatori inglesi andavano definendo un progetto,
ambizioso come quello dei francesi, che vedeva però specificamente nella
sociologia storica la forma generale di tutta la ricerca in campo sociale,
che faceva della sociologia (storica) la confluenza comparativa di scienze
diverse, dall’economia alla demografia, dalla storia all’antropologia, ancora
una volta legate assieme dalla statistica, cioè dalla necessità di misurazioni
esatte. La demografia storica inglese, in definitiva, si caratterizza piuttosto
come socio-antropologica: è il concetto di struttura sociale che
costituisce il principio di intelligibilità della storia e che trova la sua
concretezza nella famiglia.
I due gruppi — i due «circoli» o le due «scuole», come vengono definite — quello francese e quello inglese, testimoniano evidentemente due
diversi esperimenti: diversi relativamente, perché entrambi mirano a uno
4 Oltre a Laslett (1965), tra le molteplici pubblicazioni edite a cura del Cambridge Group
si vedano Laslett e Wall (1972); Wrigley (1973); Wrigley e Schofield (1981); Wall, Robin e
Laslett (1983).
Demografia e storia
155
scopo comune, quello di rileggere la storia attraverso le vicende umane
oggetto specifico della demografia (nascite, decessi, matrimoni). Entrambi
legano lo svolgersi di queste vicende alla famiglia, che ne costituisce il
contenitore naturale, sul quale (o intorno al quale) si riaggregano i singoli eventi demografici: restano, comunque, due approcci di microdemografia (per il significato più preciso di micro-demografia si veda il
capitolo di Santini, «I metodi», in questa Guida). AI di là dei diversi
postulati di base è evidente che sono le fonti dei dati a differenziare le
applicazioni e i risultati; ed è proprio il problema delle fonti che condiziona fortemente non tanto la definizione delle ipotesi di ricerca quanto
la loro concreta attuazione.
A questi due gruppi di ricerca, in effetti, se ne deve aggiungere un
terzo, che ha svolto un ruolo indiscutibile nel campo della demografia
storica pur muovendosi in un’ottica diversa: diversa nel senso che i suoi
collaboratori non operano prevalentemente o in modo determinante sul terreno della micro-demografia, bensì in quello della macro-demografia (ma
micro e macro restano comunque le due espressioni della stessa anima
della demografia). Si tratta del gruppo, coordinato da Ansley Coale, che
ruota intorno all’Office of Population Research di Princeton (Stati Uniti).
Nel 1965, in occasione della conferenza demografica organizzata a Belgrado dalle Nazioni Unite, Coale presentò alcune riflessioni preliminari su
un progetto internazionale avviato due anni prima sulle cause e sulle
condizioni della cosiddetta «transizione demografica », cioè su di uno
schema interpretativo del declino della mortalità e della fecondità che, tipicamente, accompagna il processo di modernizzazione demografica di
una società, cioè il suo passaggio da un regime demografico antico (con
alta fecondità e alta mortalità) a un regime demografico moderno (caratterizzato da bassi livelli di fecondità e di mortalità): una teoria inizialmente impostata negli anni cinquanta da Frank Notestein, già direttore dell’Office of
Population Research e in seguito gradualmente raffinata.
Il Princeton European Fertility Project, a differenza delle ricerche
francesi e inglesi, si basa soprattutto su dati già pubblicati, che hanno
il crisma dell’ufficialità, essendo appunto editi a cura degli uffici nazionali di statistica, e che si riferiscono soprattutto a fonti di censimento;
si tratta, inoltre, di dati aggregati: il livello territoriale più analitico è
costituito dal comune (com’è nelle situazioni francesi e italiane, ad esempio) e, ovviamente, non permette di analizzare le singole biografie (anche se colte a un censimento o ad altra fonte di stato) individuali. Sfuggono, pertanto, tutte quelle peculiari (direi sofisticate) possibilità di analizzare gli eventi individuali come avviene con i cosiddetti metodi Hen-
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Carlo A. Corsini
ry e Laslett, il cui riferimento di base è l’individuo ricondotto alla famiglia. Un altro limite di questo progetto è che esso può coprire un lasso
temporale piuttosto recente: quello, appunto, cui si riferiscono i censimenti,
che datano, di norma, dalla metà dell’Ottocento.
Tuttavia il metodo proposto e attuato da Coale e dal suo gruppo ha
il vantaggio di permettere la raccolta di dati e la loro analisi in un tempo
minore di quello reso possibile dalla rilevazione, dall’accoppiamento e
dall’analisi delle singole informazioni «anagrafiche» individuali degli altri
due metodi (di Henry e di Laslett). Per far fronte all’esigenza di comparabilità, il progetto Coale prevede la costruzione di alcuni indici standardizzati, facilmente calcolabili; se poi, ancora a livello aggregato, si
dispone di altre informazioni su certi fenomeni o certe caratteristiche
socio-economiche della stessa popolazione, i risultati possono essere ulteriormente arricchiti e fornire sostegni interpretativi notevolmente preziosi per comprendere più compiutamente le condizioni e le implicazioni della «modernizzazione» demografica, cioè del processo di trasformazione del comportamento demografico.
Di fatto, in poco più di vent’anni il progetto è stato portato a termine con la raccolta di una nutrita massa di dati statistici e con la pubblicazione di un folto gruppo di scritti5. Certo i risultati conseguiti non
hanno la ricchezza e la compiutezza dei risultati delle ricerche microdemografiche conseguibili con i metodi Henry e Laslett: la corposità,
lo spessore dell’interpretazione «storica» sono comparabilmente più deboli, ma resta comunque rilevante il contributo apportato alla conoscenza
del processo di modernizzazione demografica.
Resta, dunque, il fatto che il periodo grosso modo compreso fra gli
anni cinquanta e sessanta vede un generale fiorire di iniziative nel campo della demografia storica: esigenze di approfondimenti e curiosità per
il passato alla ricerca delle proprie radici storiche si diffondono ovunque. In Belgio vede la luce l’opera di Mols (1954-56), in tre volumi, che
è un bilancio rigoroso e la rassegna più completa esistente all’epoca sulle fonti e sui problemi per lo studio della demografia urbana dal secolo
XIV al XVIII; e intorno a Harsin e a Hélin si aggrega, all’Università
di Liegi, un piccolo gruppo che apporterà comunque risultati molto
5 In precedenza sono stati pubblicati i volumi «nazionali» a cura di Coale, Anderson
e Harm (1979), sulla Russia; Knodel (1988), sulla Germania; Lesthaege (1977), sul Belgio;
Livi Bacci (1971b), sul Portogallo e (1977), sull’Italia (Livi Bacci aveva già pubblicato un
lungo saggio sulla rivista Population Studies nel 1968, sulla Spagna); Teitelbaum (1984), sull’Inghilterra; van de Walle (1974), sulla popolazione femminile francese. A queste pubblicazioni, riportate in bibliografia, si rimanda per ulteriori riferimenti su tutta la produzione
del Princeton Project.
Demografia e storia
157
6
interessanti . A Liegi, nel 1963, a cura di Harsin e Hélin si tiene un
Colloquio internazionale di demografia storica sui problemi di studio
della mortalità del passato (Harsin e Hélin, 1965). In Olanda, a Wageningen, presso il Centro di storia agraria diretto da Slicher Van Bath
trova asilo questo nuovo settore di ricerche demografiche, in seguito coltivato sotto la guida di Ad Van Der Woude. Altri gruppi, più o meno
agguerriti, sono all’opera in Svezia, a Umea; in Cecoslovacchia, a Praga;
in Ungheria, a Budapest e in altri paesi europei.
L’aspetto più rilevante di questo rapido processo, al di là degli specifici
fini e contenuti di ricerca che caratterizzano studiosi e sedi, va però individuato nell’espansione geografica della demografia storica, nella sua internazionalizzazione. Non c’è oggi quasi paese del mondo che non abbia
visto sorgere iniziative, più o meno aggregate, più o meno importanti, d’interesse più o meno nazionale, volte alla ricostruzione delle condizioni dell’evoluzione demografica del passato. È ovvio che esistono differenze
d’approccio dovute appunto alle difformità di contenuto delle fonti disponibili e delle informazioni necessarie allo scopo. Di fatto, anche se le sue
origini sono specificamente di radice europea, con il passare del tempo e
con il diffondersi delle ricerche, la demografia storica ha perso le sue connotazioni eurocentriche: non si tratta soltanto, si badi, di un allargamento
geografico dei temi della demografia storica dall’Europa ad altri paesi, ma
anche di un ampliamento quantitativo in termini di produzione scientifica.
A questo processo di crescita della disciplina e al di là dei risultati
conseguiti singolarmente, in termini di scambi di idee e di interessi fra
studiosi, hanno indubbiamente contribuito altri fattori: un primo è da
individuare nell’organizzazione di centri di ricerca, come quello dell’Ined nel 1963 e quello di Cambridge nel 1964, come il Laboratorio di
demografia storica presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales
di Parigi nel 1973 e quello di Princeton, per citare solo i più importanti
o, per lo meno, quelli che più di altri hanno funzionato come poli che
hanno aggregato e formato studiosi di altri paesi che poi hanno «esportato» problemi, metodi e tecniche di indagine, contribuendo così all’espansione della disciplina. Uno strumento specifico del processo di espansione della disciplina è quello individuato nei corsi di formazione intensiva organizzati annualmente dalla Société: come esempio, si consideri
la diffusione delle ricerche e degli studiosi di demografia storica in Svizzera, con Perrenoud (1979); in Canada con Charbonneau, Légaré e Bouchard, che pure hanno dato vita a due centri di ricerca separati (Char6 Per il taglio che il gruppo di Liegi ha dato alle proprie ricerche si vedano il lavoro
iniziale di Hélin (1963) e il recente prodotto di Desama (1985).
158
Carlo A. Corsini
bonneau, 1970; Charbonneau et al, 1987); in Brasile, all’inizio con Marcilio (1969) e poi quasi ovunque in America Latina7; tutti formatisi inizialmente nell’officina di Henry.
Un secondo fattore va identificato nell’apporto di due organizzazioni internazionali: l’Union international pour I’étude scientifique de la population (Uiesp, o, se si fa riferimento alla sigla anglosassone, Iussp) e il
Comité international des sciences historiques (Cish), che, rispettivamente
nel 1963 e nel 1965, costituirono una propria commissione di demografia storica. Superando le difficoltà iniziali, le due istituzioni sono riuscite a dare un forte apporto alla demografia storica, estendendone gli interessi nei paesi scandinavi e nell’Europa centro-orientale (in particolare in
Bulgaria, Ungheria e Cecoslovacchia), in Giappone, in America Latina e
in Africa, in Cina, in India e altrove, organizzando convegni, seminari,
riunioni internazionali. Basti riferirsi, come esempio (per riferimenti più
precisi si rimanda a Dechesne, 1974) al fatto che già nel Congresso dell’Uiesp, tenutosi a New York nel 1961, erano stati discussi alcuni dei problemi caratteristici della demografia storica, in un’apposita sessione; l’iniziativa di dedicare alla demografia storica una specifica sessione venne
poi ripresa in quasi tutti i consessi dell’Unione, tra i quali vanno segnalati quello di Londra nel 1969 e quello di Liegi nel 1973. Di minor entità appare il lavoro svolto dal Cish (che pure già nel 1928, sull’onda dell’allora in auge «statistica storica», aveva tenuto a battesimo una commissione di demografia storica), ma non meno importante, sol che si pensi al
colloquio tenutosi in collaborazione con l’Uiesp a Kristiansand, in Norvegia, nel 1979, sul ruolo delle seconde nozze nelle popolazioni tradizionali (Dupaquier et al., 1981), e quelli più recenti di Madrid (Cish, Commission internationale de démographie historique, 1990a; 1990b).
Le due richiamate commissioni internazionali di demografia storica
hanno anche fornito collaborazione ed egida ad altre istituzioni universitarie o di ricerca per l’organizzazione di specifici seminari e convegni su
temi di demografia storica: come quello tenutosi a Firenze nel 1971 (AA.
VV., 1972), quello in collaborazione con l’Università di Montréal, tenutosi a Montebello in Canada, nel 1975, sui problemi di misura dei fenomeni demografici8, quello ancora di Firenze nel 1977 (un sommario degli
7 Per esempio, è molto importante il ruolo svolto dal Celade di Santiago del Cile, come
promotore di ricerche in demografia storica; così come è tutt’altro che di poco rilievo il
lavoro della Latin American Population History Association. Per un bilancio degli studi in
America Latina e nei paesi scandinavi, si veda Annales de démographie historique (1986).
8 Una parte dei contributi presentati al convegno, quelli relativi alle crisi di mortalità,
venne raccolta nel volume di Charbonneau e Larose (1973). Un altro gruppo di contributi
concernenti la nuzialità venne pubblicato negli Annales de démographie historique (1978).
Demografia e storia
159
atti in AA. VV., 1977) e, ma solo per saltare nel tempo, quello organizzato in collaborazione con l’Università delle Baleari nel 1991 (Universidad
de les Illas Balears e Iussp C omrnittee on Historical Demography, 1991).
Di un terzo fattore va in verità sottolineata l’importanza, ancora per
quanto concerne gli strumenti di diffusione della ricerca in demografia
storica (ma ciò vale per qualunque campo dell’indagine scientifica): il
ruolo svolto dalle associazioni di studiosi e ricercatori. Ancora una volta, per questo aspetto, va rilevata l’originalità dell’esperienza francese: risale infatti al 1963 la costituzione della Société de démographie historique
che si pose come centro di coordinamento per contribuire al miglioramento delle condizioni della ricerca storica in demografia. Al primo volume di contributi apparso nel 1964 (Études et chronique de démographie historique) fece seguito a partire dal 1965 la serie annuale degli Annales de démographie historique, ai quali si accompagna, dal 1970, il quadrimestrale Bulletin D. H. che, oltre alle notizie sull’attività dell’associazione, contiene anche informazioni su
ricerche in corso, note metodologiche e sommari di pubblicazioni9. La
Société organizza ogni anno un incontro su tematiche specifiche di demografia storica (gli «Entretiens de Malher») e, a cadenza non prefissata,
convegni internazionali, tra cui si ricordano quello consacrato a Malthus
hier et aujourd’hui, in collaborazione con l’Unesco e I’Uiesp (1980) e quello
su Le peuplement du monde avant 1800, in collaborazione con il Cish (1987).
Sulla traccia aperta dalla Société francese si inseriscono altre due associazioni europee: la Società italiana di demografia storica (Sides), costituita nel 1977, e la Asociación de demografia histórica (ispano-lusitana),
fondata nel 1982. In America, negli Stati Uniti, opera la Latin American
Population History Association e, in Brasile, il Centro de estudos de
demografia historica da América Latina.
A partire dal 1978, infine, di tutto questo nuovo fervore di iniziative
e di ricerche uno strumento importante di diffusione delle conoscenze
nel campo viene assunto dalla Bibliographie internationale de la démographie
historique, edita in collaborazione fra le Commissions de démographie
historique dell’Uiesp e del Cish e la Société de démographie historique
francese e redatta a cura di un gruppo di corrispondenti nazionali. Questo preciso repertorio è ben affiancato – nel campo della demografia
tout-court – dal Population Index, edito a cura dell’Office of Population
9 Se ne veda l’indice generale in Société de démographie historique, Annales de démographie historigue (1964-82), Bulletin D. H. (1970-82), Tables et Index Editions de l’Ecole des
hautes études en sciences sociales (Paris, 1983). Comunque sull’attività della Société, sull’organizzazione della ricerca in Francia (in minor misura, altrove) e sulle problematiche
relative alla demografia storica, si consulti Dupaquier (1984).
160
Carlo A. Corsini
Research di Princeton, ma nel quale curiosamente la sezione (bibliografica) Historical Demography and Demographic History compare per la prima
volta come subject classificatimi solo dal 1978 (voi. XLIV, n. 1)10.
2.2. La demografia storica in Italia
«L’importanza delle ricerche storiche sullo stato e sul movimento della
popolazione venne messa in luce, fin dal primo accenno alla costituzione
del Comitato italiano per Io studio dei problemi della popolazione...». Così
Gini (1939) apriva una lunga recensione a una pubblicazione uscita nel
1936 in Germania, che riportava i risultati di uno studio sull’evoluzione di
un insieme di famiglie (effettuato tramite ricostruzione genealogica della
popolazione di un villaggio, verosimilmente basata sugli Ortssippenbucher. Si
trattava di risultati prettamente demografici — nuzialità, mortalità,
riproduttività — che, per il loro interesse e per la loro originalità, facevano
concludere a Gini: «E da augurarsi che studi consimili vadano facendosi
sempre più frequenti nei vari paesi di Europa, così da squarciare le
tenebre che avvolgono la demografia dei secoli passati». Era questa
un’opinione allora largamente condivisa.
Gli anni trenta appaiono, infatti, vivaci di idee e di ricerche applicate in Italia, sul fronte della demografia e particolarmente della demografia storica;
ci si muoveva tuttavia nel più ampio quadro della «statistica storica» (cui ho
sopra fatto cenno), restando condizionati dall’assenza di una specifica metodologia demografica (nonostante l’apparente banalità della considerazione si
tratta di una carenza di rilevanza cruciale) ma, soprattutto, dalla particolare
congiuntura politica allora imperante nel paese. Erano gli anni a ridosso della più grande e profonda crisi economica del secolo — quella del 1929 —
che nelle analisi di Keynes, Hansen e Losch, per limitarci ai riferimenti più
noti11, era riconducibile agli effetti delle onde di natalità (e, quindi, dei matrimoni) sul ciclo economico. Per consentire una più completa verifica delle
relazioni fra fattori demografici e fattori economici era ovvio il passaggio da
un’analisi di tipo congiunturale a una di tipo storico, da una semplicemente
storica a una metastorica; ciò avveniva quasi contemporaneamente non
solo sul fronte della scienza economica ma anche su quello delle scienze
10 Per un quadro generale delle ricerche di demografia storica negli Stati Uniti si veda
Gerhan e Wells (1989). Una recente bibliografia sulla produzione francese si trova in
Lunazzi (1985). Per la penisola iberica si rinvia al Boletin de la Asociación de demografia
histórica, a partire dal 1982.
11 Si vedano: Losch (1936-37); Keynes (1937); Hansen (1939). Per una prospettiva d’insieme — e in particolare per quanto concerne la posizione assunta dagli studiosi italiani e i
loro contributi — si rimanda a Santini (1969).
Demografia e storia
161
naturali, nel quadro della nuova «dimensione» storica che si apriva a tutte
le scienze. Vanno citati in proposito, oltre all’opera di Lotka, già richiamata, i contributi di Pearl e le suggestioni di ricerca che la sua legge biosociale di sviluppo di una popolazione (la curva logistica) viene a porre.
In questo stesso periodo, in Italia, sono all’opera diversi gruppi e singoli studiosi che coprono molteplici settori disciplinari: dall’economia alla
storia economica, dalla medicina alla genetica, dalla biologia alla geografia,
dall’antropologia alla demografia (per restare alle scienze vicine alla demografia). Gli anni trenta costituiscono una fase del processo di evoluzione
del pensiero scientifico italiano (si vedano Sonnino et al., 1987; Corsini,
1989) che a mio avviso merita di ricevere un’attenzione più consistente di
quella finora prestatagli, ma in un approccio più completo, globale, proprio per mettere in evidenza gli interscambi, le originalità oltre che le «dipendenze» da quanto si costruiva all’estero. Ma restiamo alla demografia e
olla demografia storica.
Qui, a opera di personaggi come Benini e Niceforo prima (ma si vedano anche Corridore, 1915; Salvioni, 1885), Boldrini e Gini poi, gli
studiosi di problemi della popolazione erano stati sollecitati a mutare
indirizzo agli studi demografici passando da una demografia descrittiva
a una investigativa mirante a spiegare i fenomeni, le loro radici e i loro
effetti, a cogliere le interdipendenze tra i fenomeni demografici e l’insieme di tutti gli elementi che formano l’«ambiente» — in definitiva,
ad affrontare un approccio interdisciplinare. Ecco che a Milano, presso
l’Università Cattolica del Sacro Cuore, si aggregano demografi, statistici
e medici che fanno perno sul Laboratorio di statistica e che apportano
importanti contributi sul filone della «demografia costituzionalistica».
Lo scopo è quello di studiare i rapporti fra l’architettura morfologica
dell’organismo umano — la sua capacità di resistenza e di reazione, così
come può essere colta attraverso la statura, ad esempio — e l’insieme dei
fattori ambientali; poiché è evidente che l’organismo di persone oggi
viventi è il risultato dell’influenza di fattori ambientali che hanno operato
lungo il tempo, in precedenza, si avvia l’analisi del rapporto tra questi
fattori ambientali e i fenomeni demografici studiati (sopravvivenza, fecondità
e così via) in una nuova dimensione, appunto storica12.
12 Si rimanda a Boldrini (1931); Costanzo (1936); nonché alla serie VIII: «Statistica», delle
pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che raccoglie, in diversi volumi, gli studi pubblicati in Contributi del Laboratorio di statistica. La «demografia costituzionalistica»
ha comunque il suo caposaldo nelle ricerche statistiche condotte sui militari, ad opera soprattutto di R. Livi (1896 e 1905; 1900). In questi ultimi anni ha affrontato tematiche «globali» siffatte
Livi Bacci (1987; 1989), che pure – sul fronte delle riflessioni aperto da L. Livi – affronta i problemi e le spiegazioni dell’evoluzione della popolazione in un’ottica molto più vasta.
162
Carlo A. Corsini
A Roma, a opera di Gini, si sviluppa un nuovo settore — con un taglio più sociologico che si rifà appunto alla sua teoria ciclica (Gini, 1912)
sulla legge di sviluppo della popolazione e sul ricambio sociale, quest’ultimo con particolare riferimento a gruppi demografici ristretti, come l’aristocrazia (si veda Savorgnan, 1942) — nel quale sono coinvolti studiosi di
varia formazione disciplinare: archivisti, geografi, storici, medici e genetisti, insieme con demografi e statistici facenti capo al Comitato italiano
per lo studio dei problemi della popolazione (Cisp), costituito nel 1928.
Il Cisp intraprende una serie di ricerche a vasto spettro, con un’acutezza
di prospettive veramente innovatrice nella ricerca demografica, compresa
quella storica, che si presenta con tratti di indubbia originalità: si indagano le cause e le implicazioni sociali e demografiche dell’evoluzione della
popolazione nel passato, si ricostruisce la densità del popolamento nella
storia e i motivi della decadenza delle popolazioni messicane al tempo della conquista spagnola, ma si conducono anche investigazioni antropologiche e bio-mediche su gruppi di popolazione contemporanea, per studiare
l’azione dei fattori demografici nella loro organizzazione sociale 13.
Ma l’iniziativa più rilevante ai fini della demografia storica è quella
concretizzatasi nella raccolta delle Fonti archivistiche per lo studio dei problemi
della popolazione fino al 1848 (Cisp, 1933-41), la cui prima serie venne presentata al Congresso internazionale per gli studi sulla popolazione (Roma, settembre 1931); la prima sessione era peraltro dedicata ai lavori di
storia (Cisp, 1933). La serie delle Fonti (nove volumi in oltre seimila pagine) fornisce informazioni (raccolte mediante un’apposita scheda) sui
documenti contenenti materiale statistico di rilievo demografico conservati negli archivi di stato di 297 città italiane. Si tratta di un inventario
certo incompleto — anche perché la sensibilità del ricercatore, archivista o altro, è notevolmente mutata da allora, visto che la stessa definizione di «dato demografico» ha assunto una valenza diversa — ma resta
comunque un repertorio all’epoca inesistente in altri paesi e che dimostra come concretamente il problema delle fonti e dei dati di base costituisse (come costituisce tutt’ora) il primum movens di ogni ricerca di demografia storica.
Tuttavia gli interessi di ricerca per la demografia storica non si esauriscono qui: di fatto, mentre a Milano ci si muoveva nell’ambito di un’università privata (appunto la Cattolica), a Roma Gini operava nell’am13 La bibliografia completa delle pubblicazioni edite dal Cisp si trova in allegato ad
ogni fascicolo della rivista Genus, organo dello stesso.
Demografia e storia
163
bito dell’Università statale e, contemporaneamente, con l’egida dell’Istituto centrale di statistica, del quale era presidente. Il legame fra le
due istituzioni non era di poco conto (soprattutto perché, almeno all’inizio, mediato da Gini): basti tener conto del fatto che Gini stesso fu
propugnatore di una nuova facoltà universitaria, quella di scienze statistiche, e di un nuovo corso di diploma universitario, quello appunto in
statistica, destinati a fornire alle strutture pubbliche funzionari specializzati in statistica ma entrambi fortemente innovatori ai fini dello sviluppo della statistica e della demografia. Altrettanto significativo, a mio
avviso, è il fatto che, fra gli insegnamenti che figurano negli ordinamenti
del corso di laurea e del corso di diploma, compaia proprio «demografia
storica e storia delle popolazioni». A sottolineare ancora il ruolo dell’Istituto centrale di statistica si deve peraltro osservare che gli Annali di
statistica funzionano come trampolino per giovani studiosi di demografia storica, come ad esempio nel caso di de Meo (de Meo, 1962 ma 1931).
L’università — statale o convenzionata — resta comunque la sede peculiare della ricerca storico-demografica. à ancora nell’università che si
trovano altri esempi di indagini demografiche applicate alla storia, come quelle di Borlandi (1942) e del suo allievo C. M. Cipolla; come quelle
di Livi (1914; 1920; 1940), che pure aveva collaborato con Gini alla
costituzione dell’Istituto centrale di statistica (del quale era divenuto
capo del servizio studi) e, sulla scia di Livi, di Parenti (1937) e di Battara (1935). Livi perfezionò e diede corpo organico alle sue riflessioni sulla storia dell’evoluzione demografica nel Trattato di demografia (1940-41),
fondendo — con indubbia originalità e innovazione rispetto agli studi
demografici dell’epoca — una rilevante molteplicità di «prove» etnografiche e antropografiche, demografiche e storiche, per analizzarne le caratteristiche influenti sulle forme associative, sulla struttura e sullo sviluppo della popolazione. Parenti, a sua volta, arriva alla demografia storica da ricerche di storia economica, collocandosi così nel novero di coloro che ritengono appunto che la demografia storica sia sussidio della
storia e fonte preminente della storia economica (secondo l’interpretaziOne proposta da Kula cui si è fatto cenno in precedenza; ma si vedano
anche Ciccotti, 1909; Corridore, 1915; Fortunati, 1935).
Il crollo del regime fascista segnò, non a caso, una fase di declino
degli studi di demografia in generale e di demografia storica in particolare: la demografia si era segnalata appunto come strumento del regime
a giustificazione dei suoi interventi di politica della popolazione, coinvolgendo anche antropologia e genetica e un po’ tutte le discipline che
avevano a oggetto, diretto o meno, l’uomo. Anche la demografia stori-
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Carlo A. Corsini
ca, che pure risultava semplicemente una disciplina di cerniera fra più
fronti, venne rimossa dal posto di tutto rilievo che si era venuta conquistando: basti rileggere gli scritti di Gini, Livi, de Meo, Parenti, Savorgnan (quelli sinora citati direttamente o quelli la cui segnalazione compare in rinvii ad altri autori o fonti richiamati; si veda anche il capitolo
di Santini, «I metodi», in questa Guida) per rendersi conto che molti
dei problemi e molte delle metodologie che saliranno poi alla ribalta tra
i demografi storici a partire dagli anni cinquanta erano già stati individuati nel nostro paese una ventina d’anni prima. La ricerca dei dati di
base e l’analisi dei tratti e delle condizioni della riproduttività e della
mortalità erano le motivazioni che avevano spinto Henry da una parte
e Goubert dall’altra a entrare negli archivi parrocchiali, ma erano le stesse
che sottostavano alle indagini del Cisp e ai lavori degli altri studiosi —
anche se le metodologie (com’è ovvio, ma solo per certi aspetti) erano
ancora da perfezionare.
Solo alla fine degli anni cinquanta anche in Italia si ha una ripresa
delle ricerche di demografia applicata alla storia. Tuttavia la demografia
è di nuovo percepita come strumentale nei confronti della storia economica:
i dati di popolazione si rendono necessari, in modo determinante, per
comprendere gli aspetti economici e il loro divenire nel tempo. In
preparazione delle celebrazioni del primo centenario dell’Unità, l’IRI
(Istituto per la ricostruzione industriale) costituisce un comitato di
«saggi» — tra i quali Cipolla, Parenti e Demarco — cui viene affidato il
compito di avviare una serie di ricerche sull’evoluzione demografica e
socio-economica delle regioni italiane nel secolo XIX. Accanto a pubblicazioni di contenuto specificamente storico-economico (sui prezzi, sul
commercio estero, sulle monete e i salari, sui bilanci economici), l’«Archivio economico dell’unificazione italiana» — questo è il titolo della collana — cura la pubblicazione di importanti studi di taglio storico-demografico sulla Toscana (Bandettini, 1956; 1960), sulla Liguria (Felloni,
1961), sulle Marche e l’Umbria (Bonelli, 1967). Il progetto, purtroppo,
s’interrompe per il venir meno delle forze e degli interessi.
Ma su quella traccia si muovono altri studiosi: a Pavia, dove Cipolla è
succeduto a Borlandi e dove lavora Aleati (1957); a Bologna, dove, sotto
la guida di Fortunati — che ha collaborato con Gini — Bellettini comincia
a pubblicare una nutrita serie di studi (Bellettini, 1961; 1965; 1971; 1973); a
Venezia con Beltrami (1954); a Torino con Germana Muttini Conti (1951;
1958; 1962).
Se volessimo mantenere la distinzione fatta all’inizio fra demografia
storica e storia demografica, si tratta in definitiva di studi che rifletto-
Demografia e storia
165
no interessi di storia della popolazione: si cerca bensì di cogliere le caratteristiche demografiche e la loro dinamica nel tempo; si analizzano
le cause dei fattori che ostacolano o che sostengono l’evoluzione demografica; ma nell’insieme le nuove vie di indagine, i nuovi problemi che
agitano la demografia e che cominciano a informare di sé la demografia
storica – compresi quelli metodologici - all’opera in questo lasso di tempo
all’estero non sembrano trovare spazio o attenzione in Italia. Si ha cioè
la sensazione che gli anni del dopoguerra abbiano di fatto coinciso con
un vuoto di idee (idee specifiche della demografia storica, così come l’ho
definita all’inizio) rispetto alla vivacità che aveva caratterizzato gli anni
trenta.
Nel 1969, in occasione di una riunione scientifica della Società italiana
di statistica (SIS), Livi Bacci – forte delle sue esperienze di ricerca nel
Princeton European Fertility Project14 – propose a un gruppo di storici
e di demografi di dar vita al Comitato italiano per lo studio della
demografia storica, ottenendo una pronta adesione e il patronato del
Cisp, allora presieduto da Nora Federici; l’anno seguente il Comitato
per la demografia storica venne costituito, seppure informalmente, e diede
l’avvio a una feconda opera di coordinamento degli studiosi che, da fronti
disciplinari diversi, si occupavano di demografia del passato. Fra il 1971
e il 1974 venne attuato un programma organico di seminari avente per
oggetto una rassegna critica delle fonti disponibili e dei loro contenuti
per lo studio delle popolazioni italiane del passato, la verifica dei metodi
di utilizzazione di queste stesse fonti e, infine, l’analisi di alcuni aspetti delle
interrelazioni fra demografia e condizioni economico-sociali. Le discussioni
di questi seminari - cui parteciparono storici dell’economia e della
società, demografi, genetisti, statistici - si realizzarono in una serie di
ponderosi volumi (Comitato italiano per lo studio della demografia
storica, anni vari) che rappresentano un punto di riferimento indiscutibile
per chi intenda accostarsi a questa disciplina, da qualunque settore o
orizzonte disciplinare provenga.
Nel contempo, da più parti, ma nel quadro di una fattiva collaborazione, numerosi gruppi portavano avanti importanti progetti di ricerca che
davano luogo a preziose pubblicazioni (Assante, 1975, ma anche 1967;
Delille, 1985; Del Panta, 1980; 1984; Zanetti, 1972; si vedano anche
14 Nel 1968 un’apposita riunione di studiosi della «nuova» demografia storica, tra cui
Livi Bacci, tenutasi a Bellagio a cura della American Academy of Arts and Sciences, fece
un bilancio delle ricerche nel settore, mettendone in evidenza le innovazioni, sia in termini di metodo, sia in termini di risultati (AA.VV., 1968). L’anno seguente, a Firenze,
vide la luce il volume collettaneo dei Saggi di demografia storica (AA.VV., 1969).
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Carlo A. Corsini
i diversi contributi raccolti in Comitato per la demografia storica, anni
vari). Nel 1977, infine, al termine di un ultimo seminario del Comitato
sulle crisi di mortalità in Italia (Livi Bacci, 1978), venne decisa la sua trasformazione in Società italiana di demografia storica (Sides), cui fu assegnato lo scopo istituzionale di favorire lo sviluppo degli studi e delle ricerche nel settore, promuovendo convegni nazionali e internazionali,
curando l’edizione di pubblicazioni scientifiche, organizzando seminari
e corsi di formazione.
Da allora sono stati organizzati svariati convegni nazionali e internazionali: sulla ripresa demografica del Settecento (Sides, 1980), sulla demografia storica delle città italiane (Sides, 1982), sulla popolazione italiana nell’Ottocento (Sides, 1985), sulla popolazione delle campagne in Italia fra
XVII e XIX secolo; sul funzionamento demografico delle città (Annales de
démographie historique, 1982); sui problemi di storia demografica medievale
(Comba, Piccioni e Finto, 1984); su strutture e rapporti familiari in epoca
moderna; sull’infanzia abbandonata (Enfance abandonnée et société, 1991); su
temi diversi di demografia del Mediterraneo (Sides, 1990); su fonti archivistiche e ricerca demografica, nel 1990; oltre a un seminario sull’utilizzazione del personal computer in demografia storica e la collaborazione a un con vegno dell’Università di Bari sulla famiglia nella storia (entrambi nel 1988).
Fra gli scopi che la Sides si è prefissa ha avuto un ruolo importante
quello relativo alla formazione tecnica e metodologica di giovani studiosi, di diversa formazione culturale, nel campo della demografia storica, mediante l’organizzazione di corsi di formazione, cui si è aggiunta
una mostra su aspetti iconografici e documentaristici dell’evoluzione
della popolazione toscana fra i secoli XIV e XX e un seminario su
Nuptiality and the Family (1988), in collaborazione con l’Istituto universitario europeo di Firenze. Insieme all’edizione degli atti dei convegni
nazionali e internazionali, la Sides cura anche dal 1984 la pubblicazione di un Bollettino di demografia storica.
Un’attività molto intensa, dunque, sostenuta da un nutrito insieme
di pubblicazioni che testimoniano l’importante contributo svolto dalla
Sides alla diffusione in Italia della demografia storica, anche se non immune da influenze provenienti dall’estero ma caratterizzata comunque
da peculiari originalità di indagini (ancora una volta sono le fonti a dettare queste nuove problematiche). Si è così assestato un patrimonio culturale, per così dire, che ha concorso al collocamento della demografia
storica, in Italia, come disciplina «chiave», ma fornita di una sua specifica autonomia, nell’ambito delle scienze umane e sociali.
Demografia e storia
167
3. Esattezza e indeterminatezza
3.1. Alla conquista dell’autonomia
Mi sono richiamato qua e là al problema delle fonti: questa è la connotazione specifica che distingue la demografia storica dalla demografia
tout-court, nel senso preciso che le fonti dei dati di cui si serve oggi la
demografia (per intendersi meglio: la demografia che studia le popolazioni contemporanee o che le estrapola nel futuro) sono formate con finalità che non sono individuate dal loro diretto utilizzatore, dal demografo: i dati vengono cioè rilevati (di norma) per essere messi a disposizione del demografo, senza aver preliminarmente considerato le sue esigenze di studio. Solo in questi ultimi anni, proprio ai fini di una migliore
comprensione della realtà contemporanea (se vogliamo, da una parte
per una sorta di spirito «imperialistico» che viene manifestando il demografo, dall’altra perché i problemi di popolazione divengono sempre più
pressanti e rilevanti e ci si rende ormai conto che soltanto il demografo
«professionista» può adeguatamente maneggiarli), i dati sono rilevati dietro suggerimento dello stesso demografo, per suo intervento diretto nella fase preliminare della rilevazione.
I dati di cui si avvale invece la demografia storica hanno una caratteristica molto diversa, essendo stati creati in epoche passate con scopi
ben diversi e, peraltro, con scopi il cui significato preciso sfugge alla comprensione dello studioso d’oggi. Vediamone qualche aspetto, rapidamente,
ricordando che mi riferisco ai dati rilevati in epoche nelle quali non esisteva alcuna autorità costituita con lo scopo di effettuare tali rilevazioni, vale a dire che si parla di epoche pre-statistiche, ben diverse, peraltro dalle situazioni (anch’esse pre-statistiche) in cui si trovano, oggi, le
rilevazioni statistiche di molti paesi (ad esempio i paesi cosiddetti in via
di sviluppo economico e sociale).
Rifacendoci alla classica dicotomia tra fonti di stato e fonti di flusso,
per quanto concerne le prime diciamo che le fonti principali per la demografia storica sono appunto quelle che forniscono informazioni (meglio sarebbe dire dati statistici, cioè analizzabili con metodi quantitativi) di consistenza riguardo a una determinata popolazione: enumerazioni, censimenti, liste di individui, status animarum e così via, fonti cioè
che «contano» le persone, che comunque diano allo studioso la possibilità di analizzare specifiche caratteristiche di questa popolazione, a un
momento dato. Si badi bene — questa è la prima difficoltà — che non
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Carlo A. Corsini
si trattava di un «momento» come quello cui si riferisce il censimento contemporaneo; di norma si trattava di un intervallo di tempo non facilmente
individuabile, durante il quale potevano verificarsi fenomeni che disturbano l’analisi che se ne può fare oggi: ad esempio, la redazione di uno «stato
delle anime» (effettuato a cadenze annuali, in occasione della benedizione
delle famiglie fatta per le festività pasquali) prendeva diversi giorni, in funzione della numerosità delle «anime» da rilevare; se durante questo intervallo si verificavano nascite o decessi o matrimoni, o se alcune famiglie emigravano o altre arrivavano, il parroco non ne teneva conto, perché rilevava la situazione effettivamente esistente nel giorno in cui procedeva alla
conta. Ma il demografo che analizza oggi quei dati deve avere la certezza
della consistenza di tale popolazione, dell’esattezza delle informazioni, in
riferimento al tempo. Qual è dunque il tempo di riferimento? La data alla
quale il parroco inizia la sua conta, oppure quella terminale? Ancora una
difficoltà, o esigenza di esattezza, è quella che si riferisce alla completezza
delle informazioni: in una simile «conta» ci sono tutti? Il parroco aveva
forse motivi per escludere alcune persone dalla lista? Trattandosi di una
fonte cattolica, appare ovvio che coloro che professavano una religione diversa fossero esclusi; e le notizie sugli individui censiti (età, professione,
stato civile e così via) sono fornite indiscriminatamente per tutti?
È peraltro evidente che l’esigenza di esattezza, relativa alla qualità
dei dati (completezza, comparabilità e altri criteri), non vale solo per
i registri di consistenza delle popolazioni ma si pone per qualunque fonte, religiosa o civile che fosse, di stato — com’era una lista fiscale, un
«censimento», uno status animarum — oppure di flusso — come i battesimi, le sepolture, i matrimoni, i quali si svolgono durante il tempo, giorno per giorno, mese per mese. Di fatto, per quanto concerne le fonti
sia di stato sia di flusso occorre accertare quale autorità stava all’origine
della rilevazione, se non altro perché gli scopi erano ben diversi. È ben
difficile che due fonti dello stesso contenuto esattamente contemporanee forniscano dati esattamente eguali. Si rifletta, ad esempio, sul fatto
che le fonti religiose forniscono dati relativi a battesimi che possono essere celebrati anche qualche giorno dopo la nascita (nell’intervallo il neonato può morire e quindi non essere battezzato), mentre al contrario le
fonti civili non si interessano (all’epoca) dei nati-morti, che invece possono
essere rilevati nei registri parrocchiali. Le discordanze attengono
prevalentemente al fatto che i registri parrocchiali accertano l’esistenza
di un sacramento, come venne stabilito nel Concilio di Trento e
richiamato nel Rituale Romanum del 1614, o mirano a controllare l’ortodossia dell’individuo (lo stato delle anime era dettato appunto per con-
Demografia e storia
169
trollare il rispetto del precetto pasquale della confessione e della comunione almeno una volta l’anno), mentre le registrazioni civili — che, di
fatto, risalgono alla dichiarazione dei diritti della rivoluzione francese
e che, in seguito, sono state recepite dalle istituzioni nazionali — mirano
ad accertare la situazione di diritto/dovere che coincide con ciascuno
degli eventi (nascita, decesso, matrimonio).
Ecco, allora, che prima di sottoporre a qualunque analisi i dati ritrovati,
occorre procedere a un attento esame critico degli stessi e della fonte che li
contiene: tale esame richiede particolari cure e competenze «storiche» da
parte del demografo, che deve essere in grado di «leggere», cioè di interpretare il documento avendo presente la doppia condizione in cui questa
lettura può essere effettuata; infatti il significato di ogni documento è sia
quello che sta dentro esso (il segnale interno) così come è stato scritto all’origine, sia quello che da esso si può ricavare (il segnale esterno).
Ma l’originalità della demografia storica sta anche nel fatto che i dati
di cui essa si serve sono per così dire «ricreati» dal demografo: è il
demografo che, poste certe ipotesi e dati certi problemi d’indagine (ad
esempio, perché l’età al matrimonio dei giovani del Settecento era diversa da quella dei giovani d’oggi? A quali condizioni si accedeva al matrimonio? Quali ne erano le implicazioni? Perché era il matrimonio Io
strumento determinante dell’evoluzione di una popolazione?) va alla ricerca del materiale necessario per portare alla luce le radici nascoste dell’albero (mi si permetta la metafora) di cui vuol studiare le componenti
attuali, le fasi di sviluppo passato, le cause che lo fanno così com’è ai
suoi occhi. Ma tutto questo altro non significa che piena autonomia della
demografia storica, molto più, forse, della demografia tout-court: evidentemente la ricerca stessa condotta su dati «storici» è la ragion d’essere della demografia storica e viene ad assumere il ruolo di una vera
e propria fondazione epistemologica per la disciplina.
L’esattezza di cui ho parlato ha in effetti due significati: il primo
concerne la completezza dei dati in termini di quantità, il secondo si
riferisce al loro contenuto in termini di qualità; per quanto concerne l’analisi ciascun aspetto comporta ricadute specifiche, relative alle metodologie che si possono applicare per arrivare a spiegare il modo di collocarsi degli eventi oggetto di studio in quel tempo e in quella popolazione.
Va richiamata in proposito l’opera svolta dal Comitato italiano per lo
studio della demografia storica che, nel corso dei seminari cui ho fatto
cenno in precedenza, ha lavorato assiduamente con lo scopo di chiarire ai
ricercatori e agli studiosi le esigenze di esattezza che devono essere
considerate come condizioni preliminari di ogni ricerca: tali esigen-
170
Carlo A. Corsini
ze sono state, per così dire, fatte proprie sia dal Cisp — tuttora attivo
(se non altro perché pubblica la rivista Genus) promuovendo ad esempio l’inventariazione di fonti demografiche o, comunque, di fonti che
contengano dati suscettibili di «lettura» in chiave demografica15 — sia
dalla Sides che, attraverso le sue diverse attività, si propone di legare
più strettamente tra loro ricercatori formati su territori diversi ma accomunati dall’interesse per la popolazione del passato. Tuttavia, come
conseguenza dell’internazionalizzazione della demografia storica, è proprio
a opera di organismi internazionali che la verifica di metodologie avanzate ha ricevuto uno stimolo di tale importanza che non potrà non far
raccogliere i frutti auspicati.
3.2. Un pezzetto di legno liscio e vuoto
«Allora Marco Polo parlò:
“La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero.
Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno
strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere”.
Il Gran Kan non s’era fin’allora reso conto che lo straniero sapesse
esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo.
“Ecco un foro più grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’un
tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco
che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere
abbattuto... Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, più sporgente...”.
La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno
liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei bo15 Così negli ultimi anni il Cisp ha curato la pubblicazione di inventari di fonti religiose,
estendendo cioè a un altro settore, appunto agli archivi ecclesiastici, la raccolta originaria
delle Fonti: si vedano quello relativo alla Sardegna (Anatra e Puggioni, 1983) e quello della
diocesi di Perugia (Leti e Tittarelli, 1976-80)..Queste stesse esigenze di fotografare la consistenza degli archivi e preparare così il terreno a studiosi e ricercatori è comune anche ad
altri: per il Veneto Agostini (1989), per il bolognese Bellettini e Tassinari (1977), per la provincia di Parma Moroni et al. (1985), per le campagne lodigiane Roveda (1985), per Milano
Sala (1985), per la pianura bolognese Samoggia (1986). In precedenza – oltre a Bandettini
(1961), per la Toscana – si vedano quelli pubblicati dal gruppo di Bari facente capo a Giuseppe Chiassino (Chiassino et al., 1965; 1971; 1973; 1978). Mi scuso con altri studiosi se
non sono stato in grado di dar notizie complete sull’argomento, ma, d’altra parte, questo
mio lavoro non ha la pretesa di fornire un bilancio completo.
Demografia e storia
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schi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre »16.
Il tassello di legno di cui parla Marco Polo può essere l’emblema del
nulla, agli orecchi di chi lo ascolta o agli occhi di chi, come il Kan, lo
sta guardando, come può essere, del resto, un documento d’archivio —
un pezzo di carta antica con numeri ed elenchi di persone, ad esempio
— considerato (dal ricercatore) soltanto come il residuo frammentario dell’esigenza razionalizzatrice di uno scrivano del passato intenzionato a dar
conto di una realtà aggrovigliata e dal quale il lettore spesso frettoloso
d’oggi poco può ricavare. Ma lo storico e il demografo accorto possono
in realtà interpretarne il contenuto, cogliere la realtà viva che vi è malamente, perché sinteticamente, riflessa: come fa Marco Polo, che di un
semplice pezzetto di legno liscio e vuoto, anche con la forza dell’immaginazione, riesce a ricostruire le vicende; intorno a quel pezzetto di legno,
che a una prima occhiata del Kan è ridotto a qualcosa di insignificante,
riesce a riavvolgere le fila di un vissuto, indietro nel tempo.
Ecco, allora, che il binomio esattezza-indeterminatezza sopra discusso
assume non solo i due significati anzidetti, ma prospetta due direzioni
di lavoro: da una parte il ricorso — o la riduzione dei dati — a metodi
d’analisi rigorosi ma razionali, dall’altra anche senso storico (ma non so,
in verità, quanto senso storico occorra per fare sul serio demografia storica; e, poi, che cosa significa veramente senso storico?).
La prima direzione, proprio per le difficoltà della ricerca in demografia storica, per la sua palese multi-disciplinarità, per il fatto che coinvolge conoscenze diversificate — linguaggi e vocabolari diversi, modi diversi di esprimere e di raccontare — richiede autentica collaborazione
interdisciplinare (se ne è parlato così tanto che, forse, ha perso il suo
vero significato). La ricerca demografica resta di fatto una struttura, un’organizzazione, sfaccettata: ogni parte potrebbe essere legata alle altre al
di fuori di una consequenzialità o gerarchia e potrebbe risolversi in un
insieme non organico di esperienze e congetture. Per questo, se si vuoi
conseguire un’interpretazione unitaria e globale, occorre mettere insieme al lavoro lettori accorti dei diversi «sintomi» o segni che compaiono
nei documenti d’archivio. Solo il filtro di esperienze diverse può rendere
intelligibile una realtà che all’occhio di uno solo può invece restare
nascosta e definitivamente sepolta nel passato.
16 Calvino (1972, pp. 140-41). La spiegazione (in realtà si tratta di auto-esplicazione)
più esatta di questo brano è indubbiamente quella che ne dà lo stesso Calvino nel suo
scritto postumo Lezioni americane (1988, pp. 70-72).
172
Carlo A. Corsini
Alla base di tutto, poiché la demografia storica è comunque studio
di «masse», anche se può passare attraverso la strada della raccolta di
dati individuali — come ad esempio nel caso della micro-demografia della
ricostruzione delle famiglie — alla base di tutto sta l’uso di metodologie
statistiche, le uniche che possono accomunare i differenziati punti di
vista. Esattezza di significati, ma insieme anche esattezza di analisi, o
di significanti. Ora è ben vero che pure la demografia ha un suo strumentario specifico che in parte si è originato, o per lo meno si è perfezionato, nelle ricerche di demografia storica e che è in progressivo assestamento (Willigan e Lynch, 1982; Santini e Del Tanta, 1982; Universidad de les Illes Balears e Iussp Committee on Historical Demography,
1991; United Nations, 1983). In questo terreno l’apporto delle istituzioni, quali le società nazionali di demografia storica e l’Uiesp, è veramente importante perché contribuisce a mettere a confronto esperienze
diverse, a recuperare idee e proposte e a divulgarle. Pertanto la strada
della metodologia di base, seguita passo passo con il sostegno delle problematiche specifiche della demografia (in quali modi si studia, o si deve studiare, una popolazione?) può costituire lo strumento unificante
delle diverse frontiere disciplinari.
La seconda direzione, d’altro canto, richiede al demografo una riflessione, non per ripiegare su se stesso ma per aprirsi verso gli altri studiosi, senza mistificazioni e reticenze: senso storico non significa disposizione solo verso la storia, ma anche verso la sociologia, la psicologia
e la genetica, l’antropologia, la medicina e così via, con un po’ di immaginazione: come quella dalla quale, al suono delle parole di Marco Polo,
si lascia trasportare lentamente il Kan (d’altra parte, come si può ricostruire il vissuto di persone di cui non restano più tracce, se non scarni
e sbiaditi riferimenti su vecchi documenti, e delle quali si pretende invece di conoscere in quale modo hanno «regolato» i propri comportamenti demografici?).
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Capitolo sesto
Demografia e biologia
Italo Scardovi
1. Interrogativi sull’odierna demografia
«Tra l’analisi biologica e quella sociale della popolazione si apre un’ampia area di ignoranza. Come tanti altri scienziati sociali, i demografi si
sono preoccupati di evitare la biologia perché ritenuta non rilevante ai
loro fini, o addirittura pericolosa» (Keyfitz, 1984). La domanda è se si
possa fare dell’autentica «demografia» ignorando che le popolazioni sono
prima di tutto realtà naturale, fenomeno biologico; se si possano addurre
teorie degli aggregati umani senza la consapevolezza critica della
particolare collocazione scientifica della ricerca demografica. Essa si situa
idealmente a un suggestivo crocevia intellettuale, luogo di incontro e di
confronto tra scienze naturali e scienze sociali, luogo di superamento e
di sintesi tra culture. Ma quale incontro, quale sintesi? «I manuali di
biologia — scrive ancora Keyfitz — incorporano brevi trattazioni di
demografia. Ma questa attenzione non è reciproca». Purtroppo è vero.
Sembra mancare ogni curiosità (salvo alcune belle eccezioni), negli attuali cultori della demografia, verso un’impostazione scientifica dello studio delle popolazioni: essi sembrano paghi del proprio status di «scienziati
sociali», della nicchia ecologico-professionale che tale posizione procura
loro, proteggendoli dall’obbligo, intellettuale e morale, di conoscere di
più e più in profondo; soprattutto in Italia.
Eppure, la tradizione italiana aveva lasciato ben altro retaggio culturale. Richiamandosi espressamente a quello che definisce il «periodo d’oro» della demografia italiana, in cui si è formata, e prendendolo a misura
del presente, Nora Federici (1987) vede segni di decadenza negli studi
demografici di casa nostra. «Nello sviluppo dei diversi filoni della ricerca
demografica — è la sua lucida diagnosi — quello biodemografico si è
andato progressivamente inaridendo.... L’attenzione alla possibile
influenza di fattori biologici nel determinare l’evoluzione demografica
è venuta meno.... I demografi si sono mostrati sempre meno propensi
ad avventurarsi in ricerche che richiedono anche il ricorso ad interpre-
186
Italo Scardovi
tazioni biologiche»1. La demografia rischia dunque di scadere — è la
conclusione sconsolata e sconsolante — «dal rango di scienza a quello
di semplice tecnica», per effetto di questo «lasciare in ombra la sua vocazione interdisciplinare..., con una implicita tendenza a delegare eventualmente ai cultori delle discipline più direttamente coinvolte l’interpretazione dei fenomeni demografici». Nora Federici si chiede allora se
il demografo debba soltanto «limitarsi all’analisi più propriamente tecnica e lasciare di volta in volta ai cultori di altre discipline l’interpretazione delle tendenze da lui correttamente individuate».
Una demografia che preferisce «delegare» l’interpretazione dei fenomeni che osserva, una demografia che s’appaga della descrizione di superficie, non può avere attenzione alla dimensione scientifica dei fenomeni delle popolazioni umane. «La demografia — l’osservazione è di
Keyfitz (1984) —... si è ritirata dai suoi confini e ha lasciato una terra di
nessuno in cui si sono infiltrate altre discipline». Fra queste, prima di ogni altra, la genetica di popolazioni. Ma Keyfitz non dispera: «Il nostro
obiettivo — scrive —... è sensibilizzare i demografi agli aspetti biologici».
«Non c’è dubbio — osserva Livi Bacci (1981) — che gran parte degli
eventi e dei fenomeni demografici siano manifestazioni di processi biologici». «E ovvio — soggiunge — che il demografo non può essere biologo, genetista, naturalista, geografo, antropologo, economista, sociologo
allo stesso tempo. Ma egli deve mantenere rapporti attivi con queste
discipline». Di qui «l’interdisciplinarietà dell’indagine demografica
quando essa si sposti dalla fase della enumerazione dei fenomeni... alla
fase della ricerca delle cause»2.
La domanda è se quest’ultima «fase» non sia ormai sfuggita al dominio della demografia. Certo, il demografo non può essere tutto; ma de1 «Una più attenta e approfondita analisi dei fattori biologici - spiega Nora Federici (1987)
- potrebbe chiarire alcuni andamenti difficilmente spiegabili con il ricorso ai fattori sociali (ad
esempio, la crescente super mortalità maschile)». La «supermortalità» maschile - un tema
classico della tradizione demografica - è un tipico esempio di sovrapposizione tra variabili
biologiche e variabili ambientali. La minore durata media della vita dei maschi nella specie umana,
da sempre attribuita alla diversità sociale del vivere dei due sessi, ha rivelato, all’esame delle
tendenze storiche, una chiara origine genetica: nel tempo, la difformità nelle condizioni di vita delle
compagini maschili e femminili è andata sensibilmente riducendosi, e non per questo il divario tra i
due sessi si è attenuato. Anzi, si è accresciuto.
2 Scrive Livi Bacci (1981): «Nel campo delle discipline prevalentemente sociali - come la
demografia - il progresso scientifico avviene sia perfezionando i procedimenti metodologici od
inventandone di nuovi, sia migliorando la qualità, il dettaglio, l’ampiezza dell’informazione ed in
particolare modo quella statistica.... Ciò, evidentemente, al fine di analizzare a fondo i fenomeni
demografici, mettendo possibilmente in risalto le leggi, le regolarità, le interrelazioni con altri
fenomeni - biologici, economici e sociali».
Demografia e biologia
187
ve saper intendere gli apporti di altre scienze, così da fare della demografia una vera disciplina di sintesi. Altrimenti — come scrive Nora Federici (1987) — resta «inevitabilmente escluso dalla possibilità di contribuire al progresso scientifico... nel campo degli studi siila popolazione».
Le opinioni appena riferite — di studiosi di grande spicco — concorrono a delineare Io stato dell’arte e delle attese in un settore fondamentale della ricerca e le difficoltà attuali di una disciplina che rischia di
abdicare al suo ruolo. Se la distinzione tra le culture ha una sua ragione
storica di essere, una ragione un poco dimentica dell’unità profonda del
sapere al di là delle necessarie specializzazioni, essa non deve costituire
alibi di comodo per nessuno: tanto più nelle scienze interdisciplinari,
nelle fenomenologie di confine. Qui, l’unilateralità culturale, la chiusura specialistica, l’estraneità corporativa sono ancora più immotivate e
dannose.
2. La demografia tra «fenomeno» ed «epifenomeno»
Forse perché luogo scientifico di confronto, la demografia soffre oggettivamente di una sua immanente stranezza. Quanto più se ne approfondiscono i contenuti, tanto più essi si trasformano. Se dagli « epifenomeni » demografici si va ai «fenomeni» che vi concorrono, essi perdono
via via i tratti propri della demografia: diventano, per un verso, biologia, genetica, antropologia e così via; per altro verso, sociologia, economia, etnologia ecc. Sono tutti questi contenuti a fare della demografia
una virtuale koiné euristica, della realtà demografica un contesto naturale
e sociale insieme. Ebbene, questa molteplice qualità della demografia,
che tanto dovrebbe arricchirla scientificamente e nobilitarla culturalmente, resta di fatto inespressa, quando non addirittura negata. Quasi
che una demografia fondata sulle popolazioni, sulla loro genesi storiconaturale, sulla loro struttura biologica profonda, debba per questo sottrarsi alle inevitabili implicazioni etico-sociali della vicenda umana.
Viene dalle scienze della natura l’immagine di una rinnovata sintesi
di fenomeni e di metodi, sul fondamento di una nuova unità metodologica del pensiero razionale: il rigido steccato tra scienze della materia
e scienze della vita è ormai caduto e tante discipline un tempo lontane
hanno imparato a riconoscere le proprie comuni radici logiche ed empiriche. Perché una pur parziale integrazione, sintattica e semantica, tra
sapere naturale e sapere sociale non deve aver luogo nella scienza delle
popolazioni umane, ove l’oggetto della ricerca vede incontrarsi l’uno e
l’altro mondo fenomenico?
188
Italo Scardovi
La risposta è da ricercarsi nelle linee di pensiero donde proviene la
demografia, nella sua vicenda di disciplina sempre più dominata dal contingente, sempre meno attenta alle popolazioni in quanto popolazioni.
Eppure, è per aver guardato alle popolazioni come a realtà divenienti
attraverso il gioco della variabilità individuale — un’interpretazione squisitamente statistica del fenomeno della vita — che Darwin ha potuto rinnovare dal profondo la biologia portando la natura nella storia e la storia nella natura.
Si vuole che demografia e statistica siano cresciute insieme, «sorelle
di latte» (l’espressione è di Nora Federici), nella culla di certa pratica
secentesca intesa alla descrizione numerica di popoli e di luoghi. Di lì,
certo, hanno tratto la loro ragion d’essere, nei tempi moderni, organismi
pubblici dediti alla rappresentazione quantitativa delle comunità organizzate,
allo scopo, nel passato e nel presente, di offrire elementi per un’azione di
governo fondata sulle cose, argomentata nei dati. Ma quando s’avviavano
quelle notitiae cominciavano ad apparire, attorno al cenacolo baconiano
della nascente Royal Society, alcuni curiosi tentativi di indagine
quantitativa sulle popolazioni, motivati dall’istanza empirista di cercare,
nei fatti del reale, negli avvenimenti del quotidiano, proporzioni,
regolarità, leggi. Qui, l’intento non è amministrare: è conoscere; non è
descrivere una collettività definita e circoscritta nelle sue caratteristiche
statiche e dinamiche: è cogliere, in un contesto empirico assunto come
espressione contingente di una più ampia realtà fenomenica, le leggi di
tendenza delle popolazioni, le loro determinanti remote, le loro implicazioni collettive. Che nelle parrocchie londinesi della metà del Seicento si battezzino più maschietti che femminucce o nei sobborghi la
vita si concluda in età più giovane che nei quartieri dei privilegiati, non
interessa al reggitore della cosa pubblica quanto all’indagatore dei fenomeni, naturali e sociali, delle compagini demografiche. Ed è costui a interrogarsi sul grado di generalità e di stabilità delle regolarità acquisite.
Coraggiose induzioni, che verranno etichettate come «aritmetica politica»
per il loro tradurre in numeri e in rapporti tra quantità — dominio fino
allora incontrastato delle scienze della phỳsis — gli eventi della polis, le
vicende dell’uomo.
Quella filosofia empirista rivivrà in qualche modo due secoli più tardi, nel movimento di pensiero da cui prenderanno forma — ad opera di
astronomi intenti a cercare sulla Terra regolarità matematiche appena
assimilabili a quelle scorte nel cielo — una nuova fenomenologia e una
nuova metodologia. Ne verrà la statistica scientifica: un metodo universale della ricerca che riprende ed estende il canone galileiano — il ca-
Demografia e biologia
189
none della scienza — a tutti i fenomeni calati nella immanente variabilità. Ne verrà, poi, una nuova intuizione della realtà e il concetto di «legge statistica» diverrà enunciato comune a tutto un sapere, a cominciare
dal sapere fisico, mentre una nuova filosofia naturale, non più rigidamente determinista, appresterà i fondamenti — statistici, appunto — di
una nuova «logica». Sì che pare quasi impossibile riconoscere, in quei
remoti e stravaganti «aritmetici», i pionieri di un metodo andato ormai
tanto lontano dalle loro concezioni e dai loro intendimenti. Un metodo
che detta il codice interpretativo delle particelle elementari della materia, dei costituenti intimi della vita, delle leggi delle popolazioni, siano
esse di molecole o di viventi.
Ma senza l’apporto di conoscenze e di problemi venuto dai fenomeni demografici, forse la statistica non avrebbe avuto tanto successo e
la stessa demografia non avrebbe saputo proporsi senza una coerente
innervatura metodologica.
3. La demografia tra «essere» e «dover essere»
La scienza è tale in quanto è conoscenza, in quanto coglie le leggi
del reale, la natura profonda dei fenomeni, le componenti intime dei
processi. Così è nelle scienze naturali: scienze vere e proprie, scienze
dell’«essere». E una sorta di sovrapposizione all’«essere» di un «dover
essere» quasi ignaro delle ragioni dell’«essere» a collocare certe discipline sociali in una sorta di limbo parascientifico, tanto più vago e sfuggente quanto più lontano dai canoni del sapere razionale.
E un poco la sorte della demografia. In essa s’avverte talvolta l’afflato precettistico di certo sociologismo rivolto alla realtà non tanto come
a un contesto da cogliere nella sua genesi e nei suoi algoritmi quanto,
e più, come a un problema da risolvere in qualche modo. E pur vero
che non è sempre facile guardare gli aggregati umani con l’occhio oggettivo del naturalista, considerare le leggi demografiche come leggi scientifiche senza accompagnarvi motivazioni etiche, studiare il divenire delle
popolazioni con lo stesso distacco del fisico al cospetto di un processo
termodinamico nella freccia del tempo o del microbiologo davanti all’accrescersi di una coltura batterica. « Si possono facilmente considerare con l’indifferenza scettica della scienza sperimentale le formiche; è
molto più difficile considerare allo stesso modo gli uomini» — ha scritto
Pareto; ed è ben noto l’interrogativo di Skinner: «Perché è tanto difficile trattare scientificamente del comportamento umano?».
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Italo Scardovi
Non si può certo pretendere di rispondere proponendo di far tutt’uno
degli schemi concettuali costruiti sui fenomeni della natura e di quelli
costruiti sui fenomeni della società: per molte discipline dell’ordine non
naturale un autentico assetto nomotetico — semmai sia pensabile — è ancora assai lontano; né ci si deve illudere di giungervi attraverso superficiali forrnalizzazioni, spesso destinate a risolversi in goffe mascherature
simbolistiche. Tuttavia una sintesi transdisciplinare che sia confronto
critico di paradigmi, che assuma gli schemi formali come artefatti-limite,
può contribuire ad allargare l’orizzonte conoscitivo. Se non è lecito pensare di trapiantare, sic et simpliciter, da un campo all’altro, principi e
metodi, regole e modelli, nemmeno si può credere — ammonisce Lewontin
(1984) — di «esportare concetti» dal contesto sociale, per reimportarli
dopo aver ad essi fornito una «rispettabilità scientifica» in ambito
biologico (come non pensare, un esempio fra i tanti, a Herbert Spencer,
al suo rivestire di un evoluzionismo biologico male inteso tesi sociologiche incompatibili con la teoria darwiniana?).
Tra demografia e scienze della natura sussistono intersezioni fenomenologiche e metodologiche: quelle fenomenologiche attengono alle determinanti genetiche dei fenomeni demografici e alle conseguenze genetiche di questi; quelle metodologiche non sono tanto e soltanto nell’uso di comuni strumenti quanto e più nell’unicità del canone di lettura
dei fenomeni, un canone essenzialmente statistico.
L’interpretazione scientifica del fenomeno della vita è ormai irriducibilmente «popolazionistica», sulla falsariga di un’analisi statisticoprobabilistica dei fenomeni naturali: è la linea di pensiero di tutte le
scienze che hanno imparato a trattare popolazioni (di particelle, di nucleotidi, di genotipi o di viventi): dalla cinetica del calore alla biologia
evoluzionistica, dalla genetica alla meccanica quantistica; e perché non
anche alla demografia, il cui oggetto, la popolazione umana, è in se stesso espressione di variabilità, immanente e diveniente? Che cos’è la termodinamica se non lo svolgersi di processi molecolari collettivi statisticamente irreversibili? Che cos’è la disintegrazione radioattiva se non l’estinguersi nel tempo di un aggregato di atomi? Che cos’è la meccanica
quantistica, se non codificazione delle proprietà statistiche di insiemi di
costituenti elementari? E che cos’è l’evoluzione biologica se non il
divenire delle specie viventi attraverso il gioco combinatorio, nelle popolazioni, di quella variabilità individuale in assenza della quale la vita
scomparirebbe3? Dunque, un canone statistico e demografico insieme:
3 Per eventuali approfondimenti in argomento si rinvia a Scardovi (1983a; 1988). Si
può inoltre vedere Scardovi (1977).
Demografia e biologia
191
l’incontro di natura e storia, di gene e ambiente, di accidentalità e necessità. Nell’alfabeto del «caso» una grande unità linguistica e concettuale
s’è ormai affermata e coinvolge scienze della materia e scienze della vita.
E Jacquard (1984) a ricordarci che la «probabilità statistica» può essere
lo strumento intellettuale di una nuova interdisciplinarità, di un legame
gnoseologico tra demografia e biologia. Se il genetista — questa, in sostanza, la tesi di Jacquard — s’avvale delle conoscenze della demografia
per definire la popolazione di riferimento, il demografo che non voglia
soltanto descrivere non può ignorare la genetica e i suoi modelli, che
sono modelli statistico-probabilistici.
Interrogarsi sul ruolo conoscitivo della demografia, quale luogo di incontro tra ricerca sulla natura e ricerca sull’uomo, tra cultura scientifica e
cultura umanistica, significa dunque ripensare il contenuto di una disciplina per molti aspetti «strana». Quanto più la si approfondisce, tanto più
essa sfugge; tanto meno, per così dire, è demografia; la sua duplice anima, del naturale e del sociale, sembra essere diventata ormai una pietra
d’inciampo, un principio di contraddizione. Non sempre il demografo è
l’osservatore razionale dei fenomeni delle popolazioni: è, più spesso, il
portatore di visioni e di problemi contingenti, più attento alla politica demografica che a una scienza demografica; tratta di natalità, di mortalità, di
migrazioni, facendo tutt’uno dell’analisi degli eventi e della preoccupazione sociale suscitata dal divenire di questi. Ancora il «dover essere», quel
«dover essere» che fa, delle scienze dell’uomo, scienze di tipo assai particolare. Di qui il difficile comporsi di una vera scienza delle popolazioni umane e la crisi d’identità di una demografia ormai incapace di compiere
la sintesi — direbbe un poeta — di «frantumi di vari universi / che non
riescono a combaciare».
4. La demografia nella grande tradizione italiana
Una demografia che non voglia ridursi a semplice numerologia censuaria non può non riandare alle radici di un passato — un passato italiano — ormai lontano nel tempo e ancor più nelle scelte culturali. Dall’opera dei più illuminati demografi del primo Novecento e degli eredi di
quella tradizione viene, pur tra contraddizioni e contrasti, una lezione
autentica di interdisciplinarità, un esempio ancor vivo di ricerca del fenomeno oltre l’epifenomeno, nonché un invito a non guardare con distacco, se non addirittura con sospetto, chi osa porre certa fenomenologia in chiave biostatistica.
Nel discorso inaugurale al Congresso internazionale per gli studi sulla
popolazione (Roma, settembre 1931), premesso che lo studio della
192
Italo Scardovi
popolazione si conduce sui fatti, ma «senza le direttive di schemi teorici
i fatti risulterebbero, invero, un’accozzaglia informe di materiale», un
grande caposcuola, C. Gini (1931), affermava: «Molte delle indagini sulle
popolazioni attuali e sulle passate a poco tuttavia approderebbero se i
risultati della demografia non fossero ravvicinati a quelli ottenuti dalle
altre scienze.... E non solo intendo delle altre scienze sociali e in
particolare dell’economia politica, con cui da Malthus in poi la teoria
della popolazione è rimasta indissolubilmente connessa, ma anche, e vorrei
dire soprattutto, delle scienze biologiche... e delle scienze fisiche».
In quell’età aurea della demografia italiana Gini aveva pensato e avviato, attivissimo, nel 1931, il Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione (Cisp), articolato in otto sezioni, tre delle quali
dedicate ai: temi di interesse bionaturalistico, e diretto a promuovere,
a condurre e a coordinare indagini autenticamente interdisciplinari sulle
popolazioni: l’orizzonte investigativo andava dalle scienze della natura
alle scienze dell’uomo, dalla biologia alla demografia, per l’intermediazione logica e tecnica della statistica. Quella che Gini chiamava «una
concezione più larga degli studi sulla popolazione» improntava tutta una
serie di riflessioni sulla metodologia della ricerca e di ricerche sul campo
fra le più diverse etnie: dai danada tripolitani ai bantu rhodesiani, ai
berberi del Gebel, ai samaritani di Palestina, alle comunità umane dell’Himalaya e a quelle del Messico; dagli otomi dell’Hidalgo agli aztechi
di Tuxpan, ai cora della Sierra Nayarita, ai taraschi del Michoacan e
così via. Una demografia davvero scientifica e multidisciplinare: una vera
scienza delle popolazioni umane4. Esponendo, nel 1933, al Medical
Building di Cleveland il programma di ricerche del Comitato, Gini (1934a)
ammoniva: «lo studio scientifico delle popolazioni non può essere limitato... alla illustrazione dei dati sullo stato e sul movimento della popolazione, quali si possono desumere dalle rilevazioni dei censimenti e da
quelle del movimento dello stato civile... Una conseguenza di tale situazione è che lo studio della popolazione viene quasi dovunque incluso
nelle scienze sociali e separato dalle scienze biologiche». Dunque, già
in quegli anni si avvertiva la tendenza a una scelta monoculturale della
demografia, al seguito delle rilevazioni pubbliche sulle popolazioni.
Ma non per questo la ricerca demografica di Gini e della sua scuola
trascurava d’avvalersi dei risultati delle rilevazioni nazionali. «Se io penso
— chiariva Gini (Gini, 1934a e Federici, 1943), a commento delle prime
4 Le inchieste del Cisp erano ispirate a una visione «globale» delle realtà osservate: indagine demografica, indagine antropometrica e indagine biomedica si affiancavano e si
integravano l’un l’altra. Si veda Gini e Federici (1943).
Demografia e biologia
193
spedizioni scientifiche da lui guidate — che il metodo migliore per studiare le popolazioni è rappresentato da ricerche di questo genere, non
svaluto tuttavia le ricerche fatte sui dati statistici del movimento della
popolazione». Di ciò dava prove esemplari in saggi illuminanti per originalità di metodo e acutezza di interpretazione (basti ricordare, per un
solo riferimento, una prima, parziale raccolta di scritti: Gini, 1934b).
Nel 1934, Gini fondava Genus, rivista scientifica del Cisp5 e nel 1936
la Facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali dell’Università di Roma. Uno dei corsi di laurea era in «scienze statistiche e demografiche», e nel piano degli studi figureranno, in un breve volger
d’anni, discipline naturalistiche; è avvilente notare come tali discipline
(tuttora previste negli ordinamenti universitari) siano oggi in gran parte
neglette. Ancora un sintomo dell’allontanarsi degli studi demografici dalla
biodemografia e dalla biostatistica, ancora un effetto della scelta monoculturale a orientamento socio-economico6.
Se le analisi giniane sui dati censuari e anagrafici della popolazione
italiana anticipavano metodi e criteri destinati ad affermarsi, talora per
riproposizioni autonome, nei decenni che verranno e ancora ai giorni
nostri, le spedizioni scientifiche nei più svariati angoli del pianeta precorrevano certe intuizioni della genetica attuale. Lo stato delle conoscenze in materia era ancora lontano dagli sviluppi delle scienze che verranno, ma quelle indagini su popolazioni isolate e sul loro divenire, sull’evolversi di etnie appartate e sui processi di decadenza possono ben
ritenersi d’avanguardia, soprattutto se si pensa al difficile incedere di
una biologia evoluzionistica nella cultura scientifica dell’Italia di allora.
Tali erano, ad esempio, le indagini sugli effetti dell’endogamia o sulla
fecondità degli ibridi in popolazioni groenlandesi, neozelandesi, messicane, non meno importanti delle analogie probabilistiche tra i processi
erratici che si avverano nei piccoli gruppi di viventi, nel loro divenire
e scomparire, e i modelli di estrazione da urne (erano gli anni in cui Sewall Wright meditava le sue tesi sul random genetic drift); così pure le
interpretazioni della scelta matrimoniale nel raffronto con i fenomeni
5 Ora la rivista Genus è diretta, con immutata apertura transdisciplinare, da Nora Federici, succeduta a Gini anche nella direzione del Cisp: un ente ricco di tradizioni, ma purtroppo non di mezzi.
6 Tant’è che, di tre facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali funzionanti
in Italia soltanto una, quella dell’Ateneo bolognese, ha cercato di dare al piano di studi per
la laurea in scienze statistiche e demografiche anche una coerente impostazione biostatistica, aprendo lo studio demografico delle popolazioni alle discipline bionaturalistiche: dall’antropologia alla biologia delle popolazioni, dalla biometria alla genetica. Discipline affiancate,
ovviamente, alle discipline d’impronta economica e sociale e innestate sulle discipline del
metodo: matematiche, statistiche, probabilistiche, informatiche.
194
Italo Scardovi
di ibridazione di popolazioni non umane (già nel 1925, Gini aveva dato
rilievo su Metron, rivista internazionale di statistica da lui fondata e diretta,
a una limpida indagine di Luzzatto-Fegiz, 1925, sui processi di fissazione
e di sostituzione che avvengono nelle comunità isolate, attraverso il
concentrarsi dei cognomi nel comune toscano di San Gimignano).
L’apertura a tutte le scienze era totale e coinvolgente, nello spirito
di una libera ricerca che non conosceva vincoli di sorta, e andava dall’antropologia all’etnologia, dall’etologia alla genetica7. Ai temi generali
della popolazione, ai problemi dell’equilibrio, ai modelli demografici,
alle teorie evolutive, Gini presterà sempre una particolare attenzione
critica, nell’intento di una fondazione scientifica della demografia, sino
agli ultimi anni della sua vita, quando, fra l’altro, raccoglierà in un denso volume (1963) riflessioni bio-demografiche e socio-demografiche sulla
teoria delle popolazioni e sui modelli matematici, sui fattori demografici
e sociali del «metabolismo demografico», sulle caratteristiche dei primitivi
(per tacere di altri scritti di grande respiro intellettuale, fra i quali un
cospicuo numero monografico di Genus dedicato agli interrogativi intorno
all’«uomo delle nevi»).
Questo orientamento multidisciplinare degli studi demografici aveva
trovato suggestive premesse nel primo trattato demografico italiano
moderno, apparso agli albori del secolo, i Principii di demografia di Benini
(1901). Un libro arguto e colto, rivolto al naturale e al sociale: ai caratteri
antropologici o alle proporzioni numeriche tra i sessi non meno che alla
stratificazione socio-economica o ai fattori della «coesione sociale », alle
caratteristiche demografiche degli agglomerati non meno che alle teorie
quantitative dello sviluppo delle popolazioni. S’apriva, quel testo, sul
tema della variabilità individuale dei caratteri umani e dei modelli che la
descrivono, non senza interrogarsi sui processi che vi contribuiscono. E
quanto interesse all’eredità dei caratteri, trattata nei termini delle
«regressioni galtoniane » (quando Benini dava alle stampe quelle pagine — la
prefazione è datata settembre 1900 — De Vries, Correns e von
Tschermack si erano appena imbattuti, ciascuno all’insaputa dell’altro,
nelle leggi — e sono leggi statistiche — scoperte trentacinque anni prima
dall’abate Mendel nell’orto di un convento moravo).
Fra i temi di quel testo figurava anche il rapporto numerico dei sessi
alla nascita, oggetto di curiosità e di dibattito da lungo tempo e ancor
più negli anni a venire: una sorta di filo rosso semantico nella storia del
7 Tutto ciò nello spirito della più assoluta indipendenza intellettuale. Il Comitato offriva,
secondo le rassicuranti parole di Gini, «ogni collaborazione a tutti gli organismi scientifici che
intendono operare nello stesso senso, con scopi seri e senza pregiudizi di razza, che non hanno
nulla a che vedere con la scienza».
Demografia e biologia
195
pensiero biodemografico. Sette anni dopo il libro di Benini, sarà l’argomento
di un’opera magistrale di Gini (1908)8, in cui metodologia statistica,
fenomenologia naturalistica e analisi biodemografica comporranno (alla luce
delle scarse e contraddittorie conoscenze dell’epoca) un discorso assai
articolato e tuttavia unitario e coerente9. Tre anni più tardi, Gini (1911)
tratterà la questione della variabilità della tendenza a produrre i sessi in
una memoria10 della quale non si sa se più ammirare la rigorosa
interpretazione statistico-critica dei famosi e discussi «dati di Geissler» o
l’originale idea metodologica che la sostiene: una generalizzazione della
«regola di successione» di Laplace, di grande rilievo negli studi logicomatematici sull’induzione; certo si tratta di uno dei tanti fondamentali
contributi di Gini alla metodologia statistica induttiva. Il rapporto
numerico tra i sessi (al concepimento, alla nascita, alla pubertà) è fra gli
argomenti maggiormente trattati e discussi ancora ai nostri giorni e copre più
di un quarto della saggistica biodemografica internazionale raccolta nei
repertori: in Population Index contende il primato agli studi sul ciclo fecondo
della donna e a quelli sulla durata della vita.
Se nella regolarità delle proporzioni numeriche tra i sessi nelle nascite
umane Arbuthnot aveva intravisto, agli inizi del Settecento, l’intervento di
una volontà capace di domare il caso e Siissmilch il segno provvidenziale di una
gdttlische Ordnung, l’odierna genetica vi riconosce una conseguenza della divisione meiotica alla spermatogenesi e interpreta il lieve e sistematico soprannumero di maschi nelle nascite umane alla stregua di una risposta adattativa
alla selezione, a svantaggio del sesso eterogametico, nelle prime età della vita,
il cui risultato è l’equilibrio quantitativo tra i sessi nell’età riproduttiva.
Alle «leggi della produzione dei sessi» Gini sarebbe ritornato più
volte, sino agli ultimi anni della sua vita, anche in alcuni «discorsi d’apertura» o «di chiusura» alle riunioni della Società italiana di statistica (SIS),
sorta nel 1939, di cui era presidente. Alla biometria e alla biodemografia
la SIS riservava un’attenzione non occasionale e non superficiale, dibat8 Sia consentito ricordare che, nel 1960, Gini volle affidare all’estensore di queste note una nuova versione, reimpostata e aggiornata, di quel libro pieno di idee (alcune delle
quali possono apparire, oggi,piuttosto stravaganti: ma quando Gini scriveva nulla ancora
si sapeva, per tacer d’altro, di cromosomi sessuali); e grande fu il dispiacere del maestro
nel dover convincersi che quell’opera doveva rimanere così: così impostata e così datata.
9 Gini si riferiva alle altre specie viventi in una visione naturalistica comparata delle
proporzioni tra i sessi per cogliere l’influenza di possibili fattori che egli identificava in:
«l’ambiente, la selezione naturale, la variabilità individuale, l’eredità», intuendo
l’importanza biogenetica della parità numerica tra i sessi ai fini riproduttivi.
10 Si noti la collocazione di questo scritto (il saggio apparve in Studi economico-giuridici
dell’Università di Cagliari). Gini era professore di statistica e, in Italia, la statistica era insegnata, a quel tempo, nelle sole facoltà di giurisprudenza.
196
Italo Scardovi
tendo argomenti di grande interesse, sempre attuali11: ancora nelle ultime riunioni annuali da lui presiedute, Gini svolgeva ampie e profonde
rassegne critiche dei problemi, delle ipotesi, dei dati12.
E suggestivo veder ritornare, oggi, nel linguaggio della più avanzata
genetica, tesi e ipotesi, interrogativi e confronti che figuravano nell’opera di Gini e, si può dire, di tutti i grandi demografi della prima metà
del Novecento, a cominciare da Benini, dalla sua concezione naturalistica della popolazione e della società umana: egli definiva la demografia «scienza quantitativa della popolazione» intesa allo studio degli aggregati sociali «da un punto di vista naturale-meccanico» allo scopo di
«stabilire leggi empiriche e di trattare... i fatti collettivi come risultati
meccanici di forze»; un’ispirazione di chiaro stampo newtonianolaplaciano, anche nell’esplicito richiamo a quella phisique sociale in cui
Quételet aveva azzardato, fra tante intuizioni e illusioni, una visione
metodologica unitaria dei fenomeni della natura e dell’uomo: una demografia certamente «datata», anche nella Weltanschauung di riferimento,
ma non unilaterale e non superficiale.
Di questa demografia aperta e colta è immagine esemplare anche l’opera di Livio Livi. Figlio di Ridolfo Livi, antropometrista d’avanguardia, L. Livi cercava nella realtà naturale i fondamenti della vita sociale,
non mancando di dar rilievo, come Benini e Gini, anche ad aspetti non
quantitativi. In un saggio monografico, Livi (1915) approfondiva l’influenza dei fattori biologici e delle caratteristiche organiche sulla formazione della famiglia e della società; e, dal confronto tra i periodi di
allevamento delle varie specie di mammiferi, traeva una ragione biodemografica della persistenza dei nuclei familiari umani. Livi stesso (1941)
avrebbe ripreso, in un più ampio contesto, questa suggestiva concezione
nei due volumi del suo Trattato di demografia. Essi s’ispiravano alla
biologia darwiniana prendendo lucidamente le distanze dagli stravolgimenti di certo sopraggiunto sociologismo, che aveva tradito il pensiero
evoluzionistico.
Livi assegnava alla demografia il compito di cercare «il fondamento
biologico della struttura sociale». «Le forme associative — scriveva nel
11 La Società italiana di statistica, anche dopo Gini, non ha mai negato attenzione —
soprattutto durante la presidenza di G. Leti — alle tematiche bíostadstiche. Si legga in
proposito Federici (1989).
12 Si citano, fra gli altri, Gini (1960a; 1960b; 1961a; 1962). Dello stesso periodo sono
altri saggi biostatistici apparsi su Metron nonché Gini (1961b). Nella penultima riunione
scientifica della SIS da lui presieduta, venne svolta da chi scrive, su invito, la memoria
indicata in Scardovi (1963); e l’ultima riunione si concluse con un «discorso di chiusura»
sulla biometria (Scardovi, 1964).
Demografia e biologia
197
Trattato — possono considerarsi... come conseguenze di taluni caratteri
della specie»; e, muovendo da tali caratteri, studiava le forme dell’aggregarsi umano — la famiglia, il gruppo, la popolazione — nell’interagire di
fattori «interni» e di fattori «esterni», soffermandosi sulla variabilità
naturale dei caratteri, sui suoi riflessi nell’organizzazione sociale. Si diffondeva poi nel trarre «prove dal regno animale», cui accostava le «prove etnografiche e demografiche» e le «prove antropogeografiche»: una sorta di
«sociobiologia» ante litteram, ove era dato rilievo, come già nell’opera di Gini,
agli effetti dell’isolamento dei gruppi umani e della conseguente endogamia (spiace che quegli scritti di Livi non siano stati tradotti in lingua inglese: certa trattatistica, oggi in gran voga, dovrebbe riconoscervi i segni di una indubbia priorità concettuale).
Prendendo a esempio le piccole comunità di talune isole dell’Egeo
e il decadere dei gruppi umani scesi al di sotto di un certo ordine di
grandezza, Livi (1941) delineava, con bella intuizione statistica, la questione della minima dimensione demografica. «La scarsità numerica —
scriveva — compromette la normale variabilità dei caratteri e delle attitudini, base anch’essa della saldezza sociale, potendo consentire al caso
di porre insieme una eccessiva proporzione di individui troppo deboli»:
sono temi, oggi, di genetica evoluzionistica, ma non per questo estranei
a una demografia che non voglia fermarsi alle descrizioni numeriche.
Livio Livi rivendicava l’autonomia scientifica di quella demografia. Come motivare l’autonomia scientifica dell’odierna demografia?
Si sfogli, per un’ulteriore esemplificazione, il primo volume delle Lezioni
di demografia di Alfredo Niceforo (1924). Più di cento pagine sono dedicate
alle «differenze biologiche individuali tra gli uomini». Una concezione
multidisciplinare alla quale si rifaceva, ancora, il trattato di Marcello
Boldrini (1946), attraverso un’analisi delle determinanti naturali degli
aggregati umani: «una demografia sperimentale» tesa — scriveva Boldrini
— «ad intendere i fenomeni biologici delle collettività umane», vale a dire
una demografia di ampia prospettiva, altrettanto attenta alle componenti
sociali delle comunità. Cogliendo abilmente i chiaroscuri degli studi di
biodemografia in Italia, tra le due guerre mondiali, Colombo (1979) ha
scritto: «Penso quanto felice fosse il momento per gli studi italiani di
cui ora ci interessiamo tra il 1920 e il 1940».
Questa la linea di pensiero della demografia italiana fin verso la metà
del secolo. Una demografia irripetibile, oggi, anche per l’affermarsi di
nuove discipline specifiche. Una demografia che precorreva, negli
intenti e nei modi, tanta «genetica di popolazioni» e certa «sociobiologia» (quest’ultima è proposta da Wilson, 1975, come «studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento»: quando
198
ligio Scardovi
Wilson scrive che «il comportamento della società considerata nel suo
complesso è definito dalla sua demografia», assegna all’immagine demografica di una comunità un ruolo preciso).
Si sente dire che quella demografia non era tutta «statistica» in quanto
non trascurava i caratteri non quantitativi, gli eventi non numerabili.
Ma l’assetto statistico di una disciplina non è necessariamente nei calcoli e nelle cifre: è nel canone interpretativo dei fenomeni13. Prima e
più che un opportuno modus operandi della ricerca, il metodo statistico è
un autentico modus intelligendi della realtà. Tale è il paradigma evoluzionistico: un modo di intendere le popolazioni e di intenderne la variabilità, l’accidentalità, la storicità. Senza un’intuizione statistica della natura, senza riferirsi alle popolazioni e alla variabilità di cui sono espressione, le scienze naturali non avrebbero mai ottenuto la loro conquista
più importante: l’idea di evoluzione.
Quella demografia italiana anticipava linee di pensiero che oggi procedono, forti delle nuove conoscenze scientifiche e di nuovi strumenti
metodologici, al di fuori della demografia. Eppure era ancora demografia
quando Benini attribuiva alla variabilità individuale un ruolo nel divenire
delle popolazioni, quando Gini coglieva le proprietà stocastiche della
deriva e intuiva — al pari di Boldrini — il valore del tasso riproduttivo di
un biotipo, quando L. Livi cercava il fondamento genetico del
comportamento sociale. Una demografia di ricerca, con le intuizioni, i
dubbi, le ingenuità di un’epoca pionieristica, in cui ancora non s’era diffusa — e tanto più in Italia — la consapevolezza di una nuova scienza,
che quella demografia in qualche modo presagiva: anche nella scelta del
contesto, anche nell’interesse alle popolazioni-limite. Come Gini e i suoi
collaboratori conducevano ricerche biodemografiche nelle isole mediterranee di Carloforte e Calasetta o, nel Pacifico, nell’isola di Janitzio, così
l’odierno genetista sperimenta i suoi modelli di deriva nell’atollo di
Pingelap (oceano Pacifico), osserva l’effetto del fondatore nell’isola di
Tristan da Cunha (oceano Atlantico), coglie le componenti evolutive delle
comunità delle isole Andamane (oceano Indiano).
Il retaggio di quella tradizione italiana sopravvive, forse, nell’opera
di qualche studioso, ma non v’è dubbio che negli ultimi quarant’anni
il panorama degli studi demografici italiani è sensibilmente cambiato.
Ne sono un riflesso anche i trattati: tutti, o quasi, offrono un’altra immagine della demografia. Anche quello del figlio di Livio Livi (e nipote
13 È il canone che ha ispirato la grande sintesi tra genetica mendeliana ed evoluzionismo darwiniano, su di una matrice statistica e probabilistica. Basterà ricordare tre opere
fondamentali: Fisher (1930); Wright (1931); Haldane (1932).
Demografia e biologia
199
di Ridolfo Livi), Massimo Livi Bacci (1981). È un fatto che, dal secondo
dopoguerra ai nostri giorni, la demografia si è sempre più «specializzata» in
senso politico-sociale. Se Gini non volle mai rinunciare alla sua matrice
scientifica a largo spettro, continuando a spaziare dal metodologico al fenomenologico, dal naturale al sociale, altri preferirono invece dedicarsi a
più contingenti problemi. Si vuole vedere in questo abbandono una sorta
di rifiuto verso una disciplina in qualche modo compromessa con gli imperativi di un regime proteso ad attuare una politica demografica, dapprima incoraggiando la natalità (lo si è fatto, e ancora Io si fa, in molte altre nazioni) e poi affermando una sorta di « demografia razziale» detestabile sul
piano scientifico non meno che su quello morale: si era giunti addirittura a
sostenere, ma non dai demografi, l’esistenza di una «razza ariana»; un
poco di cultura sarebbe bastato a far capire che dire «razza ariana» è come dire, altrettanto ridicolmente, «lingua dolicocefala». Ma cercare la ragione dello stato presente degli studi in qualche vago cedimento ideologico della demografia prebellica appare troppo facile e comodo14.
5. Gli studi di demografia in Italia
Considerando lo stato della ricerca demografica di casa nostra, Livi
Bacci (1969) dava l’allarme, dichiarando a tutte lettere che «la demografia si trova, in Italia, ed ormai da qualche tempo, in una situazione di crisi;... gravata da un passato ricco di prestigio... conscia del rapido crescere
dell’interesse internazionale verso i problemi della popolazione, ma incerta se rifarsi alle tradizioni nazionali o se seguire le tendenze degli studi — quando non della moda — affermatesi in altri paesi». «È certo...
— osservava — che la crisi è reale; che essa ha origini assai complesse,
come complesso è il carattere interdisciplinare della demografia». «Che
ne è — si domandava ancora, richiamandosi ai grandi statistici-demografi italiani — del patrimonio di idee, di studi, di risultati da loro accumulato in oltre mezzo secolo di attività?» «La risposta — soggiungeva
— è un poco penosa». «La rigidità dell’osservazione demografica — notava poi — è il maggiore ostacolo contro il quale debbono lottare i demografi, in particolar modo quelli italiani».
Forse non è solo un problema di dati, di fonti, di rilevazioni correnti,
di «rigidità dell’osservazione»: forse incombe, anche, una sopraggiunta
14 Dopo un attento esame dei principali scritti di tre fra i maggiori studiosi italiani di biodemografia nell’epoca fascista - Giní, Livi e Boldrini - Colombo (1979) ha dato questo giudizio: «Ho letto varie loro opere fondamentali... e in nessuna ho mai visto il termine “fascismo” o l’aggettivo “fascista”. Erano persone che avevano una libertà intellettuale assoluta».
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Italo Scardovi
rigidità culturale. In primo luogo, la grande demografia italiana era strettamente avvinta alla metodologia statistica, che nelle popolazioni aveva
trovato un immediato riferimento empirico per sperimentarvi euristicamente i propri strumenti, tecnici e logici, senza peraltro fermarsi alle
fonti censuarie: s’avvaleva argomentatamente delle rilevazioni sistematiche pubbliche, ma andava oltre quei temi e quei dati. Il modo di pensare statistico-scientifico era essenziale alla fondazione teorica della disciplina non meno che alla determinazione oggettiva delle grandezze e
delle tendenze. Un modo al quale non sembrano essersi sempre attenuti
quanti, ancora pochi anni fa, estrapolando nel lungo periodo andamenti
di più breve momento, gettavano allarmi malthusiani sulle nostre popolazioni esortando a comprimere la natalità, per poi passare, di lì a non
molto, a deplorare la gravità dello slittare della distribuzione per età e
dell’accrescersi del peso relativo degli anziani. Una poco men che attenta analisi delle tendenze storiche delle due componenti naturali del ricambio demografico avrebbe suggerito di trarre meno sbadate profezie:
la natalità era da tempo in progressiva diminuzione e la mortalità era
sensibilmente discesa in un breve volger d’anni — donde l’accrescersi della
popolazione — ma la curva era pur sempre destinata ad asintotizzarsi.
Non ci voleva molto a capire ciò che mostrava d’aver capito il capo
tribù bantu di un gustoso aneddoto: interrogato da una spedizione scientifica circa la «mortalità» dei suoi amministrati, avrebbe risposto con
stupefatta malizia: «Ma..., qui da noi, la mortalità è di circa un decesso per persona».
È vero che da tempo l’informazione statistica — come scrive Livi
Bacci — «è rimasta quasi immutata», il che è indubbiamente un ostacolo. Ma una demografia che non sia soltanto notitia rerum publiearum15,
che abbia respiro scientifico, non può andare a rimorchio delle rilevazioni ufficiali. Certo, sono necessarie indagini speciali. Così faceva il Cisp
giniano, così fa l’Ined francese16 (al cui confronto Livi Bacci (1969) giudicava ancor più grave il «relativo regresso degli studi demografici nel
nostro paese »); ma a patto che tali indagini non si risolvano in una semplice «produzione» di dati. Andare oltre la ritualità anagrafica e censuaria significa avvalersi di indagini ad hoc (ad esempio longitudinali,
15 Non che sui censimenti non si possa fare della ricerca scientifica. Ne hanno dato
esempi magistrali Gini e tutta la sua scuola. E proprio dall’osservazione di dati censuari (del
Nuovo Galles del Sud) venne suggerita l’ipotesi di un nesso causale tra la rosolia contratta
dalla donna in gravidanza e malformazioni congenite del neonato.
16 L’Ined è un grande istituto pubblico di ricerca, che s’avvale di matematici, statistici,
demografi, biologi, sociologi e di molti altri apporti scientifici. Ma quale è il posto e quale la
funzione del demografo in tali équipes multidisciplinari?
Demografia e biologia
201
come suggeriva Livi Bacci, 1969) su campioni, in significativo parallelismo con la genetica; ciò che già avviene nelle indagini intese al recupero
di «microstorie». Tale è, ad esempio, la ricostruzione delle famiglie e
quella delle genealogie: diversi per metodi, per contenuti, per finalità, i
due percorsi si integrano tuttavia nella ricerca della trasmissione dei
caratteri attraverso le generazioni; v’è, infatti, una «fitness biologica »
e v’è una sorta di «fitness sociale».
È questione, anzitutto, di finalità conoscitive. Quando si allude a
indagini speciali non necessariamente obbligate alla «rappresentatività
nazionale» (così Livi Bacci) deve essere chiaro che i confini politici e
amministrativi hanno un significato nello studio scientifico delle popolazioni umane in quanto introducano varianti fenomeniche oggettive.
Il contare e il classificare le persone appartenenti a questa o a quella
circoscrizione, operazione quanto mai utile e necessaria al governo della
cosa pubblica, non è di per sé ricerca scientifica. Questa impone alla
demografia di liberarsi dal ruolo di specie parassita delle fonti istituzionali. Altrimenti la si degrada davvero — sono ancora parole di Livi
Bacci (1981) — «a tecnica di indagine di fenomeni che sarebbero meglio
studiati da altre discipline (la sociologia o una delle sue infinite varietà,
per esempio) dislocandola dalla sua naturale posizione centrale nell’ambito dello studio scientifico dei fenomeni sociali».
Se la demografia deve «tornare al centro delle scienze sociali» — è
l’auspicio di Livi Bacci — ciò non può non avvenire attraverso un coerente recupero di un’immagine scientifica. Ritiratasi dal versante «naturale», dove s’è ormai affermata, con coerenza metodologica e fenomenologica, la biologia popolazionistica, essa deve potersi riaffermare,
in quanto scienza, sul versante «sociale». Non per questo giova alla demografia tenersi lontana, nei contenuti e nei metodi, dalla biostatistica;
dai suoi paradigmi, dai suoi strumenti, dal suo linguaggio. Un illustre
genetista dell’Ined, Albert Jacquard (1974), avverte che «la demografia
è una scienza e non una semplice cronaca descrittiva della realtà solo se
va al di là della descrizione degli avvenimenti e cerca di gettare luce sui
meccanismi e sui processi». Uno dei maggiori demografi dell’epoca nostra,
Jean Bourgeois-Pichat (1987), riconosce «l’insoddisfazione di molti ricercatori
di altre discipline nei confronti della ricerca demografica».
L’odierna situazione degli studi demografici in Italia registra, a dire
il vero, un certo risveglio d’interesse verso un approfondimento delle
tendenze delle popolazioni nel senso di una sostanziale interdisciplinarietà. In saggi recenti non mancano argomentate aperture verso una demografia scientifica a largo spettro: una prospettiva che si intravvede,
ad esempio, in Livi Bacci (1987; 1989a; si veda anche 1989b) e, più
202
Italo Scardovi
specificatamente, in certe suggestive ricerche demografiche esplicitamente
o implicitamente rivolte all’orizzonte naturalistico dei fenomeni: così
taluni scritti apparsi su Genus, rivista diretta e ispirata da Nora Federi- ci,
che non ha mai escluso dai propri interessi le componenti naturalistiche
del fenomeno demografico 17; così le rigorose analisi di Colombo (1955;
1957; 1989) sul sex ratio o sulla biometria del ciclo femminile; così i
suggestivi sviluppi logico-formali di Petrioli (1979; 1981; 1985) in tema
di tavole di fertilità, di schemi di eliminazione. I modelli matematici sono
essenziali all’interpretazione dei dati fenomenici, destinati a rimanere
materia «informe» — sono parole di Gini (1934b) — senza «le direttive
di schemi teorici». Come intendere, ad esempio, il distribuirsi asintotico
secondo la «curva normale» di molti caratteri biometrici dovuti al
concorso di molteplici fattori, genetici e ambientali, senza leggerli nella
grammatica del teorema fondamentale della convergenza stocastica?
Scriveva Darwin: «Chi vuoi essere un buon osservatore deve essere un
buon teorico».
6. Demografia e genetica di popolazioni
Demografia e biologia trovano la più immediata intersezione nella
parte in cui la genetica di popolazioni si rivolge alle popolazioni umane:
l’una è attenta agli individui, l’altra ai geni di cui sono portatori. L’intreccio fenomenologico è dunque in re ipsa: non c’è evento osservato in
demografia che non abbia un’origine o una ripercussione biologica.
Attraverso i fenotipi, il ricambio demografico incide sulle frequenze dei
genotipi modificando il pool genico della popolazione; l’affermarsi di un
individuo o di un gruppo, il contribuire attraverso i suoi discendenti alle
generazioni successive è legato ai processi demografici della collettività.
È vero che la genetica non può non passare attraverso gli eventi che
attengono agli individui, mentre la demografia può ignorare, almeno nel
breve periodo, gli effetti di quegli eventi sul genoma della popolazione;
ma non per questo si può dimenticare che storia demografica, storia genetica e storia sociale si intersecano a più livelli; che evoluzione biologica
ed evoluzione sociologica, eredità genetica ed eredità culturale sono al
centro di un comune interesse scientifico, ciò che presuppone una visione
non settoriale dei fenomeni delle popolazioni.
17 In questo senso, sono da ricordare pure le indagini sulla mortalità compiute da allievi dell’insigne studiosa; ad esempio Caselli (1989); Caselli e Vallin (1990); Caselli et al.
(1990).
Demografia e biologia
203
Se il genetista deve fare i conti con le componenti sociali del rinnovarsi di una popolazione, il demografo non può ignorare le determinanti
naturali del divenire delle società umane. Le variabili si intrecciano e,
con esse, i corpi di dottrina. La consistenza e la composizione di una compagine demografica, così come il suo ricambio naturale e sociale, non sono
fenomeni privi di motivazioni biologiche, e ancor meno di effetti evolutivi, nella propria scala temporale, sulla specie: sul rinnovarsi degli assetti
genotipici, sulla variabilità dei caratteri fenotipici. Così, l’eliminazione
differenziale e la migrazione differenziale (ad esempio rispetto al sesso e
all’età) sono importanti tanto per il genetista quanto per l’economista e per
il demografo sociale: possono avere sia motivazioni biogenetiche ed economico-sociali, sia ripercussioni nell’uno e nell’altro verso: un individuo
che esca da una compagine demografica prima di raggiungere l’età riproduttiva non ne impronta il pool genico, né le attività economiche e le strutture sociali. I movimenti migratori hanno riflessi immediati sul mercato
del lavoro, ma ancor più rilevanti, seppur meno immediati, possono essere
gli effetti sulla struttura profonda della popolazione. Il migrante porta con
sé il proprio corredo genetico: modifica, migrando, il genoma della comunità che lascia e può incidere su quello della comunità che trova.
La mobilità delle popolazioni trasforma il volto biologico (con il
cambiare delle distanze genetiche) e il volto sociale (con l’integrarsi dei
comportamenti e delle scelte); la mobilità trasforma inoltre il più immediato profilo demografico di una popolazione: la composizione per sesso ed età, socialmente ed economicamente tanto importante, è prima di
tutto un fattore di idoneità, di fitness: segna il destino di una popolazione
in termini di sopravvivenza e di tempo di estinzione. La stessa dimensione dell’aggregato ha una rilevanza biologica, una rilevanza demografica e una rilevanza sociale. Così pure il grado di isolamento riproduttivo e la fecondità o l’assortimento coniugale: fattori di evoluzione biologica delle popolazioni attraverso il modificarsi delle frequenze alleliche e
genotipiche.
Il genetista che delinea i processi di omogeneizzazione e di differenziamento dei gruppi, seguendo le storie dei geni attraverso gli individui, e indaga su similarità e distanze isonimiche (attraverso l’analisi dei
cognomi, trasmessi di generazione in generazione come messaggi cromosomici) e ricostruisce linee familiari, fa anche della demografia. Il demografo che analizza l’eliminazione differenziale per cause — un tema
che ha raccolto e raccoglie tante attenzioni descrittive — appresta, ne
sia consapevole o no, qualcosa di più di una rassegna socio-sanitaria: vi
affiorano componenti biogenetiche, le quali vengono tanto più allo sco-
204
Italo Scardovi
perto quanto più si attenua la cosiddetta mortalità esogena. Il ridursi
di taluni tassi di mortalità (anzitutto di quella perinatale e infantile) non
è senza effetti sulla fitness di una popolazione: i processi evolutivi e selettivi vi sono, per più aspetti, coinvolti. Altrettanto vale per il ridursi
secolare del tasso di natalità o dell’elevarsi dell’età riproduttiva media:
fenomeni di grande rilevanza sia demografica sia genetica.
In quanto risultante dei vincoli tra gli individui di una popolazione, la
società è l’espressione di complesse e profonde interazioni, anzitutto
bionaturalistiche. In genetica, una popolazione omospecifica è identificata in ragione di un elemento aggregante: il riprodursi degli individui
per ricombinazione di un «fondo genico comune». Nemmeno in demografia si può definire popolazione un qualunque insieme di individui18.
Deve sussistere un nesso non contingente, un elemento strutturale. Eppure, passando dal «naturale» al «sociale», la definizione di popolazione
sembra diventare meno oggettiva e rigorosa: andando dalla fenomenologia
della natura a quella della società si perde spesso in valore nomico, in
unità metodologica, in sistematicità teorica.
Ogni società ha un suo assetto demografico, ogni assetto demografico
ha una sua genesi storico-naturale e storico-sociale. Come una popolazione
naturale — che è il soggetto dell’evoluzione biologica — cambia per il
cambiare delle frequenze statistiche di geni e di genotipi, anche in
ragione dell’idoneità adattativa degli individui e dei gruppi, così nell’evoluzione sociale altri fattori, mirati e non mirati, determinano il divenire delle comunità. Certo, la socialità umana è soprattutto un fatto
culturale, e culturali sono le origini e i riflessi dei comportamenti demografici degli individui; ma per quella parte del comportamento sociale
che ha radici biologiche (l’uomo è pur sempre l’individuo di una specie,
un unicum genetico in un contesto di tante altre unicità genetiche,
reali o virtuali) il raffronto, in re statistica, alle popolazioni naturali può
avere un qualche valore euristico.
E l’etologia ad avvertirci che nelle azioni di un vivente si manifesta
anche l’informazione codificata nell’alfabeto degli acidi nucleici. Nell’uomo — a dir vero — ancor più che negli altri viventi, il dibattito tra
«genetisti» e «ambientalisti», tra chi vede le azioni del singolo tutte dipendenti dal cariotipo individuale e chi le vede determinate soltanto da
condizioni e da scelte estranee a quello, è qualcosa di più di un contrasto tra teorie scientifiche. Ancora una volta le scienze biologiche —
18 E forse non è sufficiente definirla (come si può leggere in una nota apparsa sul n. 3-4, 1979 di
Genus) «un insieme di individui, stabilmente costituito, identificato da caratteristiche che ne
definiscono i limiti e i confini», perché così diventano «popolazione» gli ospiti di una casa di
riposo, i reclusi di un penitenziario e così via.
Demografia e biologia
205
distinguendo tra genotipo e fenotipo — offrono un essenziale schema di
lettura e fanno intendere la sterilità delle posizioni estremiste, quali
sono appunto il «genetismo» radicale e il radicale «ambientalismo».
Ma il primo elemento di connessione tra demografia e genetica è nel
metodo: l’affinità fenomenologica non può non tradursi in affinità metodologica. Nessuna intenzione, è ovvio, di riproporre unificazioni fittizie di stampo positivistico, nessuna pretesa di ridurre l’analisi della variabilità statistica nelle popolazioni a un fisicismo di tipo queteletiano
(tuttavia si deve anche a Quételet e a Comte, come a Malthus e a Stuart
Mill, lo spostarsi dell’interesse conoscitivo dall’individuo agli insiemi di
individui); ma nemmeno rassegnazione di fronte a uno stato di cose che
ha visto una disciplina essenzialmente statistica, la demografia, via via
ritrarsi di fronte al farsi sempre più «statistiche» (e sempre più «demografiche ») delle scienze naturali: un approdo coerente con il paradigma
darwiniano, con gli algoritmi mendeliani, con la moderna biologia delle
popolazioni; un approdo che non può non offrire nuovi indirizzi concettuali alla demografia.
In questo contesto fenomenico e logico, in questo avvicinarsi e confrontarsi, nell’intreccio evoluzionistico di natura e storia, delle ricerche
sull’individuo naturale e sull’individuo sociale, non è forse impossibile
intravvedere la premessa di una futura unità metodologica sul tema dell’uomo, capace di superare certa ostinata incomunicabilità tra gli addetti
ai diversi settori del pensiero. Se la filosofia naturale ispirata al meccanicismo newtoniano-laplaciano e retta da leggi assolute e inderogabili
escludeva dal pensiero scientifico le discipline sociali (le grafi, tuttavia,
nulla lasciavano di intentato per imitare quella gnoseologia), la scienza
uscita dai lacci del determinismo sembra andare metodologicamente incontro alla ricerca sui fenomeni dell’uomo: una scienza di aggregati di
unità discrete, di cui si possono addurre le proprietà statistiche d’insieme, e prevedere induttivamente non i singoli eventi bensì le loro probabili risultanti collettive. Il teorema di Hardy-Weinberg — il principio
teorico che innerva la genetica di popolazioni — ne è la più coerente espressione: una relazione formale tra frequenze statistiche, secondo gli assiomi del calcolo delle probabilità, che fissa le condizioni del formarsi e
dell’alterarsi dell’equilibrio tra i costituenti di una popolazione19.
Abbattute le tradizionali barriere tra scienze della materia e scienze
della vita, il paradigma «statistico» sembra apprestare le basi di un’uni19 Sul significato statistico del teorema si possono vedere Scardovi e Monari (1983); Mo- nari e
Scardovi (1989).
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Italo Scardovi
tà epistemologica di tutte le scienze positive; eppure, le scienze sociali appaiono adesso più incerte, quasi che il tramonto del determinismo classico
ne abbia ridotta l’aspirazione «scientifica», spingendole a una rinuncia in
cui sembra esprimersi il rimpianto di un paradigma perduto. Ma si deve
evitare ogni superficiale schematismo, respingere ogni facile analogia. Quando sorse l’evoluzionismo biologico, l’ottimismo deterministico di certi filosofi ne trasse una visione fatalistica e progressiva del divenire delle società
umane: una visione ora meccanicistica ora finalistica (quando non panglossiana) del mondo e della sua storia, che nulla aveva a che vedere con
l’immagine darwiniana dell’evoluzione come cambiamento: delle frequenze
alleliche e genotipiche, dice il genetista di popolazioni.
E difficile scorgere l’equazione in cui potrebbe essere formalizzato
un eventuale «teorema fondamentale» della dinamica sociale, anche se
pensare a una sorta di legge formale probabilistica del mutevole trascorrere degli elementi sociali attraverso le generazioni, la quale non potrebbe
che esprimersi in termini di rapporti tra grandezze demografiche, è forse
meno stravagante di quanto possa a prima vista apparire. Nemmeno si
debbono trascurare alcuni suggestivi spunti culturali diretti a una visione
integrale di tutti i fenomeni, naturali e sociali, che si trasformano nel
tempo: dalle teorie di Ilya Prigogine sui «sistemi lontani dall’equilibrio»
alle indicazioni di Ervin Laszlo per «una storia sistemica generale
dell’evoluzione che valga tanto per gli atomi e le molecole del cosmo
quanto per gli organismi viventi e le società umane della biosfera». Nel
pensiero evoluzionistico, Prigogine coglie infatti «una nuova possibilità
di comunicazione tra scienze della natura e scienze umane» e identifica
«analogie strutturali tra sviluppo delle popolazioni biologiche e cinetica
chimica e sistemi sociali». Analogie che trovano il loro « oggetto» nelle
popolazioni.
L’assetto statistico e probabilistico della fenomenologia genetica sancisce il definitivo abbandono del determinismo meccanicistico e sembra
far posto alle scienze dell’uomo. Anche nel sociale la realtà è fatta di
insiemi, di pluralità ineguali di casi: in una parola, di variabilità. Una
variabilità che diviene nel tempo. Non è senza significato che il concetto,
essenzialmente biometrico, di deriva genetica abbia ormai suggerito e
coinvolto quello di deriva sociale, in un’immagine dell’evoluzione socioculturale tracciata sulla falsariga dell’evoluzione biologica al punto che
l’insorgere, in quella, di una nuova idea viene intesa — così Feldman e
Cavalli-Sforza (1975) — alla stregua dell’insorgere, in questa, di una mutazione (in proposito si veda anche Bodmer e Cavalli-Sforza, 1977).
L’intersezione tra genetica di popolazioni e demografia scientifica
Demografia e biologia
207
attiene dunque anche ai paradigmi teorici: e sono paradigmi statistico- probabilistici; come la genetica di popolazioni indaga il modificarsi delle
frequenze statistiche dei geni, così la demografia osserva il rinnovarsi e
il distribuirsi dei portatori di quei geni: e sono distribuzioni statistiche.
Se oggi la biologia vede l’evoluzione come cambiamento di frequenze relative,
la selezione naturale come riproduttività differenziale e la deriva genetica come casualità innovativa, è perché ha fatto propri concetti e linguaggi essenzialmente statistici. Sono concetti e linguaggi per i fenomeni calati nella variabilità individuale: una variabilità alle origini della vita, che la vita continuamente rinnova. Perché tale variabilità non dovrebbe
informare anche i concetti e i linguaggi della demografia? Se la genetica
di popolazioni è una scienza essenzialmente statistico- probabilistica,
può non esserlo la demografia in quanto scienza di popolazioni?
7. Un’osservazione critica
Il richiamo a una demografia scientifica, attenta al divenire naturale,
oltre che alla storia sociale, delle popolazioni, non deve essere frainteso.
Ignorare le componenti biologiche è antiscientifico al pari dell’ignorare il
contesto socio-economico, e non ha alcun senso contrapporre la storicità
di questo a una presunta astoricità di quello. La genetica delle
popolazioni, che ha occupato e rinnovato tutto un settore lasciato libero
dalla demografia, è biologia evoluzionistica e, in quanto tale, non
atemporale e non deterministica. Come dimenticare che, dopo Comte,
Laplace, Quételet, è venuto Darwin? Perché voler intendere la conversione «sociologistica» della demografia italiana del dopoguerra come una
sorta di redenzione da un preteso riduzionismo naturalistico positivista, ignaro della storia? L’evoluzione biologica non è storia? Non è forse la storia di un divenire indeterministico, non progettato e non finalizzato, che trova nella probabilità il suo linguaggio e nella statistica la
sua linea di pensiero?
Eppure v’è una certa tendenza a compiacersi, da parte sociologica,
del «riscatto » avvenuto nella ricerca demografica italiana con il chiudersi del cosiddetto periodo naturalistico (ma quella ricerca, si noti, riservava altrettanto spazio e non minore attenzione alle componenti sociali: purtroppo non è più vero il viceversa). Il compiacimento sembra
aver conquistato anche i demografi, sempre più convinti dell’assetto non
naturalistico della loro disciplina. È da chiedersi tuttavia se essi siano
altrettanto convinti della funzione assegnata alla demografia dell’Inter-
208
Italo Scardovi
national Encyclopedia of the Social Science (1968). La voce dedicata alla
demografia recita: «La demografia è, in certo senso, l’ancella (the generai
servant) delle altre scienze sociali. Essa valuta e anzitutto ordina l’ampia
riserva di dati sociali predisposti dai censimenti e dalle anagrafi. E procura materiale grezzo essenziale per lo studio dei cambiamenti economici, politici e sociali».
Dunque, una demografia fedele servente, provvida vivandiera; una
demografia che osserva e non spiega, che raccoglie per gli altri; che si
vorrebbe occupasse, ormai, un piccolo posto, circondato da vasti ambiti disciplinari forse contrassegnati da una grande scritta: «hic sunt
leones», come s’usava nelle antiche cartografie per indicare territori
sconosciuti, aree di ignoranza. Che cosa ne penserebbe A. Guillard,
che, battezzando la disciplina, aveva inteso la demografia come «storia
naturale e sociale della specie umana»? Che cosa ne penserebbero gli
studiosi dell’Ottocento, che tanto avvertivano l’esigenza di dare un
assetto compiuto alla disciplina, temendo — così G. Mayr — che il
vocabolo «demografia» potesse etimologicamente evocare l’immagine
di una disciplina semplicemente descrittiva, più che di una scienza
protesa alla ricerca di leggi?
Del compiacimento, da parte sociologica, della perduta «eredità biologistica» della demografia italiana non dovrebbe troppo rallegrarsi il
demografo, ridotto — così sembrerebbe — a uno stato di sudditanza, con il
compito di dare i numeri, per il presente e per il passato. Ai numeri
del passato attende, si sa (si veda il capitolo di Corsini, «Demografia e
storia », in questa Guida), una demografia «speciale», la demografia storica.
Essa acquisisce e valuta cifre importanti delle vicende dei popoli, numeri
essenziali al tessuto umano di una storia che non sia soltanto storia di
dinastie, di trattati, di annessioni, di eccidi. Ma quale sarebbe il ruolo di
questa demografia? Offrire i dati all’interpretazione altrui, diventare una
sorta di «reparto antiquariato» dell’Istat? È ovvio che la demografia storica
trovi da sé, nella polvere degli archivi, i propri dati; ma anche qui si
deve uscire dall’equivoco: una demografia storica che sia mera
«rilevazione» e faccia dell’acquisizione delle cifre il punto di arrivo (e non
di partenza) dell’analisi storico-statistica dei particolari fenomeni rischia di
non essere né vera scienza storica né vera scienza della popolazione.
Che cosa resta allora alla demografia? Ha scritto Henry (1966): «Al
di fuori dell’osservazione statistica, non restano di proprio alla demografia che le dottrine e le teorie della popolazione». Non è poco, a dire
il vero. Ma le teorie della popolazione presuppongono una visione integrata e razionale delle molteplici componenti e delle rispettive tenden-
Demografia e biologia
209
ze, dei modelli e degli strumenti: richiedono, insomma, una cultura scientifica capace di superare, avvalendosene, le necessarie specializzazioni
disciplinari. «La demografia — ricorda Henry — ha per oggetto lo studio
delle popolazioni umane, sotto il loro profilo quantitativo e statistico»
«Vediamo così la demografia aver necessità: 1. nel momento dell’analisi
interna, delle matematiche; 2. nel momento della spiegazione, della biologia, della medicina, dell’antropologia, dell’etnologia e della sociologia,
dell’economia e del diritto, della storia». Conclude Henry: «Se è impossibile che un demografo sia allo stesso tempo matematico, biologo,
economista, geografo, storico, giurista, medico e sociologo, egli ha interesse tuttavia a ciò che trova in queste materie di conoscenze generali
e di conoscenze particolari».
L’accento è posto, anzitutto, sull’impianto teoretico, l’impianto di
una demografia che non voglia limitarsi alle pratiche enumerative e ritrovi la sua ragion d’essere scientifica nella sintesi dei più diversi apporti culturali — s’intende sintesi metodologica. La bella «demografia matematica» di Keyfitz ne costituisce un aspetto. Per quella via si risale ai
grandi modelli logico-formali di Volterra, di Lotka, di Verhulst, per
tacer d’altri; e si possono riconoscere i tratti della rivoluzione scientifica
che ha dato un nuovo paradigma a tutte le scienze positive.
E il paradigma della genetica di popolazioni: essa trae da una relazione tra probabilità statistiche un fondamentale principio di equilibrio
e ne fa un modello teorico di confronto alle concrete popolazioni avvalendosi di linguaggi e strumenti che sono, insieme, statistici e demografici: quando, ad esempio, misura la fitness di un genotipo, ossia la sua
idoneità adattativa, in ragione dei suoi discendenti fecondi; o quando
intende la deriva genetica come «errore di campionamento»: un errore
casuale tanto più rilevante quanto più è piccolo il gruppo. Ancora modelli e metodi essenzialmente statistici e demografici.
Tra la tentazione di «biologizzare» le scienze sociali e quella di « sociologizzare » le scienze biologiche, la demografia dovrebbe evitare ogni
unilateralità culturale e rendersi sempre più consapevole del suo collocarsi nella lunga zona di confine tra settori del sapere che trovano nella
realtà delle popolazioni una connessione non episodica. Se un tempo erano
di moda le analogie deterministiche tra macchina e organismo e tra organismo e società, oggi il pensiero scientifico offre una nuova intuizione della natura, nella quale scienze un tempo lontane hanno imparato
ormai a riconoscersi.
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Capitolo settimo
Demografia e sociologia
Giovanni B. Sgritta
1. Premessa
A livello elementare, sul piano delle quantità numeriche che descrivono i gruppi umani, tutte le conoscenze della società convergono in
un solo obiettivo fondamentale e la demografia costituisce la base di ogni
sapere sociale. Popolazione e società appaiono a questo livello come equivalenti: entrambe definite come un insieme di individui, stabilmente costituito, legato da vincoli di riproduzione e identificabile da modalità
territoriali, politiche, giuridiche, etniche e religiose.
In effetti, non è da escludere, come ha osservato Lévi-Strauss, che ci
«potrebbero essere proprietà formali dei gruppi in funzione diretta e immediata della cifra assoluta della popolazione, indipendentemente da ogni
altra considerazione». Sicché, in caso affermativo, «bisognerebbe cominciare con il determinare queste proprietà e lasciare loro un posto, prima di
cercare altre interpretazioni» (Lévi-Strauss, 1958, trad. it. 1966, p. 362). E
tuttavia è agevole presumere che i concetti di società e di cultura e la struttura sociale, così come è intesa all’interno delle discipline sociologiche e
antropologiche, non combacino con questo substrato. A misura che consideriamo, accanto agli aspetti formali della popolazione, i processi che
determinano il formarsi, conservarsi, accrescersi ed estinguersi delle popolazioni, emergono divergenze sempre più importanti. Il concetto di
società richiama aspetti e fenomeni che non sono contenuti implicitamente nel concetto di popolazione. Una stessa collezione di individui, purché sia oggettivamente data nel tempo e dislocata su un determinato territorio, dipende per le sue caratteristiche da un insieme
indefinito di altri fenomeni; dà luogo a un «insieme di scarti significativi» (Lévi-Strauss, 1958, trad. it. 1966, p. 329), a un insieme di norme e regole specifiche di quella determinata società e dunque essenziali per comprenderne la natura e il cambiamento. A differenza della
popolazione, intesa come mero aggregato di parti elementari, la società è
definita e delimitata essenzialmente da processi di scambio e comu-
214
Giovanni B. Sgritta
nicazione: scambio e comunicazione delle persone (nella riproduzione),
di beni e servizi (nella sussistenza), di messaggi (nell’integrazione e nella
socializzazione delle nuove generazioni). Di modo che, a ciascuna delle
funzioni essenziali per garantire nel tempo la conservazione della popolazione e il suo adattamento all’ambiente naturale e artificiale si associano diversi tipi di istituzioni, regole e valori, che precisano le soluzioni e le scelte sviluppate e adottate da diverse società, in un determinato
ambiente e in una determinata epoca, per rispondere alle esigenze fondamentali della vita umana e dell’esistenza del gruppo (Malinowsld, 1944,
trad. it. 1962, pp. 68 e segg.). Se dunque dal livello della popolazione
passiamo a quello della società, siamo costretti a tener presente un nuovo elemento, che non appartiene al piano della natura. Siamo dunque
posti di fronte a un’opposizione: quella tra i fatti elementari della natura umana e i simboli che danno ad essi significato e rendono possibile
la comunicazione attraverso il linguaggio. Il che presuppone che tutti
questi fatti attingano il loro senso solo se e in quanto siano riferiti a
una data cultura.
Il concetto di società viene dunque a designare piuttosto le relazioni
tra gli elementi della popolazione e le regole simboliche cui quelle relazioni soggiacciono, che non gli elementi e le loro semplici descrizioni in rapporto ai meccanismi e ai processi che riguardano la formazione e la struttura della popolazione stessa. Specifici della sociologia, in quanto scienza
della società, «non sono gli oggetti suoi, che appaiono tutti anche nelle
altre scienze, ma l’accento che essa conferisce all’oggetto, cioè il rapporto
tra tutti quegli oggetti e le leggi della socializzazione, che appunto la sociologia istituisce» (Horkheimer e Adorno, 1956, trad. it. 1966, p. 51).
Occorre tuttavia ricordare che questo concetto di società giunge a
pieno svolgimento soltanto in epoca relativamente recente, a seguito dello
sviluppo della scienza sociale come disciplina autonoma della società.
Prima che ciò avvenisse, alle origini della formazione del pensiero scientifico, la riflessione sui fatti relativi alla popolazione, alle cause e alle
caratteristiche della sua struttura e della sua trasformazione, attingeva
a un crogiolo comune, utilizzava materiali consimili e muoveva grosso
modo dalle medesime premesse teoriche. Sul terreno materiale demografia, economia, antropologia e sociologia erano perciò inevitabilmente destinate a incontrarsi e a confondersi. Con lo sviluppo successivo
delle scienze sociali, in coincidenza con l’affermazione più moderna della
ricerca sociale e con l’avanzamento dei metodi statistici per il trattamento
dei fenomeni collettivi, gli itinerari delle due discipline prendono a distanziarsi e iniziano a percorrere cammini sostanzialmente distinti. Il
Demografia e sociologia
215
resto è storia recente. La fase terminale alla quale riconduciamo lo stato
attuale delle conoscenze che si comprendono nel corpo della demografia
e della sociologia sembra caratterizzarsi soprattutto per il superamento
delle tradizionali barriere disciplinari, il recupero di un ampio novero
di prospettive diverse e, in definitiva, per un sostanziale riavvicinamento delle rispettive posizioni per quanto concerne sia i contenuti sia
i metodi di indagine utilizzati nell’analisi dei fenomeni sociali.
Nel complesso, la vicenda percorsa dai rapporti tra le due discipline
può essere raffigurata tramite il disegno geometrico di un doppio arco
sovrapposto: con un’origine comune all’inizio, una divaricazione sempre
più accentuata nello stadio intermedio dello sviluppo disciplinare della
demografia e della sociologia e un’approssimazione verso un punto di
convergenza in epoca più recente. Questa rappresentazione risente evidentemente di tutti i limiti della schematizzazione. Un esame accurato
delle stazioni intermedie ci condurrebbe a delineare un quadro più complesso e accidentato, meno lineare e assai più frastagliato e incoerente.
Tuttavia, l’analisi che segue non intende affatto proporsi come una
ricostruzione storica dello sviluppo delle due discipline: impresa, questa,
che richiederebbe uno sforzo ben maggiore e un apparato assai più
complesso di riferimenti alla storia del pensiero demografico e sociologico. Più modestamente, invece, quest’analisi si propone di illustrare in
modo schematico, con particolare riferimento alla situazione italiana,
le principali ragioni che si pongono a fondamento di un rapporto comunque difficile e tuttora aperto a diverse soluzioni.
2. L’origine comune
Le origini della demografia e della sociologia, come peraltro quelle
dell’economia e della statistica, appaiono, sotto molteplici riguardi, sostanzialmente coincidenti. In effetti, i contributi ai quali convenzionalmente si fanno risalire i fondamenti di queste discipline sono caratterizzati dalla medesima preoccupazione conoscitiva che consisteva, da un
lato, nell’esigenza di fornire una descrizione quantitativa dei principali
caratteri della popolazione all’interno di un determinato spazio geopolitico e, dall’altro, in quella di pervenire all’individuazione di alcune regolarità nella distribuzione territoriale e nell’andamento temporale di
quegli stessi caratteri. Il comune intento conoscitivo e documentario al
quale erano orientati questi primi contributi e la semplicità degli strumenti di osservazione e di analisi sui quali essi facevano assegnamento
216
Giovanni B. Sgritta
costituiscono i motivi fondamentali della loro sostanziale omogeneità dal
punto di vista dei contenuti e dei metodi.
Fino a oltre la metà dell’Ottocento, le conoscenze demografiche e sociali relative alla popolazione si innestano in una comune matrice di idee
e di considerazioni. Esse concernono tanto il rapporto dell’uomo con la
natura, quanto i metodi appropriati per l’indagine dei fatti sociali e naturali. Il primo riguarda la forma che caratterizza le scienze umane di
questo periodo e perciò il tipo di razionalità mediante il quale esse cercano
di costituirsi in quanto sapere; il secondo, gli strumenti di cui esse si servono nella descrizione e nell’analisi dei fenomeni osservati.
Quanto al primo aspetto, la posizione condivisa dalla gran parte delle
opere alle quali possiamo far risalire i fondamenti di queste discipline è
in sostanza contraddistinta dal tentativo di ricondurre la conoscenza dei
fatti umani alle leggi generali che governano i fenomeni naturali. L’assimilazione delle scienze sociali alle scienze della natura che, come la fisica,
la chimica e la biologia, hanno ormai raggiunto lo stadio positivo, costituisce l’obiettivo fondamentale e il compito comune di tali opere. La premessa da cui esse muovono si riduce alla considerazione che l’uomo non debba essere trattato diversamente da come si trattano, nel regno delle
scienze naturali, i fenomeni della natura inanimata. Il carattere fondamentale della nuova «scienza naturale della società», così come esso viene
espresso nel Cours de philosophie positive di A. Comte (1830-42), «è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili, la cui precisa individuazione e riduzione al minimo numero possibile è il fine di
ogni nostro sforzo» (Comte, 1864, p. 65).
Nella trattazione datane da Comte, peraltro estensibile a larga parte
del pensiero a lui contemporaneo, la storia umana e l’evoluzione dei fatti
sociali si identificano, in ampia misura, con lo sviluppo delle scienze naturali. La nuova scienza avrebbe dovuto fornire lo schema teorico, l’ordine
astratto, in base al quale i mutamenti più significativi delle società umane devono susseguirsi l’un l’altro in maniera necessaria. Alla base di questo modo di pensare troviamo pertanto il proposito di fornire il sistema
delle idee e delle leggi scientifiche che potrà permettere la comprensione e la riorganizzazione della società; ovvero, nelle parole di Comte,
quello di fornire «la coordinazione razionale della serie fondamentale dei diversi
eventi umani secondo un unico disegno». Ma affinché tale obiettivo possa
essere raggiunto è indispensabile, anzitutto, che l’ordine della natura sia
considerato secondo i suoi aspetti fondamentali. Il che comporta, a giudizio di Comte (1864, p. 4), che si stabilisca in primo luogo «il regime normale
che corrisponde alla vera natura dell’uomo».
Demografia e sociologia
217
L’opera di Malthus, precedente a quella di Comte, riflette in modo
emblematico l’applicazione dei principi fondamentali che informano gli
studi prodotti in questo periodo. Benché priva di una riflessione adeguata sulle basi della conoscenza scientifica e carente sul piano della sistematica, essa anticipa con sorprendente puntualità alcuni dei principali elementi che, in epoca successiva, troveranno posto nel quadro delle scienze positive e nella filosofia positivistica in modo particolare. La preminenza accordata a una considerazione prettamente naturalistica dei fenomeni
della popolazione gioca in essa un ruolo essenziale. Il suo obiettivo fondamentale è «costituito dal tentativo di determinare la legge naturale della
popolazione, ossia il saggio d1 incremento del genere umano quando gli
ostacoli siano i minori possibili» (Malthus, 1830, trad. it. 1977, p. 245).
Il principio di popolazione si comprende così nell’ambito di una visione scopertamente naturalistica delle popolazioni umane, alla quale possono essere contrapposte le leggi, altrettanto naturali, dello sviluppo del mondo vegetale e animale. Sicché, in definitiva, i principali fattori della popolazione — le nascite, le morti e il suo incremento naturale — sono sostanzialmente assunti come elementi biologicamente e perciò naturalmente dati,
ossia esogeni tanto al sistema economico quanto a quello sociale.
L’applicazione del metodo positivo allo studio dei fatti sociali si proponeva allora di realizzare l’unicità di metodo per tutte le scienze di osservazione. A questo obiettivo si associa il secondo carattere al quale
possiamo ricondurre l’impostazione comune alla demografia e alla sociologia in questa prima fase del loro sviluppo; ossia, quello dei metodi
a cui deve ricorrere, secondo gli autori classici, la descrizione e l’analisi
scientifica dei fenomeni sociali. La volontà di fondare una conoscenza
«spoglia di ogni altra ambizione intellettuale che non sia la scoperta delle
vere leggi naturali» comporta come conseguenza la necessità «di subordinare le conoscenze scientifiche ai fatti di cui esse devono unicamente
manifestare la connessione reale» (Comte, 1864, p. 294). Il che implica, da un lato, la rinuncia «a ogni vana e inaccessibile ricerca delle cause, sia primarie sia finali, per limitarsi allo studio delle relazioni invariabili che costituiscono le leggi effettive di tutti gli eventi osservabili» (Comte, 1864, p. 599); dall’altro, quale «indispensabile complemento della
logica positiva» (p. 671), l’introduzione del principio fondamentale secondo il quale l’oggetto delle scienze della natura, così come di quelle
della società, debba essere non già l’individuo o il singolo aggregato bensì
la popolazione nel suo insieme.
Come nella biologia (l’analogia è in questo caso tutt’altro che occasionale), «anche qui [nella sociologia] l’insieme è certamente molto me-
218
Giovanni B. Sgritta
glio conosciuto e più immediatamente accessibile» (Comte, 1864, p. 258)
che non le singole parti. In effetti, sia il presupposto secondo il quale
l’indagine dei fenomeni naturali debba limitarsi agli aspetti quantitativi
della loro manifestazione, sia l’assunto che i fenomeni di massa siano
accessibili all’indagine delle scienze positive, costituiscono i cardini sui
quali poggia tutta la costruzione scientifica dell’epoca alla quale si riferisce questo primo stadio della formazione della scienza demografica e
della sociologia. «Nel mondo delle cose inanimate, questo atteggiamento porta alla nascita della meccanica statistica; nel mondo degli esseri
viventi, è la condizione necessaria per l’avvento della teoria dell’evoluzione» (Jacob, 1971, p. 207). Darwin, ad esempio, esprime una concezione
chiaramente statistica della popolazione. I fenomeni naturali sono
assunti nelle sue opere unicamente nella forma di fenomeni di massa;
comunque, la speranza di poter pervenire all’individuazione di determinate regolarità nello studio dei fenomeni biologici e sociali è fondata esclusivamente sull’applicazione della legge dei grandi numeri. Secondo tale impostazione, l’analisi statistica e il calcolo delle probabilità
forniscono le regole basilari della stessa logica dell’universo e della natura.
Queste regole, insomma, opererebbero nel modo più rigoroso solo
quando il numero degli individui considerati è assai elevato. Nell’indagine dei fenomeni legati al mondo naturale e a quello sociale, pertanto, questa procedura è destinata a rilevarsi come particolarmente efficace. «Anziché ricercare le cause di avvenimenti isolati, si osserva un gran numero
di eventi appartenenti alla medesima classe, si operano scelte, si mettono insieme i risultati e se ne calcola la media per mezzo di regole empiriche: diventa possibile, allora, prevedere gli eventi futuri» (Jacob, 1971, p.
238). Se si assumono come oggetto di studio i grandi numeri non è perché le singole unità si sottraggano alla conoscenza, ma piuttosto perché il
comportamento delle unità elementari e isolate non presenta per il ricercatore alcun interesse scientifico. «Di fatto — ha osservato Jacob (1971, p.
239) — una delle caratteristiche del metodo statistico consiste proprio
nell’ignorare deliberatamente e sistematicamente il caso particolare. Poco
importa ottenere tutte le informazioni possibili su un singolo avvenimento
e poter descrivere minuziosamente ogni circostanza; non è questo il fine
dell’analisi statistica, bensì quello di elaborare una legge che superi i casi
individuali». La sorprendente regolarità con la quale si presentano all’osservazione scientifica tutti i fenomeni naturali starebbe dunque a significare che essi sono da ricondurre a un unico meccanismo comune.
In effetti, a questa stessa logica si uniformano pressoché tutte le conoscenze che, dalla metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento e ol-
Demografia e sociologia
219
tre, nei campi più diversi dell’astronomia, della biologia, della geografia,
della demografia, della sociologia e dell’economia, si prefiggono di fornire
un’interpretazione scientifica e una descrizione sistematica delle leggi
che governano i fatti naturali e sociali. Il loro denominatore comune, dal
punto di vista metodologico, sta nel fatto che esse non si propongono più
l’obiettivo di raggiungere una spiegazione causale della realtà, quanto piuttosto di
darne una descrizione. Non cercano il perché, ma il come degli eventi. Non si
occupano delle strutture relazionali tra i singoli elementi, ma delle frequenze
con le quali nella realtà fisica e sociale ricorrono talune regolarità, che per il
loro carattere di stabilità sono riconducibili a leggi.
3. Popolazione e società: le basi della scienza demografica e la nascita della
sociologia
L’orientamento positivistico che informa i diversi contributi scientifici prodotti nella seconda metà del secolo XIX riposa su una duplice
esigenza: da un lato, ricondurre i fatti reali a un ristretto numero di leggi
naturali; dall’altro, impiegare un metodo di lavoro che permetta di
raggiungere tale risultato mediante l’osservazione sistematica di un numero elevato di casi. L’appiattimento delle scienze dell’uomo e della società sulle leggi che governano i fenomeni biologici e naturali rappresenta la conseguenza più eclatante di quest’impostazione. Per tutto il
secolo XIX e per la prima parte del successivo, demografia e sociologia
condividono appieno quest’impostazione. La popolazione è intesa come un’unità organica formata e dominata da forze naturali e regolata
nel suo sviluppo da leggi invarianti. La teoria della società, d’altro canto, si appoggia anch’essa alle leggi che governano la vita degli organismi
animali, come testimonia la diffusione di quadri di pensiero organizzati
sulla base di sterili analogie di tipo organicistico.
L’occasione di questa riflessione è troppo specifica per consentirci
di seguire in dettaglio la successiva evoluzione delle conoscenze. La divaricazione degli studi sociologici dalla demografia può nondimeno, a
grandi linee, essere ricondotta alla diversa influenza che sulle due discipline ebbe lo sviluppo di quella concezione storico-filosofica che derivava
dalla revisione critica tanto della scuola positivistica francese quanto
dell’idealismo tedesco. Così come si era venuta configurando nel quadro
del cosiddetto storicismo tedesco contemporaneo, questa nuova impostazione della conoscenza era destinata a produrre «un rinnovamento
profondo delle prospettive metodologiche delle discipline storico-sociali,
220
Giovanni B. Sgritta
fornendo ad esse strumenti di comprensione storiografica e di indagine
sociale che sono diventati un patrimonio permanente della cultura del
Novecento» (Rossi, 1971, p. XXIV).
L’influenza dello storicismo sulle scienze storico-sociali può essere equiparata, quanto a diffusione e profondità, a quella che il positivismo esercitò, nel periodo appena precedente, sulla concezione idealistico- romantica. Come il positivismo favorì l’assimilazione da parte delle scienze naturali e sociali di quegli strumenti di osservazione e analisi che consentivano di procedere in modo più aderente all’effettiva realtà dei fatti, così
lo storicismo contribuì a introdurre un’opportuna correzione nella tendenza,
allora prevalente negli studi di impostazione positivistica, ad assimilare l’analisi dei fatti sociali a quella dei fenomeni naturali. La posizione di aperta
polemica assunta dallo storicismo nei confronti dell’approccio positivistico
si appuntava, in effetti, proprio sulla visione ricluzionistica che questa scuola di pensiero adottava nei confronti dei fenomeni sociali e, di conseguenza, anche sulla riduzione metodologica delle discipline storico-sociali al
modello delle scienze naturali. In definitiva, il contributo fornito da
questa filosofia allo sviluppo delle discipline storico-sociali può essere
colto precisamente nel tentativo, in gran parte coronato da successo, di
stabilire la fisionomia specifica delle scienze sociali differenziandole dalle
scienze naturali; ovvero, nel tentativo di definire il valore costitutivo dei
rapporti sociali per l’esistenza storica dell’uomo e della società. Come?
«Interpretando lo sviluppo storico... come il processo di trasformazione
dei rapporti degli uomini con la natura e delle relazioni reciproche tra gli
uomini» (Rossi, 1971, p. XVII). L’affermazione susseguente del pensiero
sociologico — avviata dalla revisione critica della filosofia hegeliana e della concezione utilitaristica compiuta dapprima da Marx e poi proseguita,
non senza distinzioni di accento e di metodo, da Durkheim e da Weber
— rappresenta l’espressione più matura e compiuta del cammino iniziato
nell’ambito dello storicismo tedesco.
Esula dagli intenti di questo capitolo l’esame analitico dei contenuti
che, a seguito di questa revisione dei fondamenti della conoscenza sociale, sono poi confluiti nell’architettura elementare del pensiero sociologico a partire dai primi anni del Novecento. In breve, tuttavia, il contributo fornito dalla riflessione sociologica all’indagine dei fenomeni
sociali si riassume nell’introduzione del concetto di cultura. Le teorie
positivistiche hanno certamente percorso itinerari diversi all’interno delle
discipline che tradizionalmente si sono divise l’interpretazione delle vicende umane. Ma esse sono immancabilmente pervenute al medesimo
risultato, cioè all’estromissione, dal quadro teorico di riferimento, della
Demografia e sociologia
221
cultura intesa come qualità costitutiva dell’uomo, come oggetto di studio specifico delle scienze umane e sociali. Ovviamente, non si può sostenere che la filosofia del positivismo escludesse totalmente il concetto
di cultura dalle proprie considerazioni. Il fatto è però che, in quest’ottica, la natura veniva concepita come la (principale) modalità di adattamento dell’uomo all’ambiente, come strumento tendente a mantenere
la popolazione umana all’interno dei limiti della sua capacità di riprodursi.
L’artificio mediante il quale, in questo sistema di pensiero, la cultura veniva estromessa dal quadro teorico di riferimento consisteva, come
ha giustamente osservato Sahlins (1982, p. 101), «nel suo assorbimento, in un modo o nell’altro, nella natura ». L’anello mancante in questa
spiegazione dei fatti sociali è difatti costituito dal carattere simbolico
dei fenomeni sociali; sicché l’intento della sociologia e delle altre scienze dell’uomo sarà proprio quello di dimostrare come la cultura sovrapponga sempre un ordine simbolico — dotato di significato — alla natura
e come essa assimili le parti di questa che hanno rilevanza per la condizione umana. La definizione del contenuto del sociale costituisce pertanto l’elemento specifico e al tempo stesso differenziale delle scienze
dell’uomo rispetto alle scienze della natura.
La spiegazione fornita dal positivismo di determinate pratiche sociali
e culturali come conseguenze necessarie di qualche circostanza materiale
o di specifiche esigenze di adattamento dell’uomo rispetto all’ambiente
naturale appare con ciò superata da una posizione più complessa e articolata, secondo la quale il rapporto natura/cultura si ribalta a tutto vantaggio delle qualità simboliche dell’ordine culturale. «La natura degli
effetti — questa in sostanza la tesi sostenuta — non può essere derivata
dalla natura delle forze, poiché gli effetti materiali dipendono dalla loro
delimitazione culturale» (Sahlins, 1982, p. 203). In chiaro: i fenomeni
di ordine superiore adattano i fenomeni di ordine inferiore ai loro scopi, anche se non possono cambiare le loro proprietà. Così, i fenomeni
tipici dell’analisi demografica come ad esempio la nascita, la morte, il
matrimonio, gli spostamenti della popolazione, risulterebbero in questo
modo ricompresi in un’intelaiatura simbolica che attribuisce loro un significato che va al di là della loro funzione naturale; di modo che l’analisi di questi fenomeni da parte della scienza sociale non può arrestarsi
alla descrizione delle loro quantità numeriche o del loro andamento, assunti in un determinato momento come dati. Ma dovrà, oltre a ciò, considerare le strutture di significato alle quali tali quantità e tali dinamiche
sono irriducibilmente associate nella realtà concreta della vita sociale.
Tale questione trova illuminanti chiarimenti già nell’opera di Marx.
La condizione naturale e materiale delle società umane, così come essa
222
Giovanni B. Sgritta
si riflette nei principali parametri numerici della popolazione, non costituisce, a giudizio di Marx (1859, trad. it. 1966, p. 713), che apparenza:
«L’apparenza estetica — come egli scrive — delle piccole e grandi robinsonate». Vale difatti anche per la popolazione ciò che Marx riflette
sul concetto di produzione. La questione centrale è, anche a tale proposito, da ricondurre «al modo in cui le condizioni storiche generali incidono sulla popolazione e al rapporto che essa ha con il movimento storico in genere» (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 727). In altre parole, ogni
fenomeno relativo alla popolazione è sempre al tempo stesso un fenomeno sociale e l’esistenza di un particolare tipo di popolazione o di
determinate sue caratteristiche presuppone sempre un altrettanto determinato tipo di società. Soltanto in apparenza, dunque, nello studio
della società possiamo cominciare con la popolazione. «A un più attento esame, ciò si rivela falso» o comunque inappropriato alla comprensione della realtà sociale (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 730). «La
popolazione è un’astrazione — prosegue Marx — se tralascio ad esempio
le classi di cui essa è composta. A loro volta, queste classi sono una parola priva di senso, se non conosco gli elementi su cui esse si fondano».
Partendo quindi dalla popolazione saremmo condotti a fornire una rappresentazione astratta della società che non ci consentirebbe di comprendere
la specificità storica degli accadimenti e dei fenomeni che in essa si
esprimono. Giunti a questo punto, invece, ci troviamo nella condizione
adatta per intraprendere «il viaggio all’indietro, per arrivare nuovamente
alla popolazione: ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì a una totalità ricca, fatta di molte
determinazioni e relazioni» (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 731).
In base a questo modo di procedere, che Marx definisce come il metodo scientificamente corretto, «il concreto è concreto perché è sintesi di
molte determinazioni, quindi, unità del molteplice». Sicché, «se per la
prima via, la rappresentazione piena della realtà viene volatilizzata ad
astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto» (Marx, 1859, trad. it. 1966).
Così è per la popolazione, così per la famiglia, il matrimonio, la riproduzione e quant’altro si comprenda nello studio scientifico della popolazione. In generale, la più elementare delle proprietà della popolazione
presuppone, secondo questa visione delle cose, una specifica determinazione sociale: una pluralità di regole e norme sociali, determinati valori,
determinati tipi di famiglia, un definito sistema di relazioni sociali, un
dato insieme di orientamenti culturali. Ancora, l’esame analitico della
natalità, della nuzialità, della mortalità, dei movimenti e della struttura
delle popolazioni, laddove esso fosse improntato al presupposto astrat-
Demografia e sociologia
223
to della loro naturalità, resterebbe irrimediabilmente privo della capacità di fornire una rappresentazione adeguata della realtà sociale in cui
hanno luogo. A questo esame resterebbe per sempre preclusa, altrimenti, la facoltà di comprendere tali fenomeni nella loro specificità, nella
loro variabilità relazionale con altri non meno rilevanti, ma anzi essenziali, aspetti della vita sociale.
L’insieme di queste considerazioni, peraltro destinate a essere ulteriormente sviluppate nella riflessione sociologica e antropologica seguente anche
indipendentemente dall’ottica marxiana, ha sortito risultati diversi nelle
discipline dell’uomo che derivavano dalla medesima matrice epistemologica; meno sulla demografia, più sulle restanti scienze sociali. La natura
ambivalente della demografia, collocata in termini equidistanti tra i fondamenti biologici dei fenomeni vitali delle popolazioni e le loro determinazioni sociali, è indubbiamente uno dei motivi a cui possiamo ricondurre l’effetto relativamente debole che sulla sua evoluzione hanno avuto
le conoscenze elaborate nell’ambito della riflessione sociologica. Ma, indipendentemente dalle ragioni che possono aver prodotto questo risultato, è
indubbio che sino a un’epoca relativamente recente, collocabile grosso
modo alla metà del secolo XX, l’influenza che sulla demografia hanno esercitato le teorie naturalistiche sia stata assai più consistente di quella
della sociologia e delle scienze sociali in genere. Entro certi limiti, sarebbe finanche lecito sostenere che per un lungo tratto di tempo la demografia ha opposto più di una resistenza alla permeabilità delle conoscenze sociali nel suo consolidato assetto di contenuti e metodi di indagine. La rassegna accurata di quelle opere che si sono proposte di riflettere sui fondamenti istituzionali della disciplina giustificherebbe di
certo tale affermazione. Le stesse sistemazioni scientifiche della materia,
prodotte a opera di quegli autori che pur hanno manifestato una sensibilità
non comune per le problematiche sociali, consentono di evidenziare la presenza prevalente e, in definitiva, determinante di un orientamento prettamente biologico e naturalistico.
A questo indirizzo possono ad esempio essere ricondotte — invero
con qualche forzatura, che non rende pienamente ragione del carattere
complesso del pensiero degli autori che ci apprestiamo a considerare —
le opere di tre fra i maggiori demografi del Novecento: Rodolfo Benini,
Corrado Gini e Livio Livi.
Negli scritti del primo, che — occorre riconoscere — non manca di
ampi riferimenti ad alcuni temi importanti dell’analisi sociologica di quel
periodo, la popolazione è intesa principalmente come un’unità organica
formata e dominata da naturali e intime forze di coesione e regolata
nel suo sviluppo da leggi affatto specifiche. Mentre laddove l’autore
224
Giovanni B. Sgritta
affaccia la tesi che le popolazioni soggiacciono all’influenza congiunta
di un duplice ordine di cause, orientate ad accrescerne la dissomiglianza
o all’opposto a moltiplicarne la coesione interna, anche in tal caso risultano in definitiva manifeste le premesse bio-organiche su cui riposa l’intero discorso (Benini, 1901).
Analoghe considerazioni possono essere affacciate con riferimento
all’opera, peraltro assai più complessa e articolata di quanto qui si possa
dar ragione, di Corrado Gini. E nota, difatti, l’influenza che la scuola
organicistica esercitò sulla sua concezione della popolazione e della società. E benché la teoria neo-organicistica sviluppata da Gini si differenzi in più punti dall’ingenuo organicismo che si limitava a tradurre,
servendosi di analogie meramente descrittive (Castellano, 1974), i risultati degli studi anatomo-fisiologici del corpo umano, nel suo pensiero
è comunque evidente l’importanza attribuita alle premesse biologiche
nello studio della popolazione e della società. Emblematica, a tale proposito, è la spiegazione che egli dà del declino della fecondità; come è
noto, Gini lo riconduceva a un fenomeno affatto naturale e incontrastabile di «senescenza o deperimento biologico» delle popolazioni, riecheggiando da presso, almeno per taluni aspetti, la teoria paretiana della circolazione delle élite (Gini, 1930; 1931).
A complemento di questo breve e insufficiente quanto affrettato esame
dei contributi forniti dalla demografia italiana alla costruzione delle basi
della disciplina, una più ponderata attenzione merita l’analisi della
produzione scientifica di Livio Livi. Nella sua esposizione più sistematica dei fondamenti della demografia, difatti, Livi ribadisce in più luoghi
i collegamenti che lo studio della popolazione intrattiene con le altre
discipline sociali. «Anche la demografia — egli scrive — considera infatti la
popolazione non come amorfa accolta di viventi, ma come massa ordinata e
quindi capace di dar vita a organizzazioni sociali». Cosicché, in
quest’esigenza di comprendere l’organizzazione della società nelle sue
diverse manifestazioni, il contatto con la sociologia generale «è talmente
forte che i confini tra le due scienze sono i più incerti» (Livi, 1940, II,
p. 3). Tra esse, osserva ancora Livi, «corrono rapporti non soltanto
collaterali, ma anche verticali», dal momento che «la popolazione inquadrata dalle sue leggi naturali è una massa dominata da vincoli di socialità, ed è quindi vero che la demografia che studia queste leggi è una
piattaforma della sociologia» (Livi, 1940, II, p. 4).
Nondimeno, accanto a riflessioni tanto lungimiranti sui rapporti tra
scienza della popolazione e scienza della società, permangono in nuce
ampi legami con le concezioni esaminate in precedenza. In altre pagine
della sua opera principale si sostiene che la sistemazione dei fenomeni
Demografia e sociologia
225
demografici non possa non essere fondata su una «concezione naturalistica delle cause fondamentali e primarie dell’organizzazione sociale» (Livi,
1940, II, p. 15). Sicché, in definitiva, Livi dimostra di avere della popolazione una visione sostanzialmente naturalistica, secondo la quale «le linee
essenziali della società umana sono dunque tracciate dalle stesse caratteristiche bio-organiche della specie, e più lo è la conformazione della popolazione su cui si basa la società stessa» (Livi, 1940, II, pp. 18-19). La
distinzione dei sessi, la prolificità, la crescita, la mortalità e la variabilità dei caratteri fisico-psichici sono tutti fenomeni che dipendono, a giudizio del demografo italiano, da «intime leggi biologiche» e la cui distribuzione si esprime normalmente in una determinata forma naturale. Per cui,
lo scopo della demografia è individuato da Livi proprio nella ricerca di
quelle «leggi naturali dei caratteri demografici che sono come il riflesso
delle caratteristiche biologiche della specie» (Livi, 1940, II, p. 20).
Ma se Atene piange, Sparta non ride: se cioè, con il senno di poi, ci
sembra evidente che la demografia non può non annoverarsi tra le
condizioni che strutturano la vita sociale, la medesima osservazione vale a
riguardo della sociologia. Se la demografia è nella società, la società è a
sua volta nella demografia; nel senso che ne dipende intimamente, nel
senso che una qualsiasi analisi esaustiva del sociale non può sfuggire
all’esame accurato delle componenti della sua popolazione, pena l’incomprensione dei suoi caratteri e dei suoi processi di Stasi o di cambio fondamentali. «La sociologia — ha osservato icasticamente Lévi-Strauss —
era apparsa come il prodotto di una razzia: compiuta frettolosamente a
spese della storia, della psicologia, della linguistica, della scienza economica, del diritto e dell’etnologia. Ai frutti di questo saccheggio, la
sociologia si accontentava di aggiungere le sue ricette: qualunque problema le si ponesse, si poteva essere certi di ricevere una soluzione sociologica prefabbricata» (Lévi-Strauss, 1967, pp. 53-54). La forse affrettata
formazione del pensiero sociologico, congiunta all’esigenza di prendere le
distanze dal sistema filosofico positivistico (insieme naturalista e
utilitaristico), da cui aveva pur ricevuto i natali, avevano indubbiamente
concorso allo sviluppo di un atteggiamento di incomprensibile sufficienza, da parte del sociologo, nei confronti dei fatti biodemografici.
Comunque stiano le cose, l’estraniazione da tanta parte dell’analisi sociologica contemporanea di un’attenta considerazione dei processi demografici di riproduzione e di movimento delle popolazioni rappresenta
il costo pagato dalla sociologia nel tentativo di sottrarsi all’influenza, un
tempo preponderante, di orientamenti e quadri di riferimento organicistici che, in forma analogica o sostanziale, hanno dominato la scena
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Giovanni B. Sgritta
degli studi sociali sino ai primi decenni di questo secolo. La consapevolezza di questa carenza da parte di non pochi dei maggiori esponenti
della sociologia non è bastata a evitare che si scavasse un solco profondo, non agevolmente valicabile, tra le prospettive metodologiche e i contenuti delle due discipline. Ma, soprattutto, non è bastata a impedire
che la formazione del sociologo e quella del demografo procedessero su
itinerari distinti, tra loro scarsamente comunicanti e perciò con una perdita in termini di apprendimento che indubbiamente deve essere annoverata tra i motivi fondamentali del progressivo declino professionale
della figura del sociologo e della scarsa duttilità di quella del demografo.
4. Demografia e sociologia: contenuti e metodi negli studi italiani del secondo
dopoguerra
Almeno sino alla fine del secondo conflitto mondiale, l’immagine della
divaricazione tra le due discipline può essere assunta come una rappresentazione corretta dello stato dell’arte. E non occorre aggiungere che,
anche in questo caso, un esame più accurato dei contributi scientifici
prodotti in questo arco di tempo ci porterebbe a delineare una divisione
meno profonda tra la demografia e la sociologia. Se dunque ci risolviamo a ribadire il giudizio precedente è per la semplice ragione che, tutto
considerato, esso si addice assai meglio all’obiettivo di fornire una descrizione generale dei loro rapporti. C’era, è vero, chi verso la metà del
terzo decennio del secolo si adoperava per ricondurre la demografia sub
specie sociologica (Coletti, 1926); o chi, come Gini (1952), non molti anni
dopo, si sforzava di evidenziare i legami organici tra le due discipline.
Ma si trattava, dopo tutto, di voci alquanto isolate nel panorama
scientifico italiano: come basta a dimostrare una rassegna anche fugace
delle raccolte bibliografiche relative agli studi e alle ricerche prodotti
nell’immediato dopoguerra (Barbano e Viterbi, 1959; Golini, 1966).
Il fatto è che la situazione italiana presentava da questo punto di vista più
di una particolarità rispetto al contesto internazionale (Livi Bacci, 1969, p.
165). In sostanza, a differenza di altri paesi, essa si caratterizzava per una più
stretta aderenza degli studi demografici alle scienze biostatistiche, anziché alle scienze sociali. Come avverte Barbano, «nel corso degli anni ‘20 e ‘30 ... vi
era stato in Europa un notevole calo di interessi sociologici, cui non furono
estranee le vicende e il clima politico; ma in nessuno dei paesi europei l’interruzione fu così lunga e profonda come nel nostro, ove un limitatissimo discorso sociologico rimase possibile solo nell’ambito di talune scienze sociali
tradizionali, quali la demografia, la statistica, ecc.» (Barbano, 1970, p. XXXIII).
Demografia e sociologia
227
Le ragioni? Le stesse che convenzionalmente si avanzano per spiegare
il ritardo nello sviluppo della sociologia nel nostro paese: cioè la mancanza
di una tradizione positiva critica, capace di stimolare la crescita e lo sviluppo della scienza sociale, « spostandone subito le premesse filosofiche dai
problemi eterni della conoscenza a quelli più moderni del metodo» (Garbano, 1970, p. xm); ovvero il predominio di una filosofia idealista che almeno sino alla fine del secondo conflitto mondiale avversò profondamente la stessa possibilità di esistenza di una scienza sociale, contribuendo così
a restringere l’applicazione del metodo scientifico al solo ambito delle scienze cosiddette esatte. Il che spiega, a un tempo, sia perché il terreno di coltura elettivo delle scienze sociali fosse in Italia costituito essenzialmente
dalla statistica, dall’economia e dalla demografia, sia perché la sociologia si
sviluppò con tanto ritardo rispetto ad altri paesi. Laddove l’empirismo in
Inghilterra, lo storicismo in Germania e il pragmatismo negli Stati Uniti
svolsero un ruolo maieutico nei confronti della nascita della sociologia, favorendo l’estensione delle metodologie delle scienze di osservazione anche al
campo delle scienze umane; in Italia tale compito fu affidato, da un lato,
alle forze endogene della crescita economico-industriale del dopoguerra e,
dall’altro, a quel complesso di fattori esogeni che si riassumono nella sudditanza culturale del nostro paese dalla sociologia americana a partire dagli
anni cinquanta (Balbo, Chiaretti e Massironi, 1975).
Così, per questo insieme di ragioni, le vicende della sociologia si legano nel nostro paese, per lungo tempo, a quelle della metodologia e dell’informazione statistica più in generale; nel senso che esse vengono a
dipendere, insieme, dalla produzione di adeguate informazioni sulla realtà sociale e dall’atteggiamento che la comunità scientifica manteneva nei
riguardi della ricerca sociale empirica. Per quanto qui ci preme di rilevare, e limitatamente al periodo di tempo compreso tra il secondo dopoguerra e oggi, possono pertanto individuarsi tre fasi distinte di questo
rapporto. Nella prima, collocabile grosso modo nel periodo della ricostruzione degli anni cinquanta, la sociologia si muove in controtendenza
rispetto agli studi statistico-demografici: complici, da un lato, l’insufficienza della documentazione statistica di parte sociale rispetto alla
meglio corredata informazione economica e demografica, nonché una
non meno esiziale insufficienza della cultura del dato statistico tra la
comunità dei ricercatori sociali; e, dall’altro, gli interessi tematici sui
quali si orientava giocoforza il lavoro di ricerca dal momento che, per
ragioni tutt’altro che contingenti, si privilegiavano quali temi di indagine
vuoi lo studio di comunità arretrate, localizzate soprattutto nel Mezzogiorno, vuoi l’impatto dello sviluppo industriale sul territorio, dove la
228
Giovanni B. Sgritta
presenza della grande impresa esercitava più marcate influenze sulla trasformazione dei modi di vita tradizionali delle popolazioni. Sicché, in
entrambi i casi (sia per la mancanza di informazioni aggregate sulla realtà sociale del paese, sia per le esigenze dettate dalla situazione economicopolitica), veniva ampiamente favorita l’adozione di un’impostazione del
lavoro di ricerca di tipo self-contained, ossia autosufficiente dal punto
di vista della metodologia e dell’apparato informativo impiegato nell’indagine sociale.
Anche in questo caso è sufficiente scorrere le rassegne bibliografiche per rendersi conto della pertinenza di questo rilievo. Su 1624 voci
listate nella Bibliografia curata da Barbano e Viterbi per il periodo
1948-58, ad esempio, circa un terzo riguarda studi e ricerche di sociologia economica, industriale, rurale e urbana o sulle interdipendenze tra
città e campagna, mentre soltanto uno sparuto 16 % si riferisce ai metodi e alle tecniche di ricerca, alla metodologia sociologica e ai rapporti
tra la sociologia e le altre scienze sociali; con l’avvertenza che molti degli autori citati non sono assimilabili alla figura del sociologo in senso
stretto, ma appartengono piuttosto ad ambiti disciplinari diversi quali
la scienza politica, il diritto, la filosofia, la storia, la statistica, la demografia e l’economia (Barbano e Viterbi, 1959).
Per qualche tempo non si avvertono sostanziali cambiamenti di scena. In seguito è ancora l’evoluzione dei temi economici, politici e
sociali a sollecitare un mutamento di rotta degli studi sociali. Tra la metà
degli anni sessanta e la fine del decennio successivo, via l’estensione dei
primi grandi programmi di riforma, il ricercatore sociale venne in effetti
sollecitato a porsi come interlocutore credibile e dunque preparato di
fronte alle nuove domande che provenivano dai decisori politici e dalla
stessa società civile. In questo mutato panorama istituzionale prendono
forma, lentamente e invero timidamente, nuovi, inusitati interessi da
parte del sociologo nei riguardi dell’informazione statistica aggregata,
con riferimento a una pluralità di aspetti e fenomeni della vita sociale;
e si dipana, al tempo stesso, una sempre più consistente attività di ricerca empirica, connessa in parte ai temi tradizionali dell’analisi sociale,
in parte a nuovi campi di indagine, quali il mercato del lavoro, la famiglia, la condizione femminile, i giovani, le politiche sociali, le comunicazioni di massa. Di nuovo, è agevole verificare, scorrendo la produzione scientifica dell’epoca, come temi assenti fino a qualche anno prima
facciano in questo periodo la loro apparizione tra gli studi e le ricerche
empiriche in campo sociale. Loro caratteristica comune è il ricorso pressoché generalizzato alle tecniche di survey (mutuate dalla sociologia statunitense, allora imperante soprattutto all’interno dell’accademia) e l’assai
Demografia e sociologia
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limitato impiego di dati strutturali o macrosociali provenienti da fonti
statistiche ufficiali.
Nel panorama generale non si avvertivano ancora i segni di un mutamento di atteggiamento del ricercatore sociale nei confronti dell’informazione e del metodo statistico: il solo terreno, come si è detto, sul quale
avrebbe potuto compiersi l’incontro tra la sociologia e la demografia.
O, se c’erano, questi segni apparivano alquanto fievoli. La tendenza allora dominante pareva piuttosto procedere nel senso di un progressivo
accentuarsi del divario tra le due discipline, anziché in quello della sua
attenuazione. Lo sviluppo di una sempre più complessa metodologia negli
studi demografici della natalità, della mortalità e dei fenomeni migratori,
da una parte; l’estensione di quadri analitici contraddistinti dalla presenza di
complesse architetture concettuali, ove gli aspetti teorici astratti
giocavano un ruolo affatto predominante a tutto discapito delle
componenti empiriche e strutturali, dall’altra: entrambe queste tendenze degli studi demografici e sociologici, rispettivamente, rendevano l’evento del loro possibile ricongiungimento sempre più aleatorio e remoto.
Solo in prosieguo di tempo, più o meno all’inizio degli anni settanta,
si verificano finalmente condizioni più favorevoli per l’organica integrazione delle due discipline. Solo in questi anni, come vedremo, la demografia pare aprirsi a riflessioni più ampie sui fattori economici, sociali
e culturali che intervengono nella dinamica delle popolazioni, sforzandosi
di elaborare interpretazioni più audaci e pertanto più articolate e complesse
sui meccanismi del comportamento demografico; mentre, dal canto suo, la
ricerca sociale rivolge un’attenzione sempre più matura e consapevole
verso il patrimonio di informazioni concernenti la struttura della
popolazione e la dinamica dei fenomeni demografici. Ma la lentezza con
cui si compie il processo di avvicinamento delle due sfere della
conoscenza sconta evidentemente il divario alimentato da un lungo
periodo di diffidenza reciproca.
5. Recenti tendenze integrative negli studi demografici e sociali
In effetti, se le premesse di un’ineluttabile integrazione tra le due
discipline erano rintracciabili nella stessa convergenza su un comune oggetto di studio, i primi passi concreti in questa direzione non furono
mossi dalla demografia né dalla sociologia, intese in senso stretto. Essi
derivarono piuttosto dall’esigenza di tenere presenti, sul piano dell’analisi, aspetti e problemi della vita sociale che, in quanto tali, non erano
curati da alcuna delle due discipline singolarmente considerate.
230
Giovanni E. Sgritta
L’attenzione ai problemi posti dall’integrazione tra variabili strettamente demografiche e variabili strettamente sociologiche prese avvio,
infatti, dapprima nell’ambito degli studi storico-sociali e in un secondo
momento nel quadro appena più ristretto degli studi e delle ricerche
sulle strutture e i comportamenti delle famiglie, accompagnati da non
occasionali riferimenti alla problematica politico-sociale.
In primo luogo, non è difficile identificare nei contributi forniti dalla
storia sociale i prodromi di una fruttuosa sintesi delle conoscenze e dei metodi
di indagine autonomamente sviluppati sia dalla scienza demografica sia
da quella sociale. Se, seguendo un suggerimento fornito in un diverso
contesto da C . Tilly, identifichiamo gli obiettivi di questi studi nella
possibilità di condurre simultaneamente l’analisi delle relazioni di
parentela, della composizione dell’aggregato domestico, del comportamento
sessuale, delle opportunità economiche e dei condizionamenti desumibili dalla
struttura demografica delle popolazioni, nonché nell’alloggiamento di
studi locali e di dettaglio entro modelli generali e analisi di ampio
respiro (Tilly, 1978,.p. 7); allora, se questi sono gli obiettivi, si può
ritenere che in larga parte essi siano stati conseguiti e perfino superati
dalla pubblicistica italiana; quantunque sia ancora prematuro parlare di
una consolidata tradizione di ricerca nella promettente direzione in cui
si sono incamminate le prime esperienze compiute in questo settore.
Più radicata e quindi più imponente la produzione realizzata nel campo
degli studi sulla famiglia. È su questo versante che si affacciano i più
consistenti tentativi di integrazione tra approccio demografico e sociologico. I motivi sono ovvi. La famiglia, in effetti, si pone come unità
intermedia tra individui e popolazione: sede elettiva dei comportamenti
procreativi e dei processi di socializzazione delle nuove generazioni,
costituisce soprattutto il contesto prevalente in cui ha luogo l’adattamento degli individui all’ambiente sociale tramite la soddisfazione dei
loro bisogni essenziali. Cosicché in essa convergono una pluralità di esperienze e aspetti dell’organizzazione sociale quali la riproduzione, la formazione, l’attività lavorativa, la salute, le pratiche politiche e religiose
e così via, cui corrispondono, nel catasto ormai secolare della tradizione
scientifica e accademica, altrettante espressioni disciplinari, quali la demografia, l’economia, la psicologia, la sociologia, la scienza politica e
l’antropologia. Più di altri temi di ricerca, la famiglia esprime perciò una
vocazione singolare ad aggregare in un quadro unitario, istituzionale, una
pluralità di elementi della vita sociale. Tentare di separarli, di considerarli distintamente al di fuori della cornice in cui convergono in una nuova
e diversa sintesi, equivarrebbe a perdere di vista l’oggetto stesso dell’analisi; significherebbe ridurre l’insieme alle sue parti elementari, disper-
Demografia e sociologia
231
dere ciò che è singolarmente correlato; privarsi insomma della
possibilità di ricostruire e conoscere il fenomeno famiglia nella sua
interezza e, ciò che più importa, nella sua specificità.
In definitiva, l’analisi della famiglia rappresenta l’unità di riferimento
più appropriata e un primo banco di prova per valutare la realizzabilità
e la validità di una proposta di lavoro che si ponga come obiettivo prioritario la ricomposizione del sapere sociale. Dal punto di vista metodologico,
il riferimento alla famiglia porta anzitutto a ridimensionare l’utilità di
un’indagine che si muove esclusivamente o prevalentemente a livello di
alcuni aspetti della popolazione o del più limitato oggetto di indagine.
«Costruiamo una demografia della famiglia - ha scritto BourgeoisPichat
(1987, p. 63) - ma non dobbiamo dimenticare che la stessa famiglia va
collocata in un contesto di entità superiori: il villaggio, l’appartenenza
sociale, religiosa ecc. ». Allo stesso tempo, essa sollecita l’indagine ad
affrontare le difficoltà tecniche, di rilevazione e di analisi dei dati, che
indubbiamente emergono quando dal riferimento a un numero limitato
di casi (tipico dell’inchiesta sociale condotta su campioni di ridotte
dimensioni) si passa a un livello aggregato superiore, talvolta coincidente
con l’intera popolazione. Ancora: l’analisi della famiglia sollecita il
ricercatore a prestare attenzione a problemi di significato e pertanto a tenere
presenti aspetti e questioni specificamente attinenti al campo di studi
della sociologia. L’indagine micro pone, in effetti, il ricercatore a
contatto con situazioni nelle quali la similarità di forma della struttura o
della composizione della famiglia si associa a una diversità talvolta inconciliabile di funzioni e di significati nel più ampio contesto sociale.
L’adozione di determinati comportamenti demografici, nel campo della
riproduzione, della nuzialità, del movimento della popolazione sul territorio, ad esempio, può essere il risultato di motivazioni o di condizioni strutturali all’intorno anche assai diverse, delle quali nell’analisi
occorre dar conto. Vale a dire che, percorrendo la strada dell’interdisciplinarità, ci si imbatte inevitabilmente in un problema cruciale delle scienze
sociali e del comportamento: in breve, che l’accumulo crescente di
informazioni nell’ambito ristretto di un contesto disciplinare pone immediatamente il problema dei limiti e dei confini della disciplina. Aumenta
considerevolmente la variabilità dei fenomeni oggetto di osservazione; ma
aumenta di concerto l’incapacità di un solo apparato disciplinare di
spiegare la varianza totale del fenomeno ricorrendo alle sole variabili o ai
soli fattori che costituiscono il corredo concettuale e strumentale di quella
disciplina.
Tipico, solo per esemplificare, il caso della fecondità, dove risulta
oltremodo difficile ricondurre a un’interpretazione monolitica e unidi-
232
Giovanni B. Sgritta
sciplinare la presenza di forti variabilità nelle misure consuete della fecondità in paesi che pur presentano a tutta prima caratteristiche sostanzialmente omogenee; o, di contro, l’esistenza di significative variazioni
nei tassi di natalità entro contesti che, in base al sapere convenzionale,
dovrebbero presentare correlazioni di segno diverso tra le caratteristiche strutturali della popolazione e del territorio e gli esiti riproduttivi.
Identici risultati possono, evidentemente, essere prodotti da un diverso
ordine di fattori causali. Ma, con altrettanta evidenza, non necessariamente questi diversi ordini di fattori appartengono legittimamente allo
stesso ambito disciplinare. Spesso ne fuoriescono, creando connessioni
affatto inusitate rispetto alle tradizionali partizioni disciplinari.
«Non esistono scienze umane dai confini limitati», ha giustamente osservato Braudel. Ciascuna di esse «è una porta aperta sull’insieme del sociale che si apre su tutte le stanze e conduce a tutti i piani dell’edificio, a
condizione che l’investigatore non si arresti nel suo cammino, mosso da
un atteggiamento di riguardo nei confronti degli altri specialisti suoi vicini,
ma essendo al contrario pronto a utilizzare, quando ce ne sia la necessità,
le loro porte e le loro scale» (Braudel, 1984, p. 57). Di modo che «ogni separazione, ogni barriera tra le scienze sociali è una regressione. Ogni problematica separata dall’insieme è condannata ad essere infruttuosa» (Braudel, 1984, p. 58). Come dire che non esistono discipline sociali che possano pretendere un’autonomia di metodi e di contenuto nello studio dei fenomeni sociali, senza perciò limitare drasticamente la natura molteplice e
complessa dei fatti che formano l’oggetto della loro indagine.
Ora, sebbene l’obiettivo di un’integrazione sistematica di tutte le
scienze sociali non possa realisticamente essere posto se non in termini
ideali, il tentativo di superare le barriere disciplinari che erano andate
stratificandosi nel corso del tempo si sarebbe dimostrato più difficile
del previsto. In Italia, più che altrove: quando si tengano presenti, dal
lato della demografia, la gravosa eredità biologistica lasciata dagli studiosi dei fenomeni demografici nel nostro paese e l’immagine tutt’altro
che positiva associata di riflesso alla disciplina dalla «politicizzazione
della demografia negli ultimi anni nefasti del fascismo e dalla sua trasformazione in demografia della razza al servizio di teorie antiscientifiche e
disumane» (Livi Bacci, 1969, pp. 166-67); ovvero, dal lato della sociologia, la già rilevata influenza regressiva esercitata dalla filosofia idealista
sull’introduzione e sullo sviluppo dei metodi quantitativi negli studi
sociali in epoca più o meno contemporanea. Comunque sia, se due
influenze di segno negativo non danno luogo di regola a un risultato favorevole, sta di fatto che, a datare dall’inizio degli anni settanta, le ten-
Demografia e sociologia
233
denze evolutive presenti negli orientamenti scientifici e culturali della demografia e della sociologia si instradarono lungo itinerari sostanzialmente convergenti. C’è chi ha intravisto, non senza ragione, in questa comune evoluzione
della scienza demografica e della sociologia il risultato di una tendenza di più
lungo periodo delle scienze umane verso la sociologizzazione, «che rappresenta forse il parallelo del fenomeno di biologizzazione delle scienze sociali che ha caratterizzato la seconda metà del secolo XIX e l’inizio del
XX» (Federici, 1971, p. 182). Certo è così. Anche se in termini più banali si potrebbe osservare che a un certo punto della loro evoluzione, raggiunto un soddisfacente grado di consolidamento e di consapevolezza scientifica, sia l’una sia l’altra disciplina dovevano necessariamente approdare
alla conclusione che la descrizione e la spiegazione del medesimo oggetto
di analisi avrebbero richiesto l’adozione di concetti, metodi e strumenti di
indagine sostanzialmente coincidenti.
In linea di principio, nessuno dei temi classici della demografia e della sociologia poteva sottrarsi a quest’ineluttabile conclusione: non l’accrescimento naturale della popolazione, non la mortalità, né tanto meno gli
spostamenti territoriali della popolazione, per quanto concerne il versante
demografico; ma nemmeno lo studio delle classi e della stratificazione,
l’indagine sul lavoro, sulla povertà, l’educazione, la famiglia, gli stili di
vita, per quanto attiene ad alcuni dei temi canonici della sociologia. Nella
consapevolezza di quanto è accaduto, non è difficile comprendere che alcune tematiche si prestavano meglio di altre a favorire il salto nell’interdisciplinarietà. Che il lavoro, la famiglia, la condizione femminile, i fenomeni migratori, godevano ceteris paribus di uno statuto tematico particolarmente propizio per un’incursione degli studi demografici e sociologici
entro i confini inveterati segnati dalle reciproche tradizioni disciplinari.
Ciascuno di essi si trovava, come dire, al crocevia di fenomeni della vita sociale che solo dal punto di vista di un’astratta quanto esiziale divisione sociale
del sapere potevano essere considerati come una sommatoria incongruente
di tratti distinti. Come separare, ad esempio, l’analisi della fecondità da
quella della famiglia o dalla condizione lavorativa della donna? Che senso
ha, nella prospettiva di un’indagine esaustiva del reale, distinguere il
movimento della popolazione dalle cause economiche e sociali che ne
stanno a fondamento o prescindere dagli effetti che tali spostamenti producono tanto nei luoghi di provenienza quanto in quelli di destinazione?
Idem per quanto riguarda l’analisi delle classi o lo studio di aspetti altrettanto fondamentali dell’organizzazione sociale.
Ma dove inizia il processo? Su quale fronte è più agevole rompere
con la tradizione e avviare un rinnovamento di quadri disciplinari con-
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Giovanni B. Sgritta
solidati? Virtualmente è impossibile, e forse inutile, tentare di dare risposta a queste domande. In pratica, è alquanto agevole ripercorrere il cammino a ritroso e ricostruire le fasi salienti del cambiamento. A puro scopo di
inventario, si potrebbe collocare l’origine del processo di avvicinamento
delle due discipline nel momento in cui si avverte, da parte della demografia, la necessità di ricorrere a quelle tecniche di indagine che contraddistinguono — per tradizione — la ricerca sociale, ovvero di accrescere il
novero delle variabili ritenute influenti sulla dinamica dei fatti demografici; e, da parte della sociologia, la necessità di disporre di un’analisi
di quadro all’interno della quale situare gli studi di maggiore dettaglio,
ovvero l’esigenza di inglobare le caratteristiche della popolazione e le sue
dinamiche nella descrizione del sistema sociale oggetto di indagine.
Se teniamo presenti entrambi questi criteri, un utile punto di riferimento è costituito dall’indagine sulla fecondità e il lavoro della donna
condotta nel 1969, a cura dell’Istituto di demografia dell’Università di
Roma, su un campione di oltre duemila donne in età feconda. Anzitutto per la sua impostazione metodologica che, non a caso, muove dalla
consapevolezza dei limiti delle tradizionali indagini sulla fecondità basate «quasi esclusivamente sull’analisi demografica di dati desunti dalle
statistiche correnti» (Federici, 1973, pp. 1-2); a proposito delle quali,
in quello studio si rilevava in effetti l’opportunità di introdurre profonde innovazioni sul piano degli strumenti di indagine, in particolare nel
passaggio dalle rilevazioni sui grandi aggregati censimentari a quelle su
piccoli campioni condotte «sulla base di interviste individuali dirette che
devono — secondo le autrici — essere articolate su una pluralità di quesiti, tanto più numerosi e complessi quanto più completo è il quadro che
si vuol tracciare» (Federici, 1973, p. 5).
Nel complesso, la scelta adottata conduce da un lato a effettuare l’indagine «non già sulla totalità della popolazione ma su un campione, più
o meno ristretto, di essa e — dall’altro — a centrare l’indagine su un aspetto,
che viene di volta in volta scelto come obiettivo principale di analisi,
impostando, così, i quesiti in funzione soprattutto dell’approfondimento di tale aspetto, rispetto al quale gli altri vengono a costituire il necessario quadro di riferimento» (Federici, 1973). Quanto ai contenuti, si
evidenziava «che una valida analisi delle relazioni tra lavoro della donna
e fecondità richiedeva da un lato di formulare ipotesi circa le altre
variabili che si poteva presumere intervenissero a modificare tali relazioni» e si proponeva, dall’altro, «l’opportunità di considerare la fecondità non già esclusivamente in termini quantitativi di numero di figli
avuti, ma anche in termini di comportamento nei confronti dei tempi
Demografia e sociologia
235
e dei modi di formazione della famiglia» (Federici, 1973, pp. 6-7). Cosicché anche un aspetto specifico quale quello affrontato nello studio
veniva a investire un’ampia problematica. E le variabili che si riteneva
dovessero essere considerate comprendevano aspetti solitamente trascurati dalle indagini tradizionali sulla fecondità quali, ad esempio, la
zona geografica di residenza, l’ambiente rurale o urbano di dimora, la
collocazione socio-economica della famiglia, il lavoro eventualmente
svolto dalla donna, il tipo di lavoro e la sua continuità nel corso del ciclo
di vita della donna (Federici, 1973, p. 7).
Se questa e altre indagini che ad essa seguirono valsero ad attenuare
quella «sostanziale rigidità dell’osservazione dei fatti demografici» più volte
lamentata dagli stessi demografi (Livi Bacci, 1969, pp. 171 e segg.; Federici,
1969), un effettivo punto di svolta nel processo di avvicinamento della
demografia e della sociologia coincise con l’avvio di una serie pluriennale di
incontri seminariali promossi dal Comitato per le Scienze economiche,
sociologiche e statistiche del CNR tra il 1975 e il 1980. Tali incontri — a cui
furono invitati a partecipare sociologi, demografi, biologi, statistici,
economisti, psicologi, storici sociali e antropologi — avevano lo scopo di
favorire la comunicazione e lo scambio di informazioni e di metodologie tra
studiosi che, pur appartenendo a diversi ambiti disciplinari, erano legati
da un comune interesse scientifico per lo studio della famiglia. Per la prima
volta, a studiosi di diversa formazione veniva offerta l’opportunità di un
confronto incrociato dei risultati delle loro ricerche; ma soprattutto
veniva data loro la possibilità di valutare i limiti di un approccio al tema
della famiglia fondato su un unico impianto disciplinare, e con ciò di
venire a conoscenza di esperienze di lavoro e fonti di dati che
usualmente sfuggivano all’attenzione di ogni singolo specialista.
Al di là dei risultati apprezzabili tramite i consueti criteri di produzione scientifica (Cisp, 1982-83; Centro studi e ricerche sulla famiglia,
1983; Sgritta, 1984), il dato positivo di questi incontri fu indubbiamente
la redazione di un progetto di indagine, poi inoltrato all’Istat, sulle strutture e le caratteristiche delle famiglie italiane. Il progetto, che costituiva
la sintesi di un lavoro interdisciplinare condotto nell’arco di circa un
quinquennio, diede luogo a sua volta alla prima indagine nazionale sulle
Strutture e i comportamenti delle famiglie italiane, alla cui predisposizione
collaborarono, nell’apposita commissione istituita presso l’Istat, alcuni
dei partecipanti ai seminari di studio del CNR. Di fatto, si apriva così un
orizzonte affatto nuovo sul terreno dell’incontro tra demografia e
sociologia; non tanto e non solo per la particolare vocazione dell’analisi
della famiglia a porsi come punto di incontro tra orientamenti disciplinari
diversi, né perché a quella prima indagine seguì dappresso il va-
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Giovanni B. Sgritta
ro della ben più impegnativa Indagine multiscopo sulle famiglie (dicembre 1987).
E nemmeno a motivo del fatto che quest’ultima indagine si sia
proposta come obiettivo di massima di migliorare qualitativamente il
livello delle rilevazioni già esistenti tramite significative innovazioni sul
piano metodologico. Ma piuttosto perché, su un terreno così importante
per la tradizione scientifica italiana, si tentava per la prima volta di
inglobare l’apporto specifico della conoscenza sociale nel processo di
produzione del dato statistico-demografico: per tutta la lunghezza ideale
del percorso che si snoda dalla fase di formulazione del progetto a
quella della predisposizione del modello di raccolta, dall’esecuzione di
preliminari esperienze pilota al controllo di qualità del dato, dal piano
di spoglio e incrocio delle variabili al quadro di elaborazione tecnica,
sino alla sua utilizzazione operativa nella pratica sociale.
Non a caso nell’ambito delle commissioni scientifiche incaricate di
predisporre le suddette indagini operano studiosi di formazione diversa; ossia convergono sensibilità nuove, rispetto al passato, nell’individuazione delle esigenze e degli aspetti della vita sociale che si reputano
meritevoli di approfondimento. Già la selezione dei temi introdotti nell’Indagine multiscopo — tra gli altri l’uso del tempo, la struttura delle reti di
relazione familiare, la condizione dell’infanzia, l’economia familiare e
così via — denota un salto di qualità rispetto al ventaglio di temi tradizionalmente tenuto presente dall’indagine demografica. Di più. L’introduzione di questi temi comporta a sua volta la necessità di trovare altrettante soluzioni sul piano della metodologia. Obbliga il produttore
del dato ad affrontare problemi nuovi, che nascono dal fatto di trovarsi
di fronte a fenomeni di non agevole misurazione, o dalle difficoltà po‘ ste dall’impiego delle più incerte misure di atteggiamento rispetto
alle (più o meno oggettive) misure di comportamento. Ma in primo luogo
costringe la ricerca statistica e demografica a spingersi al di là dei confini
ristretti delle rispettive competenze disciplinari e ad «abbeverarsi» alla
fonte, ormai copiosa, delle tante indagini sociali su piccoli campioni,
che vengono così a costituire un serbatoio prezioso di idee e metodi di
rilevazione e trattamento del dato che possono risultare assai utili nella
preparazione e nell’esecuzione delle indagini.
Da allora, il percorso dell’integrazione tra sociologia e demografia,
se non in discesa, è stato certamente pianeggiante. Gli eventi che l’hanno
accompagnato, almeno sul terreno degli studi e delle ricerche sulla
famiglia, non possono che essere giudicati positivamente. Studiosi e
ricercatori che, secondo le convenzioni tradizionali, trovano tuttora
collocazione in un fronte disciplinare, tendono sempre più a muoversi
con inusitata disinvoltura anche nell’altro fronte. In effetti, se nella
Demografia e sociologia
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prima metà degli anni ottanta, sulla scia delle esperienze pilota di cui
si è detto, è già consueto imbattersi in pubblicazioni che raccolgono sotto
la medesima veste grafica contributi di demografi e sociologi (Centro
studi e ricerche sulla famiglia, 1983b; 1984), a partire dal 1985 — con
la pubblicazione degli atti del convegno organizzato dall’Istat e dal Comitato nazionale della popolazione in occasione della presentazione dei risultati dell’indagine sulle Strutture e i comportamenti familiari (Istat, 1986)
— tali occasioni non solo si fanno più frequenti ma si assiste da allora a
un fenomeno alquanto singolare nel panorama scientifico italiano. Quasi
il prodursi di una sorta di «mutazione genetica» nell’atteggiamento del sociologo e del demografo nell’approccio al tema della famiglia. Un cambiamento che si esprime nell’estensione degli interessi di ricerca dell’uno e
dell’altro al di là dei confini stabiliti dalla tradizione; uno scambio dei ruoli, che porta non solo all’interscambiabilità dei contenuti, ma spesso addirittura all’adozione di consimili metodologie nell’impostazione del lavoro
e nel trattamento delle informazioni.
Un rapido sguardo alla letteratura demografica e sociologica della fine
degli anni ottanta-inizio anni novanta è già sufficiente a cogliere i segni
del cambiamento, specie se rapportata alla produzione scientifica degli
anni immediatamente precedenti; ma non se ne trae che una pallida idea.
Ben più esteso, profondo e radicato è il mutamento intervenuto nel frattempo nel modo di far ricerca sui due versanti della demografia e della
sociologia. Per poterne apprezzare appieno la portata dovremmo, tuttavia,
gettare lo sguardo nella mole considerevole di lavori in gestazione all’interno delle università, nelle tesi di laurea; ovvero, attendere la conclusione
di quella cospicua massa di ricerche destinata a essere alimentata dalla
periodica pubblicazione dei risultati dei sei cicli tematici dell’Indagine
multiscopo sulle famiglie, tuttora in fase di svolgimento presso l’Istat.
Perché è qui, in effetti, che si appuntano le maggiori possibilità di collaborazione tra le due discipline. Deriva da qui, come sempre del resto, la
possibilità di alimentare lo sviluppo della teoria, delle metodologie e delle tecniche di rilevazione, indagine e analisi dei dati con riferimenti desunti dall’osservazione dei fenomeni reali, a partire dall’esperienza concreta della ricerca e dai problemi che essa pone con continuità al ricercatore. Ampliandosi Io spettro dei fenomeni oggetto di osservazione, man
mano che ci si addentra su inesplorati campi di indagine, si produce necessariamente un rimescolamento dei punti di vista. Si avverte l’esigenza di estendere i propri orizzonti conoscitivi e di rivalutare aspetti e caratteristiche della realtà che in una visuale tradizionale delle specifiche competenze disciplinari potevano più agevolmente essere tralasciati.
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Giovanni B. Sgritta
6. Conclusioni
Non servono dunque doti divinatorie per prevedere che il terreno
di lavoro comune tra demografia e sociologia è destinato, in un futuro
nemmeno troppo lontano, ad ampliarsi ulteriormente. Né si pecca di eccessivo ottimismo se si ritiene probabile il costituirsi di un’area sempre
più ampia di interessi scientifici comuni alle due discipline, sia sotto il
profilo dei contenuti sia sotto quello dei metodi di ricerca; area dalla
quale residueranno le sintesi più astratte della teoria sociologica e i tecnicismi più esasperati dell’analisi demografica, che andranno per conto
loro a costituire nicchie di sapere a un tempo esoteriche e limitate.
Già ora, del resto, le considerazioni sulle quali ci siamo precedentemente soffermati bastano a dimostrare l’esistenza di spinte centripete
che, grazie alle innovazioni introdotte sul piano della rilevazione e della
registrazione magnetica delle informazioni, consentono di passare progressivamente dal dato aggregato (tipico della scienza demografica del
passato) al dato individuale e quindi di mantenere a questo livello anche
il taglio della successiva analisi interpretativa. Il che non significa
disconoscere l’importanza dell’analisi aggregata, ma solo «apprezzamento
per nuove opportunità di approfondimento» (De Sandre, 1990, p. 55).
In effetti, la possibilità di utilizzare i dati relativi ai singoli individui
osservati, mantenendo il riferimento individualizzato, ha consentito nel
tempo l’apertura di nuovi orizzonti di lavoro interdisciplinare. Da un
lato, come riassume De Sandre (1986, p. 48), essa «ha aperto spazi enormi
all’analisi statistica multivariata dei dati, alla ricerca di modelli strutturali di rappresentazione dei fenomeni, e alla micro-simulazione», ampliando in tal modo i punti di contatto tra le metodologie di lavoro tipiche della sociologia e quelle demografiche. Dall’altro, «ha spinto ad aumentare i caratteri osservati per meglio conoscere le dinamiche dei comportamenti: tipica è stata la diffusione di indagini a obiettivi plurimi
(in senso estensivo) e di quesiti retrospettivi (in senso intensivo), anche
nei censimenti, e la promozione di indagini campionarie sia da parte di
organismi ufficiali sia da parte di privati ricercatori» (De Sandre, 1986).
Con riferimento agli orientamenti metodologici che investono direttamente, anche se non unicamente, la realtà familiare, un ulteriore spazio di lavoro congiunto tra demografia e sociologia è andato inoltre
formandosi recentemente intorno al tema della natura temporale dell’indagine; specificamente, intorno al confronto tra indagini di tipo
trasversale (cross-sectional) e indagini longitudinali. Anche in questo caso,
l’esigenza del cambiamento deriva dalla percezione di una carenza.
Demografia e sociologia
239
Il ricorso a metodologie di lavoro di tipo trasversale congiunto alla trattazione aggregata dei dati risulta, come noto, gravato da tali distorsioni
da non consentire di seguire l’evoluzione dinamica dei gruppi oggetto
di osservazione, né di comprendere l’insieme dei fattori dai quali dipende la variabilità dei comportamenti sociali e demografici; laddove, invece,
l’adozione di una più sofisticata metodologia di lavoro che consenta di
fondere l’approccio longitudinale con il livello di analisi individuale offre
l’opportunità di ovviare ai limiti delle analisi tradizionali, pur affacciando problemi di rilevazione e trattazione dei dati non sempre di agevole
soluzione (De Sandre, 1985; Sgritta, 1990). Tenuto conto che l’analisi
longitudinale non è che un’approssimazione alle vere modalità di svolgimento della vita sociale, che in essa si ricapitola anche lo studio per
biografie, per cicli di vita — individuali e/o familiari — e per generazioni; e che analisi di questa natura sollecitano fortemente il demografo e il sociologo a ricorrere a tecniche di trattamento dei dati di tipo
multivariato, segue da tutto ciò che, anche su questo piano, le possibilità
di convergenza tra studi sociologici e studi demografici siano sempre più
consistenti.
Purtroppo in Italia non si dispone ancora di esperienze di lavoro e
di risultati di ricerca che consentano di stilare un bilancio della collaborazione tra demografi e sociologi. Esistono le condizioni per l’avvio di
questa collaborazione, ma è prematuro esprimere un giudizio sulla qualità degli esiti che ne deriveranno. In linea di principio, è indubbio che
la confluenza di metodi e di contenuti non possa che essere ritenuta positiva da entrambi i versanti disciplinari. Quanto Livi Bacci, ormai vent’anni fa, diceva a proposito dello stato e degli orientamenti della demografia, si applica agevolmente anche alla sociologia. A entrambe è offerta oggi «la possibilità di arricchirsi, di rinnovarsi, inserendosi ... in
un vasto campo di ricerche che mai come oggi sembrano importanti e
necessarie per la corretta conoscenza della società» (Livi Bacci, 1969,
p. 180). Così come, di contro, per entrambe si presenta il rischio di non
cogliere appieno questa possibilità. Non certo per ragioni epistemologiche (che anzi, come abbiamo visto, risultano da ogni punto di vista assolutamente congeniali all’obiettivo della loro integrazione), quanto piuttosto per motivi di ordine pratico, che risiedono nella struttura delle
istituzioni accademiche, nei percorsi formativi del sociologo e del demografo, nei modi in cui è tuttora impartito l’insegnamento delle due
discipline, nei mezzi che saranno messi a disposizione della ricerca e nella
sensibilità dei pubblici poteri. Difficile fare previsioni. Ma si può formulare una speranza: che, una volta tanto, all’ottimismo della ragione
non sia d’ostacolo il pessimismo della volontà.
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Capitolo ottavo
Demografia ed economia
Renato Guarini
1. Introduzione: il dibattito e la teoria
La popolazione, la sua dimensione e la sua composizione interna svolgono un ruolo centrale nella dinamica del processo economico, chiaramente riconosciuto già nelle opere dei primi grandi economisti, che fiorirono a cavallo tra Settecento e Ottocento.
I fondatori dell’economia classica, da Smith a Ricardo, riconobbero
la centralità della popolazione sia come soggetto di bisogni da soddisfare in condizioni di scarsità di risorse, sia come forza produttiva da cui
si origina la crescita economica. Il processo economico viene infatti visto in termini di svolgimento e cambiamenti nel tempo, e non, come
più tardi fecero Walras, Pareto e altri, in termini di equilibrio astratto,
essenzialmente statico. Tra gli italiani, anche senza risalire a Galiani,
basta ricordare Genovesi, Verri e De Sismondi, per i quali ricchezza e
popolazione costituiscono un binomio inscindibile.
In realtà, anche nelle opere dei grandi economisti dell’Ottocento e
del primo Novecento, da Marshall a Pareto, si trova un capitolo dedicato alla popolazione. Ma, come ammette lo stesso Pareto, in molti casi
si tratta più di un tributo pagato alla tradizione che di una trattazione
organica delle interdipendenze tra dinamiche demografiche e fenomeni
economici. Bisognerà arrivare a Keynes per trovare di nuovo la popolazione non solo come parte integrante, ma come fattore esplicativo del
fenomeno economico, con il riconoscimento del problema centrale dell’equilibrio tra disponibilità di risorse e crescita della popolazione, che
ha determinato la distribuzione degli insediamenti stessi e la crescita delle
popolazioni interessate.
A Malthus va il merito di aver concepito fra i primi l’interazione tra fenomeni economici e variabili demografiche non in senso astratto, ma avendo riguardo alle concrete manifestazioni della realtà, sia in atto sia in divenire. Ma nella sua opera, come osserva Pareto, occorre distinguere le
parti scientifiche da quelle precettive. Le due celebri ipotesi malthusiane
di crescita della popolazione e delle sussistenze hanno dato origine, nel cor-
246
Renato Guarini
so del tempo, a numerose polemiche, non limitate alla sfera scientificoaccademica, ma estese a coinvolgere aspetti etici, ideologici e religiosi.
Secondo Amoroso (1929), Malthus avrebbe commesso l’errore, comune a tutti gli economisti della scuola classica, di interpretare una relazione
di interdipendenza in termini di relazione di causalità. Quando Malthus afferma che la popolazione è in ogni istante limitata dalle risorse di sussistenza, dovrebbe aggiungere, reciprocamente, che a sua volta la popolazione determina l’ammontare di risorse, sì che in sostanza le due incognite
(popolazione e sussistenza) sono determinate da due equazioni simultanee.
Ciò esclude a priori che possa presupporsi per una di esse un movimento arbitrariamente prefissato.
Tuttavia Amoroso, nota Barberi (1969), alla denuncia dell’errore logico di Malthus non fa seguire un apporto costruttivo per la specificazione
delle interdipendenze tra popolazioni e risorse, in termini di un modello
teorico che colleghi in un sistema l’equazione differenziale del movimento della popolazione con quella del movimento delle sussistenze. Ancora
secondo Barberi, Amoroso, preso dall’analisi logistica di Verhulst, rimane a un passo dall’equazione rappresentativa della dinamica della popolazione, costituita dalla derivata seconda della popolazione, da mettere a sistema con l’equazione della dinamica delle sussistenze espressa dal principio dell’azione smithiana.
Con l’avvento della rivoluzione industriale, osserva Livi Bacci (1989), i
termini dell’equazione popolazione-economia cambiano rapidamente: crescita demografica e crescita economica anziché essere antagoniste si sostengono l’un l’altra. Ma questo non è che il quadro generale e si intuisce che
precisare i contorni e il senso delle relazioni tra economia e popolazione
diventa impresa ancor più difficile.
Compito del ricercatore non è quello di discutere se le variazioni demografiche determinino o no lo sviluppo economico ma piuttosto quello di individuare in quale modo o in quale misura lo condizionino. Anche se il problema della relazione causale tra popolazione ed economia
non è teoricamente risolvibile, Livi Bacci osserva che, esaminando lunghe serie di variabili demografiche ed economiche, si possono compiutamente individuare alcuni fattori che possono aver contribuito nel corso dei secoli ad accelerare piuttosto che a ritardare lo sviluppo. In particolare individua tre gruppi di fattori:
a) fattori puramente demografici;
b) fattori di scala e dimensionali;
c) stock delle conoscenze e processo tecnico.
L’analisi empirica da lui effettuata considerando un lungo periodo,
pur nell’incertezza circa le forze e il senso delle relazioni tra economia
Demografia ed economia
247
e popolazione, consente di affermare che la crescita demografica è stata
più un incentivo che un ostacolo alla crescita economica soprattutto per
effetto dell’accresciuta efficienza media della popolazione nell’arco del
tempo considerato.
Nel seguito, verranno esaminati i principali meccanismi attraverso i
quali le componenti demografiche sono in relazione con gli aggregati
economici. In particolare, nel paragrafo 2 vengono analizzati gli impatti
dello stato e dell’evoluzione della popolazione, considerata in termini
di dimensione quantitativa e di struttura per età, sulle principali macrovariabili economiche (consumi, risparmio e così via). Nel paragrafo
successivo vengono invece prese in esame le interrelazioni tra i fenomeni economici e i parametri strutturali che definiscono la dinamica
di una popolazione, sia come movimento naturale sia come movimento
migratorio.
2. Variabili economiche e variazioni della popolazione
2.1. Fattori demografici e indicatori di reddito
È quasi intuitivo affrontare il complesso argomento dei legami tra
demografia ed economia, esaminando in primo luogo le relazioni tra i
principali indicatori che gli statistici cercano di quantificare per misurare lo stato e l’evoluzione dei due fenomeni: il reddito e l’ammontare
della popolazione in una data unità territoriale.
Anche a questo riguardo le posizioni sono contrastanti. Alcuni autori
ritengono che il reddito pro capite sia una funzione crescente della
densità demografica, poiché all’aumentare di questa in una unità territoriale si incrementerà il mercato delle risorse e quindi la possibilità di
sfruttare i vantaggi della divisione del lavoro e le economie di scala. Inoltre, la crescita della popolazione stimolerebbe la diffusione e l’adozione
delle innovazioni tecnologiche.
Altri invece considerano le risorse materiali, rinnovabili e non rinnovabili, come un vincolo quantitativo fisso; quindi, all’aumentare della popolazione in una data unità territoriale diminuisce la quota delle
risorse pro capite disponibili.
Entrambe queste posizioni risultano concettualmente deboli e si prestano a osservazioni critiche; alcune intuitive, altre che possono formalizzarsi. I primi studi a sostegno di un impatto favorevole della crescita
della popolazione possono essere fatti risalire a Child (1693) e Davenant (1698), mentre in epoca più recente Kelley e Williamson (1974),
248
Renato Guarini
sulla base dell’esperienza giapponese, sottolineano gli effetti positivi dell’incremento demografico sullo sviluppo economico attraverso l’impulso alla formazione di capitale. La seconda impostazione teorica, iniziata
da Ortes (1774) e Turgot (1766), appare attualmente la più seguita nel
dibattito economico, con la diffusione delle preoccupazioni ambientalistiche per una crescita sostenuta, che ha dato vita a una letteratura di
notevole ampiezza, a partire dallo studio precursore di Meadows et al.
(1972) sui limiti allo sviluppo.
Con l’inizio del Novecento, Wicksell (1910; 1913) e Cannan (1914)
operano un tentativo di sintesi: il reddito pro capite è funzione dell’ammontare della popolazione, ma questa funzione è in un primo tratto crescente e successivamente decrescente. Nella storia economico-demografica
di ciascuna unità territoriale esiste un periodo in cui, a parità di tutti
gli altri fenomeni e soprattutto in assenza di interrelazioni con altre unità
territoriali, si raggiunge il più alto reddito pro capite. Si tratta quindi
di individuare quale sia questo valore ottimale e quali le condizioni o i
fattori che lo hanno determinato.
Anche nelle analisi dello sviluppo economico non ci si può limitare
a considerare il solo reddito pro capite, ma è invece necessario, come
afferma Kuznets, esaminare comparativamente l’incremento del reddito e quello della popolazione. Questa affermazione sottende l’ipotesi implicita che sul piano storico la relazione tra sviluppo demografico e sviluppo economico sia di mutua dipendenza e che l’uno tenda a favorire
l’altro, benché non possano escludersi effetti di segno diverso.
L’esperienza empirica sembra avvalorare queste tesi; tra le varie
ricerche si ricorda Io studio comparativo per sedici paesi sviluppati,
effettuato da Maddison (1982) riferito al periodo 1870-1979. Le conclusioni desumibili dalle analisi comparative delle variabili popolazione
e reddito — anche se, come osserva Livi Bacci, abbastanza deboli —
dimostrano se non altro che, nel corso degli ultimi secoli, la crescita
demografica non ha intralciato Io sviluppo economico; esiste anzi qualche prova che l’abbia favorito. Livi Bacci, pur sottoscrivendo l’ipotesi di neutralità osserva che tra i paesi sviluppati, quelli che hanno
avuto maggiore sviluppo demografico hanno anche assunto posizioni
di preminenza.
E però da osservare che il confronto tra la dinamica del reddito e
quella della popolazione non soddisfa tutte le esigenze conoscitive e non
permette rigorose analisi interpretative. È infatti da rilevare che in tale
confronto si considera, da un lato, la risultante dell’attività produttiva
di una parte della collettività e dall’altro il numero complessivo delle
persone che esprimono sia i bisogni individuali sia quelli collettivi.
Demografia ed economia
249
Mentre però il grado di soddisfazione dei bisogni dell’intera collettività
dipende dall’efficienza produttiva di una parte soltanto della popolazione
(popolazione attiva), il benessere dipende dalla popolazione complessiva. A questo riguardo, il rapporto tra la popolazione attiva e l’intera
popolazione può essere letto (Fuà, 1986) come rapporto tra la capacità
produttiva di una collettività e il volume dei bisogni che questa deve
soddisfare. Inoltre è da tenere presente che la stessa efficienza produttiva dipende da vari fattori quali: il capitale per addetto, il numero
delle ore di lavoro effettuate da ciascun lavoratore, la composizione qualitativa degli occupati e così via.
Al fine di procedere a corrette misure dello sviluppo economico occorre dunque isolare i diversi fattori che influenzano il reddito pro capite, tenendo conto che il giudizio sullo sviluppo va espresso in termini
sia di grado di efficienza produttiva, sia di grado di diffusione del benessere economico.
Tra questi fattori un ruolo importante, talora trascurato dalle analisi
economiche, viene occupato da quelli di natura demografica che
caratterizzano le varie unità territoriali. Ad esempio, l’ammontare della
popolazione in età lavorativa tende, a parità di circostanze, ad accrescere le forze di lavoro, quando aumenta la sua consistenza totale, e
viceversa incide negativamente sulle stesse, quando se ne osservi un
decremento.
Anche la struttura per età della popolazione influenza l’entità delle
forze di lavoro, perché le diverse classi di età nelle quali si distribuisce
la popolazione sono contraddistinte da diverse quote di partecipazione
alle forze di lavoro, o tassi di attività.
Il problema dell’individuazione delle determinanti demografiche e
sociali sulle variazioni del reddito tra le regioni italiane è stato affrontato da Guarini (1975), che tra i fattori demografici e sociali ritenuti esplicativi del reddito pro capite ha considerato: la quota della popolazione
in età lavorativa sul totale della popolazione, il tasso generico di attività,
il tasso specifico di attività, la produttività del lavoro, il tasso di occupazione. I risultati della ricerca hanno messo in evidenza, con riferimento ai dati del censimento 1971, che i differenziali di reddito pro
capite nelle regioni italiane sono significativamente legati alla popolazione in età di lavoro e alla produttività del lavoro, mentre sono trascurabili le relazioni con le altre variabili.
Le variazioni del reddito pro capite non dipendono ovviamente soltanto dalla dinamica di alcune variabili demografiche e sociali, ma sono
legate anche alle trasformazioni di alcune caratteristiche dei fattori strutturali del sistema produttivo, verificatesi in un determinato intervallo
250
Renato Guarini
di tempo. Questo problema è stato affrontato da Denison (1967) che
ha cercato di determinare, prima per gli Stati Uniti e successivamente
per gli altri paesi industrializzati, i diversi contributi che le variazioni
dei singoli fattori possono fornire al tasso medio annuo di incremento
del reddito. Denison, com’è noto, considera come determinanti dello
sviluppo del reddito i tre fattori primari della produzione: lavoro, capitale e terra, ma la sua attenzione si concentra soprattutto sull’analisi del
fattore lavoro, la cui quota sul reddito, in tutti i paesi, si è notevolmente
accresciuta con la conseguente diminuzione delle quote spettanti al
capitale e alla terra. L’aumento di tale quota può essere spiegato da una
creazione di capitale umano legato non soltanto a fattori economico-sociali
(orario di lavoro, grado di istruzione dei lavoratori, migliore utilizzazione dei lavoratori), ma anche a variazioni nella composizione per sesso
e per età della popolazione totale e di quella occupata.
Il nostro paese è stato particolarmente interessato al fenomeno delle
variazioni della quota del reddito spettante al fattore lavoro (de Meo,
1973); una interpretazione dello sviluppo economico italiano nel periodo 1961-71 è stata effettuata da Guarini (1975), applicando uno schema del tipo Denison alle regioni italiane.
2.2. Il consumo e le variazioni dinamiche e strutturali della popolazione
Le relazioni tra economia e popolazione possono analizzarsi considerando, in luogo del reddito, le varie componenti in cui esso può essere
suddiviso se analizzato dal lato degli impieghi. In questa prospettiva,
particolare rilevanza assume l’aggregato dei consumi.
Le teorie dello sviluppo economico richiedono la costruzione di una
specifica teoria dei consumi, che mostri l’utilizzo della produzione. Dal
punto di vista dinamico i problemi di una teoria dei consumi si articolano perciò in problemi di crescita quantitativa e di articolazioni qualitative, in relazione a un livello di vita che configuri un miglioramento
delle condizioni esistenti nel dato stadio di sviluppo della popolazione
presa in considerazione.
Vaste sono, in particolare, le interdipendenze tra l’aggregato dei consumi e la dinamica e la struttura della popolazione.
L’aumento della popolazione determina in primo luogo un aumento
del consumo aggregato, giacché si ammette che non esistano vincoli di
offerta tali da impedire un aumento della produzione complessiva proporzionale, o più che proporzionale, all’incremento demografico. L’aumento della produzione, inoltre, avviene a costi minori in termini di distruzione di risorse, con gli incrementi della produttività del lavoro e
Demografia ed economia
251
del progresso tecnico derivanti dallo sviluppo economico. Tuttavia tale
aumento comporta necessariamente, oltre che un aumento della dimensione dei consumi, un mutamento nella loro composizione.
Modifiche nella composizione dei consumi derivano anche dalle variazioni nella struttura per età della popolazione, ovvero dal ringiovanimento della popolazione che si determina quando è alto il saggio di aumento della stessa, e dall’invecchiamento che è conseguenza della stazionarietà o del declino demografico.
Anche l’effetto della dimensione demografica sull’ammontare dei consumi è tuttavia controverso. Infatti, se la popolazione declina non è detto
che i consumi aggregati debbano diminuire; essi possono anche aumentare se il decremento non riguarda la popolazione attiva e se il progresso
tecnico è tale da indurre un incremento della produttività del lavoro più
rapido della flessione del numero assoluto dei lavoratori. Di conseguenza
emergono i nessi tra popolazione e consumo da un lato e quelli tra
popolazione e forze di lavoro dall’altro.
Nel dibattito internazionale sulle relazioni tra l’aumentare della
popolazione e la dinamica del reddito e delle altre variabili macroeconomiche, gli studiosi italiani si sono inseriti sia con apporti di tipo
concettuale-metodologico, sia con numerose e interessanti verifiche
empiriche. In questo filone vanno inquadrati quei lavori che, partendo
dai coefficienti di spesa introdotti da Mortara, riferiti a una popolazione avente caratteristiche medie, cercano di utilizzarli per misurare
gli effetti della composizione per età sui consumi.
Livi Bacci (1969) osserva che i livelli di consumo variano non solo secondo l’età ma anche secondo il tipo di residenza (urbana e rurale) e di
attività (agricola ed extragricola), anche quando siano eliminati gli effetti
della disuguaglianza sociale. Le diversità nel tipo di vita produrranno, infatti, livelli differenti di bisogni e quindi di consumi. I risultati delle sue
analisi portano ad affermare che lo spostamento della popolazione dalle
attività agricole a quelle secondarie e terziarie tenderebbe ad aumentare
la massa dei consumatori più che proporzionalmente all’incremento demografico. Egli pertanto afferma che, nella realtà italiana del primo secolo dopo l’unità, due sono i fattori di natura demografica che più hanno
influito sullo sviluppo dei consumi: l’invecchiamento della popolazione e
gli spostamenti territoriali. L’invecchiamento si è concretizzato in un
aumento della quota di popolazione in età adulta, che presenta consumi
pro capite generalmente più elevati rispetto ai giovani. Gli spostamenti
di popolazione hanno dal canto loro prodotto certamente un mutamento
nei gusti e nella struttura dei consumi e una notevole diminuzione dei beni
prodotti e destinati all’autoconsumo nell’ambito dell’unità familiare.
252
Renato Guarini
Il problema dell’introduzione degli effetti demografici sulla domanda di beni di consumo viene affrontato da alcuni autori (Bollino e Rossi,
1989) seguendo la teoria della produzione familiare, proposta da Gorman
(1976) e formalizzata da Lewbel (1985).
Questa teoria inquadra il problema dal punto di vista della caratterizzazione tecnologica dell’unità di consumo. Infatti, si ipotizza che le
famiglie ottimizzino una funzione obiettivo espressa in termini di «beni
trasformati» o intermedi che generalmente non sono disponibili sul
mercato. Questi beni intermedi vengono prodotti dal nucleo familiare
combinando beni elementari acquistati sul mercato. Più chiaramente,
unità familiari con caratteristiche socio-demografiche diverse presentano la stessa struttura di preferenza rispetto ai beni intermedi ma differiscono nella tecnologia produttiva che permette loro di passare dai beni
elementari a quelli intermedi.
Le funzioni modificatrici (modifyingfunction) di Lewbel applicate in Italia
da Bollino e Rossi permettono la più ampia interazione fra caratteristica
demografica, spesa totale e prezzi, e comprendono come casi particolari
tutte le principali metodologie di introduzione degli effetti demografici in
sistemi di domanda (Engel, 1895; Prais e Houtahakker, 1955; Barten,
1964; Gorman, 1976).
2.3. Risparmio, investimenti e popolazione
La dinamica della popolazione influenza la formazione del risparmio
considerato nell’ambito sia dell’economia familiare, ciò che implica decisioni e comportamenti dei singoli individui, sia del sistema economico nel
suo complesso, implicando quindi il comportamento e l’azione dei governi.
Le motivazioni del risparmio delle famiglie legate principalmente alla
necessità di distribuire i propri consumi nel tempo, al desiderio di premunirsi contro rischi di cadute del livello di vita, all’aspirazione a elevare
quegli stessi livelli, sono determinate dalla variazione della popolazione
e nello stesso tempo influenzano le variazioni stesse (McNicoll, 1984).
Un’interpretazione di tali relazioni può essere ricollegata alla teoria
basata sull’ipotesi del ciclo vitale. In sintesi si ipotizza che le persone mirino,
nell’arco della loro vita lavorativa, a distribuire il proprio reddito tra
consumo e risparmio in modo da assicurarsi un adeguato tenore di vita
nelle età improduttive. Nel caso più semplice (in cui non si considerano
trasferimenti di ricchezza intergenerazionali) si accumula per poi
consumare, quindi la vita di ognuno si chiude con un risparmio netto
pari a zero. Questo non vuol dire che il paese complessivamente non
Demografia ed economia
253
possa realizzare in ogni momento un risparmio positivo. Ciò si verifica,
come è accaduto nei paesi occidentali, se le varie generazioni che si succedono producono sempre più reddito rispetto alle precedenti, mantenendo la
stessa logica di comportamento nei confronti del risparmio. Saremmo allora
portati a concludere che, coeteris paribus, l’incremento della popolazione agisce
in senso positivo sulla formazione del risparmio. Ma bisogna considerare
che questi risultati acquistano validità empirica solo se riferiti a realtà stabili dal punto di vista dei fenomeni demografici. Ad esempio, un baby boom
che si protragga per molti anni inciderà negativamente sulla formazione del
risparmio, fino a quando quei bambini non raggiungeranno l’età produttiva, e
la riduzione del risparmio e quindi dell’accumulazione di capitale comprometterà il progresso economico anche nel futuro. Oltre che il comportamento delle famiglie anche quello delle imprese può spiegare il livello aggregato del risparmio, e di conseguenza l’ammontare degli investimenti sia
pubblici sia privati. Ciò porta a considerare l’economia nel suo complesso
e ad analizzare a livello aggregato le relazioni tra variazioni della popolazione, risparmio e investimenti.
Anche per le implicazioni di sentieri alternativi di crescita della popolazione si contrappongono due distinti filoni di pensiero. Il primo, che
parte dagli studi di Coale e Hoover (1958), vede in una crescita rapida un
fattore di ritardo sul risparmio e sull’investimento. Nel secondo, a cui si
riconduce ad esempio l’analisi di Kelley e Williamson (1974) già citata,
una rapida crescita contribuisce alla formazione del capitale.
La possibilità della coesistenza di punti di vista così divergenti, legata
a evidenze empiriche a conforto di entrambe le posizioni, può essere collegata a diversi fattori. In primo luogo le scelte di politica economica sono in
grado di influire — se non di determinare in toto — sulla propensione al risparmio, sul livello degli investimenti pubblici, ma anche privati, e in
generale sul modello di allocazione delle risorse. Diversi orientamenti
governativi, quindi, determinano diverse traiettorie di sviluppo a parità
di condizioni demografiche.
Ancora, come già osservato da Wicksell a proposito della relazione tra
popolazione e reddito, una via di conciliazione interpretativa può individuarsi tenendo conto dello specifico stadio dello sviluppo della popolazione caratterizzante l’unità territoriale che si esamina, e quindi presupporre
impatti diversi nelle differenti fasi di sviluppo, connessi alla distanza dall’optimum, ovvero dall’ipotetico livello di equilibrio tra risorse e popolazione.
In generale, la crescita della popolazione è pericolosa per l’equilibrio
se l’organizzazione produttiva è «statica». Un aumento della popolazione ha infatti un riflesso negativo sulla distribuzione del reddito qualora
254
Renato Guarini
non si verifichi un processo di accumulazione che, anche attraverso il progresso tecnico incorporato, renda maggiormente produttive le risorse disponibili.
Se invece sono valide le condizioni alla base delle teorie della crescita di
stampo keynesiano, l’aumento della popolazione determina un aumento di investimenti e un maggiore impiego di lavoro e di capitale. Tali condizioni presuppongono buone prospettive di profitto, ovvero aspettative degli operatori in termini di una espansione del mercato. In definitiva, quindi, l’impatto positivo della crescita della popolazione sul processo di accumulazione ha luogo solo sotto favorevoli condizioni del sistema
produttivo e del mercato. Nelle realtà cronicamente sottosviluppate una
crescita della popolazione, in una situazione di mancanza di stimoli allo
sviluppo della domanda, è certamente dannosa.
Anche l’influenza positiva della crescita della popolazione sull’accumulazione del capitale in termini di accelerazione del tasso di diffusione dell’innovazione tecnologica e di maggiori rendimenti di scala viene meno se
il sistema produttivo è «statico». In un’economia stazionaria, nota Solow
(1970), la crescita della popolazione sottrae risorse all’accumulazione del
capitale, che quindi può procedere a un ritmo più veloce se l’incremento
demografico è più lento. E inoltre da tener presente che la crescita della
popolazione influisce sul livello e composizione degli investimenti delle
imprese attraverso la sua influenza sulla dimensione e struttura del mercato, sui prezzi dei fattori e sull’ambiente imprenditoriale attuale e futuro.
Nella loro analisi degli effetti della crescita della popolazione sul processo di accumulazione Coale e Hoover considerano, oltre alla dimensione e al tasso &crescita, anche la distribuzione per età della popolazione.
A questo proposito, è particolarmente rilevante (Fuà, 1986) il rapporto tra popolazione in età improduttiva e in età produttiva. Variazioni
della distribuzione per età determinano un cambiamento nello stato di
dipendenza, ovvero nel numero delle persone che non partecipano al
processo produttivo, e modificano la distribuzione del reddito tra consumo
e risparmio.
Che cosa può essere detto, in conclusione, dell’impatto sui risparmi e
investimenti di una rapida crescita della popolazione? In generale bisogna
essere molto cauti. La generalizzazione della teoria neoclassica della crescita,
le analisi dei trasferimenti intergenerazionali e le argomentazioni neoricardiane puntano su un impatto netto negativo. Tuttavia, anche se la
relazione tra crescita della popolazione e tassi di risparmio al momento
non è determinabile (Leibenstein, 1976), è da tener presente l’esperienza
degli ultimi anni che ha visto notevolmente crescere il tasso di risparmio
in tutti i paesi. Ciò induce a ritenere che nel complesso processo di
Demografia ed economia
255
interazione tra le variabili demografiche ed economiche occorre considerare le dimensioni qualitative dei fattori produttivi, le determinanti
delle innovazioni, le questioni dell’organizzazione e dell’efficienza.
2.4. Il lavoro e i fattori demografici
Tra i meccanismi tramite i quali lo stato e l’evoluzione della popolazione sono in grado di incidere sull’andamento dell’economia, il più immediatamente intuitivo appare senz’altro quello che passa attraverso l’effetto sulla partecipazione all’attività lavorativa.
Anche in questo caso, tuttavia, la regolazione del rapporto tra fattori
demografici e fenomeno economico è più complessa di quanto non appaia a prima vista.
Il volume e la composizione delle forze di lavoro, e la loro evoluzione
nel tempo, possono essere ricondotti (Dell’Aringa, Faustini e Gros Pietro,
1986) sia alla struttura demografica sia a comportamenti individuali,
soggetti a vincoli economici e istituzionali. Semplificando, si potrebbe
riconoscere nei fattori demografici i determinanti dell’offerta di lavoro,
mentre i vincoli economici definirebbero la domanda di lavoro. In realtà,
come si vedrà in seguito, offerta e domanda di lavoro, e quindi componenti demografiche ed economiche, sono tra loro interdipendenti.
Le variazioni nel tempo delle forze di lavoro possono essere scomposte in due effetti principali: un effetto «variazione della struttura demografica» e un effetto «variazione dei tassi di attività»1.
1 Il tasso di attività esprime il rapporto tra la popolazione attiva e quella totale. Si distingue tra
tasso generico, se riferito al complesso della popolazione, e tasso specifico, se riferito a
determinate classi di età e sesso. La scomposizione della variazione delle forze di lavoro dal
tempo 0 al tempo t può essere chiarita da una notazione algebrica (Pilloton, 1991). Indicando
con axs e Pxs, rispettivamente, il tasso di attività specifico e la popolazione di età x e sesso s,
l’ammontare delle forze di lavoro al tempo 0 e al tempo t può essere espresso da:
dove a xs, = O per x< 14. Introducendo l’ammontare teorico delle forze di lavoro che si sarebbe
avuto al tempo t mantenendo costanti i tassi di attività del tempo 0, FL*ts la variazione delle
forze di lavoro dal tempo 0 al tempo t è pari a:
Il primo termine di questa espressione rappresenta l’effetto delle modifiche nella
dimensione e nella composizione per classi di età e sesso della popolazione, il secondo la
variazione dei tassi di attività, che risente dei comportamenti e dei vincoli citati in precedenza.
256
Renato Guarini
Esaminando dapprima l’effetto «struttura demografica» è immediato
osservare che, a parità di condizioni, la crescita della popolazione ha un
impatto positivo sulla dimensione delle forze di lavoro, impatto tanto
maggiore se la crescita si produce nelle classi di età caratterizzate dai maggiori tassi di attività di partenza.
A questo proposito si può ricordare l’esperienza avutasi nei maggiori
paesi industrializzati con il baby boom della fine degli anni cinquanta e
dell’inizio anni sessanta (Flaim, 1990). Per tutto il periodo 1959-79, la
struttura per età della popolazione determinata dall’incremento demografico all’inizio del periodo, ha frenato lo sviluppo quantitativo dell’offerta di lavoro. Negli anni ottanta, con l’ingresso nell’età adulta dei
baby-boomers, l’effetto sulle forze di lavoro diventa invece chiaramente
positivo.
Sull’ammontare delle forze di lavoro esercita inoltre un effetto importante il saldo del movimento migratorio. Poiché, come si vedrà più
in dettaglio nel sottoparagrafo 3.3, le correnti migratorie interessano soprattutto la popolazione in età attiva, e in particolare i giovani e gli adulti
di sesso maschile, quindi le classi caratterizzate dai maggiori tassi di attività, nei paesi di emigrazione si riduce la dimensione delle forze di lavoro, mentre avviene il contrario in quelli di immigrazione.
È importante osservare che le variabili demografiche interagiscono
con le variabili economiche non solo direttamente, come si è appena visto, ma anche con riferimento al secondo fattore che determina la variazione delle forze di lavoro, ovvero le variazioni dei tassi di attività
specifici.
Tra i modelli interpretativi delle interrelazioni tra offerta e domanda
di lavoro, particolare rilevanza assumono l’ipotesi del lavoratore scoraggiato
e del lavoratore addizionale. In entrambi i casi, l’offerta di lavoro
complessiva viene scomposta in due componenti, «primaria» e
«secondaria». Nell’ipotesi del lavoratore scoraggiato, l’offerta si adegua
alla domanda, nel senso che mentre per le forze di lavoro primarie il
lavoro è una «necessità», per quelle secondarie (donne, giovani, anziani) esso è una « opportunità», che viene incentivata da contingenze
favorevoli e depressa dalla carenza di occasioni (Faustini, 1984). Un meccanismo contrario è alla base della seconda ipotesi, in cui l’offerta varia
in senso inverso alla domanda. In questo caso, infatti, le forze di lavoro
secondarie sono stimolate all’ingresso sul mercato del lavoro dalla necessità
di integrare i redditi familiari in periodi di diffusa disoccupazione.
Sull’offerta di lavoro, inoltre, agiscono anche le caratteristiche strutturali del sistema economico e istituzionale. Esempio tipico è la parteci-
Demografia ed economia
257
pazione femminile, vincolata dalla diffusione dell’industria pesante, dalla
disponibilità di servizi sociali e così via, mentre la partecipazione nelle
età giovanili è funzione della normativa sull’obbligo scolastico.
Nella direzione opposta, l’effetto dell’offerta di lavoro sulla domanda
assume connotazioni diverse a seconda delle «condizioni al contorno»
in cui il sistema si trova a operare. Così, l’incremento dell’offerta può
stimolare la domanda se, in presenza di flessibilità dell’organizzazione del
lavoro, si traduce in riduzione del costo del lavoro e/o in economie di scala
derivanti da una migliore organizzazione del lavoro. Ancora, un aumento
delle forze di lavoro in età giovanile potrebbe stimolare la domanda se
l’organizzazione aziendale è in grado di sfruttare il maggior potenziale di
innovazione, mobilità e, in molti casi, istruzione che è proprio delle
classi più giovani.
Più articolato è l’impatto netto dei fattori di natura demografica sulle
componenti della forza lavoro, in particolaré su occupazione e disoccupazione. Ad esempio, un aumento dell’incremento naturale della popolazione ha effetti differenziati a seconda dell’orizzonte temporale che
si considera. Nel breve-medio periodo, come dimostra l’esperienza degli
anni sessanta e settanta, esso genera una maggiore disoccupazione, visto
che le classi di età giovanili sono caratterizzate dai maggiori tassi di
disoccupazione. Nel lungo periodo, traducendosi in un rafforzamento
delle classi di età centrali, dà invece luogo a riduzioni notevoli della
disoccupazione.
Anche le migrazioni possono dar luogo a risultati controintuitivi. Se la
migrazione territoriale implica — come nella generalità dei casi — anche
una modifica nel settore di attività (un abbandono dell’agricoltura) e
nella condizione professionale (da autonomo a dipendente), l’effetto
netto può essere una riduzione del tasso di attività e/o un incremento
del tasso di disoccupazione, connesso all’abbandono dell’attività lavorativa da parte dei familiari.
Nota Faustini (1984) che, nell’analisi del mercato del lavoro, la frammentazione e l’eterogeneità dei fattori spiegano perché movimenti di
segno opposto anziché compensarsi, si cumulano: ad esempio, un aumento della domanda di lavoro, stimolando l’incremento dei tassi di attività, può creare maggiore disoccupazione.
In definitiva, quindi, non si dispone di regole certe e/o applicabili
alla generalità delle situazioni concrete. Lo sforzo dello studioso è allora
quello di cercare di classificare le diverse esperienze nel rispetto dell’osservazione empirica, evitando di forzarne l’interpretazione in base a spiegazioni preconcette.
258
Renato Guarini
3. Componenti della popolazione e variabili economiche
3.1. Fertilità e variabili economiche
Negli ultimi anni, dalla letteratura demografica emerge sempre più
chiaro l’orientamento a considerare l’andamento della fecondità non soltanto determinato da modelli di comportamento individuale, ma anche
da variabili economico-sociali. In questo ambito si sono sviluppate diverse teorie interpretative, suffragate da altrettante analisi empiriche,
tendenti a interpretare le relazioni tra fecondità e fenomeni economici.
Le divergenze tra i diversi studiosi riguardano inoltre il giudizio su quali
siano le cause e quali gli effetti dell’attuale situazione demo-economica.
Una prima relazione riguarda i legami tra fecondità e reddito, allo
scopo soprattutto di capire perché, nei paesi maggiormente sviluppati,
una data variazione di reddito può avere effetti diversi e spesso contrastanti sulla fecondità. Tale relazione si deve affrontare in due sensi.
Considerando l’aspetto relativo all’effetto della fertilità sulla distribuzione del reddito, come chiarito da Kuznets e Paglin, diminuzioni della
fertilità, che determinano cambiamenti nella struttura per età della popolazione, facendo variare la proporzione della popolazione attiva, influenzano la distribuzione del reddito. Inoltre il minore ricambio generazionale, allungando la piramide per età della popolazione, ripropone
in tutta la sua gravità il problema degli anziani, con evidenti implicazioni
economiche.
Per quanto concerne l’altro aspetto relativo all’effetto della distribuzione del reddito sulla fertilità (Repetto, 1978), si rileva che i miglioramenti delle condizioni di vita sono fattori di declino della fertilità.
Ma la relazione tra reddito e fertilità non è lineare, in quanto nella determinazione dei tassi di fecondità interagiscono altri fattori dipendenti dalle aspettative e dai desideri delle famiglie. Infatti, considerando
famiglie con differenti livelli di reddito, ci si dovrebbero aspettare comportamenti differenziali nell’offerta di figli cioè nei livelli di fecondità,
in relazione a incrementi del reddito. In realtà, ciò non avviene e il tasso di fecondità rappresenta il mezzo per l’adeguamento della dimensione delle famiglie all’obiettivo di raggiungere l’equilibrio tra numero di
figli avuti e numero di figli desiderati.
Le relazioni tra fecondità e variabili economiche sono state per molti anni esaminate in un’ottica macro ricollegandosi prevalentemente alle teorie della crescita economica.
Negli anni più recenti alcuni economisti, soprattutto americani (Bec-
Demografia ed economia
259
ker, 1964; 1981), hanno cercato di spiegare le strategie familiari in termini di analisi economiche tradizionali nell’ambito della macro-economia.
Il pioniere di questa new household economica ha ispirato molti autori facendo
leva e dando particolare enfasi ai problemi della fecondità in relazione
alla forza di lavoro femminile e al matrimonio. Egli assume che ogni
famiglia massimizzi una funzione di utilità costituita dalla quantità e qualità
dei figli e degli altri beni propriamente materiali. Considerando i figli
come «beni» particolari prodotti con l’impiego del tempo dei genitori e
delle merci acquistate sul mercato, Becker sostiene che la domanda di
figli dipende dal loro costo relativo. Pertanto, un aumento del «prezzo»
dei figli, rispetto a quello di altri beni, a parità di condizioni, riduce la
domanda di figli e aumenta quella di altri beni.
Nell’applicare il termine produzione a quei beni particolari rappresentati dai figli, è evidente che il concetto di produzione adottato è molto
più ampio rispetto alla pura trasformazione di beni in altri beni. Si tratta
cioè di un processo o di una trasformazione, secondo Becker, che non può
essere valutato in termini esclusivamente monetari, ma che comunque si
cerca di inquadrare in un’analisi economica, pur ammettendo i limiti
che da tale approccio possono derivare.
È da tener presente in questa analisi economica della fecondità l’effetto dell’interazione tra quantità e qualità dei figli, che può giustificare
sia il calo della natalità nei paesi più progrediti sia il contestuale aumento
della qualità dei figli (in termini di investimenti o per istruzione e
formazione professionale). Un incremento di qualità, raggiunto ad esempio
con una maggiore spesa in istruzione, innalza il costo marginale delle
quantità dei figli, causando una diminuzione della domanda di quantità
fino ad arrivare a un nuovo punto di equilibrio.
La relazione tra fecondità e grado di istruzione può essere esaminata
considerando la fecondità differenziale per titolo di studio. Interessanti i
risultati dell’analisi empirica di Castiglioni e Dalla Zuanna (1988) che, ricostruendo la serie della fecondità totale delle generazioni di donne venete nate tra il 1880 e il 1944, rilevano che le differenze di fecondità si riducono progressivamente fino a raggiungere la massima omogeneità nel
1934 (anno di alta fecondità); successivamente la forbice si allarga di nuovo.
I livelli di fecondità, in funzione del livello di istruzione e dell’attività
lavorativa, sono anche esaminati applicando il metodo dei figli propri
(own children); tale metodo può essere applicato per contemporanei e per
generazioni. L’analisi per contemporanei presenta forti limiti derivanti
in particolare dall’aggregazione dei gruppi non necessariamente
omogenei rilevati in momenti diversi della loro carriera riproduttiva: ini-
260
Renato Guarini
ziale, scolastica e lavorativa; limiti superati dall’analisi per generazioni.
L’analisi della fecondità in Italia per il periodo 1967-81, effettuata con
tale metodo da De Santis (1989), mostra che la fecondità varia inversamente al grado di istruzione raggiunto ed è minore per le donne che lavorano ma non tra le donne attive in agricoltura, che risultano anche
più feconde delle casalinghe.
Nel caso dell’Italia, caratterizzata da diversi comportamenti riproduttivi nelle varie zone geografiche, Grussu (1984), analizzando il mo’
dello riproduttivo a bassa natalità della popolazione italiana complessiva, ritiene che un vincolo importante sia dovuto ai mutamenti socioculturali, mentre considera poco significativi gli effetti diretti dei fattori prevalentemente economici, quali industrializzazione e urbanizzazione. Tali fattori provocherebbero effetti indiretti, in quanto indicatori
dei cambiamenti culturali.
Il comportamento riproduttivo può esaminarsi considerando (Pinnelli,
1984) alternativamente due variabili dipendenti: il numero dei figli viventi e il numero dei figli attesi. La verifica effettuata da Pinnelli (1984)
applicando la path analysis mette in evidenza che i condizionamenti socioeconomici e culturali collettivi sono i fattori più rilevanti considerando
il numero dei figli attesi.
Un’analisi dell’andamento della fecondità in Italia nell’ultimo quarantennio basata su un approccio micro è quella effettuata da Cigno (1988),
che formula due ipotesi: una statica (fecondità completa) e una dinamica (calendario nascite), costruendo uno schema di relazioni tra variabili
economiche e demografiche. In base a tale schema interpretativo il calo
della fecondità completa verificatosi in Italia sarebbe spiegato dal miglioramento del livello medio di istruzione della donna, che avrebbe fatto aumentare sia l’età al matrimonio sia il valore del capitale umano delle donne. Per quanto riguarda il calendario delle nascite, la tendenza all’anticipo osservata negli anni cinquanta e sessanta sarebbe attribuibile all’aumento del reddito medio e all’aumento dell’età al matrimonio, mentre la
tendenza al ritardo osservata negli anni settanta sarebbe attribuibile alle opportunità di carriera delle donne e a un aumento del salario.
Le relazioni tra il fenomeno della natalità e i fattori economico-sociali
risultano più significative se analizzate con riferimento a dati territoriali disaggregati. Livi Bacci (1980), per valutare i fattori delle differenze
di livello e di tendenza della fecondità nelle diverse province dell’Italia,
effettua un’analisi di correlazione territoriale ponendo in relazione l’indice di fecondità legittima con alcune variabili, tra le quali l’indicatore
della porzione delle coniugate, la ruralità, l’industrializzazione, l’urbanizzazione. Interessanti i risultati, dai quali si evince che gli indicatori
Demografia ed economia
261
di carattere più dichiaratamente economico sono anche quei fattori meno strettamente legati alla fecondità o ad essa legati in modo contraddittorio. La definizione di questi indicatori, in generale citati dai sostenitori della teoria della transizione demografica come i fattori principali
del declino della fecondità, si è rivelata poco precisa e ambigua.
Le relazioni tra il fenomeno della natalità e fattori economico-sociali
risultano più significative se analizzate con riferimento a dati territoriali disaggregati.
La disponibilità in Italia di dati relativi a unità territoriali di limitate
dimensioni (i comuni) ha permesso di effettuare ulteriori verifiche
empiriche sui dati. Bellettini (1966), analizzando la natalità (oltre che
la mortalità) della popolazione dei comuni della provincia di Bologna
in relazione ad alcuni indicatori del livello di agiatezza e delle caratteristiche socio-professionali della popolazione, osserva che la natalità e la
fecondità generale aumentano con l’aumentare della proporzione della
popolazione operaia, mentre un trend inverso si osserva quando si considera la fecondità legittima.
La relazione fra natalità e sviluppo economico è molto stretta anche
quando si considerano periodi molto lunghi. Ciò emerge dalle analisi di
Santini (1971), che considera la natalità e le fluttuazioni economiche
in ordine ciclico sulla base dell’analisi di concordanza tra una serie demografica e una economica, previa individuazione delle rispettive componenti cicliche. Suddividendo il periodo 1863-1964 in ventuno cicli,
per ognuno dei quali viene studiata la concordanza tra i profili dei flussi
demografici e di quelli economici, l’analisi empirica conduce a verificare per la natalità una conformità positiva molto elevata con le fluttuazioni economiche di natura ciclica almeno per i primi settantacinque
anni dell’unità d’Italia. Per gli anni successivi alla seconda guerra mondiale si osserva invece un’attenuazione delle concordanze.
Questa attenuazione secondo Santini non invalida però il legame positivo tra fluttuazioni economiche e natalità; essa deve ricondurci all’elevato tasso di sviluppo del sistema economico italiano nel periodo considerato, che ha reso meno incisivi gli impulsi ciclici, e all’attenuazione
dei movimenti ciclici dovuti sia alle politiche anticongiunturali sia al processo di industrializzazione della struttura produttiva.
3.2. Mortalità e variabili economiche
La riduzione della mortalità negli ultimi cento anni in tutti i paesi
e anche in Italia ha rappresentato il fenomeno più caratteristico della
cosiddetta «rivoluzione demografica». L’evoluzione della mortalità, co-
262
Renato Guarirli
m’è noto, può analizzarsi sia considerando misure basate sui quozienti
di mortalità (generici o specifici), sia considerando la misura della durata
media della vita di una generazione.
Anche se i demografi considerano la seconda misura più idonea a cogliere il fenomeno, si ritiene che per analizzare le relazioni tra mortalità
e aggregati economici sia interessante riferirsi a entrambe le misure.
La riduzione della mortalità è indubbiamente da attribuire alla diffusione delle conoscenze scientifiche ma, entro certi limiti, anche all’aumento del reddito pro capite (soprattutto per la mortalità perinatale e
infantile, da malattie infettive, da malnutrizione). Si produrranno effetti diversi a seconda di quale classe di età è interessata a una minore
mortalità; ad esempio, una riduzione nelle età infantili ha come effetto
di breve periodo un aumento delle presenze nelle età pre-lavorative con
un abbassamento del rapporto tra popolazione in età da lavoro e popolazione complessiva. Dal punto di vista economico, in queste condizioni
la «produzione di lavoratori» viene a costare meno perché è stato ridotto
lo spreco derivante da una elevata mortalità infantile.
Una riduzione della mortalità nelle età post-lavorative, a lungo andare, tende ad abbassare il rapporto tra popolazione in età lavorativa
e popolazione totale proponendo il problema di come sopportare il carico di una quota accresciuta di improduttivi. La riduzione della mortalità
nelle classi di età lavorative provoca un miglioramento del rapporto fra
produttivi e popolazione totale. Come afferma Tapinos (1985), la
relazione tra il livello di mortalità e il grado di sviluppo economico esprime
l’incidenza dei fattori socio-economici sulla mortalità e ribadisce l’esistenza di una forte correlazione negativa tra la mortalità infantile e il
reddito pro capite. La correlazione resta elevata anche per la speranza
di vita. Egli inoltre sostiene, come si desume dai lavori di Preston (1975),
che la speranza di vita si è allungata nel tempo pur considerando uno
stesso livello di reddito pro capite; il che fa presumere che operano fattori esogeni indipendenti dalle variabili economiche. I fattori socioeconomici della mortalità sono messi in luce con più evidenza considerando la mortalità differenziale secondo i gruppi sociali. Non mancano
interessanti contributi italiani su questi aspetti.
Sylos Labini (1990) osserva che per analizzare correttamente i legami tra mortalità ed evoluzione economica in un dato paese occorre
riferirsi alla sequenza della « transizione sanitaria» che corrisponde ai
diversi stadi dello sviluppo economico. Infatti le malattie socialmente
rilevanti non restano le stesse nel tempo e negli ultimi secoli possono
distinguersi tre periodi: periodo delle grandi epidemie (peste, vaiolo e
così via); periodo del predominio delle malattie infettive e di quelle
Demografia ed economia
263
degli apparati respiratorio e digerente; periodo delle «tre c» (cancro, cuore, cervello). Tra i molteplici fattori che condizionano le diverse cause
di morte sono rilevanti quelli economici (alimentazione, disponibilità di
infrastrutture e di servizi sociali) e quelli culturali (livello medio di istruzione, professioni e così via) e tra di essi esiste una forte interrelazione.
Sarebbe un errore ritenere che tra livello del reddito e saggio di mortalità sussista una stretta relazione. Secondo Sylos Labini la relazione
esiste ma non è stretta; ci sono paesi che, pur avendo un reddito basso
o molto basso, hanno un saggio di mortalità relativamente basso e una
vita media relativamente alta. Sono i paesi in cui i governi hanno compiuto notevoli sforzi nel campo degli investimenti per infrastrutture
igienico-sanitarie e nel sistema educativo.
Inoltre Sylos Labini concorda con Livi Bacci nel ritenere che la disponibilità di alimenti non ha quel ruolo decisivo, attribuito dagli economisti
del passato, sulla mortalità in generale e su quella imputabile alle malattie infettive. Se si mettono da parte le situazioni di carestie e di malnutrizione acute, altri fattori quali acqua, fognature, conoscenze mediche e conoscenze igieniche-alimentari, hanno svolto e svolgono nei paesi
economicamente arretrati un ruolo ben più importante. Sylos Labini inoltre afferma che non deve sembrare strano che un economista attribuisca
tanta importanza ai fattori culturali a scapito di quelli propriamente economici. Esiste un’interazione tra questi due fattori e tra questi e quelli
ambientali. Ma come nel tempo non restano invariate le cause di morte,
non resta neppure invariato il peso relativo dei fattori economici in diversi stadi di sviluppo. I primi economisti, i quali attribuivano la massima importanza ai fattori economici, facevano riferimento a uno degli stadi dello sviluppo. Nello stadio delle «tre c» il peso dei fattori economici si riduce fortemente a vantaggio dei fattori culturali.
Un tentativo di analisi della mortalità differenziale secondo le categorie professionali di appartenenza è quello compiuto da Caselli ed Egidi (1984), collegando le caratteristiche delle mortalità alla struttura socioeconomica prevalente in aree territoriali di limitate dimensioni demografiche. Dalla ricerca è emerso che dove maggiore è la presenza di mano d’opera occupata nell’industria più alta è la probabilità di morte, mentre dove più alta è la proporzione di occupati in agricoltura o di quadri
intermedi e superiori si registrano livelli di mortalità più vantaggiosi,
soprattutto nelle età lavorative e post-lavorative. Sicuramente una stratificazione territoriale della mortalità conduce a risultati per la cui interpretazione è necessario far ricorso a concetti più ampi e diversi della
sola composizione per categorie socio-professionali. Risiedere stabilmente
in una certa area comporta infatti l’appartenenza dell’individuo a una
264
Renato Guarini
comunità umana caratterizzata da livelli di comportamento e culturali
che possono essere anche molto diversi da zona a zona. Condizionamenti
dell’ambiente in cui si vive e in particolare effetti del reddito sulla mortalità emergono dalle varie analisi effettuate, ma per cogliere meglio il
fenomeno e isolare i diversi fattori di influenza occorre operare su dati
il più possibile disaggregati, tenendo conto del maggior numero possibile
di informazioni. Pertanto, analizzare i tassi di mortalità distinti per causa
di morte può aiutarci nell’interpretazione dei dati.
Coale e Hoover (1958), considerando le interrelazioni tra fenomeni
economici e demografici, fanno riferimento allo sviluppo economico e
alla crescita della popolazione seguendo l’approccio della «transizione
demografica». Secondo questa teoria la storia dell’uomo è stata caratterizzata da periodi di equilibrio demografico intervallati da fasi irregolari
che preludevano a nuovi momenti di stabilità. Cronologicamente, si è
passati da una crescita modesta, determinata dalla reciproca compensazione di alta natalità e alta mortalità, a un equilibrio di crescita moderata basato sulla combinazione di una bassa natalità con una bassa mortalità. Il passaggio dall’una all’altra situazione avverrebbe attraverso una
fase intermedia caratterizzata da un forte e netto incremento della popolazione; in questa fase, alla forte riduzione della mortalità, conseguita attraverso i progressi tecnico-scientifici, non si accompagna un’altrettanto decisa riduzione della fecondità (riduzione che si verifica con
ritardo e lentamente, giacché richiede un mutamento delle abitudini e
dei costumi del passato). Secondo questi autori la riduzione dei tassi di
mortalità registrata nell’Occidente europeo è legata, nel Settecento e
nella prima metà dell’Ottocento, agli effetti generati da miglioramenti
economici, mentre nella seconda metà dell’Ottocento e specialmente nel
Novecento beneficia dei progressi medico-terapeutici e della maggiore
attenzione dei governi in tema di salute pubblica.
3.3. Conseguenze economiche del movimento migratorio
Il movimento migratorio influenza fortemente il comportamento economico e sociale delle collettività interessate e di conseguenza lo sviluppo economico dei paesi, Inoltre, essendo un fenomeno di accumulazione i cui
effetti si manifestano nel corso del tempo, esso va esaminato in una
prospettiva dinamica.
Le conseguenze economiche del fenomeno sono differenti a seconda
della realtà territoriale che si considera. In generale, le migrazioni tendono a modificare il rapporto tra produttori (individui in età giovanile
e centrale) e consumatori (individui in età infantile e senile); in partico-
Demografia ed economia
265
lare il rapporto si abbassa nei paesi di emigrazione e si alza in quelli di
immigrazione. Se l’emigrazione fa diminuire la pressione demografica
del paese di origine e stimola lo sviluppo economico, l’effetto finale sarà
positivo. Ma tale effetto dipende dalla struttura per età della popolazione
stessa; se questa è caratterizzata da una elevata proporzione di classi di
età senili, la perdita di forze di lavoro in età produttiva rappresenterà un
fattore negativo per l’espansione economica. Il paese di immigrazione può
invece fruire di vantaggi derivanti dall’acquisizione di energie lavorative
tanto più utili quanto più qualificate. Tuttavia, se i flussi di immigrazione
sono troppo elevati rispetto alla potenzialità di sviluppo economico del
paese, l’ingresso di nuove forze di lavoro può comprimere il livello
medio salariale e creare solo disoccupazione.
La valutazione di questi fenomeni in termini economici può essere
effettuata ricorrendo al concetto di capitale umano e ai conseguenti criteri di misura statistica. Fecondi e non privi di originalità sono stati i
contributi degli studiosi italiani su questo argomento.
Nella valutazione del capitale umano è implicita un’interpretazione
degli effetti economici delle migrazioni di tipo strutturale. In questa
ipotesi possono svilupparsi due linee interpretative che suggeriscono rispettivamente un bilancio negativo e un bilancio positivo.
La tesi secondo cui il movimento migratorio (immigrazione) si caratterizza per un bilancio negativo può essere sintetizzata nel seguente schema logico: il ricorso a manodopera immigrata con bassa qualificazione
esercita pressione sul livello generale dei salari e abbassa artificialmente
il prezzo del fattore lavoro. Ciò spinge l’impresa a modificare il rapporto
dei fattori capitale/lavoro e a una specializzazione basata su tecniche labour
intensive. Fin quando è possibile il ricorso a manodopera straniera si
determina un aumento dello stock degli stranieri presenti sul territorio di
immigrazione e gli effetti di cui sopra potranno anche determinare
distorsioni nel sistema produttivo. Nell’utilizzazione della manodopera
straniera devono considerarsi anche gli aspetti settoriali, in quanto essa è
determinata da carenza di offerta interna dovuta a una disaffezione dei
lavoratori nazionali per alcune mansioni o qualifiche professionali; ciò
conduce nel tempo a un accentuato ricorso a lavoratori stranieri.
In assenza di immigrazione la penuria di manodopera potrebbe condurre a una trasformazione delle condizioni di lavoro, a variazioni delle
retribuzioni e all’introduzione di nuove tecnologie; in altre parole l’immigrazione potrebbe rappresentare nel lungo periodo un freno ai cambiamenti. Nella storia recente del movimento migratorio in Europa si
sono verificate situazioni di questo tipo; è sufficiente riferirsi a quanto
266
Renato Guarini
è accaduto nella Repubblica federale tedesca negli anni settanta o a quanto
sta avvenendo in Italia negli ultimi anni.
Un’altra tesi attribuisce, invece, all’immigrazione un effetto positivo
sui fattori determinanti le modifiche del sistema industriale e le politiche
industriali. Gli effetti riguardano la formazione del capitale e la flessibilità
del sistema produttivo. In una situazione di sovraimpiego l’immigrazione,
considerando la contrazione della manodopera nel contesto di offerta
limitata di lavoro, favorisce una crescita alla Lewis con accumulazione di
capitale che esercita una pressione sui salari. Inoltre l’immigrazione
accresce la flessibilità del sistema produttivo nella misura in cui si rende
possibile la messa in moto di progressi di produttività a certi stadi di
sviluppo industriale. Effetti positivi di tipo strutturale associati alle
immigrazioni si verificano nei paesi d’origine in dipendenza sia delle
rimesse degli emigranti sia del loro ritorno con un più avanzato livello di
qualificazione professionale. La partenza degli emigranti ha inoltre
conseguenze sul livello dell’occupazione, sulla produzione e sui salari
delle unità territoriali di origine, mentre l’invio dei risparmi agisce sul
livello di vita delle famiglie, modifica la ripartizione dei redditi, il
livello dei prezzi, il processo di accumulazione e la crescita. Il ritorno
degli emigrati modifica molto, come già prima considerato, lo stock di
capitale umano.
Un’altra interpretazione delle conseguenze economiche delle migrazioni considera il significato congiunturale del fenomeno; tali interpretazioni hanno avuto origine analizzando la recessione economica della Repubblica federale tedesca del 1967 o più generalmente le recessioni verificatesi in quasi tutti i paesi europei negli anni 1974-76. Al fenomeno
migratorio è stato attribuito il ruolo di ammortizzatore della congiuntura che si esplica in una flessibilità all’attrazione nei periodi di espansione economica e in una flessibilità alla repulsione nei periodi di recessione.
In entrambe le situazioni il fenomeno migratorio ha i suoi effetti sul
livello dei salari, sull’organizzazione del sistema produttivo, sul funzionamento del mercato di lavoro, sul ritmo di accumulazione, sulla specializzazione produttiva.
I flussi migratori possono interpretarsi anche attraverso la costruzione
di modelli analitici statistico-matematici che nella letteratura vengono distinti a seconda che riguardino flussi interregionali o flussi internazionali (Garonna, 1977). I modelli relativi ai flussi interregionali sono di
tipo gravitazionale o catene di Markov.
I flussi internazionali si basano sull’incidenza che i flussi di manodopera in entrata o in uscita hanno sulla crescita, sui tassi di inflazione
e dei salari, sulla struttura produttiva. Queste variazioni rappresentano
Demografia ed economia
267
variabili esplicative dei flussi migratori e vengono considerate sia per i
paesi di origine sia per quelli di destinazione.
L’esperienza italiana delle migrazioni, tanto interregionali quanto internazionali, pone in discussione queste distinzioni fatte in letteratura.
Le caratteristiche delle migrazioni dal sud al nord dell’Italia corrispondono infatti a quelle che la letteratura analizza nell’ambito delle migrazioni
internazionali. Al riguardo, Salvatore (1987), nell’ambito dei modelli
delle migrazioni interne, riformula i lavori di Todaro2 (1969) migliorando
l’impostazione dei precedenti modelli di Schultz (1961) e Becker (1964)
basati sull’approccio del capitale umano.
Nel caso italiano il fenomeno delle migrazioni interne non può essere
considerato separatamente dallo sviluppo economico del paese. Anzi si
può asserire che, nel processo di evoluzione e trasformazione del sistema
economico del paese, la migrazione ha avuto un ruolo di fattore attivo
delle stesse tendenze evolutive.
Le influenze dei movimenti migratori interni sono molteplici e si esplicano nei più diversi campi. In Italia, nei decenni successivi alla seconda
guerra mondiale, la non uniforme localizzazione delle attività produttive e il diverso ritmo di sviluppo delle singole zone hanno determinato
notevoli flussi migratori (prevalentemente forze di lavoro) diretti verso
quelle aree che (per la loro accertata esuberanza di risorse disponibili)
hanno offerto ai migranti maggiori disponibilità di diminuire l’esistente
dislivello del tenore di vita.
Nel breve periodo gli effetti delle migrazioni hanno contribuito all’incremento del reddito complessivo e a un impiego più efficiente delle
risorse disponibili. Ma considerando un arco di tempo più lungo, si nota
che i flussi migratori influiscono anche negativamente in quanto, favorendo lo sviluppo economico delle cosiddette aree ad alto livello a discapito delle aree a basso livello, hanno contribuito ad accentuare gli
squilibri demografici, sociali ed economici tra di esse esistenti; né a migliorare le situazioni hanno contribuito i trasferimenti di una parte dei
redditi percepiti dagli emigrati nelle loro nuove sedi.
Per analizzare gli effetti del movimento migratorio e costruire modelli interpretativi occorre disporre di numerosi dati statistici a livello
territoriale molto disaggregato. Come per tutti i fenomeni, infatti, modelli aggregati possono nascondere gli effetti di importanti variabili.
2 Secondo Todaro la migrazione riflette la differenza positiva tra i guadagni attesi (forniti dai guadagni reali ponderati per la probabilità di trovare un lavoro) nelle campagne e
nelle città. Se la migrazione verso la città è più veloce della creazione di posti di lavoro la
probabilità di trovare occupazione diminuisce riducendo i guadagni reali attesi nelle città
a livello di quelli agricoli facendo crescere lo stimolo a emigrare.
268
Renato Guarini
Natale e Guarini (1975) hanno costruito una dettagliata matrice
origine-destinazione, per regione e provincia, dell’Italia nel periodo
1955-70. Oltre a un’analisi empirica del fenomeno è stato quantificato
un modello gravitazionale a correnti interdipendenti di tipo moltiplicativo in cui sono state considerate ventotto variabili raggruppate in quattro
gruppi: variabili demografiche, economiche, livelli di occupazione, indicatori sociali. I risultati hanno messo in evidenza la significativa influenza
sul fenomeno migratorio interno degli indicatori economici e sociali.
La complessità del fenomeno migratorio e le difficoltà di individuare
adeguati modelli interpretativi emergono riflettendo su quanto si è verificato negli ultimi anni, nel corso dei quali alcuni paesi di tradizionale emigrazione come Italia, Spagna, Grecia si sono trasformati in paesi di immigrazione, a causa dei flussi immigratori di ritorno o di flussi provenienti dai
paesi in via di sviluppo. In passato la Repubblica federale tedesca e la
Francia erano stati i soli paesi di destinazione di consistenti flussi migratori, peraltro sensibilmente ridotti nell’ultimo decennio dall’ azione frenante di alcuni provvedimenti governativi (Tassinari e Tassinari, 1990).
Quanto all’impatto dei flussi di immigrati sulla situazione economica,
demografica e sociale di questi paesi e particolarmente dell’Italia,
occorre distinguere tra effetti di lungo e di breve periodo.
Nel breve periodo i flussi di immigrazione hanno svolto una funzione
di aggiustamento degli squilibri qualitativi tra domanda e offerta di
lavoro che caratterizzano i paesi europei e che hanno originato, soprattutto in Italia, Spagna e Grecia, paradossali situazioni di disoccupazione
strutturale (Malinvaud, 1986). In questi paesi si è infatti creata una vera e
propria domanda esplicita di lavoratori stranieri per i quali si rendono
disponibili posti di lavoro in attività poco qualificate a più bassi salari e
con scarse garanzie.
Nel lungo periodo le conseguenze, anche se non ancora completamente valutabili, sono diverse e molto più complesse. Tali effetti dipendono anche dall’introduzione di politiche di regolamentazione dei flussi
migratori. L’integrazione economica e culturale degli immigrati ripropone in termini nuovi, rispetto alle esperienze storiche passate, le contraddizioni, i problemi del mercato del lavoro, delle abitazioni, dell’istruzione e della sicurezza sociale con il rischio di un’attenuazione, nel
periodo lungo, di alcune spinte che hanno tradizionalmente sostenuto
la crescita economica di questi paesi e il profilarsi di prospettive che solleciterebbero cambiamenti negli indirizzi politici (Fuà, 1986). Inoltre,
in mancanza di incisive politiche nazionali del lavoro tendenti a equilibrare qualitativamente la domanda e l’offerta del lavoro dei paesi euro-
Demografia ed economia
269
pei, è prevedibile che sarà ancora molto sostenuta la domanda di lavoro
per occupazioni poco protette e a bassa rimunerazione, attualmente soddisfatta in larga misura dai lavoratori dei paesi in via di sviluppo.
Nell’analisi di flussi migratori, oltre alle determinanti socio-economiche, devono essere considerate variabili strutturali quali la rallentata
dinamica demografica e l’elevato processo di invecchiamento; fenomeni questi
che sono particolarmente rilevanti in una fase di terziarizzazione del
sistema economico quale quella attualmente presente in Italia (Tapinos e
Turci, 1986).
Il processo di invecchiamento in atto nella popolazione italiana, oltre
ad avere effetti sull’economia italiana in quanto muta la disponibilità
del fattore lavoro nel processo produttivo, ha effetti indotti nel
quadro internazionale all’interno del quale si contrappongono paesi industrializzati caratterizzati da un’elevata quota di popolazione anziana
e paesi in via di sviluppo con popolazioni giovani e numerose. In queste
due realtà si maturano differenziali di condizioni economico-sociali che
costituiscono le determinanti dei flussi migratori. Il comportamento
migratorio rilevato in Italia negli ultimi anni avvalora questa interpretazione. L’ipotesi su cui si fonda la lettura del fenomeno è che nella
seconda metà degli anni settanta siano maturate condizioni naturali e
sociali internazionali, oltre a quelle economiche e politiche, che hanno
determinato i flussi migratori verso paesi come l’Italia, tradizionalmente di emigrazione. Tali flussi traggono origine da condizioni più complesse di quelle che hanno determinato le grandi migrazioni della prima
metà del secolo. Fra queste appunto il crescente divario nei saldi demografici: infatti negli anni settanta, mentre i saldi naturali di molti paesi
industrializzati presentano valori bassi o negativi, quelli dei paesi in via
di sviluppo risultano sempre molto elevati. In Italia, in particolare,
l’immigrazione da questi paesi, che alcuni inizialmente avevano considerato un fenomeno transitorio, trova invece nel processo di invecchiamento della popolazione italiana un alveo strutturale che ne permette
l’assestamento e ne favorisce la dinamica (Tapinos e Turci, 1986).
4. Conclusioni
Dalla rassegna delle diverse posizioni teoriche e dei contributi italiani
sul tema delle interrelazioni tra economia e demografia, svolta nelle
pagine precedenti, emerge in primo luogo che, anche se a livello internazionale, problemi, osservazioni e dispute intorno al problema sono sempre vivi e attuali, l’interesse per l’argomento, considerato di frontiera
270
Renato Guarini
tra economia, demografia e statistica, non è testimoniato con continuità nelle ricerche degli studiosi italiani.
L’attenzione degli economisti italiani sulla materia delle relazioni tra
popolazione ed economia, come osserva Fuà (1986), dopo aver suscitato un’importante letteratura fino a mezzo secolo fa, appare oggi notevolmente ridotta. La stessa osservazione può formularsi nei riguardi dei
demografi e degli statistici economici italiani: pochi sono e sono stati
gli studiosi che hanno sviluppato e approfondito questi temi in relazione ai numerosi e valenti cultori di demografia e di statistica che esistono nel nostro paese. Non è risultato, di conseguenza, sempre agevole
individuare i contributi qualitativi e quantitativi degli studiosi italiani
sull’argomento nel contesto del dibattito internazionale, che è stato ed
è, invece, molto ampio e approfondito. La disponibilità di dati statistici
storici e territoriali sui fenomeni economici e demografici avrebbe dovuto invece incoraggiare lo sviluppo di tali filoni di ricerca.
In secondo luogo emerge che nell’esame della letteratura economicodemografica non si individuano posizioni univoche sulle relazioni che
operano tra popolazione ed economia; le controversie riguardano non
solo l’intensità ma addirittura il segno degli impatti dei fattori demografici sulle variabili economiche. Inoltre vengono prevalentemente effettuate analisi di singole relazioni, mentre si evita il ricorso a modelli
globali e a processi di sintesi, anche per le difficoltà obiettive che sorgono a questo livello di analisi. Non soltanto, infatti, la storia dello sviluppo — o del mancato sviluppo — dei diversi paesi mostra evidenze contrastanti in merito al rapporto fra struttura ed evoluzione della popolazione e crescita economica. Ciò che più evidenzia, nel complicare lo sforzo
di sintesi, è l’abbondanza di ipotesi interpretative dei meccanismi di regolazione del rapporto fra caratteristiche demografiche e condizioni economiche, ciascuna confortata da un adeguato supporto intuitivo, le cui
diverse combinazioni danno luogo a risultati completamente differenti.
In questa situazione, rimane scoperto un ampio spazio di ricerca specificamente rivolto alla sensibilità dell’economista quantitativo, del demografo e dello statistico economico. L’utilizzazione delle informazioni
dei dati statistici consente infatti di verificare la teoria dell’interdipendenza tra popolazione ed economia, affinché questa non resti allo stato
di semplice ipotesi astratta, giustificata, come scrive Polja, solo da un
ragionamento plausibile in assenza di evidenze empiriche.
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Capitolo nono
Riproduttività
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
Il presente capitolo raggruppa vari argomenti, dalla nuzialità alle rotture dell’unione matrimoniale, dalla fecondità al controllo dei concepimenti, dall’abortività alle opinioni su vari temi, ma principalmente
ancora su fecondità, contraccezione, aborto. Tutti questi fenomeni occupano indubbiamente un posto centrale nella scienza che studia la sostituzione delle generazioni e i processi, di ordine sia biologico sia sociale,
che la regolano; inoltre essi, proprio negli ultimi vent’anni, hanno subito variazioni di grande rilievo, hanno visto modificazioni del quadro
giuridico entro cui si esplicano e sono stati oggetto di particolare attenzione, mai prima manifestata, da parte della pubblica opinione. Nonostante le evidenti connessioni con i temi del presente capitolo, saranno
trascurati, con poche e motivate eccezioni, sia lavori che riguardano
nuzialità e fecondità dei tempi passati sia lavori in tema di politiche
demografiche.
La nuzialità, come si vedrà nel paragrafo 1, è stata considerata spesso solo come fattore importante ai fini dello studio della fecondità, ma
una parte non trascurabile degli studi sull’argomento riguarda invece la
nuzialità come variabile sociale, di per se stessa degna di considerazione. I principali lavori concernenti questo tema saranno esaminati vedendo
dapprima i contributi sui livelli di nuzialità in Italia e in aree più circoscritte, evidenziando l’eventuale uso di modelli particolari, tra cui le
simulazioni e il ciclo di vita; seguiranno i lavori concernenti alcuni caratteri specifici della nuzialità. A questo paragrafo è stata aggregata la
parte concernente le rotture dell’unione matrimoniale per separazione
o divorzio, la cui produzione, meno numerosa, rende più difficile la distinzione tra studi su livelli e tendenze e studi su aspetti particolari.
La fecondità, quale determinante, assieme alla mortalità, della dinamica naturale della popolazione, ha da sempre rappresentato uno dei temi centrali della ricerca demografica. Da quando, tuttavia, si è constatato che essa sta diventando il più importante regolatore dello sviluppo
delle popolazioni contemporanee, l’interesse nei suoi confronti ha subi-
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Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
to un ulteriore incremento. Esaurita la transizione demografica «classica», i paesi sviluppati stanno vivendo quella che è stata chiamata la «seconda transizione» (Van de Kaa, 1987), a sottolinearne l’importanza nello
sviluppo delle società avanzate. In questa seconda transizione, l’accento
è posto sulla diminuzione della fecondità e sulle sue possibili cause:
conoscenza e diffusione di metodi contraccettivi, abortività, cambiamenti
nel modo di vivere la famiglia e nel ruolo dei suoi componenti e così
via. I livelli di fecondità, le tendenze e le loro determinanti, le differenze tra i vari gruppi sociali e così via sono pertanto di estremo interesse
nella demografia delle società sviluppate. Il paragrafo 2, concernente l’esame dei contributi in tema di fecondità, si occuperà solo dei lavori in
cui il fenomeno è collocato al centro della riflessione, le eventuali altre
variabili essendo solo esplicative. La successione degli argomenti segue
un ordine logico, che distingue:
a) studi sulla fecondità e sulle sue determinanti demografiche;
b) studi sulle determinanti non demografiche (socio-culturali, economiche, biologiche e così via);
c) studio della fecondità di gruppi circoscritti di popolazione.
La distinzione presenta ovviamente elementi di arbitrarietà e non è
priva di sovrapposizioni, ma consente una trattazione per grandi aree
omogenee, che aiuta a comprendere meglio l’articolazione dei temi affrontati dagli anni settanta.
Il raggiungimento degli attuali bassi livelli di fecondità in Italia passa
necessariamente attraverso il controllo dei concepimenti e il ricorso
all’aborto. Queste due «variabili intermedie» — contraccezione e aborto — sono le più strettamente correlate con la fecondità, mentre altre
variabili — come l’abortività spontanea, l’infertilità e la durata dell’allattamento — nel nostro paese non hanno certo un peso molto significativo. Nel paragrafo 3, dedicato al controllo dei concepimenti, e nel successivo paragrafo 4 sull’abortività, viene documentata la produzione scientifica sui rispettivi temi, che usa dati tratti essenzialmente da indagini
speciali su campioni della popolazione.
Infine, il capitolo si chiude con un breve paragrafo su opinioni, preferenze,
atteggiamenti. Questo argomento ha una storia più recente, ma sta
assumendo tuttavia piena cittadinanza in demografia. In Italia ha avuto
inizio praticamente con alcuni specifici quesiti, inseriti nella prima
Indagine sulla fecondità, condotta nel 1979. Il campo si è tuttavia
rapidamente arricchito con ulteriori inchieste, e la stessa Seconda indagine
nazionale sulla fecondità prevede alcuni sviluppi in questa direzione.
Riproduttività
283
1. Nuzialità, separazioni e divorzi
1.1. Introduzione
Tradizionalmente la nuzialità era ritenuta, tra le variabili di cui si
occupa la demografia, quella più stabile. I manuali usati fino a pochi
anni fa dicevano che essa si manteneva a un livello quasi costante, dal
quale si allontanava solo in occasione di eventi del tutto eccezionali, quali
guerre prolungate, o epidemie particolarmente gravi. In ogni caso, passati
il periodo di forzata diminuzione di matrimoni e la ripresa che normalmente ne consegue, il livello della nuzialità tornerebbe ai valori «normali» (Boldrini, 1956; Federici, 1979). Se questa lettura fosse dovuta
anche alle scarse capacità descrittive e investigative degli indicatori usati
lo vedremo tra breve: sta di fatto che la gran parte degli studi in tema
di nuzialità si concentrava sull’attrazione matrimoniale, ossia sulla vicinanza (di età, di luogo di nascita o di residenza, di attività economica,
di istruzione e così via) tra i caratteri dei coniugi. Piuttosto rari erano
invece gli studi su altri aspetti legati alla nuzialità, quali la frequenza
e le caratteristiche dei matrimoni successivi al primo o le rotture di matrimonio (per separazione legale, essendo non rilevabile quella di fatto,
e non ancora consentito dalla legge italiana il divorzio), o ancora gli effetti dello scioglimento del matrimonio per la causa che era — ed è tuttora
— la più frequente, cioè la morte di un coniuge.
I motivi che inducevano a privilegiare quelle aree di interesse e non
altre e quelli che hanno portato allo sviluppo odierno degli studi in tale
settore, sono probabilmente molteplici. Tra i primi a essere elencati va
senz’altro menzionato il mutato atteggiamento della società (italiana) nel
dopoguerra — la collocazione precisa sembra più difficile, trattandosi peraltro di un processo che si è evoluto progressivamente e non improvvisamente — nei confronti del matrimonio come istituzione. Esso era vissuto nel passato come una tappa imprescindibile nella vita della maggior parte della gente (come peraltro il fatto di avere nel matrimonio
un certo numero di figli), a cui si arrivava, prima o poi, secondo le attitudini individuali; ed era guardato con estrema considerazione anche
da parte di chi non poteva o non voleva accedervi. La frequenza dei
matrimoni rifletteva pertanto questa propensione generale, che era turbata — nel ritmo, non nell’intensità — soltanto da circostanze eccezionali:
l’attenzione si concentrava su altre cose, come appunto l’attrazione
matrimoniale.
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Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
Il fatto che non esistesse un unico «modello» di nuzialità valido per
tutte le popolazioni risultò evidente dopo l’articolo, ormai famoso, di
Hajnal (1965, trad. it. 1977), che, usando due indici sintetici (età media alle prime nozze e intensità finale dei matrimoni), descriveva le differenze di comportamento tra due grandi aree: Europa occidentale (a
ovest dell’ideale demarcazione data dalla linea Leningrado-Trieste), con
matrimonio relativamente raro e tardivo; Europa orientale e Asia, con
matrimonio pressoché universale e a età precoce. L’Italia si situava nel
contesto sud-europeo, con una proporzione di nubili attorno al 15% e
un’età media alle prime nozze vicina, per le donne, ai 25 anni. All’interno del nostro paese, le differenze, con gli stessi indicatori, verranno
mostrate da De Sandre (1969) e successivamente, ma in una prospettiva più storica, da Barbagli (1990). Il matrimonio, tra l’altro, veniva individuato sempre più come uno dei principali fattori «di manovra» capaci di influenzare la fecondità. L’affinamento delle misure di nuzialità, la possibilità di costruire misure sia con dati di censimento sia con
dati correnti ma non troppo difficili da ottenere, e l’uso sempre più esteso
di misure per coorti insieme con misure trasversali, hanno mostrato che
in realtà l’uniformità di comportamento non è poi così monolitica né
nel tempo né nello spazio. L’evoluzione recente della nuzialità e i nuovi
fenomeni delle convivenze senza matrimonio, della divorzialità e della
possibilità, per questo motivo, di nozze successive hanno fatto il resto,
con una necessità di analisi dei livelli e delle tendenze, prima ancora che
delle somiglianze tra i coniugi, per capire eventuali mutate propensioni
nei confronti del matrimonio, o dei tempi delle nozze, anche nelle possibili relazioni con i tempi della prolificazione.
1.2. Nuzialità
È innegabile che dagli anni settanta a oggi il lavoro più completo sulla
nuzialità, sotto entrambi i punti di vista (metodologico e sostanziale),
sia quello di Santini (1974b). La cosa forse più curiosa è che egli esamina la nuzialità (femminile) in quanto variabile essenziale — benché non
unica — per lo studio della fecondità (femminile), anzi più precisamente, per riprendere il titolo del suo lavoro, della «fecondità delle coorti». Il
volume continua la serie di pubblicazioni che sull’argomento il Dipartimento statistico di Firenze ha prodotto a partire dal 1968 (Istituto di
statistica dell’Università di Firenze, 1968; Livi Bacci e Santini, 1969).
La metodologia con cui egli affronta il problema è quella degli «eventi
ridotti», usata sia per la nuzialità sia, successivamente, per la fecondità
generale e per quella legittima. Non è questo, in realtà, il primo studio
Riproduttività
285
in Italia in cui viene usato tale approccio metodologico, tuttavia esso
vi trova una certa sistematicità di trattazione, forse non ancora superata. È del tutto nuovo, invece, lo studio (non certo l’idea) della nuzialità
dei contemporanei associato a quello delle coorti. Gli anni interessati
vanno dal 1920 al 1967; le generazioni di donne dalla 1895 alla 1941,
con problemi, evidentemente, di stima prospettiva per la nuzialità delle
coorti più giovani, che non avevano completato la loro storia matrimoniale entro il 1967. Un aspetto importante di questo lavoro è proprio
la relazione, anche — ma non soltanto — formale, che egli esamina con
insistenza, tra il comportamento delle coorti e quello trasversale, con
fini interpretativi delle tendenze recenti e anche previsivi per il futuro.
Un suo lavoro, che può essere considerato preliminare al volume (Santini, 1974b), fu quello riguardante la nuzialità delle coorti femminili
1900-1941 (Santini, 1972), mentre un aggiornamento è costituito dalla
relazione al convegno La famiglia in Italia, organizzato dall’Istat nel 1985
per presentare alcuni risultati della prima Indagine sulle famiglie (Santini,
1986b). In quest’ultimo si trova uno sviluppo delle tendenze congiunturali fino al 1981 e dei comportamenti delle coorti fino a quella
nata nel 1956. Viene tra l’altro ridimensionato l’incremento di nuzialità
finale che le generazioni più giovani sembravano mostrare con i dati del
precedente lavoro: anzi, quelle nate dopo il 1946 mostrerebbero una
nuzialità in declino.
Curioso, dicevamo, il fatto che uno studio così massiccio come quello
di Santini sia stato svolto in funzione delle conseguenze sulla fecondità.
Non inconsueto, per la verità, dal momento che si tratta di un’impostazione classica in demografia e che anche nella modellistica più recente la nuzialità è ritenuta, tra le «variabili intermedie», quella forse
più importante per il controllo della fecondità. Tuttavia, è opinione diffusa che essa possa costituire oggetto di interesse anche di per se stessa,
in quanto variabile che rispecchia un’evoluzione di costumi, di pensiero, di modo di vivere. Sotto questo aspetto, essa è spesso associata, anche e specialmente nei lavori di carattere più storico, alla forme familiari
e — ancora — al ricambio intergenerazionale. Su questo punto sono di
un certo rilievo i lavori di De Sandre (1974, 1976), in cui il matrimonio è
osservato in quanto variabile non solo demografica ma anche sociale, e
ancora De Sandre (1983b), in cui nuzialità e divorzialità sono viste nei
loro legami con le forme familiari.
Barbagli (1990), usando ancora misure classiche come la nuzialità finale
e l’età media alle prime nozze, ricavate per lo più da dati censuari, studia
le differenze tra le regioni italiane dall’Unità in poi (anche per i
periodi precedenti, con dati più dispersi), mostrando modelli diversi
286
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
da zona a zona, con conseguenze sulla formazione delle famiglie. Ancora su dati di censimento (fino al 1961), a livello regionale, aveva lavorato De Sandre (1969), con un taglio più nettamente demografico.
Il valore innovativo dei lavori di Santini si può cogliere osservando
gli studi sulla nuzialità inseriti in rassegne di carattere generale, editi
negli stessi anni, come quello di Visco (1974) nel volume italiano della
serie del Cicred dedicata alla situazione demografica dei vari paesi del
mondo. In esso Io studio si limitava all’esame del quoziente generico
e dell’età media al matrimonio (nei contemporanei) dei celibi e delle nubili (entrambi estesi all’ultimo secolo e alle ripartizioni geografiche italiane). In lavori dello stesso tipo (rassegne della problematica connessa
allo sviluppo della popolazione, o quadro generale della situazione demografica) apparsi successivamente (ad esempio, Comitato nazionale per
i problemi della popolazione, 1980; De Sandre, 1982a; Golini, 1987 e
altri ancora), i cenni alla nuzialità, per quanto rapidi, comprendono il
numero di prime nozze nelle generazioni (reali o fittizie), oltre al — o
talvolta proprio in luogo del — tasso generico. Per non parlare di studi
appositamente dedicati alla nuzialità (o a nuzialità e fecondità: la prima, ancora, in quanto variabile importante per quest’ultima), in cui il
linguaggio e la metodologia degli eventi ridotti sono largamente usati
(Santini, 1986b; De Sandre, 1983a) o sottintesi (Rossi, 1982) o anche...
abusati, come in Santini (1986b), dove vengono usate diverse denominazioni per lo stesso concetto di intensità finale — o comunque fino ai
cinquant’anni — della nuzialità in generazioni, reali o fittizie!
I lavori più recenti (ad esempio De Sandre, 1988b) evidenziano i livelli molto bassi della nuzialità degli ultimi anni (sui 700 primi matrimoni per una generazione fittizia di 1000 donne) e una tendenza, da
verificare con dati più completi, delle generazioni più giovani ad anticipare nei tempi e a ridurre nell’intensità i comportamenti nuziali.
Non numerosi, ma stimolanti, gli studi di carattere regionale. Oltre
a quelli già citati, effettuati sui dati delle regioni italiane (De Sandre,
1969; Barbagli, 1990), cui si può aggiungere quello di Di Comite (1974),
sono di un certo interesse alcuni lavori su popolazioni locali: Di Staso
(1974) su Bari, Di Nicola (1989) sull’Emilia-Romagna, Riva (1982) su
Vercelli, Lauro et al. (1986) sulla Lombardia, Ires (s. d.) sul Piemonte.
In particolare, Riva lavora su un campione di famiglie, entro cui
raccoglie i dati sulla nuzialità e sulla fecondità femminile (751 donne
di ogni età, il 3,5% del totale). Vengono esaminati, per la nuzialità,
la frequenza del matrimonio, l’età alle nozze, nonché una tavola di eliminazione per matrimonio di un gruppo di mille nubili quindicenni,
il tutto considerando come variabili di differenziazione alcuni gruppi
Riproduttività
287
di generazioni di nascita, il titolo di studio, il luogo di nascita, l’attività lavorativa.
Lo studio sulla nuzialità in Lombardia, invece, è interessante per lo
strumento impiegato, la tavola di eliminazione, in disuso ormai da parecchi anni in Italia. Infatti, dopo le tavole di nuzialità elaborate in passato da singoli ricercatori o dall’Istat (le ultime riferite al periodo 1960-62,
edite nel 1971), nessun’altra tavola di nuzialità è stata più prodotta. Occorre aggiungere che tavole per zone ristrette (quelle della Lombardia
sono costruite anche per provincia) presentano indubbiamente, rispetto
a quelle nazionali, problemi metodologici ulteriori; ad esempio, quali matrimoni considerare: quelli celebrati nella zona considerata o quelli dei
residenti?, o, ancora, quelli che vi andranno ad abitare? Gli stessi interrogativi si pongono per i denominatori; inoltre una certa coerenza tra
numeratori e denominatori delle probabilità di matrimonio può essere
ostacolata dall’indisponibilità dei dati territoriali necessari.
Lo studio sul Piemonte non sembra altrettanto interessante, almeno
per il capitolo sulla nuzialità, in quanto si basa sui dati ottenibili dalle
schede di nascita: si tratta quindi dell’esame di alcuni caratteri riferiti
ai soli matrimoni fecondi negli anni osservati (1971 e 1978).
L’uso di modelli di nuzialità non appare molto esteso negli studi italiani. Forse l’ampia documentazione statistica di base, tradizionalmente
disponibile nel nostro paese, non rende necessaria l’utilizzazione di modelli empirici per età, quali l’ormai famoso modello di Coale (1971) e
successive elaborazioni: ad esempio, Coale e McNeill (1972). Né sono
presenti altri contributi concettuali sul tipo dei «cerchi» matrimoniali, o
comunque che tentino di descrivere o interpretare i meccanismi che
portano al matrimonio, o, con processi più complicati, alle combinazioni nell’assortimento dei caratteri della coppia nel matrimonio. Su
questo piano, è da rilevare l’assenza di studi su un aspetto che, benché
di complessa definizione, ha più volte attirato l’attenzione di demografi
stranieri, cioè il cosiddetto marriage squeeze, il turbamento della nuzialità
dovuto a cause strutturali che fanno variare il mercato matrimoniale in
modo diverso tra i due sessi. Per il nostro paese il fenomeno, richiamato in passato da Colombo (l’ultimo accenno in Colombo, 1975) come
conseguenza dell’andamento delle nascite negli anni della prima guerra
mondiale, può tornare alla ribalta oggi e nei prossimi anni, a causa della
prolungata diminuzione delle nascite che si protrae ormai da più di
venticinque anni: tenendo conto della differenza usuale di età alle nozze, le generazioni maschili sono, ormai sistematicamente, più numerose di quelle femminili più giovani di tre o quattro anni. E questo
potrebbe avere conseguenze sulla frequenza alle nozze (più alta tra gli
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Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
uomini che non tra le donne) e sul celibato-nubilato definitivo (più basso
tra i maschi e più alto tra le femmine). Ma, più in generale, un filone di
studi, di carattere anche metodologico, assente negli studi italiani è il
tentativo di arrivare a misure di nuzialità costruite non a sessi distinti,
ma che tengano conto della disponibilità sul «mercato matrimoniale» di
entrambi i sessi.
I modelli di nuzialità, dunque, in particolare quello di Coale (1971),
hanno trovato poche applicazioni: tra queste, Santini (1974b) ha stimato, sfruttando appunto tale modello, la parte finale della nuzialità per
età delle generazioni di donne più giovani. Amodeo (1980) ha esaminato il modello di Coale, confrontandone i parametri con quelli del modello di Keely (1979) e applicando quest’ultimo, con intenti anche previsivi, ai dati ricavati dai censimenti italiani del 1961 e 1971. Gli altri
casi (Bonarini, 1978 e De Sandre, 1975; 1978) non si limitano ad applicazioni del modello di Coale, ma ne traggono spunti per una discussione critica, rilevandone ora la non buona approssimazione alla storia delle
generazioni quando queste siano perturbate da eventi eccezionali, ora la
mancanza del tempo storico di riferimento, ora la difficoltà di includervi
nuove forme di convivenze non sancite da un matrimonio, che vanno
sempre più diffondendosi, anche nel nostro paese.
Un particolare settore di studi, in cui matrimonio e nuzialità costituiscono un elemento portante, ha avuto invece una certa espansione:
si tratta dell’approccio cosiddetto del «ciclo di vita», riferito inizialmente
alla famiglia, successivamente alla persona (con l’espressione preferita di.
«corso di vita»). Conviene farne ora un breve cenno, anche perché spesso
nei lavori sul ciclo di vita si è fatto ricorso a modelli particolari, le simulazioni. Il ciclo di vita è un modo di avvicinarsi agli eventi demografici
che associa eventi tipici nella vita di persone (o, nel caso più complesso,
di famiglie) e ne osserva i tempi di accadimento nella storia individuale
o familiare, e le distanze tra di essi. In questo quadro, il matrimonio
assume un’importanza basilare, essendo un evento che separa nettamente
diverse fasi del ciclo: il passaggio dal celibato-nubilato alla fase demograficamente strategica della convivenza e della riproduzione, nel ciclo
individuale; l’inizio del ciclo in quello familiare. Inoltre, esso serve
anche a definire, in mancanza di variabili meglio qualificate, la fase dell’uscita di un figlio dalla famiglia (su questo tema, ulteriori sviluppi
sono in De Sandre, 1988a). Dopo la definizione di alcune fasi tipiche
del ciclo di vita della famiglia e un esame dell’evoluzione con dati trasversali (Rossi, 1975a), apparve sullo stesso tema un modello di microsimulazione (Rossi, 1975b) che mostrava, sempre con dati trasversali,
Riproduttività
289
l’evoluzione delle fasi familiari anche in momenti della storia familiare
solitamente trascurati dalle rilevazioni consuete (ad esempio, la fase precedente la nascita del primo figlio o l’uscita dei figli dalla famiglia). La
simulazione consentiva inoltre l’input di varie combinazioni di dati, cosicché si poteva valutare l’effetto della variazione di una sola delle variabili di input, ad esempio la nuzialità. Un intervento di Santini (1977)
chiariva, dal punto di vista concettuale, i legami tra variabili demografiche individuali, tra cui matrimoni e divorzi, e ciclo familiare. Successivamente, Rossi (1983) riprendeva il tema del ciclo di vita familiare, avanzando alcune ipotesi di lavoro, quali la necessità di seguire non un unico
percorso (quello maggioritario), ma eventualmente anche altri di importanza emergente (ad esempio le convivenze familiari senza matrimonio),
o comunque di accompagnare la descrizione di ogni percorso con l’indicazione della frequenza di casi (persone, famiglie) che lo seguono; oppure
il suggerimento di ricostruire cicli di vita longitudinali (difficilmente
realizzabile con i dati ufficiali disponibili), o quello di approfondire singole fasi, rinunciando a voler dare una visione completa dell’intero ciclo
familiare. Sempre in tema di modelli di microsimulazione, Blangiardo
(1984) usava questa via per la proiezione di famiglie, mentre, alcuni anni
dopo, Bertino riprendeva l’uso di modelli per la demografia della famiglia,
con alcune applicazioni (Bertino et al., 1988). Da notare che tra i primi
approcci del 1975 e questi ultimi del 1988 c’è stata la grande espansione,
qualitativa e quantitativa, ossia di prestazioni ma anche di diffusione, dei
personal computer.
Hanno continuato intanto ad apparire studi su singoli aspetti della
nuzialità. Tra i più tradizionali, sono da citare quelli di De Candia (1974)
sull’attrazione per stato civile, di Di Staso (1974) sulla stagionalità dei
matrimoni, di Cusimano (1978) sull’evoluzione delle età al matrimonio.
La nuzialità per rito, che può essere assunta come un indice delle mutazioni in corso sul significato del matrimonio, fu oggetto di studio da parte
di Cagiano de Azevedo (1972) e di Ventisette (1975), ma l’argomento
non fu più ripreso successivamente, quando forse sarebbe risultato ancora più interessante, se non di passaggio in lavori più ampi. Clerici (1985)
esamina la nuzialità maschile e la confronta con quella delle donne;
Manese (1986) studia la nuzialità di cittadini stranieri come indicatore
della loro presenza. Zei et al. (1981) trovano una correlazione tra età
del marito ed età del padre, ma lo studio è più antropologico che demografico. Infine, una curiosità: Marzocchi e Masi (1983) ricercano
relazioni tra nuzialità (insieme con altre variabili demografiche) e segno
zodiacale.
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Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
1.3. Separazioni e divorzi
È del dicembre 1970 la legge che introduce il divorzio in Italia: ma
è strano che prima di quella data (e in realtà anche per alcuni anni dopo)
non ci fossero grandi interessi specifici sulle rotture (per separazione)
o comunque sullo scioglimento (per morte) del matrimonio, e questo nonostante il fatto che le separazioni legali fossero raddoppiate tra il 1961
e il 1970. E da rilevare soltanto qualche articolo (ad esempio Di Cotriite,
1969) che, usando la tecnica delle tavole di eliminazione, misurava
l’estinzione, per la morte di uno dei coniugi, di un gruppo di matrimoni
in cui gli sposi avessero una data combinazione di età: effetti della sola
mortalità, dunque. Più recentemente, Breschi (1984) stimava invece, relativamente ai matrimoni delle coorti 1954-79, quelli sopravviventi alle
varie durate (sfuggiti a morte, ma anche a divorzio e separazione), però
ai fini di un più accurato calcolo della fecondità matrimoniale.
Dopo l’introduzione della legge sul divorzio, arriva nei tribunali un
gran numero di istanze relative a rotture già verificatesi in passato, provocando un’eccezionale frequenza dei divorzi negli anni dal 1971 al 1974,
e specialmente nel 1972. In questi anni iniziano a comparire studi sull’argomento: Sgritta e Tufari (1977) esaminano i primi dati sui divorzi,
insieme con quelli sulle separazioni: essi studiano, arrivando fino al
1973-74, l’età dei coniugi, la loro professione, la durata della convivenza, l’affidamento dei figli e così via. Anche Brunetta (1976) esamina i
primi effetti della legge sul divorzio. Si tratta però di studi di carattere
prevalentemente sociale o sociologico. I demografi iniziano a occuparsi
di questo tema più avanti nel tempo, quando la situazione si è abbastanza
stabilizzata. Essi sembrano interessati a osservare la tendenza già normalizzata più che il boom dei primi anni, la divorzialità delle coorti più che
quella trasversale. Così, solo dopo alcuni anni compaiono i primi studi
con taglio prevalentemente demografico sulla divorzialità. De Sandre
(1980), esaminando i dati fino al 1976, ricostruisce la divorzialità delle
coorti di matrimoni e definisce un quadro dell’incidenza combinata di
separazioni e divorzi su un’ipotetica coorte di matrimoni (alle condizioni correnti registrate negli ultimi anni disponibili). Un aggiornamento di
tale schema, insieme con una rassegna dei problemi connessi, appare in
De Sancire (1983b): l’interesse di un quadro di riferimento per descrivere
il destino di una coorte di matrimoni nasce dall’originalità del quadro giuridico italiano, in cui divorzio, separazione legale, separazione di fatto
si intrecciano, costituendo in certi casi l’una la premessa dell’altro, ma
con una normativa che fa diminuire l’importanza delle separazioni di fatto.
Pertanto, per un matrimonio che si interrompe sono possibili diversi
Riproduttività
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corsi, ciascuno con un particolare esito: le frequenze relative di tali percorsi
variano nel tempo, in modo tale che appare estremamente interessante
seguirne l’evoluzione, nonché prevederne alcuni possibili cambiamenti.
Greco e Carannante (1981), con dati che arrivano fino al 1978, studiano separazioni e divorzi per età dei coniugi, durata della convivenza,
età al matrimonio, anno del matrimonio; gli stessi in Istat (1982a) si occupano di
alcune caratteristiche dei divorzi avvenuti nei primi dieci anni di
applicazione della legge (1971-80): ripartizioni geografiche, istruzione e
stato professionale dei coniugi, figli minorenni e così via, con una ricca
documentazione statistica. Ancora Maggioni (1990) esamina la
divorzialità delle coorti di matrimoni, oltre che quella trasversale, mettendo
in rilievo sia l’eccezionale divorzialità dei matrimoni formatisi negli anni
dell’ultima guerra, peraltro già notata negli studi precedenti, sia l’aumento
della divorzialità finale — o anche attuale, per le coorti più giovani — nei
matrimoni più recenti: egli attribuisce entrambi i rialzi alle condizioni
del momento di formazione delle coppie, più che a quelle degli anni in
cui si verifica la rottura. In ogni caso, i livelli di rotture di matrimonio
sono per l’Italia notevolmente bassi (nove separazioni legali e quattro
divorzi — secondo i dati degli anni più recenti — per ogni cento
matrimoni di una coorte fittizia), se confrontati con quelli di altri paesi
(20, 30, 40%, con punte che si avvicinano al 50% negli Stati Uniti.
d’America e in Svezia; Corsini e Ventisette, 1988). E da attendersi
tuttavia un lieve rialzo nella divorzialità trasversale degli ultimi anni,
per effetto delle variazioni introdotte dalla legge del 1987, che riduce
da cinque a tre gli anni di separazione necessari per ottenere il divorzio;
ma questo non dovrebbe avere effetti di rilievo sulla divorzialità delle
coorti di matrimoni. Ancora, recentemente Barbagli (1990) esaminava, con
taglio sociologico, molteplici aspetti della divorzialità, nonché delle nozze
successive, argomento, quest’ultimo, piuttosto trascurato invece dai
demografi. Sulle separazioni tra i coniugi c’era stato anche un lavoro di
Ventisette (1981) che, osservando i separati per età, ragionava sulle
possibili conseguenze delle separazioni a età giovani sull’andamento
futuro dei divorzi. Ma negli ultimi anni il tema non è più stato ripreso,
nonostante gli accresciuti livelli e il fatto che la separazione costituisca il
passo preliminare per arrivare al divorzio.
1.4. Commenti conclusivi
Non si può chiudere l’argomento senza citare la necessità di studi
sulla nuzialità secondo un’ottica di indagine largamente utilizzata altrove e — in misura più limitata — anche nel nostro paese, per altri temi
292
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
come la fecondità, ma non ancora diffusa per i matrimoni (e le rotture).
Indagini retrospettive, di tipo campionario, per la necessità di esami in
profondità di molte variabili, e su dati individuali, consentirebbero di
cogliere aspetti differenziali della nuzialità tra categorie di persone, tra
percorsi con cui si arriva al matrimonio ecc. In particolare, sarebbe di
estremo interesse la conoscenza di informazioni sul marito, da abbinare
alle consuete notizie rilevate per la donna: questo è possibile, in casi
limitati, per indagini effettuate in passato (De Sandre, 1982a), ma le
disponibilità di dati sia per la donna sia per il marito sembrano oggi aumentate, con buone prospettive per il futuro (ad esempio Istat, Indagine
multiscopo sulle famiglie; Seconda indagine sulla fecondità in Italia; Castiglioni, 1990-91).
Alcuni argomenti rimangono largamente, se non del tutto, inesplorati: si tratta di aspetti che le rilevazioni statistiche basate su eventi amministrativi non possono cogliere. Tra questi vanno nominate, ad esempio, le separazioni di fatto, che vengono alla luce solo in quanto esse
(ma solo una parte) sfociano nel divorzio. Ma un altro esempio è costituito dalle coabitazioni, le unioni di fatto da parte di coppie non legate
da matrimonio. Su queste, alcuni tentativi in realtà sono stati effettuati,
e da parte del principale produttore italiano di statistiche ufficiali.
Alcuni dati in proposito sono stati rilevati dall’Indagine sulle strutture
e i comportamenti familiari (Istat, 1985), che ha rilevato non solo la situazione all’intervista, ma anche alcune informazioni retrospettive, con
risultati soddisfacenti, se non nel numero di casi (ritenuti forse sottostimati), quanto su alcune caratteristiche delle persone. Alla stima delle
convivenze e di alcuni caratteri delle coppie dovrebbero giungere anche
i dati dell’Indagine multiscopo sulle famiglie.
2. Fecondità
2.1. Considerazioni preliminari
La maggiore disponibilità di nuovi e più accessibili mezzi di limitazione delle nascite e l’allentamento di molte norme sociali hanno contribuito a sganciare il processo riproduttivo delle popolazioni contemporanee dai fattori di ordine biologico e dai modelli comportamentali
relativamente stabili (costume matrimoniale, allattamento, astinenza postpartum, ricorso all’aborto procurato) che regolavano la fecondità del passato. Il passaggio sotto il controllo della volontà individuale e l’aumento di mutevolezza e imprevedibilità che ne derivano acquistano un si-
Riproduttività
293
gnificato particolare nel momento in cui l’altra componente della dinamica naturale (la mortalità) si evolve secondo una direzione imposta dai
progressi della scienza e della tecnologia.
L’interesse non è orientato solo nei confronti dei paesi in via di sviluppo che, a causa degli alti livelli di fecondità (in relazione alla mortalità), stanno sperimentando tassi di crescita naturale così elevati (nel continente africano anche del 2-3% annuo) da far temere un’esplosione demografica difficilmente gestibile sul piano sociale ed economico. Di estremo interesse sono anche la dinamica e la struttura della fecondità dei
paesi economicamente più avanzati.
Ciò che ci si chiede è: i bassi livelli di fecondità (in particolare quelli
che configurano uno sviluppo della popolazione al di sotto del livello
di sostituzione delle generazioni) sono espressione di un aggiustamento
nella cadenza dei fenomeni o di una situazione contingente, o non piuttosto di tendenze di fondo acquisite dalle generazioni più giovani? Il
fatto che la riproduzione si sia sganciata dalla nuzialità e a quest’ultima
si siano affiancate alternative un tempo inesistenti (come in effetti è avvenuto in numerosi paesi europei del centro-nord) ha qualche peso sull’evoluzione dei comportamenti riproduttivi? E più in generale: quali
fattori determinano il numero di figli e la cadenza della loro nascita,
oggi che la riproduzione è subordinata alla volontà degli individui?
La discussione, negli ultimi venti anni, è stata particolarmente stimolante, sul fronte sia del dibattito teorico, sia degli approcci tecnicometodologici relativi allo studio della fecondità.
Con la riduzione a uno schema descrittivo della teoria della transizione demografica avanzata negli anni sessanta (Freedman, 1961-62) si
sviluppano nuove ipotesi interpretative che cercano di spiegare la dinamica della fecondità non solo integrando il pensiero precedente (Coale,
1973) ma anche introducendo chiavi alternative di lettura che di volta
in volta sottolineano l’importanza dei fattori di ordine economico (Easterlin, 1973; Butz e Ward, 1979), le modificazioni di natura culturale e
in particolare il cambiamento di valore attribuito ai figli (Bulatao e
Lee, 1983), i cambiamenti nei trasferimenti intergenerazionali (Caldwell, 1982; Ryder, 1984).
Particolarmente ricco è il panorama delle proposte emerse sul fronte
dell’analisi dei dati. Seguendo una traccia utilizzata da De Sandre (1986),
possiamo distinguere due aree di sviluppo, l’una legata al tentativo di
identificare misure al netto di interferenze di varia natura e di articolare
i singoli indicatori dell’analisi demografica tradizionale in relazioni
formalizzate (Tuma e Hannan, 1984; Page, 1977; Hobcraft et al., 1982;
Coale e Watkins, 1985; Berent e Festy, 1973), l’altra orientata all’uti-
294
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
lizzazione di veri e propri modelli di analisi, siano essi tentativi di
analizzare l’evoluzione della fecondità come deviazione da intensità e
struttura per età in equilibrio (Coale e Trussel, 1974; 1978; Bongaarts,
1978; Gaslonde e Carrasco, 1982) o modelli che, in forma multivariata,
descrivono l’effetto di un set di regressori sulle variabili dipendenti che
esprimono il processo riproduttivo (Bulatao, 1980; Rindfuss, 1987;
Rodriguez et al., 1984; Courgeau, 1985).
Un passo avanti nella riflessione è rappresentato dal fondamentale
concetto di variabile intermedia (Henry, 1953; Davis e Blake, 1956), intendendo con ciò qualsiasi fattore che inibisca la fecondità potenziale
(fecondabilità/sterilità, esposizione ai rapporti sessuali e frequenza, uso
della contraccezione, abortività spontanea e indotta, natimortalità).
Le riflessioni a livello di interpretazione e analisi interagiscono anche con gli avanzamenti della ricerca sul piano della rilevazione e dell’osservazione dei fenomeni. Nonostante le critiche di Ryder (1984), che
sottolinea come la rilevazione micro-demografica sia insufficiente a cogliere l’effetto delle norme sociali sul comportamento riproduttivo, dagli
anni settanta sono state varate numerose indagini campionarie con
l’intento di sondare aspetti ritenuti rilevanti per lo studio della fecondità, non osservabili con le rilevazioni ufficiali censuarie e correnti (Unece, 1976; Bulatao, 1980; Fisher e Way, 1988). Caratteristiche comuni
di queste rilevazioni sono:
– il riferimento individuale;
– un approccio allo studio dei fenomeni di tipo longitudinale che permetta
di collocare gli eventi nel tempo;
– una rilevazione delle variabili che tenga conto di un’ottica multidisciplinare.
L’indagine mondiale sulla fecondità (WFS), che ha preso il via a cavallo degli anni ottanta, rappresenta Io sforzo più significativo in questa
direzione (De Sandre, 1980; 1985). Avviata nel quadro di un programma
internazionale patrocinato dall’ISI con la cooperazione della Iussp su 42
paesi in via di sviluppo e 20 sviluppati (tra cui anche l’Italia), essa costituisce
sia una inestimabile fonte di informazioni per lo studio delle variabili
intermedie e delle condizioni contestuali che influenzano i comportamenti
riproduttivi (con qualche attenzione anche agli aspetti che influenzano le
decisioni), sia un’occasione di accelerazione della discussione sulla fecondità nei suoi diversi aspetti teorico e tecnico-metodologico.
In questo contesto si colloca il dibattito sulla fecondità da parte dei
ricercatori italiani. Nel 1986 si tiene a Napoli un forum sulle ricerche
in tema di famiglie e fecondità concluse e in corso negli anni 1984-86
Riproduttività
295
(CNR, Gruppo nazionale di coordinamento degli studi demografici, 1987)
e, a conferma del forte interesse nel nostro paese per la fecondità, si
osserva che essa costituisce uno dei temi dominanti della ricerca demografica.
2.2. Fecondità generale e sue determinanti demografiche
Numerosi lavori esaminano evoluzione e struttura della fecondità italiana in relazione a variabili di natura strettamente demografica (coorte
di nascita della madre, età della donna al parto, anno di matrimonio,
durata dello stesso al momento della nascita e così via) e/o territoriale
(consideriamo in questo gruppo anche i lavori che fanno riferimento a
studi a carattere differenziale dove la delimitazione territoriale è di natura politico-amministrativa).
Già negli anni settanta analisi demografiche di ordine generale (Santini, 1974a; Pinnelli, 1975; Federici et al., 1976) e studi centrati sull’approfondimento delle caratteristiche di fecondità in periodi temporali circoscritti (Chiassino e Di Cornite, 1975; Meccariello, 1975; Del
Panta, 1975) individuano per gli anni 1950-70 un andamento congiunturale del comportamento riproduttivo (crescita moderata degli indici
di natalità e fecondità del momento fino alla metà degli anni sessanta
e successivo declino nel periodo più recente) che, pur con differenze regionali, colloca l’Italia a pieno titolo tra i paesi europei a fecondità bassa e controllata. Gli stessi studi approfondiscono anche alcuni aspetti
del fenomeno che costituiranno materia di riflessione per tutto il periodo
successivo. Essi suggeriscono in particolare l’ipotesi che:
a) all’origine della diminuzione della fecondità generale registrata a
partire dalla seconda metà degli anni sessanta ci sia una diminuzione
della fecondità legittima (Del Panta, 1975; Pinnelli, 1975);
b) la fecondità per contemporanei, soprattutto nella fase calante, presenti andamenti più accentuati di quella misurata per generazioni di donne
(Del Panta, 1975);
c) pur permanendo una sensibile differenziazione nei comportamenti
riproduttivi tra centro-nord e sud del paese (Del Panta, 1975), le differenze regionali vanno attenuandosi nel tempo (Chiassino e Di Cornite, 1975; Meccariello, 1975).
Una trattazione organica di questi temi trova spazio in due lavori
che, in forma diversa, approfondiscono le caratteristiche di struttura di
un lungo periodo della fecondità italiana.
Il lavoro di Santini (1974b) costituisce un riferimento importante
nello studio della fecondità, sia per gli aspetti di metodo sia per quelli
296
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
contenutistici. Esso ricostruisce con dati provenienti dalle statistiche ufficiali le caratteristiche della fecondità delle generazioni italiane nate dalla
fine del secolo scorso fino ai primi anni quaranta dando conto dei mutamenti di struttura avvenuti nei processi di costituzione della discendenza familiare con la transizione dall’alta alla bassa fecondità. Da questo
impegno, che si estende a considerare anche l’evoluzione della nuzialità
e della fecondità congiunturali, l’intensità e la cadenza di nuzialità e fecondità e i processi di formazione della famiglia, emerge, tra l’altro, che
l’evoluzione degli indici del momento registrata dopo il secondo conflitto mondiale è in gran parte frutto di variazioni di cadenza dei matrimoni e delle nascite che riguardano le coorti più giovani. Il lavoro di
Livi Bacci (1977; trad. it., 1980) rientra nel più ampio European Fertility Project dell’Office of Population Research dell’Università di Princeton diretto da Coale (Coale e Watkins, 1985) e si estende a considerare poco più di un secolo di storia della fecondità italiana (1861-1971).
L’impiego degli indici di Coale che, con dati anche relativamente poveri,
consentono di scomporre l’intensità della fecondità generale negli effetti
della fecondità legittima, della fecondità illegittima e della propensione al
matrimonio, contribuisce a chiarire la dinamica della fecondità del
momento per periodi e ripartizioni territoriali italiane per i quali poco era
noto in termini di determinanti demografiche della fecondità.
Lo spettacolare calo della fecondità del momento che si registra nel
nostro paese soprattutto a partire dalla metà degli anni settanta (e che
nel primo scorcio degli anni novanta non accenna ancora a sensibili inversioni di tendenza) costituisce il principale tema di discussione degli
anni ottanta.
I rapporti dell’Istituto di ricerche sulla popolazione sulla situazione
demografica del paese (IRP, 1985 e 1988) documentano con regolarità
questo fenomeno: dopo l’aumento degli indici annuali culminato attorno al 1965 con 2,66 figli per donna (peraltro concentrato soprattutto
nelle regioni settentrionali), la fecondità del momento inizia un calo progressivo che, dopo il 1974, è particolarmente brusco e porta l’Italia nel
1987 su livelli di 1,30 figli per donna. La preoccupazione per questo
stato di cose è ben espressa da Golini, il quale osserva (IRP, 1988) che:
a) tale valore è simile a quello della Repubblica federale di Germania, che
rappresenta probabilmente il livello di fecondità più basso del mondo;
b) nello stesso anno la Francia sperimenta un indice pari a 1,82 e la
Svezia un indice pari a 1,87, superiore cioè a quello di tutte le regioni
italiane compresa la Campania che rappresenta il massimo italiano con
1,80 figli per donna.
Riproduttività
297
Ciò che ci si chiede è: l’evoluzione osservata riflette un calo altrettanto drammatico anche nelle tendenze di fondo, o non si tratta ancora
una volta di effetti perturbatori della cadenza dei matrimoni e/o delle
nascite? E in quest’ultimo caso, quali sono le variabili maggiormente influenti? È possibile che la fecondità delle coorti italiane sia scesa al di
sotto di quella dei livelli della maggior parte dei paesi europei, dove tra
l’altro è in atto una disaffezione per l’istituto del matrimonio che non
è paragonabile con quella dell’Italia? Come si differenziano questi fenomeni a livello regionale?
Nel 1979, nell’ambito della World Fertility Survey, si realizza in Italia
la prima Indagine nazionale sulla fecondità (INF/1), condotta da ricercatori delle
Università di Firenze, Padova e Roma e riguardante un campione di
5499 donne non nubili in età 18-44 anni e 845 mariti. Essa costituisce
un’occasione unica per lo studio del comportamento riproduttivo delle
generazioni più recenti, che i due volumi del Rapporto generale (De Sandre,
1982a; Rossi, 1982) e la serie di monografie successivamente pubblicata,
comunque ponderosi, solo in parte riescono a esprimere.
Il dettaglio fornito sulla storia delle gravidanze (data di esito, durata, tipo di esito, notizie sul parto e così via) e dei matrimoni (data di inizio e conclusione, tipo di conclusione) consente a diversi autori (Bonarini, 1982; 1984a; De Sanno Prignano e Natale, 1984) di approfondire
alcuni aspetti della dinamica della fecondità legittima e di confrontarla
con quella ricavabile dalle statistiche ufficiali. Bonarini (1984a) in particolare evidenzia come, in assenza di prove definitive di distorsione dei
risultati dovuti alla sostituzione delle donne del campione, si possa ipotizzare che tra le coniugate sia in atto un calo nel tempo dell’infecondità.
I più interessanti tentativi di interpretazione della dinamica corrente delle fecondità italiana, specialmente degli anni a cavallo del 1980,
sono però ancora una volta espressione di riflessioni su dati rilevati dalle
statistiche ufficiali.
L’interesse per le tavole di fecondità non è nuovo. Già prima del
1970 l’Istat aveva provveduto a costruire misure di fecondità per età
della donna al matrimonio e durata dello stesso basandosi su informazioni raccolte in occasione del censimento del 1931 (Istat, 1936) e l’Istituto di statistica di Firenze aveva prodotto tavole di fecondità dei
matrimoni per l’Italia (Istituto di statistica di Firenze, 1968).
Negli anni settanta tavole di fecondità per matrimoni e per coorti
vengono messe a punto rispettivamente dell’Istat (1974) e da Santini
(1974b). Del secondo lavoro si è già detto. Di quello dell’Istat è opportuno ricordare che, sfruttando informazioni presenti nel foglio di censi-
298
Franco Bonarini, Fausra Ongaro, Fiorenzo Rossi
mento del 1961, per la prima volta vengono presentate tavole di fecondità matrimoniale che analizzano il fenomeno congiuntamente per generazione di matrimonio (1906-61), età al matrimonio e durata di matrimonio, introducendo anche elementi di differenziazione legati a variabili socio-economiche.
Dopo gli anni ottanta sono ben cinque i tipi di tavole di fecondità
che vengono proposte da diversi autori. Le tavole pubblicate dall’Istat
(1982b) si caratterizzano per la capacità di offrire un quadro dettagliato
a livello territoriale della fecondità per contemporanei tra il 1952 e il
1979 (per la prima volta sono stati eleborati quozienti per singola età
della madre a livello di regione). Quelle di Ventisette (1985 e 1986) e
Breschi (1984) analizzano in dettaglio la fecondità matrimoniale: il primo autore con riferimento alle coorti di matrimoni celebrati tra il 1930
e il 1981; il secondo con riferimento a quelli celebrati tra il 1954 e il
1979, tenendo conto anche degli effetti delle dissoluzioni civili e naturali dei matrimoni. Le tavole costruite da De Simoni (1989 e 1990), invece, approfondiscono la fecondità per contemporanei di due periodi
(1980-82 e 1985-87), congiuntamente per ordine di nascita ed età della
madre al parto, evidenziando anche caratteristiche differenziali tra centronord e meridione d’Italia. Il lavoro di De Santis (1989) si differenzia
dai precedenti perché, a seguito dell’adozione del metodo own-children
(Cho e Feeney, 1978), fa uso esclusivo di dati di censimento (in questo
caso un campione del 2% del censimento del 1981). Il metodo, la cui
applicazione è stata più volte sollecitata da Colombo (1982) e che aveva
già trovato impiego per lo studio di popolazioni territorialmente circoscritte (si veda anche iL paragrafo 2.4), consente all’autore di costruire
indicatori di fecondità con dati ricavati da indagini trasversali in cui sia
possibile attribuire i giovani con meno di quindici anni alle loro madri
e di pervenire alla costruzione di tavole di fecondità per contemporanei
e per generazioni, differenziabili, tra l’altro, secondo caratteristiche socioeconomiche rilevate nel censimento. L’applicazione del metodo porta
inoltre alla costruzione di misure di fecondità anche maschile, di cui nei
vent’anni considerati si trova traccia precedente in un solo contributo
(Pennino e Pennino, 1975).
Dall’insieme di questi lavori emerge un quadro piuttosto articolato,
anche se per certi aspetti non definitivo, delle caratteristiche e delle tendenze di struttura della fecondità italiana nella seconda metà del secolo.
L’analisi del comportamento riproduttivo per contemporanei (De Simoni, 1990) chiarisce che, pur con differenze regionali, la riduzione della
fecondità dell’ultimo decennio si esprime con uno slittamento verso gli
ordini di nascita più bassi e un innalzamento dell’età media al parto che
Riproduttività
299
interessa un po’ tutti gli ordini, ma è particolarmente accentuato in coincidenza del primo. Due lavori di Santini (1986b; 1988) descrivono bene
le restanti caratteristiche della fecondità italiana di questo periodo. Nel
secondo, in particolare, esse sono così riassunte:
a) il declino della fecondità non si è mai interrotto lungo tutte le generazioni nate dal 1917 alla metà degli armi cinquanta;
b) il calo di tale fecondità è dovuto in un primo tempo alla sola flessione della fecondità legittima e successivamente al combinarsi di questa con una ridotta e ritardata propensione a sposarsi;
c) le (talora forti) oscillazioni degli indici di fecondità annuali sono il
risultato di anticipazioni (prima) e di ritardi (poi) nella cadenza della
fecondità legittima e della nuzialità.
2.3. Determinanti non demografiche di fecondità
In Italia l’assenza di una tradizione di indagini campionarie sulla fecondità ha per lungo tempo rallentato lo sviluppo di ricerche intese ad
approfondire la dinamica del comportamento riproduttivo in funzione
di variabili di natura sociale, economica e culturale.
La maggior parte dei lavori degli anni settanta analizza i differenziali
di fecondità su dati delle statistiche ufficiali e come tale si limita ad
approfondire le relazioni del fenomeno con approssimazioni relativamente
semplici dello stato socio-economico della popolazione (livello di istruzione, condizione professionale, posizione nella professione).
Salvo qualche eccezione (Galli Parenti nel 1974 analizza la relazione
tra fecondità e condizione occupazionale della donna con dati delle schede
di nascita del 1961), le riflessioni sul tema sono alimentate da dati censuari.
Quesiti sulla storia procreativa delle donne sono inseriti nei censimenti del 1931, 1961 e 1971. L’indagine Istat sulla fecondità della donna
abbinata al censimento del 1961 costituisce la principale fonte ufficiale
per Io studio di aspetti differenziali della fecondità matrimoniale. Da
questi dati si ricava che i livelli più alti di fecondità si registrano presso
le donne analfabete, presso le non occupate e, tra le occupate, presso
quelle impegnate in agricoltura, che comunque esprimono i livelli di fecondità più alti (Istat, 1974; Livi Bacci, 1977; Ciucci e De Sarno Prignano, 1974).
Più recentemente, anche i dati del censimento del 1981 hanno trovato modo di essere utilizzati per analisi differenziali di fecondità. Del
lavoro di De Santis abbiamo già accennato nel paragrafo precedente. Qui
300
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
preme sottolinare che, pur con alcune perplessità dovute all’impossibilità
di standardizzare per durata del matrimonio e di conoscere l’esatta dimensione della variabile socio-economica al momento della prolificazione,
l’autore individua alcune relazioni per la generazione di nate nel 1947:
a) la fecondità continua a mantenersi massima per le attive in agricoltura, seguita nell’ordine da quella delle casalinghe e delle lavoratrici
in altri settori;
b) la fecondità decresce al crescere del titolo di studio della donna;
c) una fecondità più elevata caratterizza le donne che tra il 1977 e
il 1981 (periodo preso in considerazione dal quesito censuario) hanno
abbandonato l’attività lavorativa o cambiato residenza.
Il lavoro di Brunetta e Rotondi (1989) va invece ricordato per il metodo utilizzato (analisi a livello macro dei valori dell’indice di fecondità
legittima di Coale per le diverse regioni italiane in funzione di indicatori
di natura socio-economica e politica) e per le differenze rilevate nei
comportamenti regionali, che confermano l’ipotesi già avanzata da Liví.
Bacci (1977) per cui le ripartizioni italiane si differenziano anche quando
vengono controllate variabili ritenute usualmente discriminanti delle
caratteristiche sociali, economiche e culturali di una popolazione.
Agli inizi degli anni settanta l’Istituto di demografia di Roma conduce tre indagini campionarie che rappresentano per il nostro paese il
primo tentativo del secondo dopoguerra di approfondimento organico
delle relazioni tra fecondità e alcune variabili socio-economiche (del primo
dopoguerra ricordiamo le ricerche sulla natalità differenziale delle varie
categorie sociali di Gini, 1922 e di Livi, 1927; più recentemente, una
ricerca di Bruno, 1965, analizza il comportamento differenziale osservato nei comuni secondo il grado di urbanità-ruralità). La prima indagine, del 1969, viene effettuata su un campione casuale di 2236 donne
in età 18-’45 anni residenti in sei comuni tipici del nord e del sud d’Italia (un comune urbano e due comuni rurali del Piemonte e altrettanti
della Calabria); la seconda, condotta nel 1972, si riferisce a un campione di 2994 coniugate in età 21-45 anni residenti in tre grandi centri urbani (Milano, Napoli, Palermo); la terza, realizzata nel 1973, riguarda
invece 3893 donne ricoverate per parto nelle cliniche ostetrico-ginecologiche
dei tre maggiori ospedali di Roma.
Le indagini, che considerano numerosi elementi di contesto, difficilmente esaminabili con dati provenienti da statistiche ufficiali (atteggiamenti delle donne nei confronti di procreazione, contraccezione e lavoro; conoscenza e pratica del controllo delle nascite; condizioni economiche e lavorative e così via), offrono anche interessanti spunti di ricerca
Riproduttività
301
circa le relazioni tra fecondità e condizione socio-economica (Bielli et
al., 1973), fecondità e migrazione (Pinnelli, 1972), fecondità e inurbamento (Bielli et al., 1975).
Sul fronte della relazione tra fecondità e lavoro della donna le indagini consentono approfondimenti più mirati. In un articolato saggio su
procreazione, famiglia e lavoro di qualche anno più tardi, Federici
(1984b), svolgendo una rassegna critica delle principali teorie interpretative del declino della fecondità (Easterlin, new home economics, teoria dei
sette ruoli e altre ancora), osserva che nella maggior parte dei casi si
chiama in causa il ruolo della donna e la sua condizione di lavoratrice
extradomestica.
Ma in che misura l’attività lavorativa della donna si lega al processo
riproduttivo? È possibile cogliere il fenomeno senza farsi fuorviare da
altri fattori quali il livello di istruzione o la condizione economica? E
come si può controllare il fatto che esiste un’interazione tra fecondità
e attività extradomestica?
Le indagini consentono di approfondire alcuni di questi aspetti. In
linea di massima (fanno eccezione particolari tipi di lavoro pesante e situazioni in cui l’occupazione si innesta in condizioni di precario equilibrio psico-fisico della donna), il lavoro extradomestico della donna, se
svolto nel rispetto delle norme legislative in materia di tutela della maternità, non comporta effetti negativi sullo svolgimento e sull’esito della
gravidanza e del parto (Maffioli, 1980). Il lavoro della donna ha però
conseguenze sulle decisioni riproduttive. Coerentemente con i risultati
di un precedente studio condotto da Federici (1967), sulla base di statistiche ufficiali, è possibile trovare conferme all’ipotesi che la correlazione inversa tra lavoro femminile e fecondità ha origine nel momento in
cui il primo entra in conflitto con il ruolo tradizionale della donna (Bielli
et al., 1973).
Nel 1979 l’INF/1 (si veda anche il paragrafo precedente) costituisce
un progresso in tema di rilevazione di dati per lo studio della fecondità.
Con l’indagine, oltre alla storia delle gravidanze e dei matrimoni, si pongono alle donne anche quesiti retrospettivi sulla storia contraccettiva
(in alcuni intervalli tra gravidanze) e sulla partecipazione all’attività lavorativa (nei primi tre intervalli fra nati vivi) e quesiti di contesto e di
opinione, che tentano di tradurre in coerente fabbisogno informativo
una serie di riflessioni maturate fino a quel momento circa le modalità
di approccio allo studio empirico delle determinanti di fecondità.
I dati dell’INF/1 riaprono il dibattito sulla relazione tra fecondità
e lavoro della donna: Federici (1984a) discute delle implicazioni concettuali che un tale studio comporta e presenta uno schema in cui vengono
302
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
evidenziate le connessioni tra le molteplici variabili in gioco; Salvini (1984)
individua invece, con un’analisi di tipo descrittivo, una (relativamente
debole) relazione negativa tra dimensione familiare e impegno extradomestico della donna anche quando si standardizza per durata del matrimonio e livello di istruzione.
La numerosità e la natura delle informazioni rese disponibili dall’INF/1
costituiscono però anche uno stimolo all’adozione di nuovi, più complessi strumenti di analisi dei fenomeni. Negli ultimi dieci anni i dati
dell’Indagine sulla fecondità hanno costituito materiale insostituibile per
una serie di lavori tendenti ad approfondire con strumenti di analisi alternativi l’insieme delle relazioni tra fecondità e sue determinanti non
demografiche. Tra questi, ricordiamo in particolare le tecniche di path
analysis e i modelli per l’analisi di dati di sopravvivenza (hazard models)
con variabili esplicative.
La path analysis, in combinazione con analisi delle corrispondenze
multiple, viene applicata da Pinnelli (1984) con l’intento di verificare
l’ipotesi che la fecondità dipenda dall’influenza di norme riguardanti la
riproduzione prevalenti nell’ambiente e dalla condizione socio-economica
individuale. Tecniche di path analysis vengono utilizzate da Salvini (1985
e 1986) anche per studiare più in dettaglio la reciprocità dei legami che
sussistono tra fecondità e lavoro della donna.
La dinamica di fecondità per intervalli tra le nascite viene approfondita con metodi per l’analisi di dati di sopravvivenza. Applicando un
modello di Cox con variabili esplicative ai primi tre intervalli fra le nascite, De Rose (1988) e Ongaro (1991) analizzano come varia il rischio
relativo di avere un nato vivo rispettivamente di primo, secondo o terzo ordine in funzione di una serie di caratteristiche demografiche e socioeconomiche delle intervistate. Un approfondimento dello studio con riferimento al primo intervallo (Ongaro, 1991), mentre precisa ulteriormente le relazioni tra variabili di background socio-economico, variabili
intermedie (in particolare contraccezione) e rischio di avere un primo
nato vivo, discute la validità dei risultati e propone soluzioni più articolate di analisi del fenomeno.
2.4. Fecondità in gruppi circoscritti di popolazione
Lo studio del comportamento riproduttivo di gruppi particolari di
popolazione è importante non solo di per se stesso. L’esame della fecondità di tali popolazioni può costituire anche uno strumento utile per avere
conferma o per lo sviluppo di nuove ipotesi di ricerca, soprattutto se i
gruppi considerati sono sospettabili di esprimere elementi di natura
Riproduttività
303
etnico-culturale e/o politico-organizzativa non facilmente rilevabili in forma diretta. Questa interpretazione, pur con le debite precauzioni, può
essere allargata anche alle popolazioni individuate con criteri geograficoamministrativi.
Lo studio dei fenomeni demografici presso popolazioni particolari
trova tuttavia un limite nella disponibilità di dati. L’assenza di indagini
campionarie ad hoc condiziona lo studio all’analisi delle popolazioni individuabili con i dati raccolti nel corso di rilevazioni ufficiali, con la conseguenza che la maggior parte di esse sono identificate sulla base di criteri geografico-amministrativi. Eccezioni a questa regola sono, per motivi diversi, i lavori di Della Pergola (1970; 1980; 1983) su alcune comunità ebraiche della diaspora e il lavoro di Manese (1986) che, utilizzando dati delle schede di nascita Istat del 1984, analizza alcune caratteristiche della fecondità dei cittadini stranieri del comune di Roma.
Numerose sono le ricerche che approfondiscono il comportamento
riproduttivo di popolazioni locali con dati di provenienza statisticoamministrativa: Bellettini (1972; 1975) studia con dati del censimento
1961 la fecondità differenziale (per generazioni di matrimonio, luogo di
nascita, titolo di studio, condizione socio-professionale) delle donne
coniugate con più di 45 anni residenti nel comune di Bologna; Orviati
(1976) approfondisce la fecondità legittima (in particolare la durata dell’intervallo protogenesico) delle residenti nel comune di Trieste in vari
periodi che vanno dal 1930 al 1971; Riva (1982) analizza la fecondità
differenziale (durata di matrimonio, titolo di studio, luogo di nascita,
attività lavorativa) della popolazione di Vercelli; Schiaffino (1974) studia
la fecondità differenziale su dati del censimento del 1961 delle donne
coniugate di Carpi che hanno compiuto 45 anni; Lauro et al. (1986)
ricostruiscono la fecondità per contemporanei della popolazione della
Lombardia per gli anni 1972-80 su dati correnti e di censimento.
Questa produzione si arricchisce negli anni ottanta con l’impiego del
metodo own-children negli studi a carattere locale. La prima applicazione
del metodo a dati italiani è relativa alla popolazione dell’Alto Adige.
Sfruttando il quesito sull’appartenenza al gruppo linguistico inserito nel
censimento del 1971 per i residenti in provincia di Bolzano, Colombo,
Maffenini e Rossi (Colombo et aL, 1983; Maffenini e Rossi, 1984) studiano la fecondità differenziale dei tre gruppi etnici (italiano, tedesco e
ladino) ed evidenziano le sensibili (seppure in via di attenuazione) differenze nella cadenza e nei livelli di fecondità esistenti tra la popolazione
di lingua italiana, da un lato, e quelle di lingua tedesca e ladina, dall’altro.
In seguito, numerosi altri lavori applicano il metodo con la doppia
finalità di valutare le potenzialità dello strumento e di cogliere ulteriori
304
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
elementi informativi su fenomeni poco noti. Tra essi ricordiamo i lavori di Rossi e Calovi, Dalla Zuanna e Clerici. L’applicazione del metodo alla popolazione del comune di Trento (Rossi e Calovi, 1987)
non permette solo di confermare con dati di censimento del 1971 e
del 1981 l’influenza sul comportamento riproduttivo di variabili quali
il titolo di studio, la condizione occupazionale, la mobilità territoriale e
quella professionale. Con essa gli autori pervengono anche a una serie
di considerazioni di ordine tecnico circa la validità del metodo. Un’analoga ricerca su dati di censimento del 1981 della provincia di Milano
(Clerici, 1987; 1988; 1989) permette di indagare con maggiore dettaglio sull’evoluzione degli indici di fecondità congiunturali tra donne lavoratrici e non e, pur con alcune cautele legate alla mancata temporalizzazione di alcune variabili esplicative, di avanzare interessanti ipotesi
interpretative circa le componenti di tale trend. Su questa stessa linea,
Dalla Zuanna (1989) propone di studiare la fecondità femminile in popolazioni circoscritte territorialmente (nel lavoro si considerano alcune
realtà del Veneto), sia applicando il metodo own-children agli archivi
anagrafici, sia ripartendo gli iscritti per nascita alle anagrafi secondo la
distribuzione delle partorienti in ospedale per età e stato civile ricavata
dai dati di dimissione ospedaliera.
2.5. Uno sguardo d’insieme
L’esame della produzione del ventennio 1970-90 in tema di
fecondità configura un contesto estremamente fluido in cui, a fianco di
una consistente riflessione ispirata alla tradizione degli studi demografici
italiani, si fanno strada nuovi approcci all’approfondimento della
fecondità sollecitati dai più articolati bisogni conoscitivi maturati di
recente sul fenomeno.
La tradizione (magari aperta a elementi di innovazione come nel caso
del metodo own-children o all’uso di fonti alternative di natura amministrativa) è ben rappresentata dalla robusta produzione di studi a carattere descrittivo condotti spesso a livello macro con dati di provenienza statistico-amministrativa (si veda analisi sulla struttura e sulle determinanti demografiche del comportamento riproduttivo e, in particolare, la ricca produzione di tavole di fecondità). Con essa si approfondiscono anche aspetti particolari della fecondità, come nel caso dei concepimenti prenuziali
(Bonarini, 1981; Natale e Pasquali, 1975a; De Sarno Prignano, 1985).
Elementi di tradizione si esprimono nel perdurante interesse per la
ricerca di soluzioni tecniche volte a rendere sempre più utilizzabili sul
Riproduttività
305
piano scientifico i dati provenienti dalle rilevazioni ufficiali. Lo sforzo
non è volto solo in direzione del miglioramento delle procedure di raccolta, spoglio e pubblicazione dei dati (si ricorda che l’Istat stesso, a partire
dall’inizio degli anni ottanta, ha avviato alcuni tentativi di modificazione delle modalità di pubblicazione e di presentazione dei dati delle statistiche demografiche, con l’intento di renderle più compatibili con le esigenze
dei ricercatori). Un forte investimento è stato prodotto anche sul piano
della valutazione della qualità dei dati e dell’individuazione critica di
soluzioni tecnico-metodologiche che consentano un uso sempre più
efficiente delle fonti statistico-amministrative. Numerosi sono i lavori
che presentano riflessioni di questa natura. Tra questi ricordiamo quelli
di Natale e Pasquali (1974; 1975b), Lenzi (1980), Lombardo (1980), De
Bartolo (1982), De Simoni (1982), Breschi et al. (1982), De Sarno
Prignano (1985), Bonarini (1987).
In qualche misura espressione della tradizione è anche il precipuo
interesse per Io studio della fecondità nazionale. Di numero relativamente
contenuto, e per la stragrande maggioranza relativi a circoscrizioni sovrannazionali, sono infatti i lavori che analizzano il fenomeno con riferimento a paesi a bassa fecondità. Tra questi, ricordiamo quelli di Papa
(1978) e Chiassino (1978) sulla fecondità dei paesi europei, quello di
Livi Bacci e Ventisette (1980) sul comportamento riproduttivo delle adolescenti, quello di Santini (1986a) sulle aree problematiche di fecondità
in Europa e quello (peraltro con incursioni storiche) di Petrioli (1984)
sulla fecondità della Finlandia. Recente è invece l’interesse per la fecondità nei paesi in via di sviluppo. I problemi di ordine tecnico che
comporta la rilevazione di dati sulla fecondità in quei paesi sono discussi
da Maffioli e Giunti (1990).
Riflessioni nel merito del fenomeno riguardano invece paesi dell’area
mediterranea. Un primo lavoro di Livi Bacci (1988) analizza il problema
della crescita demografica sotto molteplici aspetti, compreso quello della
fecondità. I due lavori di Salvini (1988 e 1990) sono invece centrati
sulla fecondità: il primo riguarda il comportamento riproduttivo della
Tunisia, il secondo quello dei paesi del Mediterraneo sud-orientale.
Meno organica nei contenuti e nelle linee evolutive è invece la riflessione ispirata alle più complesse esigenze di studio della fecondità emerse
in questi ultimi decenni. L’articolazione delle problematiche e degli
sviluppi teorici e metodologici è oggetto di ampia e approfondita discussione (De Sandre, 1986 e 1987).
L’impegno più consistente in questo senso si ha probabilmente sul
fronte delle strategie di rilevazione dei dati. L’INF/1 rappresenta, a tale proposito, un’occasione importante di aggancio al dibattito interna-
306
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
zionale, per quanto riguarda sia l’aspetto della complicazione degli schemi
concettuali necessari a spiegare la fecondità dei paesi sviluppati, sia le
modalità di osservazione della realtà. Elementi qualificanti dell’indagine sono:
a) la possibilità di mantenere il riferimento individuale;
b) l’attenzione per la rilevazione delle variabili intermedie (abortività, contraccezione, sterilità, nuzialità);
c) il tentativo di individuare percorsi evolutivi nell’ottica di una osservazione dinamica degli eventi;
d) la rilevazione di nuove variabili tradizionalmente trascurate quali
il contesto delle risorse organizzative della donna (servizi pubblici, aiuti
non strutturati, distibuzione dei compiti familiari e così via) e i suoi riferimenti culturali e di valore.
Da questa esperienza trae beneficio, fra l’altro, l’intero sistema delle statistiche nazionali, se è vero che di lì a poco tempo lo stesso Istat
varerà un nuovo programma di indagini campionarie sulle famiglie (si
veda Indagine sulle strutture e i comportamenti familiari, 1983 e successive
Indagini multiscopo), ispirato a una logica di osservazione adottata per
la prima volta nell’ambito dell’INF/1.
Più eterogeneo è, invece, il dibattito sull’interpretazione e analisi dei
dati. Rispetto alle ipotesi interpretative della dinamica calante della fecondità, emerge soprattutto il bisogno di valutare in termini critici quelle
avanzate a livello internazionale (Bielli, 1983; Federici, 1984b).
Sul fronte delle metodologie di analisi la riflessione è più articolata,
ma anche più eterogenea. Alcuni temi (peraltro di estremo interesse per
la ricerca del settore) sono ancora legati più a specifici interessi dei singoli ricercatori che a un dibattito vero e proprio. Tra questi, ricordiamo
i lavori sui modelli instabili per tener conto dei possibili cambiamenti
di fecondità sviluppati da Micheli (1985 e 1988); quelli di Petrioli (1975
e 1978) e di Petrioli e Menchiari (1986) sui modelli e sulle tavole di fertilità per la popolazione italiana costruite mediante una funzione di Gompertz; quello di Tonini (1988), sull’analisi e previsione delle nascite mensili
con modelli usati per l’analisi delle serie temporali.
L’applicazione di metodi di analisi più complessi, in particolare di
tipo regressivo (hazard models, path analysis) sui dati dell’INF/l ha dato
il via, peraltro, a un dibattito estremamente stimolante non solo per
quanto riguarda la possibilità di conferme o di precisazioni di ipotesi
avanzate con tecniche di analisi demografica più semplice. Essa ha alimentato anche la riflessione a livello di approfondimento delle potenzialità degli strumenti tecnici e a livello di qualità e natura dei dati ne-
Riproduttività
307
cessari per lo studio della fecondità nel nostro paese e, più in generale,
nei paesi a bassa fecondità.
Il tema dell’effetto delle variabili intermedie, in particolare, è oggetto di un’articolata discussione. Lavori che organizzano variabili di
questo tipo all’interno di modelli complessi si trovano in Palloni (1984)
e in Palloni e Kephart (1989). Ma su questo fronte è ancora carente la
disponibilità di informazioni. L’assenza di dati più precisi sulla contraccezione, la sostanziale mancanza di controllo e di conoscenze degli aspetti
biometrici della fecondità (a questo argomento è attribuibile un numero
esiguo e molto eterogeneo di lavori, tra cui ricordiamo quelli di Pinnelli,
1973, e di Marchesi e Cittadini, 1976), sono elementi richiamati più volte
nella discussione di risultati di incerta interpretazione emersi con
l’applicazione di modelli di varia natura (Rindfuss et al., 1987; Palloni,
1984; Ongaro, 1991).
La prossima Indagine nazionale sulla fecondità (INF/2) raccoglierà sicuramente i frutti di questo lavoro. I criteri che stanno guidando la scelta della
popolazione di riferimento (campionamento di donne, uomini e mariti;
estensione dell’indagine anche alle nubili) e la natura dei quesiti previsti
per il questionario (rilevazione di informazioni relativamente dettagliate
sulla storia delle convivenze, dei matrimoni, delle gravidanze, della contraccezione, della formazione scolastica e lavorativa della donna; attenzione particolare agli aspetti di formazione delle decisioni e di valore che
sorreggono tali decisioni e così via) ne rappresentano già una conferma.
3. Controllo e pianificazione dei concepimenti
Per affrontare il tema della contraccezione in Italia nel corso dell’ultimo ventennio, conviene prendere le mosse da un articolo di Lombardo
(1966) che, ancora a metà degli anni sessanta, constatava la scarsa
documentazione statistica su tale argomento. In effetti, nel suo « tentativo di analisi statistica» del fenomeno — parafrasandone il titolo — egli
non trovava informazioni più esaurienti di quelle relative a un gruppo
di 277 donne coniugate (immigrate dalle regioni del centro-nord) e che
avevano frequentato il consultorio dell’Aied di Roma. Tre quarti delle
donne riferivano di «controllare sistematicamente» le nascite e quasi nove
su dieci di queste ultime ricorrevano al coito interrotto.
Tale tipo di documentazione relativo a gruppi particolari di donne
— avvicinate pur con approcci diversi, ma tali da non dare garanzia di
rappresentatività statistica — si incontra frequentemente, anche in anni
più recenti: se ne possono trarre quadri difficilmente generalizzabili, ma
308
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
pur utili per avere indicazioni da sviluppare successivamente. Alcuni esempi più significativi sono: lo studio di Palmieri (1966), il quale riferiva
delle pratiche contraccettive di 300 coppie napoletane avvicinate in occasione di consultazioni mediche specifiche; quello di Montanari (1967),
che esponeva i risultati di un’indagine effettuata tra gli operai e le operaie di un’azienda di Faenza; le due indagini, di più ampio raggio, condotte dall’Istituto di demografia di Roma nel 1969 (Bielli et al., 1973)
e nel 1972 (Bielli et al., 1975), con campioni probabilistici della popolazione di alcune zone tipiche dell’Italia settentrionale e meridionale; la
ricerca realizzata nel 1976-77 da Fabris e Davis (1978) sul comportamento sessuale degli italiani, con un campione per quote di duemila interviste somministrate a uomini e donne tra i 18 e i 64 anni di età; e
infine, un’indagine più recente attuata nel 1979-80 tra le donne frequentanti i consultori o i centri di pianificazione familiare — ventisei in
tutto — di sette regioni italiane (Landucci Tosi et al., 1981).
In ogni caso, solo l’indagine nazionale sulla fecondità (INF/1) effettuata nel 1979 (De Sandre, 1982a) è la prima vera occasione — e unica
fino a ora — che consente di fornire un quadro più preciso e meno approssimato sulla contraccezione in Italia. Pur con alcune limitazioni che
possono derivare dall’alto tasso di non risposte e dal fatto che sono state intervistate solo le donne coniugate, questa inchiesta costituisce un
punto di riferimento dal quale non si potrà prescindere anche in futuro.
In tale ambito viene esplorata la conoscenza sulla contraccezione e l’uso
effettuato sia in passato — con riferimento a intervalli definiti tra gravidanze — sia nell’«intervallo aperto» tra l’ultima gravidanza (o il matrimonio, se nulligravida) e l’intervista. Inoltre, limitatamente a un gruppo di donne, sono stati intervistati anche i relativi mariti (con un altro
questionario distinto), pervenendo a un sottogruppo di unità caratterizzato dalle risposte di entrambi i coniugi. Nella tabella 1 sono riportati
sinteticamente alcuni dei risultati salienti derivanti da questa indagine.
Essi evidenziano come l’uso dei vari metodi contraccettivi in Italia sia
fortemente consolidato nel tempo e in armonia con quanto veniva suggerito dai risultati già emersi dalle precedenti ricerche. Decisamente prevalente è il coito interrotto: il 67% delle intervistate lo ha usato e quasi
il 60% delle donne non incinte al momento dell’intervista continua a
farne uso. Frequente è l’impiego combinato di più metodi che riguarda
quasi un quarto delle donne non incinte. Modesto è l’uso della spirale
e anche quello della pillola, la cui quota di uso è del 7% quando non
la si considera in associazione con altri metodi e risulta pressoché doppia in caso di uso congiunto. I metodi naturali hanno una diffusione più
o meno analoga a quella della pillola ma, da soli — senza altri contraccet-
Riproduttività
309
tivi — riguardano il 4% delle donne non incinte al momento dell’intervista. Pressoché assente è la sterilizzazione volontaria.
Si vede dunque che l’uso dei metodi che comunemente vengono definiti «moderni» (come sinonimo di più efficaci) — pillola, IUD, sterilizzazione — riguarda appena il 10% delle donne esposte al concepimento
o poco più del 15%, quando si considerano anche nel loro uso misto
con altri metodi. La diffusione di questi ultimi tre contraccettivi ha realizzato quella che viene definita la seconda rivoluzione contraccettiva
— la prima sarebbe quella che ha fatto perno sul coito interrotto e che
ha portato dagli alti livelli di fecondità del secolo scorso ai bassi livelli
degli anni sessanta — o comunque la rivoluzione contraccettiva tout-court
(Westoff e Ryder, 1977). Con questa specificazione si vuole indicare
un cambiamento radicale da una contraccezione di arresto della fecondità — cui si ricorre quando si è realizzata la dimensione voluta della
prole — a una contraccezione di copertura continua dalle gravidanze, indipendentemente dal rapporto sessuale in sé, dalla quale ci si sottrae quando si è deciso di intraprendere una gravidanza. L’azione positiva è spostata dal controllo della fecondità all’interruzione della contraccezione
per realizzare la fecondità. La diffusione di questi metodi contraccettivi
efficaci — metodi «femminili», peraltro — avrebbe consentito la realizzazione della seconda transizione demografica (Van de Kaa, 1987),
caratterizzata dall’attuale bassa fecondità, inferiore a quella di sostituzione, che contraddistingue già tutti i paesi del mondo occidentale.
Tuttavia, si fa fatica a conciliare il basso livello di fecondità a tutt’oggi raggiunto dall’Italia — tra i più bassi mai osservati nel mondo —
con il quadro di una contraccezione, come quello presentato, che è così
lontano dal modello che dovrebbe caratterizzare tale seconda rivoluzione.
La deduzione più immediata è che debba necessariamente esserci stato un
massiccio ricorso all’aborto provocato. Né, d’altra parte, dopo l’INF/1 del
1979 dovrebbero esserci stati radicali cambiamenti nel nostro paese,
come suggeriscono í risultati riportati nella seconda parte della tabella 1.
Si possono caratterizzare meglio i comportamenti contraccettivi sottolineandone i cambiamenti negli intervalli tra gravidanze successive o
comunque in fasi diverse della vita fertile delle donne. C’è continuità
nell’uso di uno stesso metodo contraccettivo tra prima e dopo una gravidanza sopravvenuta. Con i dati della INF/1 (Bonarini, 1989) si vede
che in media sei donne su dieci continuano a usare lo stesso metodo dopo le gravidanze. Tale frequenza è più alta tra coloro che usano il coito
interrotto o più metodi congiuntamente, anche quando la gravidanza si
è verificata a seguito di fallimento del metodo. Anzi, in quest’ultimo caso
la perseveranza è la più elevata. Coloro che abbandonano l’uso di un
312
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
metodo — fosse anche la pillola o lo IUD — prevalentemente si orientano
o verso nessun uso della contraccezione o verso l’uso di metodi misti.
Conformi a questi sono altri risultati ottenuti procedendo, attraverso l’analisi dei clusters, all’individuazione di profili riproduttivi tipici
di gruppi di donne nel corso della loro intera vita matrimoniale. Almeno
per i percorsi più diffusi — definiti rispetto alla frequenza d’uso della
contraccezione e alla sua efficacia — le differenze di comportamento tra
i vari gruppi di donne si delineano fin dall’inizio della vita riproduttiva
e si mantengono nel seguito, nonostante le gravidanze avvenute. Per di
più questi comportamenti contraccettivi non sono riconducibili a variabili
ben individuabili, ma sembrano legati a differenti intrecci di più fattori
(Maset, 1985-86). Non è immediata la comprensione dei motivi delle scelte
contraccettive, soprattutto quando c’è continuità nell’uso di metodi
poco efficaci in presenza di fallimenti e pur avendo accertata una diffusa
conoscenza di metodi più efficaci.
Un pregiudiziale criterio di razionalità efficientistica che dovrebbe
governare le scelte contraccettive delle donne, approdando all’opzione
per il metodo più efficiente, porta ad analisi inconcludenti. Ciò è stato
ben sottolineato dall’indagine effettuata in Emilia-Romagna dal gruppo
Lenove (1986). Utilizzando le «interviste biografiche», raccolte nell’indagine, vengono individuate delle strategie contraccettive nell’ambito
più ampio di strategie riproduttive, con un’analisi della successione temporale dei vari comportamenti, visti rispetto alle varie condizioni biografiche, agli aspetti relazionali e agli orientamenti culturali e psicologici.
I profili emersi (Giacobazzi et al., 1989) vanno da un tipo «tradizionale»
— centrato su una concezione materno-familiare della stessa identità
sessuale femminile (nell’ambito del quale si trova un uso massiccio dei
contraccettivi non strumentali o farmacologici) — a uno caratterizzato
(all’estremo opposto) da un’inibizione della maternità — poiché l’interesse
della donna su di sé è prevalente — e nell’ambito del quale si utilizzano
pressoché tutti i metodi contraccettivi. Ce n’è un altro caratterizzato da
elementi di mobilità e segnato da momenti più o meno marcati di
cambiamento — si ha un prima e un poi — spesso coincidenti con il clima
sociale del femminismo degli anni settanta. Le scelte contraccettive di
queste donne passano dai metodi tradizionali usati «prima» ai metodi
femminili usati «dopo». Infine, c’è un ultimo profilo nel quale la
collocazione di tali eventi «cruciali» è all’inizio del ciclo di vita: qui la
contraccezione è orientata a provare tutti i metodi, scegliendo quelli che
appaiono più adatti al momento.
Al di là del significato più o meno generale di questi percorsi, si vuole sottolineare che i comportamenti contraccettivi difficilmente si com-
Riproduttività
313
prendono attraverso classificazioni tipologiche delle donne, ma che il
mutare o meno delle strategie contraccettive si comprende se inquadrato nell’ambito del modificarsi di scelte di vita.
Ritornando all’indagine INF/1 del 1979, i risultati ottenuti mostrano
che il livello complessivo della contraccezione (77% delle donne la usano)
non è inferiore a quello di molti paesi occidentali né, del resto, è lontano
dalla soglia massima che si ritiene osservabile. Le potenziali utenti della
contraccezione — togliendo le incinte, le sterili, quelle che sono alla ricerca
di una gravidanza... — sono stimate nell’ordine dell’80% delle donne sposate e in età riproduttiva. Le differenze emergono,rispetto ai metodi usati.
Per gli anni successivi al 1979 le informazioni frammentarie che possiamo ricavare dalle varie indagini effettuate su popolazioni particolari
— alcune delle quali sono riportate nella seconda parte della tabella —
ci danno indicazioni che, pur prese con le cautele già evidenziate in precedenza, possono essere interessanti.
L’aumentato uso della pillola, che risulterebbe dalle statistiche delle
vendite, non riguarderebbe le donne coniugate, ma eventualmente le non
coniugate, almeno in Emilia-Romagna. La stessa percentuale d’uso (14%)
dell’Emilia-Romagna si trova in Puglia (anche qui calcolata tra le donne
coniugate e non) mentre è più bassa nell’indagine effettuata dall’IHF
(International Health Foundation, 1986). In quest’ultima indagine c’è
un eccesso di donne in età più elevata e si registra un’alta frequenza
d’uso della spirale, così come tra le coniugate dell’Emilia-Romagna. Ciò
potrebbe indicare dei cambiamenti sopravvenuti, rispetto alla INF/1 del
1979, nella direzione di una contraccezione d’arresto spostata verso la
spirale, cioè verso un quadro analogo a quello che si è verificato in Francia
nel 1988. Naturalmente questo va verificato.
La sterilizzazione — anche dopo molti anni dall’abrogazione della sua
punibilità — non pare abbia assunto livelli significativi, sulla base delle
indicazioni che emergono dal campione della Puglia e da quello dell’Aied,
anche se potrebbe essere la natura stessa dei collettivi analizzati a determinare questo risultato. Si può segnalare però che un’indagine promossa dai ricercatori della Terza Clinica ostetrico-ginecologica di Bologna ed estesa a tutti i centri ospedalieri e case di cura italiani non ha
fatto registrare grosse frequenze di interventi effettuati in quelle sedi,
anche se la frazione di non risposte è stata elevata (Guerresi et al., 1987).
Dalla tabella che stiamo analizzando si nota infine che l’uso di metodi misti continua a essere elevato e i metodi naturali sono più impiegati
in Emilia-Romagna che in Puglia.
Un accresciuto interesse sul piano della ricerca hanno riscosso in questi
ultimi anni i metodi naturali di controllo delle nascite, come testimonia
314
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
fra l’altro l’attenzione che vi è dedicata anche dalle riviste tradizionalmente orientate verso una pianificazione familiare basata su metodi «moderni». Un breve riscontro può essere la lettera di Hanna Klaus a Family
Planning Perspectives (1989). Evidentemente le preoccupazioni per gli effetti
collaterali legati all’uso di contraccettivi ormonali - compresi quelli più
recenti tipo il Norplant - agiscono da spinta in questa direzione, a
parte ogni altra considerazione di tipo etico. Per l’Italia, di particolare
significato è l’archivio di dati formato da Colombo con i dati raccolti
da Marshall su un gruppo di donne londinesi. Queste ultime hanno annotato giornalmente, per più cicli consecutivi, variabili importanti relative al ciclo mestruale. Tali dati possono essere utilizzati, ad esempio,
per valutare l’applicabilità e l’affidabilità delle varie regole che definiscono i metodi di pianificazione (Masarotto, 1989). E prima ancora si
possono definire aspetti biometrici del ciclo, anche ai fini di una loro
prevedibilità (Colombo, 1989; Masarotto, 1988). Su queste linee si sono
articolate le prime ricerche, ancora in corso, coordinate da Colombo.
L’indagine nazionale sulla fecondità del 1979 ha riguardato le sole
donne coniugate e non furono intervistate né le divorziate né le nubili.
Per queste ultime le informazioni di cui disponiamo sono frammentarie, ottenute dalle varie indagini su popolazioni circoscritte. Così, ad
esempio, nell’inchiesta effettuata in Emilia-Romagna da Lenove si vede che tra le non coniugate di età tra í 21 e i 40 anni la pillola è usata
più frequentemente che tra le coniugate, ma non la spirale e il preservativo. Frequente anche tra queste è il ricorso a metodi misti. Le altre
indagini riportate nel prospetto, pur riferite a tutte le donne - non solo
a quelle coniugate - non specificano i risultati rispetto allo stato civile
delle intervistate.
L’interesse è particolarmente vivo sul comportamento delle adolescenti, le quali in certi paesi fanno registrare una frequenza annua elevata di gravidanze, fino a una ogni dieci donne (tra i 15 e i 19 anni di
età), come negli Stati Uniti e in Ungheria. In Olanda e in Giappone ove si hanno i valori minimi - si ha un tasso di dieci volte inferiore
(United Nations, 1988).
Negli anni settanta in molti paesi si osserva una diminuzione dei tassi
di gravidanza tra le adolescenti, nonostante l’accresciuta percentuale di
chi tra esse riferisce di aver avuto rapporti sessuali completi. È però
probabile che questi rapporti abbiano in genere un carattere di sporadicità e non siano molto frequenti - anche perché la coabitazione non è
certo una condizione prevalente tra queste donne - così come è pensabile che siano aumentate la contraccezione e l’uso di metodi più efficaci
Riproduttività
315
(United Nations, 1988). In ogni modo la percentuale di primi rapporti
sessuali completi non protetti pare elevata.
Per l’Italia, nella tabella 2 sono riportate le percentuali di giovani
donne con rapporti sessuali completi, calcolate in alcune indagini più
significative. Non è agevole combinare tra loro questi risultati, sia per
le diverse classi di età di riferimento considerate nei vari casi, sia
per la diversa natura dei collettivi analizzati. Le indicazioni sarebbero coTabella 2. Percentuali di adolescenti intervistati(e) che hanno riferito di avere avuto rapporti sessuali
completi
(*) Tra parentesi è il valore centrale della classe di età.
(**) Stime ricavate sulla base delle distribuzioni percentuali per età e per sesso.
(***) Stime riferite alle nubili.
316
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
munque per una discreta variabilità territoriale e sembra anche di cogliere un aumento temporale di tali frequenze. Inoltre, la maggioranza
delle donne che hanno avuto rapporti li ha iniziati prevalentemente prima
dei 18 anni. Sono comunque tutte considerazioni fragili, come ben si
comprende dal tipo di materiale presentato, tanto più che le due indagini
a carattere nazionale riportate nel prospetto - quella dell’Aied (1986) e
quella dell’Asper (Caf aro, 1988) - danno risultati troppo differenti per
essere affidabili.
4. Abortività
Si è detto in precedenza che una contraccezione qual è quella praticata in Italia - cioè basata essenzialmente sul coito interrotto - lascerebbe supporre che gli attuali bassi livelli della fecondità non avrebbero
potuto essere raggiunti senza un ricorso all’aborto provocato, fenomeno
che già prima del 1978 (quando ancora non era consentito dalla legislazione)
doveva essere di dimensioni considerevoli. Negli anni che hanno preceduto
l’entrata in vigore della nuova normativa c’è stato un vivace dibattito sul
numero degli aborti clandestini: furono avanzate stime che oscillavano da
qualche milione a qualche centinaio di migliaia di aborti clandestini
all’anno (Figà Talamanca, 1976; Livi Bacci, 1975).
Un’analisi critica delle varie valutazioni e della documentazione allora
esistente è contenuta in un saggio, ormai classico, sulla diffusione degli
aborti illegali in Italia prima della liberalizzazione dell’aborto (Colombo,
1976). In questo lavoro veniva mostrata la fragilità dei fondamenti di
molte delle stime che circolavano e si sottolineava l’esistenza in Italia di
situazioni territorialmente e settorialmente così diverse da rendere
azzardata l’estensione all’intero paese di visuali ristrette. Il saggio si
concludeva non tanto con una stima della diffusione degli aborti illegali
quanto con l’espressione di uno scetticismo maggiore verso cifre superiori
ai centomila aborti all’anno, piuttosto che verso cifre inferiori.
Oltre a questa, ci sono altre occasioni significative - anche per il riferimento territoriale più ampio - che possono aiutare a caratterizzare
gli aspetti salienti dell’abortività negli anni precedenti la liberalizzazione
dell’aborto. La documentazione ufficiale sui casi di denuncia di aborto
(ovunque avvenuto e accompagnato o meno da ricovero) prodotta daIl’Istat e quella sulle prestazioni ostetriche domiciliari e ospedaliere, realizzata dall’Inam fino al 1975, costituiscono una fonte che, pur con le
lacune derivanti dall’omissione dei casi non denunciati e dalla qualifica
di spontaneo attribuita agli aborti in realtà comunque avvenuti, con-
Riproduttività
317
sente di seguire l’evoluzione temporale del fenomeno dal 1955 fino a
ridosso del 1978. Tali statistiche sono state scarsamente utilizzate perché ritenute inattendibili. Analisi sono state effettuate, ad esempio, da
Angerame e Barbieri (1979), Beggiato (1977-78) e Bonarini (1991). Da
questa documentazione si ricava una generale stabilità della frequenza
dell’aborto nel corso del tempo (con alcune eccezioni) e inoltre una presenza più
elevata di aborti nelle regioni meridionali. La zona nord- orientale
registra i valori minimi di abortività (in particolare il Veneto e il
Trentino-Alto Adige); i massimi valori si hanno in Puglia, in Umbria e
in Sicilia.
Gli stessi risultati delle INF/1 ribadiscono come la frequenza di aborti
fosse più elevata nel Mezzogiorno e come in tale area siano state più
numerose anche le donne che hanno avuto una o più esperienze abortive.
I valori più bassi sono invece ancora nella zona nord-orientale. In media,
si ha quasi un aborto ogni due donne nel corso dell’intera loro vita
riproduttiva. Questo risultato è molto vicino a quello che si ottiene con i
dati di un’indagine multicentrica effettuata nei reparti ostetricoginecologici di otto tra città e centri minori dell’Italia centro-settentrionale
e di uno del sud (Bari). Si tratta di una rilevazione di ricoveri avvenuti
in questi reparti in periodi compresi tra il 1973 e il 1980 (Bonarini, 1984b
e contributi di vari autori in IRP, 1985).
I quattro momenti sopra richiamati — il saggio e le tre indagini — costituiscono i riferimenti principali per un’analisi dell’epidemiologia dell’aborto in Italia prima della normativa sull’interruzione volontaria della
gravidanza (IVG). Sostanzialmente si trae un quadro coerente di un
fenomeno abbastanza stabile nel tempo, di dimensioni non notevoli, con
accentuati caratteri di differenziazione territoriale.
Con la liberalizzazione dell’aborto, avvenuta nel 1978, prende avvio
un sistema informativo che trae origine dagli obblighi fissati nella stessa
legge e si articola su due canali distinti che fanno capo, rispettivamente,
all’Istat e all’Istituto superiore di Sanità. Quest’ultimo produce un’informazione tempestiva sulle principali caratteristiche dell’abortività legale.
Le elaborazioni dell’Istat, invece, più analitiche e ottenute dallo spoglio
dei modelli individuali, sono aggiornate con tempi più lunghi. Inoltre,
molte regioni hanno curato con più attenzione la rilevazione e hanno
elaborato i dati di propria competenza. Si può studiare una rassegna di tali
iniziative nel volume curato da Sanna (1989).
L’analisi di questo materiale, ampiamente sviluppata, ha consentito
di mettere a fuoco questioni importanti, a cominciare dalla dimensione
del fenomeno. Il numero annuo di IVG è stato nell’ordine delle duecentomila; dapprima è aumentato fino al 1982, quando ha superato quota
318
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
230.000, successivamente è diminuito fino alle attuali 160.000 circa.
Con tale ultimo numero di IVG si ottiene un livello di abortività che,
tra i paesi occidentali, è tra i più alti, inferiore solo a quelli di Svezia,
Norvegia e Stati Uniti. Si è comunque lontano dall’ordine di grandezza
delle precedenti stime sull’abortività clandestina. Di fronte a questi risultati si sono delineate due posizioni. Da una parte è stato osservato
che la dimensione dell’abortività legale registrata dopo la liberalizzazione dell’aborto non può essere assunta come espressione dell’abortività
clandestina realizzata prima del mutamento legislativo, poiché nel frattempo è cambiato il contesto entro cui le coppie possono agire (ad esempio
Colombo, 1983). La disponibilità di un ‘rimedio facilmente accessibile
per i concepimenti non desiderati modifica le circostanze che influiscono sulla frequenza dei rapporti sessuali non protetti e costituisce una
sollecitazione verso una sostituzione dei metodi contraccettivi attualmente usati. Ciò sarebbe vero ancor più per l’Italia, ove la contraccezione è basata soprattutto sul coito interrotto. Dunque, le circa duecentomila IVG annue non possono dimensionare l’abortività clandestina
degli anni anteriori al 1978, ma ne sarebbero una sovrastima. Da un’altra parte si osserva, invece, che il contenuto ricorso all’aborto da parte
della popolazione più giovane e l’esistenza di zone con bassi livelli di
abortività (concentrate soprattutto nel Meridione) insieme con altre zone a livelli elevati (Italia centrale e Puglia) sarebbero chiari indici della
permanenza di un’abortività clandestina residua. La legge del 1978 avrebbe rimosso solo una parte dell’abortività illegale precedentemente realizzata. Si è cercato anche di dare una valutazione del numero di aborti
ancora praticati nell’illegalità (Figà Talamanca e Spinelli, 1986), ma le
cifre diffuse — anche nelle Relazioni annuali del Ministero della Sanità
— sono ottenute con procedimenti basati su presupposti fragili e arbitrari. In realtà, se pur le differenze territoriali mal si spiegano compiutamente senza supporre un certo ricorso alla clandestinità — e le stesse denunce all’autorità giudiziaria del resto testimoniano dell’esistenza di tale fenomeno —, queste differenze non si possono cancellare riconducendo a omogeneità i comportamenti in materia di aborto nelle varie regioni. Differenze regionali marcate esistono anche rispetto ad altri fenomeni demografici, come la fecondità e la nuzialità (Santini, 1986a).
Indici di abortività clandestina potrebbero essere cercati tra i ricoveri ospedalieri ove potrebbero confluire i casi seguiti da complicazioni
— o tra i decessi per aborto. Forse anche a causa dei ritardi accumulati
nella disponibilità dei dati non si è avuta un’adeguata esplorazione in
questa direzione. Quel poco che è stato fatto non ha dato comunque
indicazioni di un’abortività clandestina consistente. D’altra parte que-
Riproduttività
319
sta pista può rivelarsi infruttuosa se gli aborti illegali sono ormai praticati in condizioni di massima sicurezza (Bielli, 1987). Però le scarne informazioni che abbiamo (ad esempio Aied, 1988) lascerebbero pensare,
pur con cautela, che, almeno in alcune zone, questi aborti sarebbero ancora praticati in condizioni di fortuna e da personale non qualificato.
Non mi risulta che in Italia si siano tentati approcci di stima degli
aborti clandestini basati su tecniche di intervista che assicurino la non
individuazione delle risposte, tecniche del tipo «risposte randomizzate».
Un altro aspetto che è emerso dall’analisi dell’abortività legale — e
sul quale si è rivolta l’attenzione dei ricercatori — è la presenza di un’elevata quota di casi di recidiva. Questa raggiunge quasi il 30% delle
IVG annue. Ha sorpreso anche la rapidità della crescita di tale percentuale — in tre anni, tra il 1981 e il 1984, è raddoppiata — e il fatto che
i valori massimi si trovano nel Meridione, cioè nelle zone ove è registrato il livello di abortività più basso. Una crescita temporale della quota
di recidive è nelle attese, poiché più tempo passa dall’entrata in vigore
della legge, più cresce la popolazione a rischio di una gravidanza ripetuta. Numerose sono state le applicazioni di modelli matematici — quello
di Tietze e jain (1978) o quelli più generali di Tietze e Bongaarts (1982)
e Blangiardo (1983) — per giustificare la sorprendente evoluzione della
situazione italiana: ad esempio, si vedano i Rapporti Istisan. Questi modelli possono fornirci un notevole aiuto per comprendere le caratteristiche del fenomeno delle recidive, poiché ci mostrano che sia la loro alta
percentuale, sia la loro rapida crescita temporale si spiegano plausibilmente solo nell’ipotesi di una elevata variabilità della propensione di
ricorrere all’aborto nelle varie categorie di donne. Alcune avrebbero una
probabilità alta di abortire e lo farebbero con una certa sistematicità (Blangiardo, 1993; Bonarini, 1993). Uno studio specifico sull’aborto ripetuto, effettuato analizzando le IVG di donne residenti in Emilia-Romagna, confermerebbe tale risultato anche in questa regione ove, peraltro,
si ha una quota di recidive un po’ più bassa della media nazionale (Pasquini, 1990). L’indagine è stata condotta con un linkage sulle IVG praticate in Emilia-Romagna nel periodo 1979-85 e consente anche di ricavare una misura della distanza temporale tra aborti successivi di una stessa
donna. Viene così recuperata un’informazione che manca nella scheda
Istat. In media l’intervallo tra IVG è di 22 mesi — tra le donne con due
IVG nel periodo considerato — o anche più breve tra le altre donne con
un numero di aborti superiore. Oltre il 14 % delle IVG sono ripetute
a meno di sei mesi dalla precedente.
Di fronte a una tale spiccata ripetitività dell’aborto non sono mancati interrogativi sul motivo e sulle categorie di donne che ne fanno uso.
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Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
Valga ad esempio il convegno di studi organizzato dalla Regione EmiliaRomagna nel 1986 i cui atti sono poi stati curati da Quintavalla e Raimondi (1989). Ancora con sorpresa — ma in linea con quanto verificato
anche in altri paesi occidentali — si è visto che l’aborto è diffuso anche
tra quelle donne che per condizione sociale o per grado di istruzione
si ritenevano sufficientemente capaci di prevenire i concepimenti non
voluti con una contraccezione adeguata. Inoltre, proprio nelle regioni
ove più diffusi sono i metodi contraccettivi più efficaci, l’aborto è stato
più frequente. Una connessione netta tra indicatori di benessere socioeconomico e livello di abortività è emersa da un’analisi di tipo ecologico
effettuata da Blangiardo sul complesso delle province italiane (Movimento
per la vita italiano, 1987). Alla luce di questi risultati, salta lo schema
interpretativo che vede l’aborto come rimedio ai fallimenti di una contraccezione poco efficace — come quella basata sul coito interrotto — che
è praticata soprattutto dalle donne in condizioni socio-economiche più
disagiate. In primo luogo si è così cercato di conoscere le motivazioni
che hanno spinto le donne ad abortire. Anche questa informazione non
è contenuta nel modello Istat, ma numerose sono le indagini effettuate
nelle singole unità ospedaliere che hanno esplorato questo campo con
domande dirette alle donne che hanno abortito. Si tratta di lavori che
hanno una rappresentatività territoriale ristretta e di solito riguardano
qualche centinaio di casi. Un’ampia rassegna di questi si può vedere in
Blangiardo (1993), ma due indagini hanno una dimensione più ampia
e maggior ricchezza di risultati, pur mantenendo una rappresentatività
territoriale circoscritta. Una è relativa all’area fiorentina (Marchiarmi
et al., 1988) e un’altra è stata effettuata in alcuni ospedali della città
di Napoli (Pane, 1988). Da questi due lavori e dagli altri si vede che
le motivazioni più spesso indicate per l’aborto sono di tipo socio-economico, affiancate da quelle legate a problemi familiari e di coppia. Scarse
sono le motivazioni che si riallacciano alla tutela della salute fisica o psichica della donna.
Si è cercato anche di capire quale tipo di contraccezione è stato usato
dalle donne che abortiscono e in particolare al momento del concepimento. Coloro che non conoscono la contraccezione o non hanno mai
usato alcun metodo sono una percentuale modesta. Molte donne hanno
usato i metodi tradizionali (in armonia con quanto si è già visto dalle
indagini sulla contraccezione), ma numerose sono coloro che in passato
hanno comunque fatto uso di metodi efficaci. Né mancano esperienze
che riferiscono di abbandoni di una contraccezione più efficace per una
meno efficace nel periodo immediatamente precedente l’aborto. Insomma
appare ben evidente che il problema dell’aborto non è riconducibile sem-
Riproduttività
321.
plicemente a una questione di conoscenza della contraccezione e di scelta
di un metodo più efficace, ma investe l’uso della contraccezione in una
realtà personale complessa. Le gravidanze non volute sono legate anche
all’uso di una contraccezione non efficace, ma derivano anche da
abbandoni della contraccezione e da situazioni di risk-taking. Difficilmente le analisi descrittive e anche l’investigazione delle cause dell’IVG,
come negli studi sopra ricordati, consentono di far luce sulle cause dell’aborto e in particolare dell’aborto ripetuto. Si può escludere, in generale, che l’IVG venga richiesta per motivi legati alla salute della madre
e del nascituro, ma le cause riferite — tutto sommato poco differenziate
e ripetitive nelle varie situazioni — esplorano solo le conseguenze di una
situazione causale precedente che ha portato alla gravidanza. È su queste
situazioni che occorre indagare se si vuole comprendere il perché dell’aborto.
Questi punti sono stati ben evidenziati da Carini e Finzi (1987) in uno
studio effettuato sui consultori milanesi.
Da quanto precede segue esplicitamente che la relazione tra contraccezione e aborto difficilmente si può porre in termini di un automatico
legame inverso tra diffusione dei mezzi contraccettivi moderni e diminuzione del numero di aborti. A tal riguardo si può aggiungere che l’aumento dell’efficacia della contraccezione si accompagna a una diminuzione del numero delle gravidanze non desiderate ma di solito anche a
un aumento del grado di determinazione ad abortire una eventuale gravidanza ciò nonostante sopravvenuta. Per l’Italia, una documentazione
di questa diversità delle propensioni all’aborto, condizionate al metodo
contraccettico impiegato, si trova anche nei dati della INF/1 del 1979
(Rossi, 1982). Con tale meccanismo (più uso della contraccezione, meno gravidanze accidentali, ma più ricorso all’aborto se queste sopravvengono) si può giungere al paradosso di un aumento di aborti a seguito
di un aumento della diffusione dei metodi contraccettivi più efficaci.
Un altro filone di studio più abbozzato che avanzato riguarda le ripercussioni della liberalizzazione dell’aborto sui vari fenomeni demografici del nostro paese. Ci possiamo chiedere se si registrano, in Italia, variazioni sulla dinamica temporale di questi fenomeni concomitanti con il
mutamento legislativo in tema di aborto, in modo da poter pensare a
una possibile conseguenza diretta di quest’ultima. In realtà non si vede
granché, almeno dalle poche analisi che sono state effettuate su questo
argomento (Cazzola, 1985-86; Bonarini, 1993). La fecondità ha continuato la sua dinamica discendente già avviata in precedenza, senza mostrare accelerazioni dopo il 1978. La stessa frequenza dei concepimenti
prenuziali è correlata con la dinamica della nuzialità ma non sembra scalfita dalla disponibilità dell’aborto. Qualche effetto si registra tra le na-
322
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
scite avvenute a distanza molto breve da una precedente, le quali diminuirebbero in modo più accentuato, e tra le nascite fuori dal matrimonio nelle età più giovani, che subirebbero un arresto. Si tratta comunque
di effetti di entità modesta. L’unica variazione sensibile si osserva nel
numero di aborti spontanei rilevati, che nell’attuale indagine effettuata
dall’Istat si riducono a meno della metà rispetto a quanto risultava nella
precedente rilevazione delle denunce di aborto. Una differenza che in
parte è però legata alle diverse caratteristiche delle due rilevazioni. In
tema di aborto spontaneo conviene fare due segnalazioni. L’Istituto
superiore di Sanità ha iniziato dal 1985 la raccolta sistematica dei dati
sugli aborti spontanei direttamente dalle regioni — in analogia a quanto già
operava per le IVG — nell’ambito di un annunciato sistema di sorveglianza
nazionale (Istisan, 1989). Inoltre una ricca documentazione sulle
conseguenze dell’inquinamento da piombo nell’abortività spontanea è
stata raccolta e analizzata dalla Pahrinieri (1993) relativamente al
comprensorio delle ceramiche nelle province di Modena e Reggio Emilia.
Non risultano altri studi significativi sull’argomento.
5. Opinioni, preferenze, atteggiamenti
L’indagine sulla fecondità del 1979 fu orientata soprattutto a conoscere i comportamenti delle donne coniugate e solo marginalmente furono incluse nel questionario alcune domande di opinione (sull’educazione dei figli, sulle condizioni e situazioni favorevoli o meno all’aver
figli e sull’aborto provocato). Fu anche chiesto a ciascuna donna intervistata di indicare il numero ideale, desiderato e atteso di figli. Successivamente, tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984, fu effettuata dall’IRP
una prima indagine nazionale sull’opinione degli italiani in merito alla
vita di coppia e ai figli (Palomba, 1987), seguita da una seconda — sempre a cura dell’IRP — realizzata sullo stesso argomento quattro anni dopo,
fra la fine del 1987 e l’inizio del 1988 (Palomba et al., 1989; Palomba,
1990). Un altro sondaggio a carattere nazionale fu realizzato dalla Doxa
nel 1986 nell’ambito dell’inchiesta Omnibus — per conto del Movimento
per la vita italiano (1987) — sull’opinione degli italiani in merito
all’aborto provocato. Anche quest’ultimo faceva seguito a due precedenti
sondaggi analoghi, effettuati dalla Doxa nel 1975 e nel 1980.
La percezione dei principali mutamenti demografici avvenuti negli
ultimi decenni sembra abbastanza diffusa tra la popolazione italiana. Nell’indagine IRP del 1984 le percentuali di risposte corrette a quesiti sulla
dinamica temporale delle nascite e dei matrimoni — nel nostro paese —
Riproduttività
323
sono state più elevate di quelle riportate, ad esempio, dai francesi in
indagini analoghe. Tale informazione non è generica — come è stato sottolineato (Piperno, 1987) — ma articolata (ad esempio, si sa che il calo
dei matrimoni riguarda quelli religiosi piuttosto che quelli civili) e si direbbe che si tratti di un’informazione legata all’esperienza personale e
dell’ambiente vicino, o comunque che le risposte fornite riflettano le
circostanze che le attuali tendenze demografiche rispondono alle più comuni aspettative del cittadino medio. E in effetti i meno informati sono
proprio i più giovani, i quali non hanno un’esperienza diretta di matrimonio e di procreazione; inoltre, generalmente, l’informazione si fa
meno precisa su aspetti che vanno al di là della percezione personale
immediata.
Sempre nell’indagine IRP del 1984, la valutazione del calo delle nascite era stata positiva nella maggioranza delle risposte, mentre quella
sul calo dei matrimoni era prevalentemente negativa. Nella successiva
indagine quest’ultimo giudizio risultava rafforzato, in quanto si dimezzava la percentuale dei consensi e aumentava quella degli indifferenti
ma, sorprendentemente, veniva ribaltata la valutazione positiva sul calo
delle nascite. Il 50% delle risposte adesso dava un giudizio negativo e il
49% si dichiarava d’accordo per un intervento di politica demografica
che incoraggiasse un aumento delle nascite. I motivi più frequentemente
addotti a sostegno di tale posizione riguardavano problemi di invecchiamento della popolazione e di mancanza del ricambio generazionale, cioè due temi sui quali c’è stata una certa attenzione da parte dei
mass media.
Quanto abbia inciso quest’ultima circostanza nel modificare l’opinione sull’attuale tendenza della natalità e quanto possano aver pesato
altre circostanze, come un possibile ringiovanimento della popolazione
italiana attraverso l’immigrazione dal Terzo Mondo, è una questione aperta. Anche in materia di aborto sono diminuite nel tempo le percentuali
di assenso sui motivi che ne legittirnano il ricorso. Pur restando maggioritari, sono comunque calati i consensi all’aborto anche per pericolo di
vita della donna, per violenza e per malformazione del feto. Si sono dimezzati, scendendo al 31%, i consensi che si richiamano ai motivi economici, mentre sono rimasti invariati (25%) quelli legati alla pura decisisone della donna. È forse nella ridotta conflittualità sociale sull’argomento, dopo la legge di liberalizzazione, il motivo di tale diminuzione
di consensi. Infine, il giudizio sulle convivenze — peraltro non molto diffuse in Italia, come si è visto in precedenza — è positivo solo per un quarto
degli intervistati; per un terzo c’è una posizione di indifferenza e per il
40% il giudizio è negativo.
324
Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi
Le indagini dell’IRP consentono anche di conoscere le aspirazioni
future e le preferenze degli italiani rispetto ai vari modelli riproduttivi.
Quello di famiglia con figli nel quale la coppia è legata da un vincolo
matrimoniale resta dominante. Tra la concezione tradizionale di una unione indissolubile e quella basata su un rapporto di tipo puramente consensualistico, la maggioranza si situa su una posizione intermedia che
subordina lo scioglimento del matrimonio al verificarsi di situazioni gravi.
Nei rapporti di coppia poi prevale una visione di tipo simmetrico caratterizzata dall’assunzione di ruoli professionali e familiari da pare di entrambi i coniugi.
I figli sono ritenuti molto importanti, tant’è che più di un terzo degli
intervistati ritiene che quello senza figli non è un vero matrimonio. Nei
figli viene apprezzata soprattutto la visione affettiva continuativa (il
legame più stretto che si può avere è quello con i figli), mentre meno
apprezzato è il loro valore sociale, rispetto al quale si ha il più basso
livello di accordo delle risposte. L’esperienza di diventare genitori è valutata positivamente, soprattutto da parte dei giovani e degli anziani.
Un po’ meno lo è da parte degli intervistati nelle classi d’età centrali.
La decisione di avere un secondo figlio viene legata soprattutto all’importanza attribuita all’indipendenza della coppia; quella di avere un terzo
figlio è associata soprattutto alle condizioni economiche della famiglia.
La dimensione ideale della famiglia, quella desiderata e quella realisticamente attesa, sono concetti comunemente utilizzati nelle indagini
per conoscere le aspettative di fecondità. Si hanno differenti articolazioni di questi concetti. Il numero ideale di figli può essere riferito alla
generica famiglia italiana o a quella che si trovi nelle stesse condizioni
socio-economiche del rispondente; il numero ideale di figli può essere
riferito al momento attuale o al momento del matrimonio. Né sono mancate critiche (Ryder, 1984) rispetto alla capacità di questi concetti di
esprimere i reali desideri delle coppie — in che misura le risposte sono
influenzate dalla dimensione già acquisita della prole? — o comunque di
anticipare le difficoltà che si sovrappongono al raggiungimento della prole
effettiva. Tuttavia sia l’indagine sulla fecondità del 1979 sia le indagini
successive dell’IRP danno una dimensione ideale della famiglia che costantemente si pone su valori di poco superiori ai due figli (2,1). Le differenze tra i valori medi relativi ai vari concetti (numero ideale, desiderato e atteso), così come tra le varie articolazioni di questi, sono modeste, come si vede con i dati della INF/1 del 1979. Quindi, non solo i
figli continuano a essere un valore per gli italiani, ma le preferenze sono
decisamente orientate per una famiglia composta da due figli.
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Capitolo decimo
Strutture di popolazione
Viviana Egidi
1. Dagli individui alla popolazione: eterogeneità e strutture
Una delle più rilevanti proprietà di una popolazione è la sua eterogeneità. Gli individui che la compongono sono uomini o donne, hanno
età diversa, diversi gradi di istruzione, svolgono lavori diversi, vivono
in diversi contesti familiari, sociali e ambientali e così via. E questi modi e condizioni in cui l’individuo vive, così come le modalità biologiche
che lo contraddistinguono, esercitano un’influenza importante sul suo
comportamento demografico (fecondità, mortalità, migrazioni), sociale
ed economico (rete di relazioni interpersonali e di parentela, lavoro, consumi, risparmio e così via).
Delineare le caratteristiche strutturali di una popolazione è in primo
luogo ricercare un ordine all’interno di questa eterogeneità, suddividendo
gli individui in gruppi omogenei rispetto alle modalità di uno o più caratteri utilizzati come ordinatori: un’operazione che consente di studiare i rapporti numerici tra i gruppi o il loro peso rispetto al complesso
della popolazione, di analizzare i meccanismi demografici che determinano e modificano la struttura nel corso del tempo e di disporre di elementi per valutare l’impatto delle sue caratteristiche e delle sue trasformazioni sui comportamenti di natura demografica, economica e sociale.
Il processo che porta a disegnare e a studiare le strutture di popolazione può, quindi, essere identificato come il primo passo degli studi
demografici, quello che consente di trasformare l’insieme delle informazioni disponibili sui singoli individui in caratteristiche della popolazione di cui fanno parte, attraverso un processo di aggregazione che consenta di giungere a identificare gruppi omogenei le cui differenze offrano un’immagine quanto più corretta possibile dell’originaria eterogeneità;
gruppi suscettibili di essere trattati come una sorta di «unità collettive»
alle quali attribuire attitudini e comportamenti e che possono essere utilizzate per descrivere la composizione interna della popolazione o come
elementi di base per gli studi di demografia differenziale.
340
Viviana Egidi
È evidente che il raggiungimento della perfetta omogeneità interna dei
gruppi è un obiettivo del tutto teorico in quanto, se si volesse controllare
l’infinito numero di caratteri (di ordine biologico, sociale, culturale, economico, ambientale e così via) che rendono ciascun individuo diverso dall’altro, si giungerebbe a identificare gruppi numericamente troppo esigui per
essere trattati con metodi statistici. Quando poi la stratificazione della popolazione rappresenti il primo passo per la predisposizione di materiale idoneo ad analisi di tipo esplicativo, soprattutto nell’approccio metodologico più attuale, la procedura di identificazione dei gruppi omogenei si complica ulteriormente. A questo fine, infatti, non solo la presenza di un certo
attributo (o di una combinazione di attributi) in un particolare momento
riveste importanza per il comportamento individuale, ma anche la fase della storia di vita in cui si è acquisito, il percorso seguito dall’individuo prima
e dopo la sua acquisizione, nonché i periodi di tempo in cui l’individuo è
stato caratterizzato da una certa combinazione di modalità dei diversi caratteri (Bertaux, 1980; Tuma e Hannan, 1984; Courgeau e Lelièvre, 1984;
1989; Caselli et al., 1989; 1990; Davies e Crouchley, 1985). In altri termini,
perché i gruppi possano considerarsi realmente omogenei al loro interno e
adeguati alle analisi di tipo esplicativo, dovrebbe riscontrarsi una similitudine tra le biografie degli individui che ne fanno parte e questo accresce
enormemente i problemi del trattamento statistico dei dati.
I vincoli teorici e operativi che si incontrano nel processo di stratificazione della popolazione sono, quindi, numerosi e di non facile superamento. Molto spesso essi rimangono sullo sfondo delle analisi demografiche e
non vengono trattati esplicitamente. Ciononostante, è utile iscrivere l’ampio corpo degli studi e delle ricerche sulle caratteristiche strutturali della
popolazione all’interno di questo quadro concettuale e di questa generale
necessità di ordinamento. Varia, in relazione alle finalità della ricerca e
alle informazioni statistiche disponibili, il grado di omogeneità interna
richiesta ai gruppi o l’accento maggiore o minore dato ai diversi aspetti,
ma l’elemento caratterizzante, anche se non necessariamente l’obiettivo
principale, delle analisi strutturali che vengono condotte in demografia è
espresso da questa esigenza di sintetizzare, senza distorsione, l’eterogeneità interna della popolazione.
2. Analisi strutturali: finalità delle ricerche
Sono almeno due le finalità con le quali si può intraprendere lo studio delle caratteristiche strutturali di una popolazione, sebbene la distinzione risponda molto più a un’esigenza di chiarezza espositiva che
Strutture di popolazione
341
a una reale dicotomia: una finalità descrittiva e una investigativa o interpretativa.
Nel primo caso, l’analisi dà conto della dimensione demografica (in
senso assoluto e/o relativo) dei gruppi di individui accomunati, in un
dato momento, dalla stessa modalità (o combinazione di modalità) di
una variabile (o di più variabili), qualitativa o quantitativa, assunta come
variabile di stratificazione. Il confronto con situazioni precedenti o
con altre popolazioni reali o teoriche viene utilizzato per formulare giudizi comparativi sulla maggiore o minore presenza dei diversi gruppi omogenei, eventualmente valutandone le cause e le possibili conseguenze.
La differenza tra questi studi e quelli che vengono condotti con finalità interpretative è spesso molto sfumata. La distinzione può farsi — e
comunque sempre in modo molto approssimativo — solo a posteriori, basandosi sul peso relativo della parte descrittiva e di quella interpretativa,
sulla maggiore o minore importanza che lo studioso tende a dare ai due
aspetti, sull’esplicitazione di un quadro concettuale che consenta di interpretare i risultati, sulla congruenza tra tale quadro concettuale e i dati
statistici di base.
C’è inoltre un altro aspetto che conviene tener presente per meglio
orizzontarsi nell’ampio insieme degli studi che trattano, in modo diretto
o indiretto, delle strutture di popolazione. Queste, infatti, sono oggetto
di analisi in almeno due modi diversi: da un lato, esse vengono assunte
come «variabili dipendenti», cioè in quanto caratteristiche da spiegare
sulla base della dinamica demografica passata (Preston e Code, 1982;
Caselli e Vallin, 1989; Wunsch, 1988; Horiuchi, 1988; Horiuchi e
Preston, 1988; solo per fare alcuni esempi relativi all’analisi della struttura
per età della popolazione alla quale viene dedicato, comunque, un
paragrafo specifico); dall’altro, vengono assunte come importanti presupposti della dinamica futura della popolazione. E infatti la combinazione delle differenze di comportamento dei diversi gruppi e del loro
peso differenziale a produrre la dinamica complessiva della popolazione
e, molto spesso, una piccola differenza applicata a gruppi di consistenza
demografica diversa, e variabile nel tempo, produce effetti consistenti
sul comportamento medio della popolazione. Così, ad esempio, il rischio
medio della popolazione di subire un determinato evento (pensiamo, ad
esempio, alla morte) può diminuire a seguito di due fenomeni: la riduzione del maggior rischio specifico che colpisce particolari gruppi di popolazione e/o la riduzione della dimensione demografica del gruppo o
dei gruppi esposti al maggior rischio. Entrambi questi fattori hanno avuto
una rilevanza notevole nel determinare l’evoluzione positiva della mortalità che si è verificata in tutti i paesi sviluppati nel corso del tempo;
342
Viviana Egidi
un’attenta valutazione del ruolo specifico giocato da ognuno di essi fornisce elementi sia per costruire un quadro teorico di riferimento più adeguato all’interpretazione, sia per finalizzare meglio gli interventi di politica sociale (ad esempio, per il ruolo giocato sulla dinamica della mortalità infantile dalle variazioni della struttura delle nascite: Pinnelli, 1983;
1984; Dinh, 1990; sulla supermortalità maschile dalla struttura per causa della mortalità nei due sessi: Vallin, 1983; Egidi, 1984).
Gli studi che si basano sulla conoscenza e utilizzazione delle strutture demografiche come elemento di valutazione della dinamica sono molto
numerosi. Una categoria importante è rappresentata da quelli che si fondano su un’ottica di scissione degli effetti della componente dinamica
e della componente strutturale secondo una logica di standardizzazione
(per indicazioni sui metodi di scissione si vedano Kitagawa, 1955; Das
Gupta, 1978; Zannella, 1984; Hoem, 1987; Coppi e Raccioppi, 1989).
Un altro filone si basa, per contro, su un concetto più ampio e meno
definito di eterogeneità tra gli individui, che non prevede necessariamente la conoscenza della composizione della popolazione rispetto al carattere che si ritiene determini le differenziazioni. In realtà, si tratta
del proseguimento, che negli ultimi anni ha trovato un nuovo slancio,
di un filone di studi che ha da sempre caratterizzato la demografia: l’analisi degli effetti dei processi di selezione e contro-selezione che modificano nel tempo il grado di eterogeneità della popolazione, o di un suo
gruppo costituente (soprattutto una generazione di individui nati nello
stesso anno di calendario), condizionandone la dinamica (Mortara, 1912;
Gini, 1914; Livi Bacci, 1962; Keyfitz, 1968; Heckman e Singer, 1982;
Caselli, 1988). Nell’analisi della mortalità, l’introduzione dell’eterogeneità tra individui, indotta da una « fragilità differenziale» che condizionerebbe il rischio di morte individuale (ma anche di insorgenza di
una malattia e così via), ha consentito di evidenziare alcuni interessanti
risultati e ha fornito una chiave di lettura di alcuni andamenti e di alcuni differenziali che apparirebbero altrimenti paradossali: come può la
speranza di vita di una popolazione diminuire a seguito dell’eliminazione di una causa di morte? Com’è possibile che una popolazione accusi
un livello di mortalità maggiore di un’altra sebbene i suoi rischi individuali di morte siano minori? (Vaupel et al., 1979; Manton et al., 1981;
Vaupel e Yashin, 1985; Yashin et al., 1985; Caselli e Capocaccia, 1989;
Wilmuth e Caselli, 1987).
Sempre in presenza di un’eterogeneità non direttamente misurabile
e, quindi, di una stratificazione non nota della popolazione rispetto a
uno o più caratteri che si ritengono rilevanti (e per i quali si dispone
soltanto di variabili-indicatore), merita una particolare attenzione una
Strutture di popolazione
343
proposta metodologica nuova, grazie alle possibili applicazioni allo studio
dei comportamenti demografici. Si tratta dei modelli strutturali con variabili latenti (ad esempio, Lisrel-Linear Structural Relationships), che vanta già
concrete e incoraggianti applicazioni soprattutto nelle scienze economiche
(per un’introduzione a questi modelli si veda Trivellato, 1990).
Senza addentrarsi nella complessità degli aspetti analitici, è forse opportuno richiamare l’attenzione su alcune idee portanti e su alcune possibilità di applicazione di questi modelli. Nati nell’ambito delle problematiche del trattamento degli errori che affettano le variabili sottoposte
a rilevazione (errori nelle variabili, variabili latenti, variabili di aspettativa),
i modelli strutturali con variabili latenti riconoscono esplicitamente la
necessità di superare l’ottica deterministica che fino a pochi anni fa ha
monopolizzato la ricerca empirica, integrando al loro interno delle
componenti stocastiche. Essi possono distinguersi in due grandi classi,
ciascuna delle quali passibile di avere interessanti potenzialità di
utilizzazione nel campo demografico.
Una prima classe prevede modelli che al loro interno combinano un
«modello di comportamento», che pone in relazione un insieme di variabili latenti (generalmente con sistemi di equazioni simultanee, o comunque di tipo regressivo), con un «modello di osservazione», che esprime le stesse variabili latenti in relazione a un insieme di variabili osservate che si riconoscono affette da errore (variabili-indicatore). Gran parte
dei modelli che sono stati proposti e utilizzati (per un’ampia rassegna
critica si veda ancora Trivellato, 1990) presenta un indubbio interesse
per le analisi demografiche: si pensi, ad esempio, all’«analisi fattoriale
confermativa» per la valutazione della qualità e della pertinenza delle
misure tratte da indagini; o al modello Mimic (Multiple Indicators and
Multiple Causes), utilizzato per studiare le relazioni tra comportamenti
sociali e «status socio-economico» dell’individuo e che potrebbe costituire uno strumento metodologico utile all’interpretazione del comportamento riproduttivo in relazione alla condizione socio-economica della
donna (per fare un esempio tra i più intuitivi); o al «sistema ricorsivo
con variabili latenti e molteplici indicatori» che vanta interessanti applicazioni nell’ambito del trattamento dei dati longitudinali.
Anche la seconda classe di modelli strutturali stocastici, quella cui
appartengono i modelli che si basano sull’utilizzazione di serie temporali multivariate e si caratterizzano per la loro struttura dinamica, riveste un potenziale interesse per la demografia in quanto consente di controllare i problemi derivanti dalla dipendenza temporale del processo
generatore dei dati. Alcuni modelli (ad esempio il «sistema di equazioni
344
Viviana Egidi
simultanee dinamiche con errori nei dati provvisori») possono essere utilmente applicati in ambito previsivo e consentono con diversi metodi di
«filtraggio» (ad esempio il filtro di Kalman) di stimare con sufficiente
precisione i valori futuri delle serie.
Molto si sta lavorando in questi anni per migliorare tali modelli e
renderli sempre più adatti all’analisi sociale. Importanti sviluppi si possono prevedere con la rimozione di quella che rappresenta una delle loro limitazioni maggiori: la necessità che, almeno approssimativamente,
le variabili considerate nel modello siano continue e le relazioni lineari.
Significativi progressi si stanno compiendo sia nella direzione di elaborare modelli a scelte discrete (e sono discrete scelte quali il matrimonio,
la nascita di un figlio, il cambio di residenza), sia in quella di considerare
scelte discrete e tempi continui (e sono di questo tipo le funzioni di
rischio utilizzate per analizzare i dati di durata, utili soprattutto per gli
studi della sopravvivenza).
Ma ritorniamo all’impatto delle strutture di popolazione (supposte
note) sulla dinamica demografica. C’è un ultimo aspetto sul quale è bene
soffermarsi ancora un momento: il fatto che tali strutture possono
esercitare, oltre a quella diretta, anche un’influenza di natura indiretta
sul comportamento demografico. Le caratteristiche strutturali della popolazione, costituendo uno degli elementi del contesto nel quale l’individuo vive e prende le sue decisioni, possono infatti rappresentare un
elemento condizionante delle scelte individuali — anche demografiche
— nient’affatto trascurabile. E questo un approccio allo studio dell’influenza della struttura sulla dinamica demografica (ma anche sociale ed
economica) che ha dato luogo a interessanti ipotesi di lavoro. Un esempio tra i più rilevanti è costituito dalla teoria avanzata da Easterlin per
interpretare la dinamica della fecondità e il baby-boom degli anni sessanta (Easterlin, 1969; Bielli, 1983). Più recentemente, questi aspetti
stanno imponendosi all’attenzione nell’ambito degli studi sulle conseguenze dirette e indirette dell’invecchiamento della popolazione (Muscetta, 1988; Hoffman-Nowotny, 1982; Manton, 1982).
Le due finalità, quella che spiega le caratteristiche strutturali come risultanti della dinamica e quella che le assume tra le determinanti di questa, vengono spesso ricomposte all’interno di modelli di interrelazione
che, avvalendosi degli strumenti messi a disposizione dal calcolo automatico, simulano (in modo determistico o stocastico, micro o macro) il
comportamento demografico di una popolazione e le modificazioni
strutturali che questa subisce nel corso del tempo (Land e Rogers, 1982;
Keilman et aL, 1988; Bertino et al., 1988; Egidi e Tomassetti,1988).
Strutture di popolazione
345
3. Quali strutture per le analisi di popolazione
Essendo l’uomo e il suo comportamento una sintesi di elementi
biologici e sociali, negli studi demografici entra in gioco una gamma
vastissima di caratteri di stratificazione: caratteri biologici (quali l’età),
genetici (quali il sesso o il gruppo sanguigno), antropometrici (quali
l’altezza, il peso e il loro rapporto), sociali (quali il livello di istruzione,
la condizione familiare e abitativa), economici (quali la professione e
la condizione economica), sanitari (quali la condizione di salute e la
presenza di particolari handicap); solo per menzionarne alcuni tra i più
ricorrenti.
Per avere un’idea del tipo di variabili che vengono più spesso utilizzate, si può fare riferimento ai censimenti, che costituiscono la fonte
classica delle informazioni sulle caratteristiche degli individui in un dato
momento. Ormai lungamente selezionate dall’esperienza, le informazioni
che si richiedono sono relative a sesso, età, stato civile, luogo di nascita,
residenza, istruzione, condizione lavorativa, condizione abitativa,
relazione di parentela con gli altri componenti dell’unità familiare e così
via. Tutte informazioni che l’individuo può fornire autonomamente,
rispondendo a un questionario relativamente semplice, senza che la sua
sensibilità ne venga urtata. Tra i vantaggi più importanti dell’utilizzazione di queste variabili per la stratificazione della popolazione — e che
spesso bilanciano i notevoli inconvenienti rappresentati dalla genericità
delle informazioni richieste — è da considerare che gli eventi demografici
sono spesso specificati proprio in relazione a tali variabili. Questo rende
possibile la costruzione di misure relative e, eventualmente, il collegamento tra i dati delle statistiche di stato e quelle di flusso (linkage; Pinnelli, 1984; Cariani, 1989; Cislaghi, 1990). Inoltre, molte di queste variabili (soprattutto il sesso, l’età, lo stato civile, il livello di istruzione)
sono sistematicamente rilevate anche nelle indagini campionarie che, con
cadenza diversa e più ravvicinata rispetto ai censimenti, vengono condotte su vari fenomeni rilevanti (ad esempio, l’indagine trimestrale sulle
forze di lavoro). Un più deciso sforzo di integrazione delle diverse, e
ormai molto numerose, indagini condotte in Italia consentirebbe (Kish e
Verma, 1986; Colombo, 1987) di disporre anche per il nostro paese di
un più razionale ed efficiente sistema di monitoraggio delle principali
caratteristiche della popolazione. In questa direzione si è mosso l’Istat,
che ha predisposto per il censimento del 1991 un insieme di procedure
e modelli di integrazione (Masselli e Venturi, 1990).
346
Viviana Egidi
L’indagine multiscopo sulle famiglie che, a partire dal 1987, ha raccolto diverse indagini campionarie settoriali condotte precedentemente
(letture, vacanze, salute, strutture e comportamenti familiari), costituisce un esempio delle potenzialità offerte da una rilevazione che, pur mirata a raccogliere informazioni approfondite su temi particolari, riesce
a collocarle in un quadro di riferimento generale che ne arricchisce notevolmente il significato. La complessa procedura di rilevazione, che si
articola su sei cicli — ciascuno dedicato a uno specifico argomento e con
una durata di rilevazione di sei mesi (un particolare ciclo viene quindi
riproposto ogni tre anni; Roveri, 1990) —, prevede un gruppo di quesiti
comuni di notevolissima importanza per gli studi demografici: sesso, età,
stato civile, istruzione, condizione professionale, struttura familiare (secondo la più attuale definizione di «famiglia di fatto»), condizione abitativa, condizione di salute, eventuale presenza di condizioni di incapacità fisica. Un insieme di caratteri che consentono di ricostruire le caratteristiche demografiche salienti della popolazione e seguirne le modificazioni in modo tempestivo. Alcuni cicli specifici, inoltre, e in particolare quello dedicato alle condizioni di salute della popolazione e al ricorso ai servizi sanitari (quarto ciclo) e alle strutture familiari (secondo
ciclo), offrono informazioni e delineano strutture non altrimenti disponibili. Ad esempio, la composizione della popolazione secondo Io stato
di salute percepito, la diffusione di malattie croniche e degenerative o
di particolari handicap (Istat, 1986; Egidi, 1988); la condizione degli
anziani (stato di salute, condizione familiare e reti di solidarietà); struttura delle famiglie di fatto (Istat, 1985; Roveri, 1986); struttura delle
donne secondo il numero di figli e così via.
Un’altra necessità che si imporrà con crescente forza negli anni a venire sarà quella di un coordinamento teso a rendere comparabili e integrabili le informazioni demografiche relative ai diversi paesi europei e
soprattutto a quelli appartenenti alla Comunità europea. Un esempio
che dovrebbe essere seguito con determinazione è rappresentato dall’indagine armonizzata sulle forze di lavoro coordinata annualmente dall’Ufficio statistico delle Comunità europee. Altre caratteristiche della
popolazione, e particolarmente quelle relative alle strutture familiari e
allo stato di salute, meriterebbero un analogo impegno. Un importante
lavoro di omogeneizzazione delle definizioni e dei metodi di rilevazione
sarebbe senz’altro necessario per rendere comparabili le indagini che vengono attualmente condotte su questi temi in molti paesi; l’arricchimento conoscitivo che se ne avrebbe sarebbe di tale spessore da ripagare
ampiamente gli sforzi.
Strutture di popolazione
347
4. La struttura per sesso
L’insieme dei caratteri che, separatamente o congiuntamente, vengono assunti come «ordinatori» o «stratificatoci» della popolazione negli studi demografici è, come si è visto, molto ampio ed estremamente
diversificato. Almeno due caratteri ricorrono però in qualsiasi trattazione. Si tratta del sesso e dell’età (si vedano ad esempio Shryock et al.,
1976; Federici, 1979; Livi Bacci, 1990; IRP, 1988).
Il sesso è uno degli elementi fondamentali di differenziazione del comportamento umano; si tratti di comportamenti che affondano le loro radici nella biologia, per i quali il sesso svolge un ruolo determinante (pensiamo al processo riproduttivo), o che si tratti di comportamenti sociali
(per i quali esso diviene indicatore di un diverso retaggio culturale ed
educativo e di un diverso stile di vita), l’essere uomo o donna rappresenta un «marcatore» che informa di sé gran parte dell’esperienza e del
comportamento individuale.
L’equilibrio strutturale tra le due componenti del genere umano è
il necessario presupposto dello sviluppo demografico e la sua mancanza
può essere tanto negativa da pregiudicare la stessa esistenza del gruppo;
un presupposto tanto importante che la stessa biologia sembra scendere
in campo per cercare di garantirlo. È noto lo squilibrio dei sessi alla nascita, che porta a un rapporto di circa 106/100 tra le nascite di sesso
maschile e quelle di sesso femminile e che consente di bilanciare, almeno nella prima fase della vita e fino alle età riproduttive, la maggiore
mortalità del primo rispetto al secondo. In condizioni normali (in assenza, cioè, di eventi straordinari quali potrebbero essere guerre, imponenti
flussi migratori fortemente selezionati per sesso e così via), la struttura
per sesso si presenta abbastanza equilibrata e relativamente poco variabile.
Sono queste probabilmente le ragioni che hanno fatto trascurare,
almeno come oggetto autonomo di studio, questa struttura, sebbene
l’informazione sul sesso costituisca un elemento di differenziazione sempre presente negli studi demografici.
Un’eccezione importante è rappresentata dagli studi sulla nuzialità,
che assumono gli eventuali squilibri tra la componente maschile e femminile della popolazione tra le cause rilevanti, non solo dell’intensità
della nuzialità (Henry, 1969a; de Saboulin, 1985) ma anche, e soprattutto, delle sue caratteristiche per età (Henry, 1969b; Schoen, 1983)
e che ne valutano gli effetti nell’ambito della costruzione di modelli di
nuzialità a due sessi (Pollard, 1977; Keilman, 1985).
348
Viviana Egidi
Più distanziati nel tempo, essendo soprattutto collocati nel periodo
in cui l’Italia era attraversata da intensi movimenti di popolazione, gli
studi che centrano il loro interesse sulle conseguenze strutturali (la composizione per sesso è sempre trattata in congiunzione con la struttura per
età) delle migrazioni (Golini, 1964; Ciucci, 1971; Santini, 1974; Caselli,
1975); un tema sul quale si tornerà senz’altro a discutere a seguito della
recente inversione di tendenza delle correnti migratorie che vede il nostro paese meta di un notevole afflusso di popolazione proveniente dai
paesi meno sviluppati. Le notizie riguardanti gli immigrati sono però nei
primi anni novanta troppo scarse per consentire approfondite analisi.
Un elemento di novità negli ultimi anni é rappresentato invece dalle
conseguenze, proprio sulla struttura per sesso, del fenomeno dell’invecchiamento demografico delle popolazioni sviluppate. La crescente presenza di
anziani e il persistente svantaggio maschile nei confronti della mortalità
hanno infatti determinato un processo di «femminilizzazione» della popolazione che non manca, e non mancherà nel futuro, di condizionare notevolmente lo stile di vita (si pensi agli effetti sulle strutture familiari) e i
comportamenti, così come imporrà specifici interventi di politica sociale
ed economica. Un insieme di problemi che hanno ridato vigore agli studi
sulla struttura per sesso della popolazione, spesso arricchita con altri elementi relativi, ad esempio, alla condizione familiare e/o abitativa, alla rete di relazioni di parentela, alla condizione di salute e così via (Pinnelli,
1986; Wolf e Pinnelli, 1989; Egidi, 1990; Oberg, 1990).
5. La struttura per età
L’età costituisce una variabile-cardine degli studi demografici. Essa
influenza infatti tutti quei comportamenti che hanno un fondamento
biologico (il processo riproduttivo, l’invecchiamento, la malattia, la morte)
e, in modo più mediato ma sempre rilevante, i comportamenti sociali
(tra quelli più rilevanti per la demografia: nuzialità, divorzialità, migratorietà) ed economici (appartenenza alle forze di lavoro, consumi, risparmio e così via). E quindi ovvio che essa rappresenti, accanto al sesso,
la principale variabile di stratificazione della popolazione.
A seconda della finalità della ricerca e della disponibilità dei dati statistici, viene specificato un dettaglio delle età adeguato; si costruiscono
tabelle che riportano la dimensione demografica (assoluta o percentuale)
dei gruppi di individui accomunati dalla stessa età; si disegnano grafici
adatti a evidenziare dimensioni e profili (ad esempio la piramide delle
,
Strutture di popolazione
349
età) e si elaborano indici in grado di sintetizzare le caratteristiche salienti della composizione per età della popolazione (composizione percentuale, indice di vecchiaia, indice di dipendenza strutturale e così via); eventualmente, si studiano i comportamenti differenziali per età rispetto ad
alcuni fenomeni demografici (mortalità per età, fecondità per età, nuzialità
per età e così via). Sono quasi sempre questi i primi passi della conoscenza
di una popolazione e gli elementi che entrano in gioco per caratterizzarne
gli aspetti statici e dinamici rispetto ad altre popolazioni.
Senza soffermarsi sulle procedure standard seguite nello studio della
struttura per età, ampiamente illustrate in ogni manuale di demografia (Federici, 1979; Blangiardo, 1987; Livi Bacci, 1990; Di Comite e Chiassino,
1990; Santini, 1990; per citarne alcuni recenti), sembra utile piuttosto concentrare l’attenzione su un corpo di ricerche che si stanno sviluppando,
soprattutto negli ultimi anni, sull’onda delle importanti implicazioni sociali,
economiche e demografiche dell’invecchiamento delle popolazioni delle
società sviluppate, e attirare l’attenzione su alcuni problemi di definizione
della variabile età che spesso non vengono posti sufficientemente in luce e
che, al contrario, condizionano pesantemente i risultati e le valutazioni.
5.1. L’invecchiamento della popolazione
È senz’altro l’invecchiamento demografico il fenomeno strutturale
più importante verificatosi, in Italia come negli altri paesi sviluppati,
in quest’ultimo scorcio di millennio. Una trasformazione che non si è
esitato a definire con incisive e fantasiose espressioni: «rivoluzione grigia», si è detto, a significare il rapido aumento, carico di conseguenze
economiche, sociali e culturali (oltre che demografiche), della quota di
popolazione anziana (di età superiore ai 60, 65 o 75 anni, a seconda degli studi). Non c’è dubbio che questa sia stata una trasformazione tra
le più annunciate. I suoi presupposti erano già da lunghi anni inscritti
nella dinamica demografica e tutte le previsioni di popolazione effettuate nel dopoguerra, con toni sempre più preoccupati con il passare del
tempo e il radicalizzarsi di alcune tendenze (il crollo senza precedenti
della fecondità, soprattutto), ne preannunciavano l’avvento, mentre gli
organismi internazionali promuovevano studi, formulavano raccomandazioni e incoraggiavano la predisposizione di misure adeguate a fronteggiare i nuovi problemi (Nazioni Unite, 1956; 1985; 1988; Consiglio
d’Europa, 1982; World Health Organization, 1984). I demografi hanno
dedicato alla descrizione delle dimensioni quantitative e qualitative
dell’invecchiamento, all’individuazione delle sue determinanti demogra-
350
Viviana Egidi
fiche e alla valutazione del suo impatto, un gran numero di studi (in
Italia Livi Bacci, 1980a; 1980b; Somogyi, 1980; 1985; per segnalarne
alcuni tra i primi) i cui risultati avrebbero potuto costituire un punto
di partenza prezioso per predisporre per tempo strutture (socio-sanitarie,
abitative e così via) e interventi di politica sociale e previdenziale che
avrebbero permesso di assorbire meno traumaticamente le trasformazioni.
Nel 1986 l’Istituto di ricerche sulla popolazione (IRP), del CNR, organizzò a Roma la prima giornata di studio sui problemi dell’invecchiamento, che consentì un’utile riflessione comune sulle tendenze in atto, sulle
loro prospettive future e sul loro impatto sociale ed economico (IRP, 1987).
Solo pochi mesi prima, in occasione della Chaire Quételet 1986, un analogo confronto di problematiche e metodi di analisi aveva raccolto i demografi provenienti da vari paesi europei e aveva toccato tutti gli aspetti più importanti del problema (da quelli demografici a quelli biologici
e sanitari, da quelli sociali a quelli economici, culturali e politici, con
un’importante sessione dedicata ai problemi metodologici). Ciononostante,
poco o nulla di questo contributo si è trasferito dall’ambito scientifico ai
settori decisionali della società e l’immagine attuale, non solo in Italia
del resto, è quella di una rincorsa alla soluzione di problemi che rischiano ormai di divenire ingovernabili: si pensi alle strutture sanitarie, al sistema di solidarietà sociale rappresentato dalle pensioni di vecchiaia, ai
problemi dell’assistenza agli anziani e così via.
Un filone molto promettente di studi, ispirato soprattutto dai crescenti
problemi che il fenomeno pone in termini di costi e di possibilità di sopravvivenza del welfare-state, si concentra sulla valutazione dell’impatto
economico dell’invecchiamento demografico. Esso viene sviluppato sia
dai demografi (Blanchet, 1986; 1988; van Poppel e van des Wijst, 1987;
Tapinos, 1988; Blanchet e Kessler, 1990; in Italia: Livi Bacci, 1980b;
Golini e Ascolani, 1982; Vitali, 1982; 1987a; 1988; Petrioli, 1988; Righi,
1989; 1990; de Sarno Prignano e Natale, 1990) sia dagli economisti
(International Monetary Found, 1986; Clark, 1987; von Weízsacker,
1988; Ermish, 1989; in Italia: Bruni, 1984; Fuà, 1986; Cigno, 1989; Alvaro
et al., 1989; e per gli aspetti di economia sanitaria, Hanau et al., 1987), e
spesso in proficua collaborazione. Alcuni aspetti, soprattutto inerenti alle
conseguenze dell’invecchiamento sul sistema pensionistico e sul sistema
della sicurezza sociale, vedono anche un notevole e molto positivo
impegno degli attuari (Coppini, 1978; 1988; Inps, 1987; 1989). Sono
questi i campi di ricerca che necessitano senz’altro di ulteriori approfondimenti e di una più stretta collaborazione tra gli studiosi delle
diverse aree implicate. Non di rado, infatti, la mancata integrazione tra
esperienze e competenze diverse porta a risultati scarsamente utili sul
Strutture di popolazione
351
piano operativo: i demografi e gli economisti tendono, ad esempio, a
sottovalutare il ruolo di mediazione giocato dal sistema normativo sui
costi previdenziali, giungendo a valutazioni che portano a esaltare l’importanza della componente demografica (Gonnot, 1990); gli attuaci tendono, per contro, ad assumere la componente demografica, soprattutto
per la parte riguardante i contribuenti dei fondi pensione, indipendente
dalla dinamica demografica ed economica prevista per i prossimi anni
e, quindi, a svalutarne il ruolo. È certo comunque che in Italia la sensibilità rispetto a questi problemi è enormemente cresciuta negli ultimi
anni, tanto da riconoscere la provocatorietà di alcune proposte che sono
state avanzate per tentare di risolvere il deficit del sistema della sicurezza sociale ristabilendo un legame diretto tra diritto alla pensione e
comportamento riproduttivo. Un’ipotesi che, prevedendo la penalizzazione, fino alla privazione del diritto alla pensione degli individui che
non avessero assolto in gioventù al debito sociale di aver fatto un numero adeguato di figli, consentirebbe, almeno nella mente dei proponenti,
di alleggerire nel breve periodo i costi previdenziali e di incentivare, nel
medio e lungo periodo, la fecondità (Demeny, 1987).
5.2. Gli effetti delle componenti della dinamica demografica sull’invecchiamento
della popolazione
«Per molti anni i demografi si sono sforzati di spiegare che la responsabilità principale dell’invecchiamento demografico era da attribuire all’abbassamento della fecondità. Ci sono riusciti così bene che oggi i discorsi sulle conseguenze della ripresa della diminuzione della natalità tendono a nascondere il ruolo, ormai molto reale e crescente, dell’evoluzione della mortalità». Queste parole, tratte da uno studio di Caselli e Vallin (1989), riassumono in modo molto incisivo il senso dei più recenti
risultati sulla dipendenza della struttura per età della popolazione, e quindi
dell’invecchiamento demografico, dalla dinamica pregressa. La riduzione della mortalità, che negli ultimi anni è stata forte soprattutto nelle
età adulte e senili, e i livelli ormai molto contenuti della mortalità nelle
età infantili e giovanili (che, come si sa, agiva nelle prime fasi della transizione demografica come fattore di ringiovanimento della popolazione), stanno facendo emergere il ruolo centrale dell’allungamento della
sopravvivenza come fattore esplicativo dell’invecchiamento della popolazione (l’invecchiamento dall’alto della piramide delle età, come viene
chiamato; Brouard, 1986). Un ruolo che, sulla base delle previsioni effettuate, tenderà a divenire sempre più esclusivo nel futuro, qualunque
352
Viviana Egidi
sia l’evoluzione della fecondità e anche adottando ipotesi molto prudenti sull’evoluzione futura della mortalità.
Gli scenari demografici che si possono disegnare per il futuro concordano quindi nel denunciare la sostanziale irreversibilità dell’invecchiamento demografico. Nessuna panacea potrà invertire le tendenze che si
sono affermate: né una ripresa della fecondità, quanto mai improbabile allo
stato attuale, almeno nelle dimensioni che sarebbero necessarie (Keyfitz,
1986), né — e questo è un aspetto che farà molto discutere nei prossimi
anni e al quale sarà necessario dedicare più accurate ricerche — l’apporto
di flussi migratori provenienti da altri paesi che consentirebbero, anche
qualora assumessero proporzioni ben più rilevanti di quelle attuali, di alleggerire solo per qualche lustro la pressione demografica esercitata dalla
quota crescente di anziani sulla sempre più esigua popolazione in età
lavorativa (Holm, 1988).
5.3. Età: intuitività e motivi di riflessione
Le valutazioni che correntemente vengono effettuate sul fenomeno
dell’invecchiamento poggiano su un concetto di età che, se ha il grande
vantaggio dell’estrema semplicità e intuitività, rischia ormai di non rispondere più all’esigenza di una corretta valutazione delle caratteristiche strutturali della popolazione e delle implicazioni delle modificazioni in corso. A
prima vista, è estremamente semplice dare una definizione univoca di età;
in effetti, almeno nelle società sviluppate, abituate ormai da tempo a mantenere memoria delle date salienti che punteggiano le storie di vita individuale, la data di nascita costituisce, oltre al sesso, un altro importante «marcatore» individuale. Diviene quindi automatico — assumendo l’evento nascita come «evento origine» della linea di vita — determinare l’età dell’individuo eguagliandola alla lunghezza dell’intervallo di tempo che separa il
momento della nascita da quello della rilevazione. Fatti salvi eventuali errori di rilevazione, che su questo fenomeno divengono tuttavia sempre
meno importanti, sembrerebbe questa una variabile certa e tale da non dare luogo ad alcuna complicazione. Ed è sicuramente così quando l’età venga definita e assunta nel suo significato strettamente cronologico.
I problemi sorgono quando si utilizza l’età per segmentare le storie
di vita individuali, fatto che avviene normalmente negli studi sull’invecchiamento e sulle sue conseguenze sociali ed economiche. Si attribuisce
in questi casi all’età, anche se spesso implicitamente e, quel che è
peggio, inconsciamente, un significato di indicatore indiretto di una
serie di condizioni (problematiche, nel caso degli anziani) che dovreb-
Strutture di popolazione
353
bero accomunare tutti gli individui della stessa fascia di età: precarie
condizioni di salute fino alla mancanza di autonomia, precarie condizioni economiche, frequente isolamento sociale, sono le caratteristiche
che vengono automaticamente evocate dal termine «anziano».
È evidente che, affinché l’età cronologica possa essere correttamente
assunta a rappresentare queste potenziali situazioni, dovrebbe essere accettabile
l’ipotesi su cui implicitamente si basa: che il trascorrere del tempo abbia
lo stesso significato e comporti le stesse conseguenze sulle storie di vita —
in senso di sviluppo e, eventualmente, regresso delle potenzialità bio-fisiologiche e mentali degli individui — in qualsiasi epoca, in ogni contesto e
per tutti gli individui. In altri termini, che l’invecchiamento individuale
segua modalità e cadenze universali e costanti nel tempo. Un’ipotesi estremamente rigida che si dimostra del tutto inadeguata soprattutto in periodi storici segnati da profondi cambiamenti e da una notevolissima
varietà di contesti e condizioni individuali come quelli che caratterizzano
le moderne società sviluppate (Livi Bacci, 1982; 1987; Egidi, 1987).
Dalla seconda metà degli anni ottanta sono stati dedicati numerosi
studi allo sviluppo della relatività del concetto di età in conseguenza della
diverse velocità e modalità dell’invecchiamento individuale. Ponendo
in ciascun ambito disciplinare l’accento su aspetti specifici, si stanno infatti svolgendo approfondite ricerche tese a spiegare i meccanismi dell’invecchiamento e i loro possibili legami con l’età cronologica. Così, i
biologi sono alla ricerca dei processi fisici che determinano l’invecchiamento dell’organismo e perfezionano il concetto di «età bio-fisiologica»;
gli psicologi esplorano il modo in cui le capacità individuali variano nel
corso della vita e tra generazioni successive, studiando le relazioni — bidirezionali — tra le modificazioni di tali capacità e le reazioni psicologiche ad esse, sviluppando il concetto di «età psico-emotiva»; i sociologi
studiano i meccanismi e i processi che modificano il modo in cui ciascun
individuo è percepito dalla società in cui vive (come un giovane, un adulto,
un anziano) e come questi diversi modi di essere riconosciuti, che determinano l’evoluzione dell’« età sociale» dell’individuo, producano effetti
sulla sua integrazione sociale e sul suo modo di percepirsi e rapportarsi
agli altri. I demografi si stanno interessando alla possibilità di identificare
degli indicatori dinamici di invecchiamento che tengano conto delle mutate
condizioni di sopravvivenza delle popolazioni (il «potenziale» di vita) in
grado di sostituire adeguatamente le soglie fisse attualmente utilizzate per
classificare la popolazione secondo l’età (Ryder, 1975; Manton, 1982,
Bourgeois-Pichat, 1985; Livi Bacci, 1987; Egidi, 1987; 1990; Laslett, 1987;
Maisano, 1989).
354
Viviana Egidi
In tutti, e certamente non solo in ambito scientifico, è ormai ben
chiara la necessità del superamento della visione statica suggerita dall’età
cronologica. Il bilancio delle conoscenze sul processo di invecchiamento
è però ancora insoddisfacente e mancano indicazioni operative che trascendano i limiti degli specifici approcci settoriali; manca cioè un’indicazione chiara e universalmente accettata di come compendiare in un unico indicatore le diverse «età» che caratterizzano l’individuo (biologica,
psico-emotica, sociale e così via). Un indicatore che, in più, possa agevolmente essere sottoposto a una rilevazione statistica ed essere utilizzato
per stratificare la popolazione.
Solo su un aspetto, comunque, sembrano al momento tutti concordare e si potrebbe partire da questo per limitare gli inconvenienti di una
visione statica dell’invecchiamento: qualsiasi sia il meccanismo biologico (o genetico) alla radice del processo, le condizioni esterne in cui è inserito, le sue esperienze di vita e il modo in cui queste vengono da lui elaborate, non sono indifferenti per le modalità e i ritmi del suo invecchiamento. Seppure nel rispetto della traiettoria che prevede l’universalità dell’esperienza, l’invecchiamento non segue quindi tempi e ritmi assoluti, ma relativi e variabili in funzione della situazione sociale, economica, culturale e sanitaria in cui l’individuo ha trascorso la sua vita e in
funzione del modo in cui si è rapportato a questa. Una corretta valutazione dell’intensità dell’invecchiamento demografico, soprattutto
quando se ne voglia quantificare l’impatto sociale ed economico, non dovrebbe quindi prescindere dalla considerazione delle profonde trasformazioni che si sono determinate in questi anni e che hanno completamente modificato i modi e i contenuti dell’essere «anziano» oggi.
In più, la crescente complessità sociale ha fatto perdere significato
all’indicatore età-cronologica anche come elemento di classificazione della
popolazione. Le indagini mirate ad approfondire gli aspetti qualitativi
denunciano, infatti, la crescente impossibilità di considerare simili degli
individui solo per il fatto di essere coetanei, data l’estrema varietà di
situazioni che possono caratterizzarli. E proprio nella valutazione di
queste diversità e delle loro implicazioni che la ricerca dovrebbe spingersi maggiormente nel prossimo futuro. Negli studi sugli anziani e sull’invecchiamento un tale indirizzo consentirebbe anche, oltre all’indubbio progresso conoscitivo, di mettere a disposizione gli strumenti necessari per finalizzare meglio gli interventi di politica sociale, economica e sanitaria alle reali necessità individuali. Sarebbe questo un prezioso
contributo in vista dei crescenti vincoli finanziari che incontra la nostra
società che invecchia.
Strutture di popolazione
355
6. Alcune altre strutture rilevanti per la demografia
6.1. La struttura per stato civile
La composizione della popolazione secondo lo stato civile costituisce un’informazione importante per le analisi del comportamento demografico in quanto numerosi fenomeni presentano sensibili differenziali in relazione al fatto che l’individuo sia celibe (o nubile), coniugato,
vedovo, separato o divorziato. Si pensi all’impatto che questa struttura
esercita sulla fecondità, sulla mortalità, sulla migratorietà e, ancor più
direttamente, su altre strutture di popolazione come, ad esempio, l’aggregazione degli individui in famiglie della quale la struttura per stato
civile viene spesso assunta come indicatore indiretto.
Inoltre, vedendo la struttura per stato civile non come una causa ma
come un effetto, essa dipende strettamente da altre modificazioni strutturali, in particolare dall’invecchiamento della popolazione e, di conseguenza, sta subendo in questi anni modificazioni che meritano un’attenta considerazione.
Un ostacolo che si è tradizionalmente opposto alla piena utilizzazione
negli studi demografici di questa variabile strutturale è costituito dalla disponibilità dell’informazione analitica sullo stato civile della popolazione
solo in coincidenza dei censimenti; un ostacolo che si è tentato di superare
mediante diversi tentativi di stima e seguendo due approcci diversi. Da un
lato, utilizzando metodologie analoghe a quelle seguite nella periodica ricostruzione della popolazione per sesso ed età, si è proceduto a valutazioni
della struttura per stato civile partendo dai dati censuari e aggiornandoli
con i dati correnti relativi alle nascite, alle morti, ai matrimoni e a stime dei
saldi migratori (Rossi, 1984; Castiglioni, 1989; Giorgi, 1990). Dall’altro, elaborando modelli (deterministici o stocastici, micro o macro) in grado di ricostruire la struttura per stato civile sulla base di probabilità di transizione
tra stati diversi (Espenshade e Braun, 1982; Espenshade, 1985; Keilman,
1985). Quest’ultimo approccio in particolare, pur essendo stato adattato
anche a trattare finalità di tipo operativo (ricostruzione, previsione), si presta molto bene a finalità di tipo analitico, quali quella di evidenziare le strutture implicite a particolari regimi di nuzialità, mortalità e divorzialità attraverso la simulazione della «storia di vita matrimoniale» di una generazione
fittizia di donne (e/o di uomini) sottoposte a prefissate probabilità di subire gli eventi e ricostruendo la struttura per stato civile della corrispondente
popolazione stazionaria (che sarà di conseguenza caratterizzata non so-
356
Viviana Egidi
lo dalla costanza della struttura per età, ma anche di quella per stato civile).
6.2. Famiglie e strutture familiari
La famiglia rappresenta il luogo privilegiato in cui l’individuo assume
le sue decisioni, siano queste di natura demografica (la nascita di un
figlio, ad esempio), economica (entrare o meno nel mercato del lavoro,
stabilire uno standard di consumi, risparmiare ed, eventualmente,
investire e così via) o sociale (mantenere o cambiare la propria residenza, ampliare o restringere la rete di relazioni interpersonali, impiegare
il tempo libero in un modo piuttosto che in un altro, indirizzare i figli
verso particolari iter formativi e così via). Sempre più si riconosce al
micro-ambiente «famiglia» un ruolo centrale nel condizionare stili di vita,
condizioni e comportamenti. In più, la famiglia costituisce da sempre
un ambiente che garantisce la mediazione tra l’individuo e la società e
una sorta di camera di compensazione delle più fondamentali esigenze,
soggettive e oggettive, degli individui e, soprattutto, di quelli più deboli.
Un ulteriore aspetto, non certo il meno importante, è rappresentato dal
fatto che il tipo di struttura familiare in cui l’individuo è inserito
rappresenta esso stesso il risultato di una scelta («forzata», si ironizza
a volte, facendo riferimento soprattutto alla crescente incidenza di persone anziane che vivono sole) e può quindi essere assunto come indicatore degli atteggiamenti culturali prevalenti e delle loro modificazioni.
Sono quindi molteplici le ragioni che spingono verso una sempre più
approfondita conoscenza dei meccanismi di aggregazione degli individui
in famiglie e delle modificazioni che questa «unità associativa elementare»
subisce nel corso del tempo.
L’interesse che la demografia dedica al tema delle famiglie vanta una
lunga tradizione (per un’ampia rassegna si veda Federici, 1984). Gran
parte dei comportamenti demografici trae infatti la sua origine, e spesso
la sua giustificazione, da questo contesto e ben difficilmente si possono
interpretare tali comportamenti se non facendovi espresso riferimento. Si
pensi, a questo proposito, alle più recenti teorie interpretative della
fecondità come, ad esempio, la new home economics e quella del «contratto
intergenerazionale» di Ryder (1984).
Problemi di definizione. Numerosissimi e complessi sono i problemi, di
ordine sia concettuale sia operativo, che si debbono affrontare nello
studio delle famiglie e delle loro caratteristiche strutturali; ciascuno di
questi è stato oggetto in Italia di numerosi contributi. In primo luogo
Strutture di popolazione
357
c’è il problema di definire che cosa debba intendersi per «famiglia». Le
possibilità sono molteplici e variano in funzione dei criteri che vengono
adottati per definire il «contorno» (spaziale e/o funzionale) della famiglia e le relazioni interne tra i membri (De Sandre, 1986).
Le due fondamentali rilevazioni dalle quali sono tratte le informazioni
riguardanti le famiglie in Italia, il censimento e l’indagine Istat sulle strutture e i comportamenti familiari (condotta per la prima volta nel settembre 1983 e poi confluita nell’indagine multiscopo di cui si è detto precedentemente), adottano definizioni formalmente molto simili ma che portano a disegnare immagini della realtà significativamente diverse (per una
puntuale illustrazione delle definizioni di famiglia adottate nell’ambito dei
successivi censimenti condotti dal 1861 al 1981 si veda Cortese, 1986; relativamente alla definizione e alla procedura di rilevazione adottati dall’indagine Istat, si veda Roveri, 1986). Molto sinteticamente, le differenze di
definizione possono essere ricondotte alla preminenza che nell’indagine
viene attribuita al criterio della «coabitazione», e quindi all’identificazione
della famiglia come «unità residenziale», prescindendo dall’altro criterio adottato dal censimento di «unicità della funzione di consumo». Tali differenze, comunque, non sarebbero in grado di giustificare da sole la diversa
valutazione che le due fonti danno dell’«universo-famiglie». Per questo, si
deve piuttosto fare riferimento alla particolare procedura di rilevazione adottata dall’indagine che prevede la mediazione e l’accertamento dei requisiti, da parte di un rilevatore che conduce attivamente l’intervista — figura del tutto assente nel censimento — e che valuta la situazione «di fatto» piuttosto che quella risultante in anagrafe (la famiglia «di carta») alla
quale il censimento continua a mantenersi più legato.
Una volta adottata una definizione di famiglia, si procede alla considerazione delle relazioni tra i membri e all’identificazione di una tipologia strutturale che le descriva il più compiutamente possibile. Le raccomandazioni che vengono formulate attualmente si orientano verso la
necessità di pervenire all’individuazione delle «unità familiari minime»
— famiglie composte da una sola persona, coppie senza figli, nuclei familiari o biologici, nuclei monogenitore — che possano, con la loro successiva aggregazione, dare conto, eventualmente, di tipologie più complesse. Un’indicazione che consente anche di rendere più agevole l’individuazione di unità familiari omogeneamente definite in ambito internazionale e, quindi, comparabili.
C’è poi un ultimo aspetto che, seppure limitatamente ad alcuni tipi
particolari di ricerca che seguono un approccio longitudinale, riveste
un’importanza non trascurabile. Si tratta dell’introduzione dell’elemento
358
Viviana Egidi
dinamico del ciclo familiare (Bongaarts, 1983; De Sandre, 1985) che consente di ricostruire la storia di vita dell’unità familiare attraverso le fasi
della sua costituzione, del suo sviluppo, della sua recessione fino alla sua
trasformazione o alla sua estinzione. L’individuazione di una definizione dinamica di famiglia pone problemi ancor più complessi di quelli visti per la definizione statica (sulla quale si basa), dovendo individuare
anche gli eventi che possono rappresentare i momenti di passaggio da
una fase all’altra e le regole di continuità che consentono di seguire una
famiglia nonostante le trasformazioni che essa subisce nel corso del tempo
(Rossi, 1983).
Superati i problemi di definizione, e prima ancora di procedere alla
stratificazione della popolazione secondo i diversi tipi di famiglia, c’è
ancora da stabilire in che modo la famiglia e la sua struttura rientrino
nell’analisi: se in qualità di contesto nel quale viene a collocarsi l’individuo, che rimane comunque l’unità di riferimento dello studio, o se in
qualità di unità di riferimento e di analisi essa stessa. I due approcci
si presentano nettamente diversi, relativamente sia ai risultati che ne
derivano sia alle metodologie utilizzabili, ed essendo il secondo molto
più complesso del primo, da un punto di vista tanto concettuale quanto
operativo, appena si esca da un’ottica puramente descrittiva gli studi
che mantengono la centralità dell’individuo sono molto più numerosi.
Gli studi demografici sulle famiglie. È naturale che le profonde trasformazioni culturali che si sono determinate in questi anni abbiano stimolato un interesse conoscitivo sulle caratteristiche delle famiglie e sulle modificazioni dei loro profili demografici. Un interesse che si è manifestato in un gran numero di studi a carattere prevalentemente descrittivo in ambito sia nazionale (Cortese, 1978; 1986; de Sarno Prignano,
1978; De Sandre, 1980; Cisp, 1982; Blangiardo, 1984a; Palomba e Menniti, 1986; Golini, 1986; 1987; Roveri, 1986; 1988), sia internazionale
(Roussel e Festy, 1979; Roussel, 1983; 1986; Glick, 1984; Festy, 1985;
Prioux, 1987; Keilman, 1988a; Hopflinger, 1990).
Per l’Italia, questo sforzo conoscitivo ha trovato un valido supporto
nell’impegno dedicato dall’Istat all’acquisizione di informazioni sempre
più adeguate a cogliere gli aspetti rilevanti del fenomeno e sempre più
tempestive (Roveri e Russo, 1984; Istat, 1985). Questo impegno ha permesso di delineare le modalità delle profonde trasformazioni che si sono prodotte e, al tempo stesso, di confutare alcuni stereotipi pessimistici sulla sopravvivenza della famiglia che erano andati diffondendosi nell’opinione pubblica sull’onda di comportamenti affermatisi in altri paesi sviluppati. Indubbiamente il crollo della fecondità, l’allungamento della
Strutture di popolazione
359
durata media della vita, l’invecchiamento demografico, hanno modellato
la tipologia familiare esaltando il peso dei «tipi» di dimensione più ridotta.
Al tempo stesso, il modo di vita urbano ha prodotto una nettissima
contrazione del numero e dell’importanza relativa delle famiglie estese e
polinucleari, contribuendo anch’esso alla riduzione della dimensione media
delle famiglie (Golini, 1986). Ma la situazione è ancora ben lontana dal
mostrare gli elementi di quella crisi generalizzata che viene denunciata in
altri paesi europei (De Sandre, 1981; Hoffman-Nowotny, 1987; Roussel,
1989; Hopflinger, 1990). La tipologia familiare più diffusa resta, oggi
come ieri, la famiglia nucleare (composta da entrambi i genitori e dai
figli), seguono, con pesi pressoché analoghi, le persone sole e le coppie
senza figli, mentre le famiglie monoparentali, che costituiscono una
preoccupazione maggiore in paesi dove il divorzio ha una notevole
incidenza (in Italia si valuta che sciolga circa il 5 % dei matrimoni, contro
proporzioni del 35-45 % nei paesi dell’Europa settentrionale e negli Stati
Uniti), sono ancora un’esigua minoranza (Roveri, 1988) e comunque
caratterizzate da un’età media dei componenti piuttosto elevata
(tipicamente si tratta di vedovi o vedove conviventi con figli già grandi).
Un interesse del tutto particolare, non scevro da elementi di preoccupazione, ha suscitato il rapido affermarsi del tipo familiare «persone sole», confermato anche se lievemente ridimensionato, dall’indagine Istat
che coglie, come si diceva, le famiglie di fatto. La preoccupazione è fondata sulla considerazione che più della metà delle persone che vivono sole è rappresentata da anziani (Roveri, 1987), un fenomeno che evoca immagini di solitudine ed emarginazione. Se si aggiunge la tipologia «coppia
senza figli», anch’essa in aumento e formata per la grande maggioranza
di anziani (la fase del ciclo familiare che gli anglosassoni chiamano del
«nido vuoto», susseguente all’uscita dei figli dalla famiglia di origine), il
quadro diviene ancora più preoccupante. Abituati culturalmente a delegare alla famiglia gran parte dei problemi di assistenza e solidarietà, l’emergere della figura dell’anziano solo, o in coppia, crea indubbiamente
disagio. E possibile comunque che questa sensazione sia, almeno in parte, ingiustificata e gli studi, sempre più approfonditi, che si vanno conducendo sulle condizioni di vita degli anziani incoraggiano a una visione
più ottimistica (Pinnelli, 1986; Roveri, 1987). Esiste una notevolissima
variabilità di contesti, situazioni e motivazioni che possono portare
l’anziano a vivere da solo: se per alcuni la scelta è forzata e vissuta in
modo negativo, soprattutto quando si accompagna a precarie condizioni economiche o di salute, per altri essa è una scelta di autonomia
e indipendenza alla quale ben difficilmente saprebbero rinuncia-
360
Viviana Egidi
re. Non di rado, ad esempio, l’autonomia residenziale — resa possibile
nelle società moderne dalle migliorate condizioni economiche dell’anziano — rafforza piuttosto che indebolire i legami di solidarietà intergenerazionale (Roussel e Bourguignon, 1976; Laslett, 1985).
auspicabile che gli sviluppi futuri della ricerca demografica nel campo dell’analisi conoscitiva delle famiglie tengano maggiormente conto
di questi aspetti differenziali e dei profili «qualitativi» accanto a quelli
«quantitativi». A questo fine sarebbe quanto mai auspicabile una stretta collaborazione tra i demografi e i sociologi, per i quali il tema della
famiglia costituisce da Durkheim in poi un campo privilegiato di analisi (Sgritta, 1984; 1986).
Sempre in tema di studi che prendono come oggetto le famiglie, c’è poi
da segnalare l’importante capitolo rappresentato da quelli che mirano a individuare i meccanismi demografici di formazione, sviluppo ed estinzione
delle unità familiari. E questo un campo in cui la metodologia demografica
trova la più ampia possibilità di applicazione e sviluppo e, al contempo, le
maggiori difficoltà. Rappresentare analiticamente la formazione di una famiglia e seguirne l’evoluzione nel tempo costituisce infatti una delle maggiori sfide metodologiche: tutti i più importanti fenomeni demografici (nuzialità, fecondità, mortalità, migrazioni, divorzialità) intervengono a modellare l’unità-famiglia e ogni fenomeno necessita di essere riferito a ciascuno
dei componenti del gruppo familiare. In più, esiste il problema di dover
considerare simultaneamente le componenti maschile e femminile della
popolazione, fatto che comporta, come si è detto parlando di strutture per
stato civile, notevoli problemi di compatibilità e congruenza.
Gli approcci che vengono seguiti sono dei più vari: ci sono esempi di
modelli deterministici e stocastici, di modelli statici e dinamici (per un’ampia rassegna si vedano Bongaarts, 1983; Holmberg, 1987; Keilman, 1988b).
Nella versione statica, essi consentono una valutazione dell’impatto sulle
famiglie (sul loro numero e sulla loro composizione interna) dei comportamenti demografici, in un’ottica di simulazione di storie di vita
familiare così come queste verrebbero conformandosi qualora gli
individui fossero sottoposti a prefissati rischi di subire i diversi eventi
(Rossi, 1975; Bertino et al., 1988; Egidi e Tomassetti, 1988). Nella
versione dinamica, essi costituiscono uno strumento potenzialmente
molto efficace di previsione del futuro andamento del numero di famiglie e della loro composizione interna (Blangiardo, 1984b; Keilman,
1988b; Richards et al., 1985). Uno strumento che consentirebbe di superare il discusso metodo dei « tassi di capifamiliarità» seguendo il quale le
previsioni delle famiglie (e solo del loro numero) vengono ottenute come
Strutture di popolazione
361
proiezione derivata di quella della popolazione, sulla base di ipotetici
andamenti delle proporzioni di capi-famiglia in ciascuna classe di età (Istat,
1990; Sorvillo, 1990a; 1990b).
E certamente proprio la «demografia formale della famiglia» (Bongaarts, 1983) il campo di ricerca che merita di concentrare l’attenzione
dei demografi nei prossimi anni. La potenzialità analitica e operativa
che la modellistica può mettere a disposizione dello studio delle famiglie è notevolissima. Si pensi, ad esempio, alla possibilità di separare all’interno del complesso meccanismo di formazione e sopravvivenza della
famiglia quanto derivi dal comportamento demografico e quanto dal comportamento sociale ed economico. Non è un caso che gli economisti più
sensibili ai problemi della popolazione stiano riflettendo sulla possibilità di
rappresentare il processo di aggregazione in famiglie come un processo a
due stadi: il primo, regolato prevalentemente dal comportamento demografico, che porta alla formazione delle «unità familiari minime», in cui
dominano i legami biologici o di coppia; il secondo, dovuto all’aggregazione delle unità minime in famiglie in funzione di motivazioni di ordine
economico, sociale e culturale (Ermisch, 1988). Ma si pensi anche all’utilizzazione che di questi modelli si può fare per affrontare problemi
specifici come, ad esempio, quello rappresentato dalla valutazione di
dell’impatto sulle pensioni di reversibilità di particolari regimi demografici (Tomassetti, 1979) o quello della stima del fabbisogno abitativo in funzione non solo del numero, ma anche della dimensione e della struttura
delle famiglie (Ricci, 1984; Chelli et al., 1987; Vitali, 1987b).
7. Quali prospettive per la ricerca?
Tra le indicazioni che più frequentemente si sono viste emergere,
quella relativa all’accresciuta eterogeneità tra gli individui che appartengono alla stessa popolazione è senz’altro una delle più ricorrenti. Da
un lato, questo è sicuramente un fenomeno reale indotto dalla maggiore
complessità delle società moderne rispetto a quelle tradizionali; dall’altro,
può essere un artefatto statistico prodotto dalla maggiore disponibilità di
informazioni e dai più potenti strumenti metodologici e di calcolo che
consentono analisi sempre più approfondite.
Questa nuova ricchezza di informazioni e di strumenti merita di essere sfruttata meglio. Così, ad esempio, da un punto di vista descrittivo, la considerazione congiunta di più caratteri e l’utilizzazione di opportuni metodi di classificazione potrebbe consentire di aggregare gli
individui in gruppi che minimizzino l’eterogeneità interna. Lo studio
362
Viviana Egidi
delle caratteristiche strutturali si avvantaggerebbe da un simile approccio dal fatto di poter operare sulla popolazione senza eccessiva perdita
di informazione e senza penalizzare troppo la variabilità dei caratteri
rilevanti. In questa direzione, anche l’Istat si sta orientando già nella
fase di presentazione dei risultati delle sue indagini in modo da offrire
agli utilizzatori la possibilità di lavorare su popolazioni con una ricchezza informativa non minore di quella che avrebbero se lavorassero su individui (Di C iaccio e Sabbadini, 1990). Del resto, la necessità di contare su classificazioni della popolazione per gruppi «omogenei» non è limitata ai soli studi di struttura. Anzi, gli inconvenienti maggiori dell’eterogeneità interna dei gruppi utilizzati come base delle analisi si manifestano soprattutto negli studi di demografia differenziale e, in particolare, in quelli finalizzati all’interpretazione del comportamento demografico attraverso l’analisi delle differenze tra gruppi.
Un altro aspetto sul quale è forse utile attirare l’attenzione fa riferimento a un meccanismo ben noto ai demografi ma che spesso rimane
talmente sullo sfondo delle analisi da sfuggire alla percezione del lettore
meno attento. Si tratta del processo che porta alla modificazione delle
strutture di popolazione attraverso il susseguirsi e il sostituirsi delle diverse generazioni che ne fanno parte. Una lettura delle modificazioni
strutturali in quest’ottica è illuminante, ad esempio, quando si tratti di
problemi relativi all’invecchiamento della popolazione e alla valutazione delle sue conseguenze. Essa consente di valorizzare, infatti, tutta una
serie di informazioni di cui già disponiamo sulla popolazione che sarà
anziana domani, la cui «storia di vita» è per la gran parte già disegnata,
e di avere una percezione, anche intuitiva, delle modificazioni qualitative che ci si possono attendere per il futuro.
Un’ultima indicazione, che emerge da tutti gli studi e sulla quale si
giocherà molto della possibilità di sviluppo futuro della conoscenza, è
rappresentata dalla necessità di una maggiore integrazione disciplinare.
Tutti i fenomeni che riguardano il comportamento demografico, e chi
modellano le strutture di popolazione, rappresentano una sintesi di caratteri e atteggiamenti che hanno le loro radici nelle diverse dimensioni
umane (biologica, psicologica, sociale, culturale, economica). Solo una
corrispondente sintesi di competenze potrà offrire gli strumenti concettuali e metodologici per progredire ulteriormente (Federici, 1987).
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Capitolo undicesimo
Mobilità e insediamenti
Gustavo De Santis
1. La difficile definizione delle migrazioni
La mobilità territoriale costituisce, insieme con la fecondità e la mortalità, uno dei processi fondamentali di mutamento numerico e strutturale delle popolazioni umane. D’altra parte si discosta dagli altri due processi per tre aspetti fondamentali:
1) l’introduzione di una variabile aggiuntiva (lo spazio) di difficile
trattazione;
2) la mancanza di basi biologiche e, quindi,
3) la necessità di adottare una definizione convenzionale del fenomeno.
Unitamente alla tradizionale mancanza di dati adeguati, un limite oggi
parzialmente superato, queste tre circostanze hanno comportato due motivi
di rallentamento nei progressi epistemologici. In primo luogo, i tentativi di
approfondimento si sono indirizzati principalmente verso le cause delle
migrazioni e, in un secondo momento, verso i loro effetti; ma solo
successivamente, in tempi relativamente recenti, si è giunti a riflettere sulle
caratteristiche «intrinseche» del fenomeno. In secondo luogo, è emersa la
difficoltà di trovare una definizione universalmente valida di che cosa
siano le migrazioni, in che cosa si distinguano dalla mobilità di altro tipo
e quali dei loro aspetti meritino di essere approfonditi. Si tratta quindi,
a ben riflettere, di difficoltà che derivano dal problema più generale di assenza di un quadro teorico consolidato per lo studio dei fenomeni demografici (si veda il capitolo di Livi Bacci, «La demografia», in questa Guida), al cui interno inserire anche i movimenti migratori.
Una migrazione è lo spostamento della residenza abituale di un individuo tra due punti del territorio, significativamente diversi tra loro.
Questa definizione «classica» è stata attaccata sotto molti profili. In primo
luogo, immaginare concentrato in un solo punto il baricentro della vita
di una persona costituisce una semplificazione eccessiva. Da qui la proposta di sostituire il concetto di dimora abituale con quello, molto più
380
Gustavo De Santis
ampio, di «spazio di vita», cioè l’insieme dei luoghi in cui l’individuo
svolge le proprie attività (Courgeau, 1988); oppure con quello di «spazio vissuto», l’insieme dei luoghi che una persona percepisce come propri (Micheli, 1990). In entrambi i casi, il concetto potrebbe essere operazionalizzato chiedendo direttamente a un campione di intervistati se,
sotto uno o l’altro dei due profili, c’è stata o meno una «rottura », cioè
una discontinuità, rispetto alla situazione precedente, condizione necessaria per l’individuazione di una migrazione (Rosental, 1990).
In secondo luogo, e nella stessa logica, si fa osservare che il problema non è solo spaziale, ma anche temporale: per quanto tempo deve protrarsi una fuoriuscita da un dato territorio per essere considerata un’emigrazione e non, ad esempio, un’assenza temporanea o un fenomeno
di pendolarismo (Micheli, 1990)?
Infine, vi è la difficoltà di stabilire che cosa sia significativo e che
cosa non lo sia nel cambiamento di residenza; il problema non ha soluzione se non si stabilisce rispetto a che cosa misurare la significatività.
Se si privilegia un punto di vista «micro», in cui la mobilità è posta in
relazione con le altre tappe del ciclo individuale e familiare (si veda il
par. 7), sarà probabilmente opportuno considerare tra le migrazioni qualsiasi cambio di alloggio, anche il passaggio nella casa di fronte; se invece
si opera a un livello di aggregazione maggiore, in cui interessano gli effetti di ridistribuzione territoriale della popolazione, la maglia territoriale dovrà essere più larga ma, e questo è uno dei problemi nello studio
delle migrazioni, né la scelta in se stessa, né i suoi criteri appaiono oggi
valutabili rispetto a qualche parametro oggettivo. Tale scelta, inoltre,
salvo poche eccezioni (si veda il par. 5), ha un’influenza rilevante sui
risultati dell’analisi.
Quello delle migrazioni è dunque un terreno in cui non c’è perfetto
accordo neppure sui caratteri fondamentali dell’analisi, quali lo spazio,
il tempo e lo stesso oggetto di studio. Ma la distinzione oggi forse più
importante è tra chi guarda al fenomeno dal punto di vista aggregato
e tenendo presente le sue relazioni con altre macrovariabili (l’approccio
«tradizionale») e chi tende piuttosto ad analizzarlo in una prospettiva
individuale (l’approccio «moderno »): anche se in linea di principio i due
approcci, macro e micro, sono complementari e non antagonisti (Livi
Bacci, 1990), la loro riconciliazione appare ancora difficile.
Questa considerazione, valida in generale, assume particolare rilevanza nel caso delle migrazioni perché, come si è accennato e come si
ripeterà, il fenomeno sembra assumere caratteristiche anche profondamente diverse a seconda del livello al quale si conduce l’analisi.
Nel frattempo, Federici (1991) ha riproposto con forza una visione
Mobilità e insediamenti
381
«classica» dello studio delle migrazioni che, pur avvalendosi dei progressi
ottenuti anche a livello micro, non cede però alla tentazione di cercare
di comprendere un po’ tutto sotto l’etichetta di mobilità (quella geografica, sociale, di spazio vissuto e così via) con il rischio, concreto, di non
riuscire a approfondire nulla.
2. La descrizione del fenomeno
Soprattutto in un paese di tradizionale emigrazione come l’Italia, i
grandi flussi migratori internazionali, spesso addirittura intercontinentali, accompagnati, poco più tardi, da altrettanto imponenti flussi ridistributivi interni (da sud a nord, dalle montagne e dalle colline alle pianure, dalle campagne alle città e così via), sono stati i processi che più
hanno attirato l’attenzione dei demografi e degli studiosi di numerose
altre discipline (economia, sociologia e così via).
La prima esigenza è stata quella di descrivere e quantificare il fenomeno: ne sono derivati numerosi studi, centrati su epoche storiche e aree
geografiche diverse, che sarebbe troppo lungo elencare in questa sede1.
Parallelamente, in Italia si è sviluppato un dibattito sulle fonti, che ha
comportato l’introduzione, a partire dal censimento del 1971, di una
domanda retrospettiva sulla residenza cinque anni prima2. Con questa
operazione, seguendo l’esperienza di altri paesi industrializzati3, l’Italia
ha fatto del censimento una fonte utilizzabile anche per lo studio della
mobilità, interna e dall’estero, con qualche limite ma con il vantaggio,
peculiare a questa fonte, di avere, associata all’informazione sulla mobilità,
una rilevante massa di indicazioni sulle altre caratteristiche demografiche e
socio-economiche correnti (e, in alcuni casi, passate), sia dei migranti sia
dei non migranti. Questo filone di studi, nonostante una recente
accelerazione della produzione da parte dei demografi italiani (Clerici,
1988; 1990; Rossi e Clerici, 1988; Rossi, 1990), sembra avere ancora
molte prospettive di approfondimento, a livello sia macro sia micro (si
veda il par. 7).
1 Va però ricordato il lavoro di ricostruzione di un secolo di esperienza migratoria
italiana curato da Rosoli (1978). Si veda anche la rivista Studi emigrazionelEtudes migrations,
in particolare nei suoi numeri 100 (1990), che contiene una bibliografia completa e
guidata di tutti i contributi dei primi 99 numeri, e 96 (1989), dal titolo Rassegna bibliografica
sull’emigrazione e sulle comunità italiane all’estero, dal 1975 ad oggi.
2 Nel 1971 anche su dieci anni prima, ma il quesito è stato poi abbandonato nei
censimenti successivi.
3 Alcuni dei quali chiedono però di indicare la residenza un solo anno prima, o, più
raramente, altre cose ancora (Courgeau, 1980; 1988; Clerici, 1988).
382
Gustavo De Santis
L’Italia, però, insieme con pochi altri paesi al mondo, dispone anche, fin dal 1929, dei dati sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche per
trasferimento di residenza: una fonte di studio preziosa, che tuttavia
è stata a lungo sottoutilizzata, in parte perché ritenuta di scarsa affidabilità, soprattutto per ciò che riguarda le migrazioni all’estero (si veda
ad esempio Courgeau, 1980). Questa sfiducia nella fonte, che non appare ingiustificata — come hanno evidenziato anche alcuni risultati del
censimento 1991 — è sembrata però eccessiva a chi riteneva che, con
opportuni accorgimenti, la ricchezza delle informazioni ne compensasse
i limiti Questa «rivalutazione» della fonte anagrafica si deve a un gruppo
di studiosi facente capo all’Università di Pisa (Bonaguidi, 1985; Termote, 1988); essa si è concretizzata in particolare in due metodologie
di studio:
1) i modelli di migratorietà per età;
2) i modelli di popolazione stabile multiregionale.
Occorre qui aprire una parentesi su questi modelli. Cominciamo dai
secondi, che derivano da un’estensione del modello stabile a-spaziale di
Lotka (1939), in particolare nella sua forma discreta, matriciale (Leslie,
1945). L’intento originario era lo studio su una popolazione degli effetti
strutturali generati dal mantenimento (quindi dalla costanza nel tempo
e per età) di certe leggi di fecondità e di mortalità.
A queste due condizioni se ne può aggiungere una terza: la costanza
(nel tempo e per età) della propensione a spostarsi da una regione i a una
regione j, all’interno di un dato territorio. Si dimostra che, in questo caso,
lo stato stabile finale (cioè la costanza di struttura per età e di tasso di
crescita) è raggiunto non solo sul territorio nel suo complesso, ma anche
all’interno di ogni singola regione: tutte finiscono con il crescere allo stesso
tasso, ma ognuna raggiunge e mantiene costante una sua peculiare struttura per età. Entrambe queste caratteristiche risultano indipendenti dalle
condizioni di partenza (numerosità e struttura per età della popolazione)
e si dimostrano essere determinate esclusivamente dai flussi demografici
(Rogers, 1968; 1975; Rogers e Willekens, 1986). D’altra parte, l’ipotesi
dell’applicabilità delle catene di Markov (costanza nel tempo e per età
dei tassi di migratorietà da i a j) si dimostra empiricamente poco adeguata,
giacché i flussi migratori sono invece soggetti a mutamenti anche radicali e
repentini che si riflettono nello stato stabile finale cui porta il modello.
Proprio per questa loro caratteristica instabilità, tali modelli sono utilizzati
non a fini previsivi (e neanche di semplice estrapolazione), ma solo per
descrivere il presente con una strumentazione diversa da quella consueta,
cioè in termini di stock e non di flussi.
Mobilità e insediamenti
383
L’applicazione di questo metodo alle regioni italiane, con propensioni
migratorie calcolate sulla base dei dati anagrafici, porta quindi a valutare
gli effetti del mantenimento di certe «leggi» in termini, ad esempio, di «peso» finale raggiunto dalle varie regioni sul totale della popolazione italiana,
quota di vita passata nelle varie regioni in funzione della regione di nascita, contributo regionale al tasso di crescita nazionale, struttura per età
regionale limite e così via (Termote, 1985; Termote e Bonaguidi, 1990).
L’altro sviluppo teorico di cui si diceva — i modelli di migratorietà
per età — è nato ancor più recentemente (Rogers e Castro, 1981). Lo
scopo è in questo caso approssimare la curva empirica dei tassi di migratorietà specifici per età con una curva modello, parametrizzata, concettualmente analoga a quelle proposte per altri fenomeni demografici, quali
la fecondità naturale, la mortalità, la nuzialità e così via (United Nations, 1983). In questo caso, però, l’operazione si presenta più complessa, a causa della forma bi- e talvolta trimodale della curva dei tassi migratori per età4, la cui sintesi può richiedere fino a 11 parametri.
L’applicazione di queste curve al caso italiano (Bonaguidi, 1985; 1987)
consente di evidenziare la persistenza di alcuni squilibri migratori tra
regioni che fanno riemergere, ancora agli inizi degli anni ottanta, quindi
in un contesto totalmente diverso, aspetti del vecchio modello migratorio
interno degli anni sessanta (si veda il par. 3).
Si può aprire qui una parentesi per segnalare che la compresenza, in
Italia e in altri paesi industrializzati, di due fonti diverse per lo studio
delle migrazioni (anagrafe e censimento) ha anche portato a interrogarsi
sulla loro comparabilità. Il problema non è di facile soluzione, dato che
esse si concentrano su «oggetti» diversi (le migrazioni in un caso, i migranti sopravviventi nell’altro), le relazioni tra i quali possono variare in
funzione di numerose circostanze (mortalità, migrazioni ripetute, migrazioni di ritorno e così via; Courgeau, 1973; Maffenini, 1986; 1988). Tuttavia il problema può in parte essere aggirato confrontando le due fonti
non sul volume delle migrazioni, ma solo sulle tendenze della mobilità
che esse esprimono: le differenze, in questo caso, pur non scomparendo
del tutto, risultano considerevolmente attenuate (De Santis, 1987).
4 Con massimi relativi nelle età della prima infanzia (figli che si muovono con i genitori), adulta (con un punto di massimo assoluto intorno ai 20-30 anni) e, talvolta, anziana,
in corrispondenza dell’età al pensionamento e della migrazione che talvolta ne consegue. Va
qui segnalato, tuttavia, che il valore dei parametri e degli indicatori sintetici che da essi si
possono derivare muta anche sensibilmente al variare della scala dell’analisi (ad esempio, in
Italia, nel passaggio da livello comunale a provinciale a regionale e così via), come si era accennato nel paragrafo 1.
384
Gustavo De Santis
La vita di una coorte di individui può essere schematicamente descritta
in termini di permanenza, per periodi di tempo variabili, in una serie di stadi (essere celibe, sposato, o non più sposato; aver migrato 0, 1,…, x volte
e così via), il passaggio tra i quali è determinato da eventi (matrimonio e
suo scioglimento; migrazione di ordine n e così via; Willekens, 1990). In
questo caso, si può sintetizzare un insieme di corsi di vita, o biografie, attraverso una tavola multistato su cui è possibile seguire le varie carriere (nuziale, migratoria e così via), che possono essere tra loro indipendenti, complementari (ad esempio, dopo il matrimonio la fecondità aumenta) o concorrenti (ad esempio, la fecondità limita la carriera lavorativa della donna).
In fase interpretativa, il riferimento a biografie avvicina questo tipo
di analisi alla prospettiva individuale (si veda il par. 7), ma i dati utilizzati sono normalmente aggregati e di tipo trasversale e come tali risentono sia della congiuntura del momento, sia della difficoltà di indagare
e trattare analiticamente tutti i fenomeni di interazione tra carriere, che
solo con un approccio individuale, di ricostruzione biografica, possono
essere adeguatamente approfonditi.
A dati longitudinali, nell’interpretazione e nella costruzione, si riferisce invece il tentativo di stima dei saldi migratori con l’estero per generazioni di appartenenza (Ventisette, 1990a; 1990b). L’idea è qui di
natura quasi contabile: per le generazioni già estinte, il saldo migratorio
può essere stimato come differenza tra i nati e i morti in Italia di quella
particolare generazione; per le generazioni non ancora estinte, questo
calcolo va integrato considerando anche il numero di membri di quella
generazione ancora in vita all’ultima data certa disponibile (il censimento).
Vi sono qui difficoltà di ordine sia tecnico (occorre stimare i decessi per
generazione di appartenenza, valutare criticamente la qualità dei dati e
così via) sia concettuale, perché il saldo migratorio stimato dopo che la
generazione si è estinta può celare forti flussi di emigrazione in età
lavorativa annullati (parzialmente) da rientri in età anziana. D’altra parte,
il saldo non risulta comparabile tra le generazioni non ancora estinte,
quindi censite in età diverse, a causa del diverso periodo di esposizione
al rischio di emigrare e immigrare cui ognuna è stata sottoposta.
Tutt’altro che scontata è poi l’opportunità di usare il saldo migratorio
come variabile di analisi, una scelta che alcuni autori osteggiano apertamente (Rogers, 1990), che appare priva di senso nel contesto degli studi
centrati sull’esperienza individuale (il migrante netto non esiste) e che
non rientra neppure nell’ambito dei tre modelli «macro» di cui si è detto
(popolazione stabile multiregionale, modelli migratori per età e tavole
multistato), i quali descrivono i flussi (cosiddetti lordi) di popolazio-
Mobilità e insediamenti
385
ne tra un luogo di origine i e un luogo di destinazione ј5. Eppure, l’uso
del saldo migratorio, soprattutto come variabile dipendente nei modelli
di regressione, può essere giustificato e trova ancora oggi frequente
applicazione (si veda il par. 3).
Una parola va spesa infine per ricordare la proposta di stima indiretta
dei flussi di emigrazione, anche in assenza di dati affidabili, interrogando
un campione di persone sul numero di parenti stretti (figli, fratelli e
sorelle) che si trovano all’estero in un dato momento e riconvertendo
opportunamente tale informazione in termini di tassi riferiti al complesso
della popolazione (Zaba, 1986). Si tratta, come si può capire, di un
metodo indiretto che, in parallelo con tecniche analoghe nate per la
stima di altri fenomeni demografici Mal documentati (ad esempio fecondità,
mortalità e così via; United Nations, 1983), è specificamente rivolto allo
studio di contesti poco sviluppati6.
3. La ricerca delle cause
La prima interpretazione che viene alla mente riflettendo sulle cause
dei movimenti migratori è che il migrante ottenga (o pensi di ottenere)
un miglioramento nella propria condizione a seguito dello spostamento.
La scelta di migrare rientrerebbe dunque in una logica di ottimizzazione della condizione individuale, sotto certi vincoli (di tempo, informazione, bilancio e così via), tipica della teoria rnicroeconomica del consumatore. A questo livello, lo strumento di analisi, non sempre esplicitato, è allora la piace utility matrix (matrice di utilità delle località), in cui
ogni elemento u v, fornisce una misura dell’utilità della variabile v alla
località i. Questa matrice, che contiene informazioni di tipo oggettivo,
moltiplicata per un vettore di pesi, che varia da soggetto a soggetto e
che misura l’importanza di quella variabile nell’ambito della valutazione individuale di scelta della destinazione, fornisce una nuova matrice,
questa volta soggettiva, in cui la somma degli elementiLsulla colonna rappresenta sinteticamente il valore che ogni individuo attribuisce a ciascuna località, com-presa quella in cui si trova. E questa, in linea però
puramente teorica, la base sulla quale vengono poi prese le decisioni di
migrare (Bonaguidi, 1984).
5 Nelle tavole multistato si può anche abbandonare la dimensione spaziale: lo stadio in
cui si trova un individuo è allora determinato non da dove è o dove è andato, ma semplicemente dal numero di migrazioni effettuate (Willekens, 1990; Santini, 1992).
6 Per la stima, invece, di immigrazioni dai paesi in via di sviluppo e presenza straniera
in paesi sviluppati, in particolare in Italia, si vedano i paragrafi 4 e 8.
386
Gustavo De Santis
A livello aggregato, a questo approccio, detto comportamentale (behavioral), corrisponde la stima dei flussi migratori tra l’area i e l’area j come
variabile dipendente influenzata dalla differenza tra i e j in termini di un
complesso di variabili, di attrazione (pull) o di repulsione (push)7, nonché
dalla distanza tra i e j, misurata, non alternativamente, in chilometri, in
lire e/o sulla base dei precedenti flussi migratori, una proxy della distanza affettiva e culturale. Tipicamente, in questa fase, si ipotizzano modelli
di relazione lineari (o log-lineari) e si ricorre a tecniche di regressione
multipla (Harris e Todaro, 1970; Barsotti, 1984; Bonaguidi, 1984).
Manca qui Io spazio per presentare tutti i modelli riconducibili a questo
tipo di approccio sinora proposti, in Italia e all’estero, da demografi,
economisti, geografi e così via8.
Tre aspetti meritano tuttavia di essere sottolineati. 1-1 primo è che,
per qualsiasi area geografica, la capacità esplicativa dei modelli (cioè la
percentuale «spiegata» della varianza dei flussi migratori) è generalmente
bassa e comunque peggiora nel corso del tempo. In particolare, diminuisce, fino a diventare spesso statisticamente irrilevante, il contributo
delle variabili più strettamente economiche (reddito, tassi di disoccupazione e così via). Questa circostanza viene generalmente interpretata come
rilevatrice della fine dell’epoca dei grandi squilibri e dei conseguenti grandi
travasi di popolazione, prima verso l’estero e poi dalla montagna alla
pianura, dalla campagna alla città e, in particolare in Italia, da sud a nord.
Secondo questa interpretazione, con gli anni settanta sarebbe finita l’epoca delle migrazioni « strutturali» e ad essa sarebbe seguita la fase attuale di migrazioni ridotte per numero e per distanza percorsa, territorialmente più equilibrate e determinate non più dai fattori «economici»
del vecchio modello, bensì da variabili di tipo soft, tra le quali, in particolare, quelle legate al ciclo di vita familiare e alla carriera professionale
(si veda il par. 7). Una visione dunque sostanzialmente ottimistica, che
non è però condivisa da tutti perché ignora la possibilità che l’attuale
scarsa mobilità territoriale costituisca un ulteriore elemento di rigidità
del sistema (Livi Bacci, 1980) e che sia artificiosamente sostenuta e resa
possibile dalla politica dei trasferimenti assistenziali (Agei, 1983; Fuà,
1991).
7 Esempi possono essere il reddito pro-capite, il tasso di disoccupazione, la densità, l’altitudine su livello del mare e così via.
8 Si vedano però Barsotti (1985) e alcuni lavori condotti nell’ambito del progetto finalizzato CNR Struttura ed evoluzione dell’economia italiana, tra cui De Santis (1986); Ghilardi (1986);
Saraceno (1987); Termote, Golini e Cantarmi (1987); CNR (1989); Musu (1989); Fuà (1991).
Mobilità e insediamenti
387
Il terzo aspetto è che, alla base di questi modelli, vi è l’idea, spesso
solo implicita, che ciò che attrae nella località i (bassa disoccupazione,
reddito elevato, buona qualità della vita e così via) non si trova in j e
quindi che, se è forte il flusso migratorio da i a j, dovrebbe essere debole
il flusso contrario, da j a i. Si verifica invece esattamente l’opposto, per
due motivi:
1) chi ha già effettuato una prima migrazione è selezionato e ha una
probabilità relativamente elevata di effettuarne altre, tra cui spesso anche migrazioni «di ritorno» (motivo comportamentale);
2) le aree geografiche più piccole, di forma allungata9, sono anche
quelle per le quali è più probabile che uno spostamento anche di breve
raggio finisca per attraversare i confini, sia in ingresso sia in uscita (motivo statistico-definitorio).
Statisticamente, questo fa sì che vi sia una correlazione positiva tra ingressi e uscite di una determinata area geografica e che le variabili esplicative che «funzionano» per gli ingressi risultino valide anche per le uscite.
Questa circostanza aiuta a comprendere alcuni dei motivi di insuccesso dei
modelli di regressione di cui si è detto e giustifica il ricorso alle due variabili derivate, saldo e flusso migratorio (rispettivamente differenza e somma
di ingressi e uscite), come variabili dipendenti: nel primo caso i motivi
che inducono un livello generale elevato di mobilità tra le località i e j
tenderanno ad annullarsi, lasciando in evidenza l’effetto delle sole variabili
di attrazione e repulsione; nel secondo, viceversa, saranno gli aspetti
differenziali a essere messi in sordina, per lasciare spazio ai motivi che
inducono una mobilità generale più o meno elevata (De Santis, 1985).
La nuova fase di mobilità territoriale ridotta e complessivamente equilibrata, in cui sono entrati, prima dell’Italia, tutti i paesi industrializzati, ha rafforzato l’interpretazione che la vedeva legata alle grandi trasformazioni demografiche della fase della transizione. Le aree soggette
a una forte crescita di popolazione (per la riduzione della mortalità, in
un periodo di natalità ancora elevata) si «liberano» degli eccedenti di
popolazione mandandoli oltre confine, verso terre più «vuote», allo scopo
di riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse (Chesnais, 1986;
Livi Bacci, 1989).
Ci si domanda però se questo schema, proposto per la storia demografica e migratoria dei paesi ora sviluppati, possa valere anche per i paesi
in via di sviluppo (Pvs). La conclusione apparentemente più ovvia (e poli9 Per meglio dire, quelle per cui è più elevato il rapporto tra lunghezza dei confini e
superficie territoriale.
388
Gustavo De Santis
ticamente più temuta) è che la storia si ripeterà e che i paesi sviluppati
di oggi saranno presto invasi da immigrati provenienti da quelle aree che
oggi attraversano una turbolenta fase di transizione demografica, con tassi
di crescita naturale molto elevati (3% e oltre) e con economie deboli,
incapaci di assorbire la prossima dirompente offerta di forza lavoro.
Eppure, vi sono anche elementi per ritenere che la storia seguirà in
questo caso un corso diverso. I paesi industrializzati hanno posto restrizioni nell’accesso alle loro frontiere e, più in generale, hanno influenzato la fase della transizione demografica nei Pvs: la storia recente delle
migrazioni internazionali, anche nelle aree più «calde», come il confine
tra Messico e Stati Uniti (Massey, 1988) o il bacino mediterraneo (Rettaroli, 1990), indica che tali flussi sono stati sinora molto inferiori a quelli
che ci si sarebbero dovuti attendere sulla base di una semplice ripetizione del passato (Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991). Tali flussi,
d’altro canto, in parte interessano e in parte preoccupano i paesi industrializzati, che ancora non sanno valutare il bilancio dei pro e dei contro delle migrazioni dall’estero (si veda il par. 4). Nel dubbio, come si
è detto, è prevalsa l’opinione di cercare di rallentare il flusso degli arrivi
non solo con controlli di polizia ai confini, ma anche promuovendo una
politica di sviluppo economico nei paesi di origine. Tuttavia, esperienza
empirica e riflessioni teoriche hanno mostrato che promuovere lo sviluppo nei Pvs porta, nel breve e nel medio periodo, all’effetto opposto,
di crescita dei flussi migratori internazionali (United Nations, 1990).
La spiegazione di questo apparente paradosso fa leva, in sintesi, sul
differente tasso di crescita delle aspettative rispetto alle condizioni di
vita correnti e ragionevolmente prevedibili per il prossimo futuro: non
sarebbe quindi il livello di vita in assoluto a contare, per quanto misero
esso possa essere, ma quello relativo a ciò che si ritiene di poter raggiungere, eventualmente anche con la migrazione (Massey, 1988; 1990).
Questo processo si svilupperebbe però in più tappe: in un primo momento si ha la rottura dei tradizionali equilibri economici e demografici
della società contadina, con creazione di disuguaglianze sociali e territoriali e con circolazione di informazioni riguardo a tali disuguaglianze.
Si determina così l’inizio del fenomeno migratorio che, una volta nato,
tende ad autoalimentarsi, perché il processo decisionale ha luogo a livello familiare e non solo individuale: la presenza di qualche membro della
famiglia già all’estero diminuisce il costo di ulteriori emigrazioni (dato
che si hanno informazioni e punti di appoggio nel luogo di destinazione) e d’altra parte, grazie alle rimesse, contribuisce significativamente
al benessere della famiglia, che viene cose a costituire, per chi era rimasto, un esempio da imitare.
Mobilità e insediamenti
389
Tale processo può proseguire anche per un certo periodo di tempo
dopo che le differenze di opportunità (di reddito, di lavoro e così via)
tra i luoghi di origine e di destinazione si sono ormai attenuate: sia perché la catena migratoria, come si è detto, si autoalimenta, sia perché
la strategia familiare, soprattutto in contesti di tenore di vita basso, vicino alla sussistenza, può portare a preferire, anche a parità di retribuzione, una differenziazione delle fonti di reddito familiare (quindi anche un allontanamento dei luoghi di lavoro dei suoi membri, dislocati
in aree non soggette agli stessi cicli economici) come forma di assicurazione contro i periodi di crisi.
Si noti quindi il cambio (anche se non il rovesciamento) di prospettiva rispetto all’impostazione precedente, che ricorda molto da vicino analoghi sviluppi osservati nella teoria microeconomica (Zamagni, 1984;
Phelps, 1985). Vi è però ancora una scelta razionale tra una serie di alternative:
1) il soggetto che prende le decisioni non è più un singolo individuo,
ma un’unità più complessa, la famiglia (o l’impresa);
2) l’obiettivo non è più solo quello di massimizzare il reddito (o il
profitto): prioritario diventa ora garantire la sopravvivenza dell’unità
nel più lungo periodo, in un contesto di incertezza e di imperfetta conoscenza del presente e, soprattutto, del futuro;
3) l’informazione non è un bene «libero», cioè disponibile sul mercato a costo nullo10, ma deve essere ottenuta con un processo che richiede tempo e investimenti;
4) la migrazione non risponde solo e necessariamente a un processo
assimilabile a quello economico di allocazione ottima dei fattori produttivi: ha una vita in parte autonoma (perché si autoalimenta), può essere
causata anche da ragioni diverse (il desiderio di diversificazione delle
entrate familiari) e varia in funzione della disponibilità di informazioni.
4. Gli effetti delle migrazioni e le migrazioni internazionali verso l’Italia
In parallelo con l’evoluzione del modo di intendere le cause del movimento migratorio, si è mossa anche l’interpretazione degli effetti (Cappellin, 1983; Barsotti, 1984). Come si è detto, in un primo tempo si
pensava, con logica neoclassica, che lo spostamento dei migranti/lavora10 In economia, si fa riferimento a questo concetto con l’espressione banditóre walrasiano, per designare l’esistenza di un processo gratuito e immediato di diffusione dell’informazione, che consente di ottimizzare sia l’allocazione dei fattori di produzione sia:le scelte di consumo.
390
Gustavo De Santis
tori fosse assimilabile al processo di allocazione ottima dei fattori nel
processo produttivo, che la loro retribuzione (salari e stipendi) fosse direttamente proporzionale alla loro produttività e, in breve, che la «mano invisibile» smithiana avrebbe agito per il benessere di tutti e di ciascuno, a patto che non fosse intralciata da interventi esterni alla logica
di mercato, in primo luogo interventi governativi.
A questa visione «ottimistica» si contrappone quella pessimistica dello
sviluppo polarizzato o cumulativo (Myrdal, 1957): la fuoriuscita di migranti da un’area non riduce solo l’offerta di lavoro, ma anche l’attività
economica nel suo complesso e quindi la domanda di lavoro. Perciò non
è necessariamente vero che l’emigrazione contribuisce ad «alleggerire
la pressione» e migliorare le condizioni di chi resta: anzi, potrebbe essere vero l’opposto, come suggeriscono numerosi studi a carattere locale.
Infine, si è sviluppata una linea di pensiero che tende a privilegiare
gli aspetti positivi della mobilità a breve raggio, caratterizzata da circolarità e non da polarizzazione (Fuà e Zacchia, 1983; Fuà, 1991); questo
fatto contribuisce alla formazione di una vera e propria regione in senso
funzionale (Tinacci Mossello, 1984). Si ha inoltre una miglior informazione dei migranti sulle reali condizioni nelle aree di arrivo (si veda il
par. 3) e una maggior vicinanza culturale tra queste e le zone di partenza (Buzzetti, 1978).
Quest’ultimo punto di vista si inserisce nel dibattito, cui manca però
ancora un punto di approdo, sull’interpretazione da dare alle nuove
tendenze migratorie, ovvero sugli effetti che queste producono. Il problema può essere scisso in due parti, collegate tra loro. Da un lato vi
è la forte diminuzione della mobilità interna nel nostro paese, passata
da più di un milione e mezzo di trasferimenti annui di residenza negli
anni sessanta a poco più di un milione all’inizio degli anni novanta. A
questo si accompagna inoltre la diminuzione della cosiddetta «efficacia»
delle migrazioni, che misura, in sostanza, quanto muta la distribuzione
territoriale della popolazione in seguito alle migrazioni avvenute in un
certo periodo in rapporto all’« energia spesa», ovvero al volume degli
scambi migratori (Golini, 1987; Bonifazi e Cantalini, 1988).
Come accennato nel paragrafo 3, ciò documenta l’ormai avvenuto
riequilibrio tra la distribuzione territoriale delle risorse, da una parte,
e quella della popolazione, dall’altra, con conseguente esaurimento della
necessità dei grandi travasi migratori (Golini, 1977; 1978; 1979a;
1979b), benché interpretazioni meno benevole vi vedano anche un nuovo
elemento di rigidità del sistema (Livi Bacci, 1980).
Su questo argomento si potrebbe dire qualcosa di più se si disponesse di qualche strumento per valutare la congruità tra la distribuzione
Mobilità e insediamenti
391
e la mobilità territoriale della popolazione da una parte e le caratteristiche
del sistema socio-economico dall’altra. Si tratta però di un’operazione estremamente difficile, a causa anche dei diversi tempi che caratterizzano la
sfera economica, con variabili molto reattive agli stimoli esterni, e la sfera
demografica, le cui grandezze di solito si modificano invece solo lentamente. Emblematico, a questo proposito, è il caso dei flussi migratori internazionali. L’Italia si è trovata a dover affrontare, nell’ordine, tre problemi diversi:
1) l’emigrazione all’estero dei propri residenti fino ai primi anni settanta (Rosoli, 1978);
2) il reinserimento degli ex-emigrati rientrati in Italia ancora in età lavorativa, soprattutto dopo la prima crisi petrolifera;
3) a partire dagli anni ottanta, l’accoglimento degli immigrati extracomunitari.
Queste problematiche, con il connesso e radicale cambio di prospettiva
che hanno comportato, sono ben riflesse anche nella produzione di lavori
di taglio demografico.
La fase 1 appartiene a un’epoca storica che sembra ormai conclusa11 e
la fase 2 ha avuto complessivamente breve durata12. Ci troviamo quindi nella fase 3 che, sulla scorta dell’esperienza degli altri paesi industrializzati, si può prevedere destinata a durare ancora a lungo.
Si è discusso, e si discute tuttora, della possibilità che l’immigrazione
dai Pvs possa costituire, per i paesi sviluppati, afflitti da una forte denatalità, un efficace rimedio contro l’invecchiamento demografico e il ridimensionamento numerico (Lestaeghe, 1988; Oecd, 1991). La risposta
è senz’altro negativa nel lungo periodo, perché i due processi possono
essere contrastati efficacemente solo da un livello sufficientemente elevato della fecondità. Gli immigrati invece assimilano presto i comportamenti demografici (in particolare quelli nuziali e riproduttivi) delle
popolazioni ospitanti, per cui il loro inserimento, per essere efficace
sotto i due profili sopra detti, dovrebbe essere continuo e tendenzialmente crescente13. Nel breve periodo, invece, tale politica potrebbe
11 Per la produzione scientifica su questo tema, che è stata ed è tuttora molto considerevole, si veda la nota 1.
12 Tra i non molti lavori di questo periodo, che risentono tutti delle preoccupazioni congiunturali del riassorbimento senza traumi dei rientri, in una fase economicamente difficile
anche Rer in nostro paese, si vedano Valussi (1978) e Gentileschi e Simoncelli (1983).
13 E stato anche osservato (Oecd, 1991) che il conseguimento di obiettivi rigidi di breve periodo (ad esempio il mantenimento di un certo tasso di crescita costante in tutti gli anni), richiederebbe l’uso dell’immigrazione come una sorta di valvola di riserva, da aprire e chiudere in
funzione dei comportamenti e della struttura demografica (distorta) delle popolazioni ospitanti.
392
Gustavo De Santis
avere effetto, ma a condizione che il flusso di immigrazione sia molto consistente, fatto che appare politicamente poco perseguibile.
La questione, vecchia ma mai risolta, degli effetti delle migrazioni, viene ora affrontata dall’Italia dal punto di vista, per essa nuovo, dei paesi di
afflusso. La maggior parte degli studiosi concorda sulla prevalenza degli
effetti positivi (anche) per le aree di immigrazione, sulla base sia dell’esperienza storica sia di riflessioni teoriche. La posizione più estrema, sotto
questo profilo14, è quella di Sirnon (1989; 1991), che propugna un totale
abbattimento della barriere all’entrata e segnala come l’opinione pubblica
sia sempre stata contraria all’immigrazione, in tutti i paesi e in tutte le epoche, nonostante le evidenti prove storiche dei vantaggi da essa derivanti e
a dispetto delle stesse origini di molte popolazioni, nate e a lungo alimentate da flussi di immigrazione.
Altri, invece, sono su posizioni più «moderate» e suggeriscono un’apertura solo parziale delle frontiere, ma sempre evidenziando che tale prudenza è più suggerita da considerazioni di opportunità politica che basata su
solidi fondamenti scientifici riguardo al numero massimo «compatibile» di
stranieri in un dato paese (Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990).
In Italia, il dibattito su questo punto è reso più difficile oltre che dalla
tradizione di flussi migratori nella direzione opposta, anche dalla mancanza di cifre attendibili su numerosità e caratteristiche della presenza straniera, un problema che in paesi di più lunga tradizione migratoria è stato in
parte superato (per la Francia, ad esempio, si veda Tribalat, 1991). Anche
in Italia, tuttavia, qualcosa ha cominciato a muoversi su questo fronte. Per
quanto riguarda la valutazione quantitativa della presenza, gli strumenti
conoscitivi sono essenzialmente tre:
1) le stime indirette, basate sul metodo dei tassi (o degli eventi): se si
riuscisse a determinare con quale frequenza gli stranieri presenti in Italia
danno vita a certi eventi (una nascita, un matrimonio, un arresto, un’iscrizione all’Inps e così via), dal numero (noto) di questi eventi si potrebbe risalire alla popolazione che li ha generati, cioè, appunto, alla stima del numero degli stranieri in Italia (Aidelf, 1988);
2) indagini ad hoc, come quelle effettuate dal Censis (1991) e dall’Istat
(1991), che hanno portato a stimare in un milione gli stranieri presenti in
Italia nel 1990;
3) i censimenti demografici, che tuttavia hanno sempre prodotto risultati15 ritenuti largamente inferiori alla realtà.
14 Si tratta peraltro di una posizione coerente con la sua interpretazione favorevole anche
della crescita demografica in generale.
15 Gli stranieri residenti sono risultati 211.000 nel 1981 e 231.000 nel 1991; quelli presenti,
110.000 nel 1981 e 271.000 nel 1991 (i dati del 1991 sono provvisori).
Mobilità e insediamenti
393
La presenza straniera in Italia solleva, oltre ai problemi di stima quantitativa, anche interrogativi sulle caratteristiche qualitative degli immigrati: chi
sono, da dove vengono, che cosa fanno, quali rapporti hanno con gli
italiani e con le famiglie di origine e così via. Su questo fronte si è impegnato particolarmente il Cisp (Comitato italiano per lo studio dei problemi di popolazione), che ha promosso una vasta indagine curata da numerose università in diverse regioni italiane (AA. VV., 1988; 1990 ; Barsotti, 1989; Brunelli et al., 1989; Dell’Atti e Di Comite, 1990; Moretti e
Cortese, 1990; Reginato, 1990). Con una tecnica di indagine concordata
tra i vari gruppi di ricerca16, si sono studiate la numerosità ma soprattutto le caratteristiche degli stranieri presenti in varie regioni d’Italia. I risultati hanno evidenziato, tra l’altro, una fortissima variabilità di gradi di
istruzione, di attività economica, di conoscenza della lingua italiana, di integrazione e di progetti per il futuro a seconda del paese di origine, del
sesso e della durata della permanenza in Italia. Una grande eterogeneità di
situazioni, dunque, che, come si può comprendere, rende più difficile pervenire a una valutazione sintetica delle conseguenze sociali ed economiche della presenza straniera in Italia.
5. Distribuzione territoriale della popolazione e urbanizzazione
Le migrazioni modificano, tra le altre cose, la distribuzione territoriale della popolazione, in particolare attraverso il processo di inurbamento, cioè il trasferimento di un considerevole numero di persone dalla
campagna alla città. Più che sull’inurbamento, tuttavia, il dibattito si è
concentrato sul grado di urbanizzazione (percentuale di popolazione
che vive in ambiente urbano) e sulle sue variazioni, che possono essere
indotte, oltre che dai movimenti migratori, anche da un diverso tasso
naturale di crescita delle città rispetto alle campagne e dalla trasformazione in senso urbano di zone in precedenza classificate come rurali. Queste
distinzioni non sono sempre evidenti nei dibattiti, ma hanno una loro rilevanza: in particolare l’ultimo caso, di diffusione dell’area urbana, è qualitativamente diverso dai precedenti, perché non comporta necessariamente
un aumento del grado di concentrazione della popolazione sul territorio.
Gli Stati Uniti sono il paese nel quale si sono avvertiti prima i problemi legati al processo di urbanizzazione: qui, negli anni sessanta, do16 A «valanga» o «palla di neve», dall’inglese mowball: si parte da pochi extracomunitari
e, dopo averli intervistati, si chiedono loro nomi e indirizzi di altri extracomunitari di loro
conoscenza, fino al raggiungimento di un campione di sufficiente ampiezza.
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po decenni di crescita urbana, ha cominciato a manifestarsi ciò che in Europa sarebbe emerso con forza solo nel decennio successivo, cioè la riduzione dell’attrazione dei centri «forti», tradizionalmente meta di migrazioni,
a vantaggio prima delle immediate periferie ma, in seguito, anche di aree
lontane e qualitativamente diverse. Si è discusso a lungo se questo processo
fosse meglio descritto dai termini controurbanizzazione (rifiuto dell’ambiente
urbano e ritorno alla campagna) o riurbanizzazione (diffusione del fenomeno urbano anche a aree nuove, prive però delle diseconomie di scala tipiche
delle vecchie città, quali congestione, inquinamento, microdelinquenza e
così. via). Il tutto è stato poi ulteriormente complicato dal fatto che in anni
recenti le tendenze sembrano essersi nuovamente invertite, con una ripresa
della concentrazione nelle aree forti (Dini, 1986; Long e De Are, 1988;
Champion, 1989).
Né questi fenomeni (che non erano stati previsti), né, tantomeno, le
loro cause sono stati ben compresi dagli studiosi, che, comunque, non
sono neanche d’accordo sulla loro rilevanza17. Ciò dipende anche, in misura
non marginale, dalla difficoltà di reperire dati dettagliati, di buona qualità e,
soprattutto, confrontabili internazionalmente.
Questo della comparabilità è uno dei più grandi problemi delle organizzazioni internazionali, in particolare delle Nazioni Unite che periodicamente aggiornano, insieme alle stime e previsioni della popolazione mondiale,
anche i dati riguardanti la popolazione urbana e quella degli agglomerati urbani (con oltre un milione di abitanti) e delle megalopoli (con oltre otto milioni di abitanti). Nell’appendice della relativa pubblicazione delle Nazioni
Unite (United Nations, 1991b), si legge che il Diesa (Department of International Economie and Social Affairs), che cura questa e le altre pubblicazioni demografiche dell’ONU, si limita a recepire le definizioni nazionali.
In conseguenza di ciò, ad esempio, per l’Italia viene considerata urbana
un’unità amministrativa (un comune) con almeno diecimila abitanti, ma per
la Nigeria ce ne vogliono ventimila e per la Norvegia solo duecento!
In queste condizioni è evidente che i confronti vadano condotti con estrema cautela, anche se è probabile che i diversi criteri definitori, purché
mantenuti costanti, non impediscano confronti corretti sulle linee di tendenza, che appaiono essere verso un’ulteriore crescita della quota di popolazione residente in città, sia nei paesi sviluppati, sia, soprattutto, in quelli in
via di sviluppo.
In Italia, il dibattito sulla distribuzione territoriale della popolazione ha riguardato, oltre al problema dell’urbanizzazione e della crescita
17 Si veda, a titolo di esempio, il dibattito tra Cochrane e Vining (1988), Berry (1988),
Champion (1988), Frey (1988) e Mera (1988).
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delle città (Bonaguidi, 1988), anche, più in generale, l’individuazione
di aree «forti», contrapposte a zone periferiche e/o marginali (Dematteis, 1983; Golini, 1987). Nel corso del tempo sono state proposte numerose tipologie comunali, non agevolmente confrontabili tra loro, che
possono forse sinteticamente classificarsi in due gruppi, in funzione del
criterio adottato. Questo può essere basato su: 1) le sole prestazioni demografiche, o 2) un complesso di variabili economiche e demografiche.
Nel caso 1) le classi sono costruite sulla base dei tassi di crescita della
popolazione (sono quindi influenzate, oltre che dal saldo migratorio,
anche dal saldo naturale). All’origine di questa tipologia si trova un lavoro dell’Agei (1983), che prevedeva sei classi di comuni, a seconda che,
nel passaggio dal primo al secondo sottoperiodo a confronto, i tassi di
incremento fossero passati da positivi a negativi, da negativi a positivi,
fossero rimasti negativi (con valori assoluti crescenti o decrescenti) o,
infine, fossero rimasti positivi (anche in questo caso, con valori assoluti
crescenti o decrescenti). Questa metodologia è stata poi ulteriormente
articolata per consentirne l’applicazione anche con periodizzazioni più
lunghe (Barsotti e Bonaguidi, 1981a; 1981b; Bottai e Costa, 1981).
Nel caso 2), invece, prima si classificano i comuni sulla base di un
complesso di variabili economiche e demografiche, poi se ne analizza
l’evoluzione demografica (Bottai, Costa e Formentini, 1978), cercando
nel contempo di stabilire un legame di causa-effetto tra questa e la classe di appartenenza del comune all’interno della tipologia creata.
Rientrano in questo tipo di applicazione anche i lavori di Vitali (1983;
1989; 1990) e Del Colle (1987), che si distinguono dagli altri di analoga
ispirazione per:
a) la logica con cui sono creati i quattro gruppi di comuni, caratterizzati da diverso grado di urbanità (urbani, semiurbani, semirurali e rurali);
b) la sistematicità dell’applicazione su serie lunghe storiche (dal 1951)
e su tutto il territorio nazionale;
c) l’approfondimento dell’analisi, con distinzione delle componenti
della crescita (naturale e migratoria), delle aree geografiche studiate (per
circoscrizione, per zona altimetrica, per distanza dalla costa e così via),
della «traiettoria urbana» percorsa nel tempo dai vari comuni18 e altre.
Di questi lavori, la conclusione forse più importante è che i tassi di
crescita demografica più significativi hanno caratterizzato quei comuni
18 Un comune classificato come rurale nel 1951 può essersi trasformato fino ad assumere
qualche caratteristica urbana, fatto che porta a riclassificarlo, in date successive, in uno dei
restanti tre gruppi. Il passaggio da una tipologia all’altra costituisce la traiettoria urbana seguita da quel comune nel corso del tempo.
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che hanno saputo evolversi in senso urbano19. Resta però il dubbio sulla
direzione della relazione causale: sono le caratteristiche urbane che hanno
attirato la popolazione, come Vitali suggerisce, o è stato l’imponente tasso
di crescita, determinato da altri fattori, a portare poi a una trasformazione di quelle aree in senso urbano? E se anche è vera la prima ipotesi,
qual è il punto fino al quale si dimostra valida e oltre il quale, invece,
i vantaggi della città cedono il passo a diseconomie di scala? Per la risposta a questi interrogativi, che escono peraltro dallo stretto ambito demografico, la strada da percorrere sembra ancora lunga.
Una logica diversa ha seguito invece Bachi (1963; 1976; 1984), che
ha proposto metodi di analisi territoriale, quali l’individuazione del baricentro territoriale di una distribuzione e dei due assi principali della
dispersione20, (quasi) indipendenti dalla «maglia» territoriale prescelta.
Nello stesso senso va la proposta di costruire un reticolo esagonale che
ricopra completamente il territorio sotto studio, in modo da conciliare
i vantaggi dell’esaustività dell’analisi e dell’omogeneità delle aree a confronto, in senso sia sincronico sia diacronico21. Questi e altri suggerimenti, adottati anche dall’Istat (1988) per un atlante, si prestano alla descrizione non solo dei dati di stock (relativi alla distribuzione), ma anche di quelli di flusso: con riferimento alle migrazioni interne di un dato anno, ad esempio, si può confrontare il baricentro dei luoghi di origine con il baricentro dei luoghi di destinazione e vedere di quanto questi
spostamenti hanno contribuito a modificare il baricentro delle residenze.
6. Previsioni
Privo di basi biologiche e legato, ma in maniera complessa, al contesto socio-economico, il movimento migratorio risulta estremamente difficile da prevedere. Tale difficoltà è particolarmente pronunciata per le
19 Anche se occorrequi stare attenti al rischio di circolarità del ragionamento, perché
la numerosità della popolazione è uno dei criteri che concorrono a determinare il grado di
urbanità di un comune.
20 Nel caso di un territorio di forma allungata come quello italiano, tuttavia, il primo
asse di dispersione coincide quasi sempre con l’asse di allungamento del territorio stesso e risulta
quindi di limitata utilità. In effetti, questa rappresentazione raggiunge il massimo dell’efficacia
nel caso di territori di forma perfettamente circolare.
21 Gli esagoni che ricadono completamente dentro a un territorio comune (se il comune
è l’unità territoriale per cui si dispone dei dati originali) prendono il valore medio del
comune, nell’ipotesi che il fenomeno sia equidistribuito al suo interno. Per gli esagoni
che si trovano invece «a cavallo» tra due o più comuni, i valori si calcolano come medie
ponderate (alle quote di superficie interessate) dei valori comunali originali, sempre nell’ipotesi
di equidistribuzione territoriale all’interno di ogni comune.
Mobilità e insediamenti
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piccole aree, non isolate dal territorio circostante e soggette quindi ad
afflussi e deflussi di popolazione importanti e repentini (De Sirnoni, 1984;
Termote, 1984a).
Ma il problema riguarda anche aree più ampie. A livello regionale,
ad esempio, l’IRP (l’Istituto di ricerche sulla popolazione) ha sempre
preferito non abbandonare l’ipotesi di migrazioni nulle nelle sue previsioni e lo stesso ha fatto l’Istat, tranne che in un’occasione — peraltro
recente (1989) — in cui per la prima volta ha prodotto previsioni demografiche regionali con considerazioni anche dei movimenti migratori22.
Neppure a livello internazionale si abbandona volentieri l’ipotesi di
migrazioni nulle: le previsioni demografiche dell’ONU (United Nations,
1991a) e quelle della Banca mondiale (World Bank, 1988), per limitarsi
ai due esempi più noti, non sono quindi, in senso stretto, che delle proiezioni. La giustificazione è, in questo caso, che i diversi tassi di incremento naturale, tenuto implicitamente conto dei diversi ritmi di sviluppo economico, determineranno una certa pressione migratoria dalle aree
a più forte crescita verso quelle meno dinamiche. Si esprime quindi, per
questa via, una sorta di potenziale migratorio che potrà, in circostanze
peraltro non precisate, tradursi in flussi migratori effettivi (Golini e Bonifazi, 1987).
Proiezioni sono anche (come si è detto nel par. 2) i risultati dei modelli di popolazione multiregionali, che comunque — proprio per l’inverosimiglianza delle ipotesi e in particolare di quella di costanza dei tassi
migratori per età e per area di origine e di destinazione — non vengono
neppure presentate come tali, ma solo come un diverso modo di misurare (in termini di stock e non di flussi) le tendenze correnti.
Questi limiti possono essere superati in vario modo. Tra i più semplici vi è quello di immaginare una progressiva riduzione, sino eventualmente alla scomparsa, dei flussi migratori. Questa ipotesi ha il vantaggio di garantire una certa continuità con la situazione corrente, che costituisce il punto di partenza, ma sconta anch’essa, come quella precedente (migrazioni costanti), il limite di un ridotto grado di verosimiglianza.
Un tentativo di miglior aderenza alla realtà passa attraverso l’introduzione di ipotesi di adattabilità dei flussi migratori alle condizioni demografiche e/o socio-economiche prevalenti. Nel primo caso (dipendenza dei flussi dalle condizioni demografiche) rientra la proposta di tenere
conto delle interazioni tra le popolazioni delle due aree, rispettivamente
di origine e di destinazione delle migrazioni (Courgeau, 1991). Si su22 In una versione delle previsioni, i movimenti migratoti interregionali sono ipotizzati costanti sui livelli osservati verso la metà degli anni ottanta.
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pera così il limite di considerare solo una delle due popolazioni (tipicamente quella di origine), ma si introducono ipotesi sul tipo di legame
funzionale tra migrazioni e consistenza demografica delle due popolazioni che andrebbero meglio verificate. Un ulteriore svantaggio di questo
approccio è che il modello che ne risulta è estremamente complesso.
Nel secondo caso (dipendenza delle migrazioni dalle condizioni socioeconomiche), oltre alle difficoltà di determinare correttamente la forma
della relazione e il valore dei parametri, oltre al limite di dover considerare costanti nel tempo l’una e gli altri, ci si scontra anche con l’ostacolo,
che appare insormontabile, di dover prevedere quali valori assumeranno
in futuro le variabili esplicative (Termote, 1984a).
In conclusione, anche se a livello nazionale le previsioni demografiche sono tradizionalmente state smentite più nelle ipotesi di fecondità
e di mortalità che in quelle migratorie e anche se, nella fase attuale dei
paesi sviluppati, i flussi migratori interni sono molto ridott
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