sociologia generale

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COLLANA
TIMONE
ELEMENTI di
SOCIOLOGIA
GENERALE
• Percorso storico
• Natura della realtà sociale
• Istituzioni sociali e culturali
• Relazioni interpersonali
e dinamiche di potere
SIMONE
EDIZIONI
®
Esselibri - Simone
EstrattoGruppo
dellaEditoriale
pubblicazione
213/2
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Vietata la riproduzione anche parziale
Di particolare interesse per i lettori di questo volume segnaliamo:
213/1 • Storia del pensiero sociologico
213/2 • Sociologia generale. Nozioni essenziali
213/3 • Sociologia dei processi culturali
213/5 • Elementi di sociologia politica
213/6 • Elementi di sociologia politica
SC6 (cat. Ellissi)
• Teorie dei media digitali
MC11 (cat. Ellissi) • La comunicazione
Testo a cura di Gianni Quinto
Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Esselibri S.p.A.
(art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30)
Il catalogo aggiornato è consultabile sul sito Internet: www.simone.it
ove è anche possibile scaricare alcune pagine saggio dei testi pubblicati
Finito di stampare nel mese di febbraio 2009
dalla «Officina Grafica Iride» - Via Prov.le Arzano-Casandrino, VII Trav., 24 - Arzano (NA)
per conto della Esselibri S.p.A. - Via F. Russo, 33/D - 80123 - (Na)
Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno
Estratto della pubblicazione
PREMESSA
Questa agile volumetto è rivolto agli studenti dei Corsi di Laurea
in Sociologia o di Facoltà affini (Scienze della formazione, Scienze
della comunicazione, Scienze politiche) e a chiunque sia interessato
alle tematiche fondamentali della sociologia come disciplina-chiave
delle scienze umane.
L’opera segue le articolazioni critiche e i più rilevanti modelli
concettuali della teoria sociale, nonché consente di comprendere i
principali elementi teorici e problematici della disciplina.
Nel primo capitolo vengono delineati i passaggi storici e le basi
culturali della nascita e dello sviluppo della sociologia.
Nei capitoli successivi vengono affrontati gli elementi centrali della teoria sociale contemporanea: l’idea di cultura come mediazione
simbolica, la nozione di istituzione formale (famiglia, educazione,
mass media); la relazione individuo-società; la definizione dell’«attore» sociale; il concetto di «realtà culturale» e i relativi apparati
istituzionali.
Nei capitoli finali ci si sofferma principalmente sui concetti di
istituzione giuridica e politica: si esaminano le caratteristiche dello
Stato contemporaneo, le transizioni contemporanee, i nuovi fenomeni socio-economici e culturali originati dalla società globalizzata.
Chiude il testo la disamina del «potere» tanto nella sua espressione individuale quanto come fenomeno oggettivo (rapporti di potere
e rapporti di classe, coercizione e consenso, mutamento sociale).
In appendice viene riportato un breve glossario esplicativo dei
principali termini delle scienze sociali.
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO PRIMO
IL PERCORSO STORICO
Sommario: 1. Nozione di sociologia. - 2. Cenni storici. - 3. Le origini della sociologia contemporanea.
1. NOZIONE DI SOCIOLOGIA
Attualmente la sociologia viene intesa, in un senso molto esteso, come
l’insieme delle discipline che indagano scientificamente i comportamenti
interattivi, la costituzione e le funzioni degli aggregati umani, i processi
generali di strutturazione della società, la genesi, le categorie di fondo, i
modelli di base e gli effetti dei fenomeni sociali stessi in presenza di determinate condizioni e di specifiche variabili. Il termine «sociologia» fu utilizzato per la prima volta da Auguste Comte (1798-1857) nel Corso di
filosofia positiva (1830) con la precisa intenzione di evidenziare come —
assieme alle scienze fisiche, matematiche e naturali che potevano contare
su una lunga storia precedente — una nuova disciplina a vocazione scientifica stava nascendo. L’intenzione di Comte era infatti quella di centrare la
conoscenza dei fenomeni sociali su basi oggettive («positive») nella stessa
misura in cui la fisica, la biologia, l’anatomia o la fisiologia si occupavano
in maniera accertabile e sperimentale delle leggi sottese al mondo dei fenomeni naturali. Estremizzando l’analogia, prima di Comte, Henry de SaintSimon (1760-1825) aveva suggerito per la scienza del sociale i nomi di
fisica sociale e di fisiologia sociale. Comte preferì tuttavia creare un neologismo, volto a sottolineare l’autonomia della nuova scienza rispetto alle
altre. Precedentemente, e lungo una tradizione secolare, lo studio dei fenomeni sociali era stato confinato all’interno del pensiero filosofico-giuridico
(scienza della politica, filosofia del diritto) o morale-religioso (etica e teologia): queste forme di pensiero, pur presupponendo un’analisi dell’esperienza storica concreta delle diverse forme di vita sociale, non erano tutta-
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Capitolo Primo
via orientate prioritariamente all’analisi «empirica» dei contesti sociali, quanto piuttosto a delineare principi normativi generali volti a determinare le
migliori condizioni possibili per il mantenimento dell’ordine sociale.
2. CENNI STORICI
A) La «nascita» della politica
Il termine «politica» emerge in Grecia nel momento (VI sec. a.C.) in cui
si formano le prime città-stato (poleis). Nei contesti precedenti — cioè
nelle forme più arcaiche di socialità, a carattere sostanzialmente tribale —
non era mai stata tematizzata la questione dei fondamenti dell’ordine sociale, dal momento che questo era centrato sostanzialmente su valori miticosacrali e su una potente struttura gerarchica basata sui vincoli di sangue,
sulla provenienza di stirpe, sulla discendenza. In quanto unità sociali a struttura relativamente poco complessa, le tribù erano infatti «società» piuttosto
stabili nel tempo. La totalità della vita comunitaria era determinata da norme ancestrali che in virtù della loro natura sacrale e divina non potevano
naturalmente divenire oggetto di pubblico dibattito, di discussione o di revisione. In questa dimensione culturale era naturalmente impossibile il maturare della consapevolezza circa il carattere convenzionale o culturale dei
diversi ordini sociali, né esistevano condizioni per l’emergere di una riflessione critica sulle modalità del «vivere sociale» come tale. La questione
dell’interazione sociale comincia in effetti a farsi problematica solo nel
momento in cui si organizza — grazie allo sviluppo economico ed agli effetti commerciali della navigazione — il tessuto delle poleis. Mentre la vita
comunitaria delle unità sociali arcaiche era strettamente segnata da vincoli
di solidarietà e da reciproci interessi tra gli individui e all’ordine sociale
venivano attribuiti caratteri di immutabilità e sacralità, nelle società «democratiche» della polis l’ordine sociale comincia invece ad apparire suscettibile di trasformazione in quanto direttamente dipendente dalle capacità conoscitive e critiche e dalle virtù morali dei cittadini stessi.
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Come si configurava la democrazia nelle poleis?
Aperte ai traffici, agli scambi culturali, ai commerci, all’emigrazione, le poleis erano rette
politicamente da un’alternanza di regimi (monarchia, oligarchia, democrazia, tirannide) e
prevedevano alla base del proprio ordinamento politico l’azione legislativa ed esecutiva di
assemblee oltre che una gestione del potere centrata sulle cariche elettive. Le poleis costituivano dunque dei «micro-stati» in grado di autogovernarsi. L’importanza di questo modello poli-
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Il percorso storico
tico fu di massima rilevanza per lo sviluppo del concetto stesso di democrazia occidentale:
nelle poleis ottiene per la prima volta nella storia sociale umana un ruolo centrale la parola, il
discorso, il dibattito, il contraddittorio che si svolgeva nell’agorà (la piazza centrale della
città). E cioè la pubblica discussione, l’argomentazione, gli interessi comuni, il rispetto per le
leggi, ma soprattutto la coscienza civile, il senso di appartenenza ad una comunità di cui vanno
rispettate le norme fondative. Dobbiamo soprattutto all’ascesa di Atene le prime forme di costituzione democratica (da demos, «popolo», e kratos, «potere»). «Democrazia» ad Atene significò sostanzialmente: a) eguale diritto di parola per i cittadini (isegoría); b) eguale partecipazione di tutti i cittadini (esclusi gli schiavi) all’esercizio del potere (isonomía); c) istituzione
di un tribunale del popolo e di un organismo di potere esecutivo (il «Consiglio dei Quattrocento»); d) apertura dei traffici e dei commerci agli stranieri (o metèci) e liberazione dei contadini; e) aiuti pubblici per i più poveri. Tutto questo generò un miglioramento notevole delle
condizioni di vita dei cittadini, una liberazione della vita pubblica, un conseguente incremento
della ricchezza e un’eccezionale fioritura della cultura (arte, poesia, letteratura, scienza, filosofia).
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Nonostante gli individui continuassero ad essere visti come elementi
organicamente inseriti in una totalità sociale nella quale non poteva essere
ancora tematizzata l’idea di una possibile contrapposizione tra libertà individuale ed interesse pubblico, nella poleis le forme politiche specifiche di
governo e le leggi che regolano la convivenza diventano oggetto di indagine critica in base a criteri puramente razionali. Nasce qui il problema della
«politica», ovvero dell’arte del governo da parte di coloro che esercitano
funzioni di potere «legislativo», vale a dire di codificazione delle regole
generali per tutti i cittadini della polis. Le grandi opere di Platone (La Repubblica, Le leggi) e Aristotele (Politica, Etica Nicomachea) costituiscono,
in questo senso, i primi luminosi esempi di una filosofia politica che influenzerà sino ai nostri giorni la riflessione sull’ordine sociale.
Successivamente, in un lunghissimo corso di tempo e di eventi, il pensiero politico classico, partito da analisi puramente razionali astratte, si definì sempre di più assorbendo principi di razionalità concreta. Uno straordinario punto di riferimento in questa direzione è rappresentato dalla lenta
gestazione e dalla successiva impressionante ramificazione del diritto romano, che avrà influenza incalcolabile sul pensiero giuridico dell’intera
civiltà occidentale-cristiana. L’esigenza razionale-concreta di definire in
modo esplicito le competenze relative al potere «temporale» rispetto a quelle
del potere «spirituale» mirando a risolvere giuridicamente le possibili contraddizioni tra legge divina (lex divina) e legge naturale (lex naturae) o
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Capitolo Primo
anche tra etica e politica, politica e religione, Stato e Chiesa, genera l’affermarsi di correnti di pensiero che attraversano secoli di storia e che tendono
a rendersi autonome rispetto alle concezione religiose, dando così inizio ad
un irreversibile processo di laicizzazione della politica.
B) Giusnaturalismo e contrattualismo
Si tratta di un processo che si delinea e si stabilizza in epoca rinascimentale, in particolare grazie alle opere di Niccolò Machiavelli (1469-1527) in
cui si esprime per la prima volta in forma compiuta una precisa volontà di
elaborare in senso tecnico-politico, cioè oggettivo ed empirico, un’analisi
dettagliata delle diverse forme storiche di governo e dei problemi sociali
della sua epoca. La vera svolta è tuttavia rappresentata dalla drammatica
crisi politico-spirituale determinata dalla Riforma protestante, avviata nel
1517 da Martin Lutero (1483-1546). Tale evento storico, decomponendo
la pregressa unità religiosa del mondo occidentale, spinse all’elaborazione
di nuovi fondamenti razionali della vita socio-politica in grado di essere
condivisi da tutti indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa (secondo il sociologo tedesco contemporaneo Jürgen Habermas, il pluralismo etico e laico delle attuali costituzioni occidentali sarebbe uno straordinario esito positivo delle normative elaborate giuridicamente in risposta alle
problematiche sui diritti civili generate dalle guerre di religione dei secoli
XVI e XVII).
È a partire da tale esigenza che Ugo Grozio (1583-1645) cercherà di
fondare il diritto pubblico in base ad una scienza razionale e deduttiva, che
prescinda da qualsiasi implicazione metafisica. Nasce così il giusnaturalismo, cioè una dottrina giuridico-politica che sostiene l’esistenza di norme
naturali razionali precedenti la nascita del diritto positivo e del contratto
sociale da cui si origina lo Stato. Successivamente, su basi simili, Thomas
Hobbes (1588-1679) elabora una prima forma di teoria contrattualistica
delle origini della società. Il presupposto di queste concezioni è che il mondo dell’agire umano sia retto da leggi affini a quelle che regolano deterministicamente l’ordine naturale. Nel Seicento (con Francis Bacon, Galileo
Galilei, Isaac Newton) si afferma infatti prepotentemente la tendenza a considerare la conoscenza scientifica come un sapere oggettivo, al cui modello
di solidità deve mirare anche la filosofia politica e sociale. Si tratta di un
processo che si ramificherà in Europa nei secoli successivi, fino ad arrivare
appunto, come abbiamo visto, all’idea di una «fisica sociale».
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Quale fu l’importanza del contrattualismo di Hobbes?
Considerando la società come esito puramente «artificiale», Th. Hobbes delinea le origini
della realtà sociale ricorrendo all’idea di un accordo (pactum associationis) liberamente sottoscritto dagli individui allo scopo di porre stabilmente fine al disordine violento caratteristico
dello stato di natura (status naturae), immaginato come caotico, a-sociale e pre-politico e
dominato da istinti di autoconservazione, terrore fisico di morte violenta (metus), conflittualità
diffusa (homo homini lupus, bellum omnium contra omnes sono alcune tra le più celebri metafore utilizzate da Hobbes per descrivere la drammaticità della condizione «naturale» degli
uomini). Per la prima volta, nella coscienza politica dell’Occidente, affiora l’idea che la societas possa essere non tanto il frutto di una naturale tendenza degli uomini alla vita in comune
(secondo la millenaria tesi aristotelica dell’uomo come animal rationale che esprime la sua
sociabilitas, cioè un innato impulso alla socializzazione) ma come un inquieto prodotto storico-convenzionale privo di qualsiasi appoggio trascendente. Al di là delle connotazioni pessimistiche e degli esiti assolutistici di Hobbes (l’accordo è propriamente un pactum subiectionis con cui ciascun cittadino delega ad un sovrano legibus solutus la gestione della sicurezza e
del potere della comunità) nasce l’idea che gli esseri umani possano rivedere liberamente il
contratto originario e formularne uno nuovo: si apre così la prospettiva teorica di una riforma
potenziale della società che, a partire da John Locke (1583-1645) fino agli Illuministi francesi e a J.-J. Rousseau, ispirerà sia la rivoluzione inglese che quelle americana e francese.
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La percezione del carattere storico-convenzionale anziché naturale del
sociale che viene affermandosi nel Settecento sarà naturalmente influenzata
anche da altri elementi-chiave, tra cui:
— la scoperta di culture extra-europee, ciascuna riconosciuta nella sua
specificità e dignità;
— l’importanza conferita al pluralismo politico, alla tolleranza religiosa,
alla diversità delle forme socio-culturali esistenti nel mondo;
— l’accresciuta consapevolezza del carattere storico-relativo dei diversi
ordinamenti giuridici e della multiformità dei costumi etici.
Si tratta di elementi che molti autori, come ad esempio Charles de Secondat di Montesquieu (1689-1755), porranno al centro di analisi particolarmente innovative (Lo spirito delle leggi, Lettere persiane).
C) L’Illuminismo
Nella stessa prospettiva si colloca la critica nei confronti dei grandi sistemi metafisici dei secoli precedenti che viene sviluppata dagli Enciclopedisti
e dagli Illuministi francesi (in particolare Diderot, D’Alambert, Voltaire).
Tale critica attribuisce la debolezza dei sistemi metafisici alla prevalenza del
momento teorico astratto che li caratterizzava e alla mancanza di un’osservazione diretta dei fenomeni particolari concreti. Presupponendo che l’intera
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Capitolo Primo
realtà sia retta da leggi razionali, essi ritengono che queste ultime potranno
rivelarsi grazie alla progressiva conoscenza empirica dei fatti. Se in Montesquieu l’analisi del rapporto tra principi razionali e forme storiche concrete
della vita sembra risolversi armoniosamente in una visione ancora statica della realtà, in Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) la distinzione tra ciò che
appartiene all’ordine della natura e ciò che è invece il prodotto delle condizioni storiche del sociale pone in evidenza il contrasto tra i due momenti, in una
prospettiva evolutiva nella quale il sociale svolge un ruolo decisivo nella trasformazione dello spirito umano, che sembra così rendersi sempre più autonomo dalle sue origini naturali (Il Contratto sociale).
La tendenza a inquadrare nelle regole del metodo scientifico la conoscenza della storia umana (secondo il principio «verum et factum convertuntur», che significa che solo la storia in quanto prodotto umano — «factum» — appare conoscibile oggettivamente — «verum») si era affermata
anche in Italia, soprattutto grazie al filosofo e giurista Giambattista Vico
(1668-1744). L’idea della società costruita razionalmente lascia qui il posto
alla società concreta, storicamente formatasi all’interno di una sostanziale
continuità temporale che — secondo una efficace metafora — va dalle «selve» sino alle città ed alle «accademie». Proprio questa continuità di fondo
va portata alla luce, esibendone ordine e struttura, ovvero individuando
quelle leggi che ne regolano l’andamento. Ciò però non deve indurre a pensare che i mutamenti storici, linguistici e sociali si sviluppino in modo unilineare; anzi, è vero il contrario, visto che tutte le società sono sottoposte a
vicende e mutamenti che le fanno oscillare fra decadenza e progresso, fra
disordine e ordine (principio dei «corsi e ricorsi» storici).
Vico tuttavia individua lo stesso senso universale che caratterizza l’ordine e la struttura della storia. L’universalità della mente umana viene a
tradursi nell’universalità del linguaggio nella quale essa storicamente si
sviluppa, dando luogo a tre epoche fondamentali della storia culturale umana, ciascuna caratterizzata da una diversa facoltà mentale:
— l’epoca degli dèi, caratterizzata dalla facoltà del senso;
— quella degli eroi, caratterizzata, dalla facoltà della fantasia;
— quella degli uomini, caratterizzata dalla facoltà della ragione.
Vico rintraccia nella tappa finale della razionalità il risultato più fecondo dello sviluppo complessivo della cultura umana. Da questo punto di vista, la complessa riflessione sul sapere della storia e della società avviata
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nella prima metà del Settecento determina, nella seconda metà del secolo, il
grande sviluppo delle ricerche empirico-sperimentali sulle facoltà fisiche e
psichiche dell’uomo storico, un fenomeno che troverà la sua consacrazione
nel programma della Société des Observateurs de l’Homme, fondata nel
1800 in Francia. In tale programma confluiscono i diversi apporti derivanti
dagli studi sui costumi e la cultura dei popoli antichi e dal nuovo interesse
per la cultura popolare europea, studi che costituiscono i primi esempi di
ricerca etnologica (etnologia = scienza che studia i costumi dei popoli).
Nella seconda metà del Settecento, infatti, il modo di fare storiografia conosce anch’esso una profonda trasformazione. Autori come Adam Ferguson
(1723-1816) possono essere considerati veri e propri precursori dell’analisi
sociologica. Se Vico aveva colto nello sviluppo storico l’alternanza di corsi
e ricorsi, nella seconda metà del Settecento va invece affermandosi la concezione unilineare della storia come continuo progresso.
D) L’economia politica e l’utilitarismo
Un altro settore in cui si afferma il proposito di applicare allo studio
dell’agire umano un metodo scientifico è costituito dall’economia politica.
François Quesnay (1694-1774) considerato uno dei fondatori di questa
disciplina, esamina le società umane come fossero organismi biologici e ne
interpreta le leggi, o meglio le forme del comportamento sociale, secondo
modelli medico-fisiologici. In particolare, i fenomeni economici costituiscono per Quesnay una contesto di fatti che obbedisce a principi oggettivi
derivanti dalla natura stessa delle cose e come tali universali ed irrevocabili.
Il modello ideale dell’economia di mercato, come luogo nel quale il libero gioco degli interessi egoistici degli individui finisce spontaneamente con
il dar vita ad un sistema equilibrato ed omogeneo, sembra in grado di fornire allo scienziato sociale una solida base derivante dalla natura stessa dell’agire umano, in quanto espressione di una razionalità capace di calcolare
profitti e perdite. Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) coglie l’origine
dell’agire umano nel rifiuto della sofferenza e nella ricerca del piacere che
accompagnano ogni esperienza umana. La possibilità di regolare le diverse
azioni individuali in modo che non siano contrarie all’interesse comune si
fonda infatti sulla capacità di collegare sensazioni piacevoli con quelle azioni
che sono più utili per l’intera società (attraverso l’educazione e un sistema
di distribuzione delle ricompense e delle pene). Siamo alle origini del modella utilitarista, che si diffonderà in profondità nei secoli successivi.
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Quali sono le basi teoriche dell’utilitarismo?
Secondo gli utilitaristi, il benessere della società va inteso come coincidenza tra interesse privato
e interesse pubblico. Tale modello avrà una grande influenza lungo tutto lo sviluppo del pensiero
sociale dell’Ottocento e troverà nuova espressione fino ai nostri giorni. Tra i più importanti esponenti di tale corrente di pensiero va ricordato l’economista Adam Smith (1723-1790), secondo il
quale la società di mercato fondata sul principio del libero scambio può essere considerata in
senso esteso come un sistema in grado di «autoregolarsi» senza bisogno di interventi esterni di
natura politica, secondo la celebre e utopica metafora della «mano invisibile»: il mercato, in un
sistema capitalistico organizzato e virtuoso, tende spontaneamente a produrre le condizioni del
proprio sviluppo, proprio come se una mano ne orientasse nascostamente e beneficamente le
tendenze, incrementando le ricchezze, distribuendo le risorse e riducendo le diseguaglianze. Le
leggi che regolano il sistema sociale non sono infatti di tipo giuridico, bensì sono intrinseche alla
stessa natura dei rapporti economici: tali leggi non possono essere imposte dall’esterno, ma vanno scoperte sulla base di un’analisi scientifica diretta della realtà concreta. Se l’esperienza del
pensiero economico utilitarista e liberista ha senza dubbio influenzato anche le prime formulazioni della sociologia positivista oltre quelle che, al seguito di Karl Marx, verranno sviluppate
nella prospettiva del materialismo storico, la sociologia prende immediatamente le distanze
dall’economia, sottolineando come non sia possibile esaurire la complessità delle dinamiche
sociali facendo unicamente riferimento ai fattori economici. L’osservazione empirica della realtà
sociale mostra infatti come l’agire degli individui sia anche determinato da valori di tipo eticoculturale, da componenti psichiche ed emotive e da credenze di tipo ideologico non esauribili in
un puro sapere tecnico-economico.
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E) La sociologia positivista
Molto prima di Comte, come abbiamo visto, era venuta elaborandosi
l’idea di estendere allo studio dei fenomeni storico-sociali il metodo affermatosi nelle scienze matematico-naturali. Occorre tuttavia tener presente
che, rispetto a tale tradizione, erano intervenuti nella prima metà dell’Ottocento profondi cambiamenti nel modo di concepire la natura e le funzioni
dell’analisi scientifica, soprattutto grazie all’influenza del Romanticismo
tedesco. L’epoca dell’Illuminismo, come si è detto, era stata caratterizzata
prevalentemente dalla critica dei modelli tradizionali del conoscere e dalla
denuncia degli ordini di potere costituiti, ma non si è data importanza ai
problemi pratici posti dalla costruzione di un nuovo tipo di società. Quest’ultimo infatti sembrava potesse derivare spontaneamente dall’estensione
del chiarimento razionale. Tuttavia, dopo l’esperienza per molti aspetti traumatica della Rivoluzione francese (1789), il problema pratico di fatto si
ripropone: la nuova situazione (siamo nei primi anni dell’Ottocento) appare
caratterizzata da un acuto vuoto di valori e dall’accentuazione dei conflitti
sociali tra vecchie e nuove classi.
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Il percorso storico
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In particolare, la violenza indiscriminata conosciuta negli anni del Terrore (esito estremo della Rivoluzione francese) aveva mostrato come i puri
principi della razionalità e della pedagogia, promossi dell’Illuminismo, fossero largamente insufficienti a fondare un ordine sociale centrato su idee di
giustizia e di eguaglianza scotendo alle radici la fiducia nel presunto carattere spontaneo della razionalità umana. Le trasformazioni della vita sociale
richiedevano in realtà strumenti conoscitivi molto più complessi, che solo
la scienza sembrava poter offrire. Una scienza tuttavia non inquadrabile
esclusivamente all’interno del vecchio meccanicismo seicentesco. L’Ottocento romantico consuma infatti anche una profonda rivoluzione epistemologica oltre quella etica, artistica e spirituale: le discipline scientifiche non
vengono più concepite soltanto come scienze dei meccanismi oggettivi
sottesi ai fenomeni politici e sociali. Esse debbono estendersi sino a contemplare le componenti irrazionali-emotive e le instabilità strutturali tipiche delle società complesse. Il termine scienza acquista così sfumature nuove,
sostanzialmente irriducibili alle vecchie tradizioni. Da questo punto di vista, sintetizzando, gli esponenti del Romanticismo tedesco:
— tendono a vedere nella «ragione» umana non soltanto l’esercizio deduttivo e logico-matematico dell’intelletto ma anche un principio vitale e
una forza infinita che, unita all’istinto e al sentimento, appare operante
dialetticamente all’interno della natura e della storia umana (si tratta di
una posizione elaborata filosoficamente soprattutto dagli idealisti tedeschi ed in particolare da F.W. Schelling e G.W.F. Hegel):
— esprimono, sia pur con posizioni diverse, una chiara diffidenza di fondo
nei confronti delle celebrazioni acritiche dei progressi tecnici e del lavoro industriale. Anche i romantici, come gli Illuministi, intendevano
promuovere sul piano politico i processi di libertà individuale e collettiva, ma anziché ispirarsi al modello «democratico-liberale» di stampo
anglosassone (recepito dai philosophes dell’Enciclopedia) erano animati
da ideali nazionalistici e da una concezione etica, talora espressamente
autoritaria dello Stato.
In questo contesto, il problema della ricostruzione di nuove basi della
solidarietà sociale portava autori come Saint-Simon e Comte, nonostante il
loro positivismo scientifico, a rivalutare romanticamente persino l’esigenza di nuove forme di religiosità, finalizzate al richiamo di dimensioni affettive, non razionali, dei membri della società.
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Capitolo Primo
F) La sociologia di Comte
Proprio Auguste Comte affronta chiaramente il problema della ricostruzione di un nuovo ordine proiettandosi già chiaramente verso il futuro.
Il suo pensiero appare caratterizzato dall’acuta percezione dell’estrema complessità dei processi sociali e dalla loro non riducibilità (contrariamente a
quanto avevano pensato Montesquieu e gli Illuministi) a meri principi semplici di razionalità. In particolare, la sociologia comtiana critica a fondo gli
schemi riduttivi dell’utilitarismo economicista e sottolinea come nella dinamica sociale intervengano rilevanti componenti di tipo emotivo non-razionale. In questa prospettiva, Comte considera la sociologia come scienza
sintetica suprema, in grado di abbracciare nel suo insieme l’intera complessità dei fenomeni storico-sociali, alla conoscenza dei quali le altre scienze
analitiche forniscono solo contributi parziali. Il positivismo è qui concepito come una dottrina reale e completa: tale dottrina, se avrà completamente
coordinato il presente, l’avrà anche collegato all’insieme del passato, in modo
da stabilire un’esatta armonia nel sistema totale delle idee sociali, facendo
spontaneamente risaltare l’uniformità della vita collettiva dell’umanità. La
nuova armonia potrà essere direttamente collegata con l’ordine naturale,
essendo l’ordine sociale (artificiale e volontario, secondo la tradizione hobbesiana) una semplice estensione di quell’ordine naturale e involontario verso
il quale tendono tutte le società umane. In queste teorie, naturalmente, si
evidenziano molteplici influenze:
— anzitutto dell’idealismo romantico di Hegel, che aveva interpretato il
processo di trasformazione storica e la natura delle diverse epoche come
tappe di uno sviluppo generale dell’autocoscienza e della razionalità
umana; tale progressione era concepita in termini dialettici, ovvero
come costante superamento di elementi contraddittori in successive
sintesi speculative, le quali originano, a loro volta, nuove contraddizioni sino al compimento di una sintesi finale, intesa come definitivo
processo di chiarificazione e di comprensione della storia integrale
della cultura umana;
— in secondo luogo delle prime teorie evoluzionistiche (elaborate dal naturalista francese J.-B. Lamarck), secondo cui la storia costituisce un
processo vitale che procede irreversibilmente dal semplice al complesso
in un’ottica di progressivo adattamento all’ambiente e perfezionamento
evolutivo.
Il percorso storico
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Su queste basi, Comte distingue due ambiti propri della sociologia:
— la statica sociale, che analizza gli elementi e le strutture costanti dell’organismo sociale (famiglia, proprietà, religione, linguaggio, forze sociali);
— la dinamica sociale, che si riferisce invece alla costante evoluzione dell’organismo stesso, analizzando le leggi e i fattori del progresso sociale.
È in questo secondo ambito che Comte elabora la sua celebre teoria dei
tre stadi della storia dell’umanità:
— nello stadio teologico (o fittizio) lo spirito umano tende alle conoscenze
assolute. Cerca le cause prime e finali dei fenomeni, che gli appaiono
prodotti dall’azione di agenti sovrannaturali;
— nello stadio metafisico (o astratto) che è sostanzialmente una modificazione del primo, gli agenti sovran-naturali sono sostituiti da entità (astrazioni personificate, forze, principi occulti, essenze metafisiche o ontologiche) ritenute capaci di produrre i fenomeni;
— nello stadio scientifico (o positivo), che caratterizza i tempi nuovi, si ha
invece finalmente la subordinazione dell’immaginazione all’osservazione. La scienza non ricerca più cause occulte ma si limita a descrivere le
leggi fisiche dei fenomeni.
È evidente che Comte attribuisce alla scienza positiva e alla sociologia
compiti molto ambiziosi, che vanno ben al di là dello studio dei fenomeni
sociali concreti. La «teoria» in effetti, nel suo sistema, assume un valore
preminente e, contestando l’empirismo induttivo caro agli Illuministi, considera improduttiva l’accumulazione di conoscenze basate sulla verifica pura
e semplice dei fatti. Comte preferisce il metodo ipotetico-deduttivo, nel
quale dovrebbero trovare conciliazione sia l’analisi razionale sia quella sperimentale. Nonostante la concezione comtiana della sociologia sia ancora
carica di elementi ideologici che fanno della scienza una sorta di nuovo
mito, va riconosciuto a Comte il merito di aver tentato di dare un contenuto
e un assetto alla nuova disciplina. In particolare:
— la sua distinzione fra statica e dinamica sociale permette di delineare per
la prima volta l’«oggetto» specifico della sociologia;
— la sua riflessione sul rapporto fra teoria e verifica empirica mostra come
in Comte l’osservazione dei fatti acquisti il suo significato solo all’interno di un paradigma teorico in grado di evidenziare le relazioni tra
differenti aspetti della realtà sociale.
16
Capitolo Primo
Dopo Comte, la teoria sociologica ridimensionerà l’ambizione volta ad
attribuire a se stessa un ruolo di monopolio sulle altre discipline, ridefinendo la propria identità entro i più ridotti orizzonti di un sapere parziale che
contribuisce, con altre forme di sapere, alla conoscenza della complessità
della realtà sociale. All’interno della tradizione inaugurata dal positivismo
comtiano, sarà soprattutto Émile Durkheim a ridefinire l’ambito della sociologia, contribuendo anche a dare alla disciplina una veste istituzionale
nell’insegnamento universitario.
3. LE ORIGINI DELLA SOCIOLOGIA CONTEMPORANEA
A) Il materialismo storico
Il pensiero di Karl Marx (1818-1883), nel quale sono presenti, oltre
alla tradizione dell’utilitarismo e dell’economia politica classica, elementi
derivanti dalla filosofia di Hegel e dal positivismo comtiano, ha avuto enorme influenza anche sullo sviluppo della sociologia. In una impressionante
serie di pubblicazioni (che spaziano dalla filosofia pura alla teoria economica) Marx delinea una teoria scientifica delle leggi che presiedono alla storia
e alla dinamica sociale. L’idea di scienza come sapere oggettivo e neutrale
in grado di rispecchiare la realtà è parzialmente simile a quella di Comte.
Tuttavia, anziché ispirarsi all’idea di progresso come sviluppo cumulativo e
lineare, Marx adotta il modello dialettico di Hegel, secondo il quale la storia
evolve attraverso costanti contraddizioni e conflitti (fino al raggiungimento
della sintesi finale). Se Hegel aveva interpretato tale processo come la manifestazione della progressiva autorealizzazione dello spirito assoluto (cioè
della razionalità umana in grado di comprendere, al termine del cammino,
la propria storia e i propri presupposti normativi), Marx interpreta invece la
dialettica come un principio attivo operante all’interno delle condizioni
materiali e degli oggettivi rapporti economici e sociali. Egli pensa l’evoluzione storico-sociale come dominata dalle contraddizioni oggettive legate alla forze di produzione (disponibilità delle risorse materiali e tecniche)
e ai rapporti di produzione che, di volta in volta, vengono a stabilirsi nelle
diverse epoche storiche. La soluzione finale di queste continue contraddizioni corrisponde alla scomparsa del capitalismo e all’avvento di una società di tipo comunista, nella quale l’eliminazione della proprietà privata e dei
rapporti di potere possa finalmente generare una società egualitaria e perfettamente integrata.
Estratto della pubblicazione
Il percorso storico
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Dal punto di vista sociologico, la teoria dialettica di Marx si caratterizza
quindi per il valore conferito alla dimensione conflittuale nella dinamica
delle relazioni sociali (da Marx in poi, nella storiografia sociologica, qualsiasi
ipotesi esplicativa della società che faccia prioritario riferimento alla contraddizione e alla lotta sociale, verrà inquadrata all’interno di modelli
noti come «teorie del conflitto»). Se il paradigma dialettico si articola a
partire da un’idea della società come totalità, esso tuttavia concepisce tale
totalità non in modo statico-sincronico (come sistema in equilibrio o struttura immutabile) ma in modo storico-diacronico (come processo in continua trasformazione, il cui movimento è determinato dalle contraddizioni
oggettive che emergono nella realtà sociale tra determinate strutture materiali e determinati rapporti sociali). Le strutture materiali, secondo Marx,
sono rappresentate da:
— l’insieme delle forze e dei mezzi di produzione, ossia delle risorse
materiali disponibili e dell’insieme delle conoscenze scientifiche e degli
strumenti tecnici presenti, in un dato momento storico, in una determinata società;
— i rapporti di produzione (proprietà dei mezzi di produzione, tipo di
rapporti di lavoro interni all’organizzazione produttiva);
— il modo di produzione, ossia dall’insieme delle forze, dei mezzi e dei
rapporti di produzione che caratterizza il sistema dominante di produzione di una data società (ad es.: l’agricoltura nelle società pre-industriali, l’industria nelle società capitalistiche sviluppate).
Tali diverse dimensioni costituiscono la struttura del sistema sociale.
Tale base strutturale, nella concezione marxiana, viene considerata come
determinante rispetto alle forme della sovrastruttura, ovvero l’insieme de:
— le rappresentazioni culturali (immagini del mondo, mito, religione,
filosofia);
— i sistemi normativi (leggi, istituzioni, apparati statali, politici e amministrativi) presenti nel sistema sociale e riflessi anche nei contenuti della
conoscenza individuale e collettiva (valori, motivazioni, percezione del
sé, dell’altro).
I mutamenti che intervengono nelle forze di produzione per effetto dell’attività umana e dello sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle loro
applicazioni tecniche determinano costantemente situazioni di difformità
18
Capitolo Primo
tra la realtà delle condizioni materiali ed economiche e le forme costituite
dei rapporti di produzione. Il mutamento sociale viene quindi inteso come
l’effetto dell’emergere delle contraddizioni oggettivamente createsi tra livello strutturale e livello sovrastrutturale.
Indipendentemente dai problemi che solleva il rapporto mai perfettamente chiarito tra struttura e sovrastruttura, Marx ha avuto il grande merito
di sottolineare l’impatto dei diversi elementi strutturali sui processi di trasformazione e sulle caratteristiche assunte dai diversi sistemi sociali, in particolare sui rapporti che intercorrono tra realtà economica e potere politico. Nella prospettiva marxiana, gli autentici protagonisti dei processi storici
di trasformazione sociale non sono gli individui singoli o i gruppi, ma le
classi sociali (borghesia capitalistica e proletariato). Marx intende il concetto di «classe» come l’insieme degli individui che, all’interno del sistema
strutturato dei rapporti di produzione, si trovano oggettivamente nella stessa posizione.
I membri di una classe e le relazioni tra di essi presentano un’omogeneità fondata sulle oggettive possibilità di accesso alle risorse economiche e
sociali (quantità di reddito percepito, proprietà o meno dei mezzi di produzione, tipo di lavoro). Su questa stessa base di costituiscono anche le forme
culturali o sub-culturali proprie della classe, che definiscono lo stile di comportamento di un individuo e i suoi contenuti di coscienza. L’appartenenza
di classe è quindi determinata:
— dalla nascita e dal processo di socializzazione dei primi anni di vita
(diversità dei modelli di comportamento assimilati, del tipo di istruzione ecc.);
— dalle scelte, più o meno obbligate, che un individuo effettua riguardo
alla sua attività lavorativa.
In quanto fondata su condizioni oggettive, la classe è una realtà che
sussiste indipendentemente dalla coscienza che gli individui possono avere
di appartenerle: dal punto di vista dell’osservatore esterno, essa è una classe
in sé. Quando gli individui che appartengono ad una stessa classe diventano
coscienti della loro comune appartenenza e percepiscono l’identità dei loro
interessi, allora si può parlare di classe per sé. Solo quando si sviluppa la
coscienza di classe, la classe può diventare un soggetto politico promotore
di cambiamenti anche rivoluzionari dell’ordine sociale. In Marx, la lotta di
classe viene percepita nei termini dell’antagonismo tra coloro che possie-
Il percorso storico
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dono la proprietà dei mezzi di produzione, i capitalisti, e coloro che non
hanno altro che il loro lavoro, i proletari. Si manifesta qui la presenza di due
anime nella concezione di Marx:
— da un lato il materialismo dialettico, fondato sull’assoluto determinismo della struttura materiale, in base al quale l’evolversi dei processi
storici è concepito come una fatalità indipendente dalla volontà degli
individui;
— dall’altro il materialismo storico, che, senza negare il primato della
struttura, attribuisce alla classe per sé il ruolo di soggetto attivo nel cambiamento dell’ordine sociale.
A partire dal determinismo della struttura economica sulla sovrastruttura
culturale e politica, Marx sviluppa la sua critica delle ideologie. Il termine
ideologia era stato usato, verso la fine del Settecento, per designare l’insieme
delle analisi riguardanti l’origine delle idee, la grammatica, la logica. In quello stesso periodo vengono chiamati idéologues quei filosofi che criticavano le
teorie metafisiche dei philosophes, accusandole di essere astratte e fantasiose,
in quanto non fondate sull’osservazione empirica e sul calcolo matematico.
Un significato critico diverso assume invece in Marx: egli lo usa per indicare
quelle rappresentazioni e razionalizzazioni illusorie della realtà (religione,
filosofia, teorie politiche, morali, economiche) volte ad occultare le contraddizioni di quest’ultima e a legittimare il potere costituito. Dietro ogni forma
ideologica dominante è possibile, secondo Marx, cogliere l’interesse delle
classi dominanti, ed è solo analizzandolo che si rivela la vera natura delle
rappresentazioni e delle spiegazioni della realtà naturale e socio-politica.
Al pensiero ideologico, Marx contrappone il sapere scientifico, ovvero
la sua stessa teoria, in quanto fondata sull’analisi empirica oggettiva. Il concetto positivistico di scienza impedisce a Marx di riconoscere che anche la
sua stessa decisione di attribuire ai fattori materiali un ruolo determinante
nei fenomeni storico-sociali deriva da presupposti legati a scelte di valore
di natura ideologica. La critica delle ideologie inaugurata da Marx resta
tuttavia un momento essenziale per lo studio delle relazioni che intercorrono tra prassi sociale (i bisogni e gli interessi degli individui e delle classi) e
forme (ideologiche) del sapere e costituisce un contributo decisivo per il
successivo sviluppo della sociologia della conoscenza.
Un ulteriore concetto decisivo messo in luce da Marx (e che avrà larga
eco nella filosofia e nella psicologia del Novecento) è quello di alienazio-
Estratto della pubblicazione
20
Capitolo Primo
ne, utilizzato con una forte carica negativa: la situazione di alienazione in
cui l’uomo si trova è il risultato dell’economia capitalista, fondata sulla
sostituzione del valore d’uso, legato ai bisogni effettivi dell’individuo, con
il valore di scambio, che sottrae il carattere immediato del rapporto dell’individuo al suo oggetto, estraniando quest’ultimo in quanto puro mezzo di
scambio o merce. La produzione, di conseguenza, finisce per imporsi sull’uomo stesso. Per superare l’alienazione, occorre perciò eliminare la proprietà privata e la stessa economia di scambio, restituire al lavoratore il
controllo diretto dei mezzi di produzione, ristabilire un rapporto corretto tra
attività produttiva e bisogni umani effettivi.
L’influenza di Marx è dunque presente, sin dalla fine dell’Ottocento, nel
pensiero sociologico; nel corso del Novecento la teoria marxiana, attraverso i suoi numerosi interpreti, costituirà la base delle diverse teorie sociologiche che, opponendosi al funzionalismo, hanno messo al centro dell’attenzione il problema dei conflitti sociali. Per comprendere il tipo di influenza
esercitato dalla teoria dialettica nella sociologia contemporanea, occorre
tuttavia tener presenti la due diverse anime del marxismo:
— da un lato le teorie marxiste «ortodosse» di tipo naturalistico e deterministico;
— dall’altro le diverse forme del marxismo di tipo storicista, «revisionista» e critico.
Sono state soprattutto queste ultime a sollecitare la riflessione sociologica, mentre il marxismo ortodosso è rimasto, per la sua natura dogmatica
connessa a precisi interessi politici, essenzialmente estraneo allo spirito
dell’analisi empirica e critica dei fenomeni sociali.
B) Lo storicismo tedesco e la distinzione tra scienze della natura e scienze
storico-sociali
Con il termine «storicismo» si intende un insieme di concezioni filosofiche e sociologiche che si sviluppano verso la fine dell’Ottocento e che
derivano, pur nella diversità delle scuole, dallo svanimento dell’illusione
— prima illuministica e poi romantica — di un necessario e costante progresso dell’umanità. Tra il 1870 ed il 1900, infatti, con un processo molto
lento, si frantumano in tutta Europa i presupposti stessi della società liberale ottocentesca e gli ideali che essa sosteneva. La borghesia europea della
seconda metà del XIX secolo, come noto, si era caratterizzata per un forte
Estratto della pubblicazione
Il percorso storico
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sostegno al progresso tecnologico e questo diffuso ottimismo era fondato
sullo sviluppo economico e sul miglioramento delle scienze, tanto che, come
abbiamo visto, proprio sul progresso scientifico si era formato il Positivismo. Tuttavia, dalla fine del secolo, il Positivismo entra in crisi, poiché la
crisi sociale, che incomincia ad investire i Paesi a sistema capitalistico, non
tarda a spegnere l’ottimismo di quanti avevano ipotizzato che tale progresso avrebbe garantito anche quello civile ed umano.
In questo contesto si colloca l’opera del filosofo tedesco Wilhelm Dilthey (1833-1911), in opposizione tanto al positivismo quanto all’idealismo hegeliano. Nella loro apparente divergenza, queste due concezioni
celano infatti secondo Dilthey una identità di fondo: sono i poli di una visione della vita umana che tende a chiudere la storia in un unico schema
esplicativo e a trascurare invece che la vita degli uomini si manifesta in
modi diversi e irriducibili a formule prestabilite. Nella loro diversità, idealismo e positivismo intendono la storia come necessario progresso. Occorre invece, secondo Dilthey, considerare l’uomo nelle sue concrete situazioni storiche, al di fuori di qualsiasi presupposto metafisico. Concezioni
metafisiche sono considerate quelle idealistiche e positivistiche che presuppongono l’esistenza di fasi di sviluppo della storia umana valide universalmente. L’esistenza umana, al contrario, nei suoi tratti più specificamente
storici, si configura per Dilthey secondo modalità che dimostrano l’inesauribilità e l’infinità dello spirito. Mentre le filosofie deterministiche della
storia pretendono di risalire dalla conoscenza del particolare al generale,
l’analisi della realtà storico-sociale si limiterà necessariamente, per Dilthey,
a coglierne solo aspetti particolari. In questo senso, non è possibile giungere ad una concettualizzazione del «senso della storia»: non seguendo, nel
loro divenire, una linea prestabilita, gli eventi del mondo umano non possono essere determinati a priori. Esistono unità sociali e configurazioni culturali create dall’uomo nell’ambito delle quali i singoli individui si integrano
e dalle quali essi sono condizionati, ma non esiste una legge che regoli trascendentalmente la logica dello sviluppo interno di tali unità e configurazioni e i loro rapporti.
D) L’oggetto delle scienze umane
L’integrazione tra individui avviene secondo Dilthey attorno ad alcuni
modi specifici di intuire e concepire il mondo. La realtà storico-sociale
può essere conosciuta solo attraverso un «comprendere» (Verstehen) le
Estratto della pubblicazione
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Capitolo Primo
espressioni dei significati «vissuti» (Erlebnisse) in un’esperienza (Erfahrung) degli scopi e dei valori dell’azione che è tale proprio in quanto
mossa da valori (tipici di una determinata epoca) e tende al raggiungimento
di scopi. Dilthey introduce qui una celebre distinzione tra «scienze dello
spirito» e «scienze della natura»:
— le scienze della natura si rivolgono esclusivamente ai «fatti» che si
presentano alla conoscenza dall’esterno, cioè ai fenomeni singolarmente dati. Le «connessioni» tra fenomeni presenti in natura svelate da questo tipo di scienze derivano esclusivamente da ipotesi che integrano i
fatti stessi: le scienze naturali studiano una realtà esteriore all’uomo
che tale rimane anche nel momento in cui viene indagata conoscitivamente;
— le scienze dello spirito, invece, si occupano dei fatti intesi come espressione interna della realtà, come «connessione vivente»: a loro fondamento, c’è sempre la dimensione originaria della vita psichica.
Dal punto di vista delle scienze dello spirito, dunque, l’uomo intende
dall’interno i significati specifici della realtà storico-sociale immedesimandosi con essa e attraverso un’intima partecipazione a essa. Da questa distinzione consegue che lo studio della natura non può coincidere con quello
del mondo dello spirito. Dilthey pone pertanto l’accento sull’aspetto più
intimo e psicologico della realtà umana e sociale. L’esito conclusivo delle
tesi di Dilthey, decisivo per lo sviluppo delle discipline sociologiche, è che
non si può comprendere l’individuo prescindendo dal contesto storicosociale nel quale è inserito e che non si può anteporre astrattamente l’individuo isolato alla storia se non attraverso una finzione teorica.
E) Scienze nomotetiche e scienze ideografiche
L’idea di Dilthey della suddivisione tra scienze dello spirito e scienze
della natura viene contestata da Wilhelm Windelband (1848-1915): in numerose opere metodologiche, questi sostiene che tanto il mondo umano
quanto quello naturale possono essere studiati sia dal punto di vista dei ripetersi dei fenomeni al fine dell’individuazione delle leggi generali (lo fa
la psicologia in riferimento al mondo umano) sia dal punto di vista dell’unicità e dell’irripetibilità dei singoli eventi (compito della storiografia). Si contrappongono così scienze nomotetiche, che studiano le leggi
generali, e le scienze idiografiche, che studiano il particolare o l’unico. Il
Estratto della pubblicazione
Il percorso storico
23
problema che si pone a questo livello di distinzione diventa dunque quello
di come scegliere, tra una moltitudine di casi particolari, quale fra questi
risulti essere sociologicamente significativo. L’ipotesi è che occorra sempre
far riferimento ad una scala di valori e che questi valori debbano essere
riconosciuti come universali e vincolanti per tutti. Si tratta di valori universali che costituiscono i principi in base ai quali costruire ogni conoscenza
umana, compresa quella delle scienze storico-sociali.
4. I CLASSICI DEL PENSIERO SOCIOLOGICO: WEBER E DURKHEIM
A) Max Weber: metodo sociologico e genesi della modernità
L’opera di Max Weber (1864-1920) è costituita essenzialmente da un’indagine «scientifica» intorno alle scienze storico-sociali, mirante a definire
un loro autonomo metodo di ricerca e di elaborazione concettuale. Nei suoi
primi saggi metodologici importanti, e soprattutto ne L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (un testo del 1904) e Studi
critici intorno alla logica delle scienze della cultura (del 1906), Weber indica due fondamentali condizioni per la costituzione scientifica delle scienze sociali: la prima consiste nella netta esclusione dei giudizi di valore
dall’ambito delle scienze sociologiche, come da qualsiasi altro campo del
sapere. Weber distingue, infatti, tra relazione del valore (che costituisce il
«criterio» attraverso il quale il ricercatore individua l’oggetto della sua indagine) e giudizio di valore (che è invece una presa di posizione valutativa,
ossia riguarda il consenso o il dissenso di fronte a determinati valori, ma
anche l’indicazione dei comportamenti leciti e illeciti, le opzioni etiche, le
posizioni politiche e così via). La ricerca sociale deve limitarsi ad accertare
soltanto quel che è: qualsiasi indicazione o presa di posizione su ciò che
deve essere va espunta. Esprimersi, elaborare tesi e fornire valutazioni sulla
validità o sensatezza in sé dei valori è infatti per Weber «una questione di
fede, forse un compito della condizione speculativa; sicuramente non l’oggetto di una scienza empirica»; la seconda condizione consiste nel ricorso
alla spiegazione causale. Il sociologo deve partire dalla presupposizione
che non sia mai possibile fornire una spiegazione completamente esaustiva
di un evento sociale.
Ciò può avvenire attraverso un processo di indagine con cui si mettano
in relazione gli eventi o i processi storici reali con processi storici possibili
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Capitolo Primo
costruiti concettualmente. Chiave di questo metodo di ricerca «avalutativa» è la teoria del «tipo ideale» (Idealtypus). Si tratta di un metodo che non
costituisce ovviamente una rappresentazione definitiva della realtà sociale
o di aspetti di essa: determina piuttosto il punto di partenza per l’elaborazione di ipotesi. Si tratta in altri termini di una costruzione concettuale che
si ottiene mediante l’accentuazione unilaterale di «una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti» e mediante l’astrazione di elementi comuni
(esempi: lo «Stato», il «feudalesimo», la «Chiesa» e così via). Il contenuto
del concetto tipico-ideale è definito dalla categoria di «possibilità oggettiva», la quale indica il quadro dei possibili modi d’essere di un determinato
fatto o fenomeno corrispondente ad un suo particolare significato culturale.
Per Weber gli oggetti della cultura, i vari aspetti della storia e della società,
non hanno alcun senso intrinseco ma sono solo costruzioni di «connessioni
oggettive» (concetti tipico-ideali), che si succedono incessantemente nel
tempo.
B) Le analisi del capitalismo: l’importanza della «sovrastruttura»
Un’eccellente esemplificazione del metodo weberiano è costituita da
uno dei suoi studi più celebri e più discussi: L’etica protestante e lo spirito
del capitalismo (1905). Si tratta di un testo consacrato a delineare — in
maniera assolutamente divergente rispetto a quella elaborata, ad esempio,
da Marx — la genesi dell’epoca capitalistica e i fenomeni che la determinarono. La problematica della natura e dell’origine del capitalismo era peraltro un tema largamente dibattuto nella cultura tedesca tra gli ultimi anni
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, proprio a partire da Marx. Friedrich Engels (storico amico, collaboratore e curatore delle opere di Marx) aveva in effetti da poco pubblicato il secondo e il terzo libro del Capitale: le
teorie marxiste, centrate sul concetto di struttura economica (risorse materiali, mezzi di produzione e mezzi di distribuzione) come fondamento della
società e su quello di lotta di classe come «motore» della storia, cominciavano ad essere accettate o quantomeno discusse da economisti e storici. Il
problema di Weber è quello di spiegare «il particolare carattere del capitalismo occidentale e, in seno a questo, di quello moderno, e le sue origini».
La tesi di fondo di Weber è che ci sia uno stretto nesso tra l’enorme sviluppo economico e capitalistico di certe aree dell’Europa moderna e dell’America del Nord e il contestuale affermarsi del Protestantesimo luterano e delle varie confessioni riformate (Calvinismo, Anglicanesimo, sette
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