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L’ANNO PRIMA DELLA GUERRA
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PRESENTAZIONE
Nel 1914 l’Italia ha poco più di 36 milioni di abitanti. Quasi tre in più
rispetto al censimento del 1901. Sarebbero molti di più se a milioni non
fossero emigrati verso l’America del nord e l’Argentina, la nuova terra
promessa. Nel 1913, l’anno del maggiore deflusso, sono partiti in 872.000.
Record storico, che non verrà più eguagliato. È come se una Napoli e mezza
fosse partita di colpo. Napoli, con 668mila abitanti, è ancora la maggiore città dell’inquieto
regno d’Italia. Seguono Milano con quasi 600.000 abitanti e poi la capitale
Roma con 522.000 persone, in forte crescita rispetto al secolo precedente.
Roma attira per le possibilità d’impiego nella burocrazia ministeriale.
I primi anni del secolo sono stati di sviluppo. Con fatica e parecchi aiuti
statali, sono cresciute l’industria e l’agricoltura, sono state fatte alcune
importanti riforme (le pensioni obbligatorie e il suffragio universale maschile),
lo stato si è astenuto dall’intervenire a favore dei padroni nei conflitti sindacali,
portando così a miglioramenti della condizione operaia.
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Il reddito medio annuale è di 532 lire (oggi 2.015 euro) ma le differenze
sono enormi. Un operaio può guadagnare in media 2,84 lire al giorno (poco
meno di 11 euro), un inserviente può arrivare a 1.450 lire l’anno, un
impiegato a 2.350 lire e un direttore generale raggiungere le 10.000 lire, che
oggi sarebbero 37.884 euro.
Gli italiani continuano ad essere in ritardo sugli altri paesi europei, anche
se qualcosa si è mosso. Al censimento del 1911 si registrano meno analfabeti
(37,9% contro il 48,7% di dieci anni prima), pur con divari spaventosi: 11% in
Piemonte e 69,6% in Calabria. Anche alla leva i ragazzi hanno guadagnato
qualcosa in altezza. Gli italiani sono arrivati a 166,19 cm, due centimetri di
più in trent’anni.
A governare i cambiamenti politici e sociali ci sono il re Vittorio Emanuele
III, che liberale non è, ma neppure ha molta voglia di immischiarsi troppo
nella politica romana. A lui interessa solo la politica estera, dove però deve
ingoiare parecchi rospi, molti dal vulcanico Kaiser Guglielmo II e altrettanti
dal senescente ma non troppo imperatore austro-ungarico Francesco
Giuseppe.
Il re lascia fare a Giovanni Giolitti, che sa che per realizzare un minimo di
riforme in Italia che allontani lo spettro socialista occorre una solida
maggioranza e qualche ricatto piazzato al momento giusto. Il “mestatore di
Dronero”, come lo chiamerà D’Annunzio, durerà per quasi 14 anni. Giolitti
cerca di allargare le basi dello stato verso i cattolici (il Patto Gentiloni è del
1913 e segna l’ingresso dei cattolici in politica dopo l’Unità) e verso sinistra,
dove i socialisti fino al 1912 sono disposti ad accettare il riformismo giolittiano
anche se non avranno mai il coraggio di entrare nel governo. L’apice della
politica giolittiana è il 1912 poi il PSI viene conquistato dagli estremisti
rivoluzionari e direttore dell’Avanti diventa un feroce romagnolo con una
penna velenosa.
La guerra libica del 1911-12 è stata un successo ma i costi sono stati
notevoli. Soldi che si sarebbe potuto investire altrove. L’Italia è un pelo più
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considerata a livello europeo. Non che i nostri alleati da trent’anni, Germania
e Austria, ci apprezzino. Quasi mai ci raccontano in anticipo cosa hanno in
mente di fare. L’Austria si prende la Bosnia nel 1908. A norma del trattato
della Triplice Alleanza, all’Italia sarebbero dovute scuse e compensazioni
territoriali. Cerchiamo comunque di tenerci buoni i francesi che non hanno
proprio digerito la nostra avventura africana e rinnoviamo senza entusiasmo
l’alleanza con gli imperi centrali nel 1912.
Calcio e ciclismo attraggono masse crescenti di persone. È ancora un’epoca
pionieristica in cui emergono i primi grandi campioni. Domina il Pro Vercelli
fatto solo da italiani. La nazionale di calcio gioca la sua prima partita nel 1910
e per il momento si accontenta di partite con i vicini, Francia, Svizzera e
Austria. Girardengo esordisce professionista nel 1913. Nel 1914 si corre il
sesto Giro d’Italia.
Il cinema si diffonde ovunque. Non c’è comune senza almeno una sala.
Non solo spettatori: l’Italia produce un numero enorme di film. Nel 1913 sono
ben 643, superiori in numero agli Stati Uniti e secondi solo alla Francia.
Torino, Roma e Milano sono le capitali italiane della nuova arte. I film
tricolori sono esportati in tutto il mondo e riscuotono un grande
successo. Melodrammi e romanzoni storici, basati sul culto della romanità.
Anche così si crea un linguaggio comune e un’immagine dell’Italia
all’estero. Nascono dive come Francesca Bertini, Lyda Borelli e Pina
Menichelli. Al di là del cinema e della musica lirica, non c’è molto. L’Italia è
alla periferia delle avanguardie artistiche, figurative e letterarie europee, con
l’eccezione dei futuristi, che pure sono partiti nel 1909 da Parigi con un
manifesto pubblicato in francese. E quindi Boccioni, Balla, Morandi.
Modigliani, anche se resta per lo più a Parigi.
La nostra letteratura sembra poca cosa rispetto ai grossi nomi che
circolano in Europa. Siamo ancora avvolti nella bambagia della retorica
ottocentesca, ora ulteriormente ammantata da squilli di tromboni nazionalisti.
D’Annunzio è il nostro artista più noto. Pochi capiscono i suoi deliqui
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immaginifici. Dà scandalo, vive di debiti e quando non può più sottrarsi,
scappa in Francia. Ma non c’è solo il Vate. Abbiamo dei bei nomi, noti a
livello internazionale, come Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Guido
Gozzano. Fervono anche attività culturali di rottura, come la rivista La Voce
di Prezzolini e Lacerba di Soffici e Papini.
All’inizio del 1914 la situazione generale è tutto sommato promettente.
Dopo le elezioni dell’ottobre 1913, in parlamento c’è una solida maggioranza
liberale sotto il controllo di Giolitti. I socialisti rivoluzionari sono tenuti a
bada. L’economia cresce lentamente ma cresce. Ci sono tutti i presupposti per
un altro decennio di lento ma costante progresso. Ma i giovani, i socialisti, i
nazionalisti, non possono aspettare: chi vuole la rivoluzione, chi vuole la
guerra per ingrandire la patria, chi vuole la guerra per distruggere il passato e
rinvigorire con il sangue il paese. I cattolici entrati in politica sono
conservatori che diffidano dell’ordine liberale mentre i grandi industriali legati
allo stato, di fronte all’avanzata socialista, preparano una controffensiva. Una
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cosa è certa: di Giolitti sono stufi tutti.
La grave crisi economica nel 1913 sembra in via di superamento, grazie
all’azione governativa, aall’emigrazione e alla ripresa dell’agricoltura, ma i
limiti strutturali dell’economia italiana sono tutti lì: una debole industria
protetta dallo stato, un’agricoltura arretrata e latifondista nel sud, la
dipendenza tecnologica dall’estero, una finanza debole e condizionata dai
tedeschi.
Nel frattempo la situazione internazionale è sempre tesa. La polveriera
d’Europa sono i Balcani. I due grandi blocchi che si dividono l’Europa e il
mondo si armano. Nessuno però crede alla guerra. I monarchi europei sono
tutti imparentati tra di loro. Le economie sono integrate in un sistema globale
di grande libertà commerciale e finanziaria. E i partiti socialisti, almeno a
parole, sono ferocemente opposti all’idea di una qualsiasi guerra europea in
nome della solidarietà proletaria. C’è anche chi pensa che una guerra
moderna non potrebbe durare a lungo.
Questo è lo scenario in cui si apre l’ultimo anno di pace in Italia. Il 1915 è
il nodo della nostra storia. L’Italia aveva davanti la possibilità di proseguire nel
cammino intrapreso da Giolitti di una graduale crescita economica, politica e
sociale e di allargamento delle basi della gracile democrazia, oppure di una
controriforma conservatrice. La guerra sconvolgerà qualsiasi progetto,
mostrando la fragilità strutturale dello stato liberale di cui approfitterà il
fascismo. Mostrerà il conformismo delle classi dirigenti, l’idealismo nutrito a
retorica ottocentesca, e il disprezzo delle élite per le clasis popolari, su cui
verranno addossati i sacrifici della guerra.
Tutti i personaggi dei successivi drammi sono già in scena o stanno
preparandosi ad entrare: Vittorio Emanuele. Mussolini. D’Annunzio.
Badoglio. De Gasperi. Gramsci. Nell’anno prima della guerra entreranno in
campo gli slogan, i demagoghi populisti e nazionalisti, appariranno per la
prima volta le squadracce intimidatrici, i balconi, i deliri romani. D’Annunzio
sarà una fucina di invenzioni di cui si servirà ampiamente Mussolini nel
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dopoguerra.
La guerra bloccherà il cammino dell’Italia che subirà così trent’anni di
crisi, autoritarismo, follia collettiva, fino al quasi annichilimento durante la
seconda guerra mondiale.
La crisi inizia nel 1914.
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APRILE 1914
Ecco la scena.
Un parlamento informe e tumultuoso, dove si discute tanto e si conclude
poco, fatto di notabili meridionali e di deputati settentrionali a libro paga delle
grandi imprese che vivono di commesse pubbliche. All’opposizione un
movimento rivoluzionario che rifiuta ogni collaborazione. Un paese che ha
bisogno di riforme, povero, diviso, analfabeta, che emigra in massa. Sembra
l’Italia di oggi, ma è l’Italia nell'aprile 1914, alla fine dell’epoca giolittiana.
Breve riassunto della situazione. Nell’ottobre 1913 ci sono state le elezioni
politiche, la prima volta con il suffragio universale maschile. Ha stravinto
Giolitti, portandosi a casa una solida maggioranza liberale. Ma ha vinto
davvero? Nella sua informe coalizione ci sono cattolici conservatori, liberali di
varie sfumature, e radicali, laici e vagamente di sinistra. E infatti a marzo lo
statista piemontese cade. Invece di ricostruire la sua maggioranza facendo le
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opportune concessioni, decide che è tempo di prendersi un periodo di
vacanza, in attesa di riprendere il potere. Qualche mese in Piemonte e poi di
nuovo a Roma a reclamare la poltrona più alta. Lo ha fatto anche in passato.
Stavolta Giolitti ha qualche ragione in più per scaricare la patata bollente
di governare gli italiani ad un altro. Le finanze sono in crisi a causa delle spese
militari per l’avventura libica che ha sì innalzato il prestigio dell’Italia, ma del
prestigio non si nutrono né i bilanci né le pance vuote degli italiani. Che
infatti nel 1913 sono emigrati in 872.000, il record storico, mai più superato.
Siciliani, calabresi e veneti se ne vanno. Hanno votato con i piedi. Via dalla
disoccupazione, dalla fame, dai padroni esosi ed incapaci, dalla mafia, che
esiste ed uccide. Nessuno è andato in Libia, l’inutile scatolone di sabbia in cui
cresce solo la voglia di ribellarsi degli arabi.
Così, dopo Giolitti, tocca ad Antonio Salandra, sessant’anni, pugliese,
conservatore. Il 23 marzo viene nominato dal re. Il 5 aprile Montecitorio gli
vota la fiducia con 302 voti contro 122. Del governo fanno parte soprattutto
uomini di destra, nessuno che si può definire giolittiano. Agli esteri resta San
Giuliano. L’interno lo detiene tradizionalmente il presidente del consiglio. Al
tesoro c’è Giulio Rubini. Alle finanze Luigi Rava, che eredita la necessità di
aumentare le tasse per far fronte al disavanzo statale.
Salandra è un conservatore meridionale che non ha alcuna intenzione di
reggere il cappello in attesa del ritorno del grande manipolatore Giolitti. I
conservatori vedono in lui l’uomo che potrebbe rimettere in riga i socialisti e
tranquillizzare i buoni cittadini benpensanti. I socialisti, infatti, fanno molto
chiasso, danno fastidio con i proclami, gli scioperi, le agitazioni. Vogliono la
rivoluzione ma non sanno come farla. Il paese è attraversato da mille tensioni,
nessuna delle quali è in grado di degenerare in una vera crisi del sistema ma si
sa, il buon borghese non ha paura della rivoluzione, è scocciato che i treni non
funzionino. Ha bisogno di ordine e regolarità per i suoi pasti e la sua posta.
Gli scioperi. In aprile ci si mettono tutti gli impiegati pubblici: postini,
operai dei tabacchi, impiegati dei ministeri. I più accesi sono i ferrovieri. Le
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trattative per evitare lo sciopero generale vanno avanti per l’intero mese di
aprile. Il governo è disposto a qualche concessione. I sindacalisti accettano,
poi ritrattano, infine si dividono tra intransigenti e riformisti. Alla fine i
lavoratori escono sconfitti. Il 20 aprile i sindacati rinunciano allo sciopero.
Salandra ha vinto, dando minime concessioni e mostrando anche qualche
muscoletto. Si prenda nota che il tempo della tolleranza giolittiana è finito.
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Anche l’immobile penisola cambia.
Il primo aprile si inaugura la linea telefonica diretta tra Roma e Berlino.
Immaginiamo il profluvio di parole sull’amicizia inossidabile tra Italia e
Germania. Ma quella era un’epoca in cui ci si parlava civilmente, pur
preparandosi a darsele di santa ragione. Come infatti accadde.
A metà aprile escono a Torino, a poca distanza l’uno dall'altro, due film
che segnano la stagione e che rappresentano le due anime della
cinematografia nazionale.
Il 14 aprile esce “La donna nuda” di Carmine Gallone. Già il titolo doveva
richiamare le folle. Che vengono ripagati dalla prestazione di Lyda Borelli, la
prima grande diva del cinema italiano. L’anno prima aveva esordito con il
melodrammone “Ma l’amor mio non muore!”, uno straordinario successo. La
Borelli è sensualità allo stato puro. Un corpo che ammalia. Come scrisse un
giovane socialista qualche tempo dopo, Antonio Gramsci, scrisse “In principio
era il verbo… No, in principio era il sesso.”
Sappiamo come a va a finire con i bacchettoni di ogni epoca. Il pubblico se
ne frega allegramente e a frotte ingroppa le file davanti ai botteghini. Del
resto, come biasimarli?
Gli anni prima della grande guerra sono l’apice del cinema italiano.
Decine di case cinematografiche soddisfano la fame insaziabile di storie del
pubblico. Nel 1913 l’industria nazionale ha prodotto 643 film, moltissimi sono
esportati per il mondo, fino agli Stati Uniti dove sono molto apprezzati. Si
ragiona in grande: drammoni storici, molta romanità, patriottismo. Si usa il
cinema anche per educare le masse. Il popolo apprezza. Si diverte. Magari
impara qualcosa. Per la prima volta le masse che popolano l’Italia hanno la
possibilità di vedere qualcosa di diverso dal loro microcosmo di miseria. I
registi danno un volto a Marcantonio e Giulio Cesare. La forza delle
immagini cambia i sentimenti e le menti. Sul grande schermo compaiono
scene di storie fantastiche, di case annegate nel lusso, di mondi lontanissimi.
Gli italiani possono emozionarsi davanti alle stesse scene, quasi nello stesso
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momento.
Il 18 aprile esce a Torino e a Milano “Cabiria”, un peplum senza eguali
ambientato durante le guerre puniche. Lo firma Giovanni Pastrone, che aveva
già all’attivo il primo kolossal storico, “La caduta di Troia”. Il pubblico rimane
incantato. Non si risparmiano i mezzi. Se un film si faceva allora con 50.000
lire, Cabiria ne costa un milione (3,7 milioni di euro oggi). Ogni cosa è curata:
trucchi, costumi, scenografie. È una follia di immaginazione in 12 colori,
muto ma con la musica. Patrone utilizza il carrello alla grande, andando oltre
le inquadrature fisse del primo cinema. Anche la durata è colossale, oltre tre
ore di spettacolo. Cabiria farà il giro del mondo. A New York verrà proiettato
per un anno intero.
Con Cabiria nasce il personaggio di Maciste, eroe del III secolo avanti
Cristo, interpreato da Bartolomeo Pagano, personaggio mitologico di grande
forza e bontà che darà vita ad una lunga serie di peplum fino agli anni
sessanta, ambientati nelle terre più strane.
Il successo di Cabiria avviene anche grazie ad una geniale trovata
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pubblicitaria. La film (all’epoca film era di genere femminile) viene spacciata
come opera di Gabriele D’Annunzio, che allora era la nostra maggiore gloria
nazionale. In realtà il poeta abruzzese scrisse semplicemente le didascalie.
Come sempre, enfatiche ed incomprensibili. E lui si prese 50.000 lire buone
per calmare i creditori.
A proposito di D’Annunzio, da qualche anno vive a Parigi dove continua a
finanziare il suo stile di vita esagerato con altri debiti. Ha un appartamento al
quarto piano di una zona centrale di Parigi, con vista sugli Champs-Elysée. A
fine aprile sparisce dalla circolazione. Cosa succede all’instancabile poeta?
Circolano voci che è ammalato ma non si sa di cosa. Solo un’indisposizione?
Ha preso freddo? È qualcosa di più serio? Pochi giorni dopo arriva un suo
messaggio. Ha avuto l’influenza.
Beh, c’è poco da ridere. A quell’epoca si poteva morire.
Ma non si tratta d’influenza come vedremo più avanti.
Tirana, bel suol d’amor.
D’Annunzio era già il cantore del becero nazionalismo dell’Italietta che
voleva fare il gioco delle grandi potenze ma che, come il re, è corta di ingegno
e di statura. L’Italia segue la moda europea di inizio secolo: vuole espandersi.
Giolitti ha sempre consigliato prudenza. Si è imbarcato nell’avventura libica
perché era praticamente impossibile sottrarvicisi ma con grande riluttanza,
sapendo che la guerra avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe
risolto. La guerra libica ha infatti acceso i nazionalisti di ogni risma che ora si
aspettano altre iniziative.
Nell’Adriatico la giovane Albania sembra la preda ideale. Un paese debole,
arretrato e poverissimo, appena uscita dal giogo ottomano con sommo stupore
delle sue popolazioni.
A marzo le potenze europee hanno creato un trono albanese e ci hanno
messo un principe tedesco, certo Guglielmo di Wied. Intorno al paese delle
aquile cospirano Grecia, Serbia, Montenegro e Austria, che è il nostro alleato
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ma in realtà ci tiene in poca considerazione. Già nel 1913 si è rischiata la
guerra tra Austria e Serbia. In entrambi i casi Giolitti e il ministro degli esteri
San Giuliano avevano avvertito l’Austria di non contare sull’aiuto dell’Italia.
Questo fu sufficiente per calmare i bellicosi spiriti della duplice monarchia.
Vienna non ci riserverà la stessa cortesia di avvertirci in futuro.
A metà aprile, per risolvere varie questioni e parlare di Albania, i due
ministri degli esteri di Italia e Austria, Di San Giuliano e il conte Berchtold si
incontrano ad Abbazia, un piacevole resort sulla costa croata, vicino a Pola,
già molto rinomato. All’epoca i vertici erano cose serie. Mica ci si vedeva tutti
i giorni. I due ministri parlano per quattro giorni e alla fine si mettono
d’accordo. Non si capisce bene su cosa. Probabilmente a non pestarsi troppo i
piedi nell’Adriatico, a rimettere in riga le piccole potenze balcaniche, a tenere
in piedi l’Albania. Il ragionamento e semplice: se i Balcani sono calmi, lo sono
anche i russi. Se Pietroburgo è tranquilla, Berlino è di ottimo umore.
Certo, non si capisce bene come fanno Italia ed Austria a stare nella stessa
alleanza da quasi trent’anni. La Triplice Alleanza è stata appena rinnovata tra
scarsi entusiasmi. Negli ultimi anni, però, siamo diventati anche amici con la
Triplice Intesa. Abbiamo ottimi rapporti con l’Inghilterra, siamo rivali con la
Francia nel Mediterraneo con cui però è in corso da un po’ di tempo la
distensione. A dimostrazione che se sei piccolo e di costituzione fragile è
meglio non avere troppi nemici.
Una terra di santi, poeti e adesso anche aviatori.
A dieci anni dal primo volo dei fratelli Wright, anche nella penisola si
svolazza di qua e di là. Oltre agli aerei, che sono degli accrocchi fragili, si
continuano gli esperimenti con i dirigibili. Che però sono pericolosi a causa
dell’idrogeno. Il 9 aprile il dirigibile Città di Milano è costretto ad un
atterraggio di emergenza a Cantù. A causa del forte vento e degli alberi che
ne lacerano la superficie, il dirigibile viene messo a terra. Si procede a
svuotare l’involucro tra una folla di curiosi. Quando si è quasi alla fine
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dell'operazione qualcuno si accende una sigaretta. Potete immaginare il resto.
Cinquanta ustionati. Un morto.
Nel campo artistico, a parte letteratura e l’opera (il cinema non era ancora
considerata arte), l’Italia non produce molto. In Europa l’arte è a Parigi,
Berlino, Vienna. I futuristi sono l’unica avanguardia italiana che valica i
confini, anche se il manifesto del 1909 di Marinetti venne pubblicato su Le
Figaro in francese. In quegli anni mettono a rumore il paese in ogni campo
artistico.
Il 23 aprile si apre l’undicesima edizione della Mostra d’arte di Venezia (la
Biennale), l’ultima prima della guerra. Nelle passate occasioni erano apparse
le prime presenze di rilievo, gente come Klimt e Renoir, ma in generale
l’impressione è quella di uno scarsa attenzione alle correnti più feconde
dell’arte europea. Nel 1910 Marinetti aveva distribuito volantini anti-biennale
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per piazza San Marco. Poco prima un’opera di Picasso era stata rimossa
perché giudicata troppo scandalosamente nuova per il pubblico. Picasso dovrà
aspettare il 1948 per farsi vedere a Venezia. In compenso c'è Merardo Rosso,
esponente dell’impressionismo italiano, e poco altro.
Le donne appaiono solo per opere di beneficienza e come spose
accompagnatrici, qualche volta come vittime di efferati atti di violenza, non di
rado come complici di delitti passionali. Nel 1912-13 Giolitti si è baloccato
per un po’ con l’idea del suffragio femminile ma i tempi non sono per niente
maturi. Manco i socialisti sono concordi. Alcune distaccano. Grazia Deledda
nella letteratura, Matilde Serao nel giornalismo, Sibilla Aleramo nella
passione. Nell’inverno 1913-14 la trentottenne scrittrice e giornalista passa da
un amore all’altro con le principali figure dell’arte italiana. Nella primavera
del 1914 è a Parigi, dove scrive tutti i giorni a Boccioni, con cui ha avuto una
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fugace storia d’amore in settembre. In aprile si rivedono. Sibilla vuole fargli
conoscere D’Annunzio. Boccioni è scettico; giovane, futurista, iconoclasta,
vorrebbe prendersi gioco del dinosauro ma ne rimane affascinato. Il poeta
arriva “elegantissimo, con il suo sorriso di folletto shakespeariano” e li invita
in un posto rinomato. Boccioni mette da parte Sibilla, mezzo per la quale è
arrivato a D’Annunzio. La Aleramo colmerà la mancanza di Boccioni
amando il pittore Michele Cascella e Clemente Rebora, prima di lasciarli
entrambi per un terzo, Giovanni Boine.
Lo sport cambia il paese.
Calcio e ciclismo sono gli sport delle masse. Domenica 5 aprile ci sono due
avvenimenti in Liguria. Si corre la Milano-Sanremo, 298km, sul percorso che
fondamentale è lo stesso ancora oggi. I 72 corridori si ritrovano all’alba a
Milano dopo una giornata di acquazzoni. Per fortuna il tempo nella giornata
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sarà clemente. Alla partenza alle 6.15 ci sono italiani, francesi, belgi e
l’australiano Ivor Munro, capitato chissà come in Italia. C’è anche il
campione d’Italia Costante Girardengo, il favorito della vigilia. La gara dura
dieci ore. Le biciclette sono pesantissime e l’asfalto è ancora un materiale
sconosciuto. Alle 4.30 del pomeriggio sono in due a contendersi la vittoria in
volata: il triplice vincitore del Giro d’Italia Carlo Galetti e il ben più giovane
Ugo Agostoni, che stacca Galetti di mezza macchina, come dicono le
cronache. La folla enorme valica le transenne e va a festeggiare i corridori.
Lo stesso giorno, l’Italia gioca nello stadio del Genoa a Marassi. Lo stadio,
il più antico d’Italia, può ospitare 25.000 persone, il che la dice lunga sulla
popolarità di uno sport che non ha vent’anni di storia. La nazionale italiana in
casacca azzurra gioca la sua diciassettesima partita ufficiale, con la vicina
Svizzera. Alle 10 di mattina il ricevimento in municipio, con tanto di sindaco
e console svizzero. Immaginiamo i discorsi con vari gradi di pompa e di alcool
nei calici di champagne. Alle 15 la partita davanti ad un pubblico foltissimo e
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disciplinato, che applaude italiani e svizzeri ugualmente. Finisce 1-1. Segna
Mattea del Casale al 26’ del primo tempo. Sei minuti dopo pareggia Wyss II.
L’Italia è costantemente in attacco, con verve latina, mentre gli svizzeri
amministrano con freddezza ed ordine.
E per chiudere col calcio, al termine della quarta giornata del girone finale
nazionale, che riunisce le squadri più forti del nord Italia, il Casale è in testa a
punteggio pieno, inseguito da Genoa e Inter con 5 punti. Segue la Juventus
con 4 punti, il Vicenza con 2 e il Verona, ultimo, a 0.
I grillini di un secolo fa.
A fine mese Ancona ospita il congresso del Partito socialista italiano. La
gestione rivoluzionaria di Lazzari, dopo due anni, conferma il successo del
PSI. Sono in crescita sezioni ed iscritti. Nonostante i mugugni, la linea di
fuoco del direttore dell’Avanti! Benito Mussolini ha avuto successo. Mussolini
ha triplicato le vendite e ridotto i debiti. I riformisti sono zittiti. Che non si
parli di trattative con il governo borghese. L’intransigenza resta l’unica politica
del PSI per i prossimi anni. A giugno ci sono le elezioni amministrative da cui
ci si attendono grandi soddisfazioni. Ma cosa vogliono i socialisti? Il PSI è per
la libertà economica, contro la guerra, per il voto alle donne, ma vuole fare la
rivoluzione o no? Vuole migliorare la condizione della classe operaia oppure
chiudere ogni confronto con i padroni? In tutti i trionfali discorsi della
dirigenza, alla fine, la domanda chiave resta la stessa: che fare adesso? L’unica
certezza è che i massoni vadano espulsi. Su questo tema ci sarà un grosso
dibattito. Gli estremisti vogliono l’espulsione, i più moderati propongono una
semplice incompatibilità. Tra quest’ultimi c’è anche un giovane Giacomo
Matteotti. Vincono i radicali e i socialisti massoni vengono espulsi.
Tra i giovani socialisti di Torino compaiono Palmiro Togliatti (nato nel
1893) e Antonio Gramsci (nato nel 1891). Togliatti e Gramsci non sono
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proprio amici, Gramsci ha un carattere difficilissimo ma passano lungo tempo
a camminare e discutere per le vie e i portici di Torino. Togliatti, stimolato da
Gramsci, molto più maturo politicamente, ha fatto una ricerca sulle ragioni
dell’arretratezza della Sardegna e sta ancora elaborando le sue idee. A Torino
si discute delle elezioni supplettive per un seggio vacante alla Camera. Pare
che Togliatti, insieme a Gramsci, Tasca e Pastore, sia tra i giovani socialisti di
Torino che caldeggiano la candidatura di Salvemini e poi di Mussolini.
Difficile però che Gramsci e Togliatti fossero già allora poco più di membri
ordinari.
A fine aprile era ormai chiaro che l’Italia si avvia verso un periodo di
grandi tensioni politiche. Il progetto giolittiano è contestato sia a destra che a
sinistra che al centro. Troppo esiguo il liberalismo laico in Italia. Da destra
vengono i nazionalisti: la guerra in Libia ha infettato l’Italia del virus dello
sciovinismo e della guerra fine a se stessa. Monta l’isteria contro l’Austria. Da
sinistra i socialisti intransigenti rifiutano ogni collaborazione con il governo
scatenando scioperi ma senza una strategia politica, mentre i cattolici cercano
sponda nei liberali più conservatori preoccupati della crescita socialista. E la
trovano in Salandra.
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MAGGIO 1914
Che noia il maggio italiano.
Le rondini sotto i tetti. Le calde e lunghe giornate, buone a movimentare
l’animo degli infiniti poeti che amano la natura ma non fanno i contadini.
Che noia il marechiaro, i grilli che fanno cri-cri e le jurnate ‘e sole che si
accoppiano alla buona digestione e alla pennicca. Via tutto.
A svegliare l’Italia ci pensano i futuristi. Basta con la natura e la melodia.
Evviva la fabbrica e il chiasso. A costo di rischiare l’insurrezione. Dopo il
fortunato esordio al teatro Dal Verme di Milano, finito a pugni e schiaffi, il
musicista futurista Luigi Russolo s’imbarca in una trionfale tournée in Italia e
in Europa. La sera del 20 maggio si presenta al Politeama di Genova con la
sua geniale invenzione: l’Intonarumori. È un accrocco formato da diciotto
scatole meccaniche che possono riprodurre ogni genere di suono sgradevole:
ululatori, rombatori, stropicciatori, scoppiatori e gorgogliatori. Pare che
Russolo abbia avuto una grande influenza sul restante secolo di musica
contemporanea. Provate a sentire “risveglio di una città” qui. Sembra un
attacco dei Pink Floyd.
Mese primaverile e mese poltrone.
La politica latita e non è una novità. Il presidente del consiglio Salandra è
impegnato, soprattutto, ad evitare il ritorno di Giolitti dal Piemonte e a
distribuire qualche lira alle varie categorie di impiegati pubblici che
minacciano e, più spesso, scioperano. Le sigaraie delle manifatture nazionali
di Roma non sono per niente contente dei risultati dell’azione sindacale,
scaricano i loro leader e si mettono in sciopero. Salandra concede qualche
miglioramento ai ferrovieri scaricando i costi sui viaggiatori, cioé aumentando
le tariffe. Prova a dare un contentino anche ai professori delle medie. Del resto
le finanze pubbliche sono in condizioni critiche. Giolitti non ha detto a
Salandra che la guerra di Libia è stata, ed è, costosissima e che “non c’è trippa
25
per gatti”, come diceva il sindaco di Roma della prima decade del secolo,
Ernesto Nathan, uno dei pochi che ha provato a mettere ordine al caos
vivente della capitale del Regno.
Insomma, politica in attesa. Il governo fa finta di governare in attesa delle
elezioni amministrative di giugno. I socialisti preparano la rivoluzione
partendo dalla conquista dei comuni. Nel frattempo festeggiano il primo
maggio che nel 1914 cade di venerdì. Dubito che gli operai abbiano fatto
ponte. In attesa della rivoluzione nelle fabbriche si lavora dieci ore al giorno,
dal lunedì al sabato, straordinari esclusi. Ed è già un gran progresso. Alla fine
dell’ottocento la giornata lavorativa era di dodici ore. Come al solito la sinistra
italiana è divisa tra chi vuole qualche miglioramento senza attendere il sol
dell’avvenire (come i socialisti riformisti di Bissolati e la CGL di Rigola) e i
rivoluzionari che vogliono tutto e subito e nel frattempo riempiono le piazze
di parole tonanti.
A proposito, che fa il socialista Mussolini?
Da due anni è il direttore dell’Avanti! Ha solo trentuno anni. Visti gli
standard italici e salvo imprevisti, ha davanti a sé cinquanta anni di carriera
politica. Insomma, potrebbe arrivare agli anni settanta. Nessuno dubita che in
caso di rivoluzione sarà il primo a comandare i plotoni di esecuzione contro la
borghesia. Impulsivo, passionale, vive di letture disordinate e di appetiti
carnali veloci e sbrigativi; smania di possesso maschia. La sua amante è la
politica. Il resto sono bisogni elementari. Che Rachele, la sua convivente, si
rassegni. All’epoca si sussurrava di una storia con Angelica Balabanoff,
membro della direzione del PSI, una delle poche donne ad avere un ruolo
politico in Italia. Angelica lo guida nella conduzione dell’Avanti! e cerca di
mettere ordine in quella testa di romagnolo geniale e astuta, per quel che può.
Il partito cerca di farlo entrare in Parlamento dove da un paio d’anni è
stata introdotta anche l’indennità. C’è un seggio vacante a Torino. I giovani
vogliono Mussolini, ma la maggioranza ha altre idee e alla fine vota il 19
26
maggio per l’operaio Mario Bonetto. Mussolini si ritira in buon ordine.
A Mantova si svolge, dal 5 al 9 maggio, il congresso della Confederazione
Generale del Lavoro, il maggiore sindacato dell’epoca e l’antenato dell’attuale
triplice. Fondata nel 1906, continua ad essere dominata dai riformisti intorno
al segretario Rinaldo Rigola che cerca di ottenere conquiste concrete per i
lavoratori distinguendosi dal massimalismo di Lazzari e Mussolini. Rigola,
operaio da 16 anni in un’industria tessile di Biella, cieco per un incidente sul
lavoro, fu anche il primo deputato di estrazione operaia, eletto nel 1900. La
sua organizzazione è incalzata da sinistra dall’Unione Sindacale Italia, (USI)
di Alceste De Ambris e Filippo Corridoni, che rifiutano ogni negoziato con lo
stato, alleanze con partiti politici, propugnando azioni di rivendicazione non
disgiunte da violenza. La divisione tra rivoluzionari sindacalisti, massimalisti
socialisti e riformisti CGdL non è salutare per il movimento operaio.
Agitazioni
I vari agitati della penisola vanno a congresso in maggio. Tra i nazionalisti
di Corrado Federzoni, incubatori dei futuri fascisti, si fa largo Alfredo Rocco,
professore universitario e destinato al ministero della giustizia in orbace nero e
manganello, che fa approvare un ordine del giorno contro l’individualismo
liberale e socialista, ma a favore del protezionismo e della proprietà privata.
Come dire, chi possiede vuole tenersi tutto con la protezione dello stato. I
socialisti sono avvertiti.
Altrettanto agitate sono le donne. Come succede spesso in Italia, tutti sono
d’accordo in teoria per dare il voto alle donne ma in pratica nessuno fa niente
per realizzarlo. Nel 1913 si è persa un’occasione e, come succede sempre in
Italia, i riformisti si erano divisi. Turati, padre del socialismo italico, era contro
il suffragio femminile e litigava con la moglie Anna Kuliscioff. Curioso che
sarà Mussolini a riproporre il voto femminile per le amministrative nel 1924 quando era troppo tardi.
Il 16 maggio si apre a Roma, in Campidoglio, il primo congresso
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internazionale femminile. Presenti varie personalità italiane e straniere, tra cui
il ministro della pubblica istruzione che nell’apprezzare le donne per il loro
contributo economico e sociale, non ne dimentica l’importanza per la
famiglia. Come dire, restate dove siete!
Il supremo agitato d’Italia ha una malattia venerea. Mentre il mondo bolle
e ribolle, D’Annunzio è tappato nel suo appartamento di Parigi! Orrore! Il
vate scrive all’amico Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera che “una
cosa del genere non mi era mai capitata!” Lo va a trovare devotamente e
chissà quanto castamente la sua principale amante, la nobildonna russa
Nathalie de Goloubeff (che D’Annunzio ha ribattezzato come suo solito in
Donatella). Altrimenti c'è la giovane cameriera Amélie. Fermo in casa,
D’Annunzio scrive varia roba in francese e italiano ma soprattutto spende.
Luigi Albertini stacca assegni ma il vate è un pozzo senza fondo.
Un altro agitato è invece per il momento tranquillo. Dopo aver attraversato
mezza Europa con due pedali e una gamba sola, e dopo aver provato ad
attraversare l’Africa nel 1913 prima di essere bloccato dagli inglesi in Sudan per motivi di sicurezza, Enrico Toti è a Roma. Si dedica a lavori di
falegnameria che gli danno un buon reddito. In attesa di nuove avventure.
Anche i futuristi sono agitati. A Napoli si apre il 14 maggio la “Prima
esposizione di pittura futurista. Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini,
Soffici”. A Roma, nella Galleria futurista, è in corso dal 13 aprile “Esposizione
libera futurista internazionale. Pittori e scultori italiani, russi, inglesi, belgi,
nordamericani”. A Milano, il 20 maggio si apre “La prima mostra d’arte del
gruppo Nuove tendenze”, definito la destra del movimento, con opere di
Sant’Elia, Chiattone, Dudreville, Funi, Erba, Possamai, Adriana Bisi Fabbri,
Alma Fidora, forse l’unica futurista o, almeno, una delle poche, che coniuga
l’antica arte femminile dell’ago e cucito con i motivi del futurismo. Nel
catalogo viene pubblicata la prima versione del manifesto dell’architettura
futurista di Sant’Elia, che poi apparirà su Lacerba di luglio.
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L’Italia arranca. E ogni tanto sussulta.
L’8 maggio un terremoto devasta il circondario di Acireale. Muoiono in
150. Le autorità si mobilitano. Il re offre 150.000 lire di aiuti. Stavolta i
soccorsi arrivano rapidamente dopo l’insegnamento della catastrofe di Reggio
e Messina del 1908.
Siamo agli sgoccioli della “Belle Epoque” anche se nessuno lo può
immaginare. Si sa solo che la prossima guerra d’Europa sarà nei Balcani.
Italia ed Austria, dietro le rassicuranti intese diplomatiche, hanno interessi che
cozzano. La Serbia cerca uno sbocco nell’Adriatico e l’Austria è il suo nemico
mortale. Già nel 1913 Giolitti aveva dovuto bloccare Vienna dallo scatenare
un attacco alla Serbia. La pace corre sempre su un filo che i diplomatici
europei hanno saputo sempre riannodare con pazienza.
Almeno fino ad adesso.
I problemi adesso sono in Albania, ultima debole creatura delle potenze
con pochi mesi di indipendenza sulle spalle e nessuna esperienza di
autogoverno. I greci dell’Epiro non vogliono essere inclusi nell’Albania. Italia
ed Austria tramano entrambe per acquistare influenza. Il 18 maggio ribelli
guidati da Essad Pascià, ministro della guerra e dell’interno, minacciano la
capitale Durazzo. Vogliono il ritorno del sultano ottomano.
Il neoprincipe d’Albania, Guglielmo, tedesco e cristiano in una terra
mussulmana, chiede aiuto alle potenze. Impossibile tenere il paese. Arrivano
marinai italiani ed austriaci, Essad viene arrestato e portato a Brindisi, ma la
crisi non si risolve. Gli insorti entrano a Durazzo e il 24 costringono il re a
scappare protetto dagli italiani. Seguono giorni convulsi, in cui le truppe
straniere cercano di ristabilire una parvenza d’ordine mentre si cerca una
soluzione alla crisi.
Italia ed Austria sono divise anche nell'Alto Adriatico, il “polmone sinistro”
d’Italia, come lo descrive l’immaginifico trombone dei fasti nazionali,
D’Annunzio. A Trieste la convivenza tra italiani e slavi si va complicando. Il
censimento del 1910 aveva mostrato una progressiva crescita degli sloveni,
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giunti a rappresentare un quarto della popolazione cittadina, che minacciano
sempre più l’elemento borghese cittadino ed italiano. Nel 1913 un
provvedimento aveva provocato il licenziamento dei cittadini stranieri, ovvero
soprattutto italiani, dall’amministrazione pubblica. In più da tempo si
discuteva senza esito di istituire un’università italiana. I motivi di tensione non
mancano e questi hanno eco in tutta Italia, alimentando la propaganda
nazionalista e antiaustriaca.
La festa del primo maggio finisce in scontri violenti tra italiani e sloveni. La
polizia carica gli italiani ferendone a decine. Gli agitati di mezza Italia
chiedono a Salandra di attaccare pubblicamente l’Austria e nel paese si
svolgono manifestazioni di protesta contro l’“eccidio” di italiani. Ma il
governo tiene botta. È impensabile mandare all’aria trent'anni di alleanza con
l’Austria che politici, militari e pensatore considerano ancora il perno della
difesa italiana.
Guerra seria in Libia. A maggio, dopo tre mesi di decisa campagna
militare in Cirenaica, il gen. Ameglio è riuscito ad allargare la fascia di
controllo italiano dalla zona costiera verso l’interno. Ma la situazione è
tutt’altro che tranquilla. La resistenza dei Senussi continua, nonostante le
rappresaglie e le condanne a morte dei tribunali militari. Di tutto quello che
avviene in Libia gli italiani sanno quello che serve al governo. Cioè poco.
Cronaca nera.
Del resto gli italiani che leggono si appassionano ad altro. Allora come oggi
la combinazione sesso, delitto e alta società è irresistibile.
Sanremo, 8 novembre 1913. La contessa Maria Oggioni nata Tiepolo,
moglie di un ufficiale dei bersaglieri, Ferruccio Oggioni, uccide con un colpo
di pistola Quintilio Polimanti, attendente del marito, presenza abituale in
casa. La Tiepolo viene arrestata. La penisola si divide immediatamente tra
innocentisti e colpevolisti. La contessa ha ucciso Oggioni freddamente per
liberarsi di un amante importuno oppure si è difesa dall’assalto dell’uomo? Di
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chi è il bambino che la Tiepolo abortisce in cattività? Come dice Sciascia in
un libretto pubblicato sul caso, “che tra una bella donna e un bell’uomo, per
mesi sotto lo stesso tetto e spessissimo soli, (...) non è passato che un colpo di
rivoltella, esploso dalla donna per difendersi dall'uomo, è (...) una
contraddizione di termini.”
Il 29 aprile inizia il processo. La contessa (che è nobile solo per i giornali) è
difesa dall’avvocato Orazio Raimondo, ex sindaco di Sanremo e adesso
deputato socialista. Un medaglione donato da Maria a Ferruccio sarebbe la
prova della relazione. Ma il medaglione sparisce. Il processo è una specie di
teatro dell’assurdo, tipico dell’epoca. Si allude delicatamente. Si nominano
cose senza il loro nome. È in gioco l’onore di una signora e di un ufficiale
dell’esercito. In fondo, il Polimanti è solo un falegname del Piceno. Il 2 giugno,
dopo otto ore di camera di consiglio, i giurati dichiarano 5 a 4 l’innocenza
della Tiepolo. Il marito l’abbraccia. Dimenticate le corna. L’onore è salvo.
La vittima, del resto, non può lamentarsi.
Maggio è mese di grande sport.
Costante Girardengo vince la Milano-Torino il 10 maggio. Ventun anni, al
secondo anno da professionista, ha inventato il ciclismo moderno. Fa
allenamenti sistematici, cura la preparazione invernale, mette un mattone
sulla ruota in allenamento per andare più veloce in gara. Inventa la tattica.
Ottimo come passista, buono come scalatore, la sua arma decisiva è la volata.
Avrebbe vinto molto di più se non fosse arrivata la guerra.
Il 24 maggio parte il sesto Giro d’Italia. Oltre a Girardengo ci sono il
fortissimo francese Lucien Petit-Breton, già due volte vincitore del Tour.
Ganna e Gaietti hanno delle buone squadre. Gerbi, il diavolo rosso di Paolo
Conte, corre da solo. Sono previste otto massacranti tappe, tutte oltre i 300
chilometri. Cinque superano i 400 chilometri. Sarà il Giro d'Italia più lungo
della storia, il primo che utilizzerà la classifica a tempo e l’ultimo prima della
guerra. Vanta ancora la tappa più lunga (la Lucca-Roma di 430 chilometri) e
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la media più bassa del vincitore (23,3km orari) che, se immaginiamo le
condizioni delle strade, l’assistenza inesistente e il peso delle bici mostrano
quale forza avessero i ciclisti.
Partono in 81. Arriveranno in 8. La prima tappa è la Milano-Cuneo con
salita al Sestrière (420km). Partenza a mezzanotte sotto il maltempo. Sulle
montagne si sprofonda nel fango. Ganna s’impicca sulla salita. Il gregario
Gremo è il primo ad arrivare in cima spingendo la bici a mano. È l’una di
pomeriggio e mancano ancora 118 chilometri! La discesa è ancora peggio per
via del freddo che congela le braccia e le dita dei ciclisti. Ganna è allo stremo
delle forze e decide di fermarsi in un’osteria per rinfrancarsi ma quando vede
passare Girardengo non ci pensa due volte e riparte. A Cuneo arrivano in 37.,
una strage, Vince Gremo. Petit Breton e Galetti si ritirano.
La seconda tappa, il 26 maggio, è la Cuneo-Lucca (340,5 km). Quattordici
ore sotto la pioggia. Gremo e Ganna crollano. Vince Alfonso Calzolari che diventa il leader della corsa. Due giorni dopo la Lucca-Roma (430km) in cui
Bordin è protagonista della fuga più lunga della storia del Giro, 350 chilometri
in 14 ore. Bordin aveva già vinto tre tappe al Giro, ma non riuscirà nel quarto
centro. Viene battuto in volata da Girardengo per “mezza macchina”. Nella
tappa successiva, Roma-Avellino (356,7km), partono in 27. Vince Giuseppe
Azzini con grandi distacchi. Ma la testa della corsa resta a Calzolari.
Nel calcio, il 17 maggio si gioca a Berna una nuova sfida amichevole tra
Italia e Svizzera. Si gioca alle 15 davanti a seimila spettatori. Partita aperta tra
due squadre che attaccano furiosamente. Al 29° del primo tempo l’azione del
gol. Su calcio d’angolo tirato da Varese, nasce una mischia furiosa da cui
emerge Barbesino (Casale) che infila la rete svizzera. Al 38° il portiere della
Pro Vercelli Innocenti para un calcio di rigore. Finisce 1-0 per gli azzurri.
Nel campionato di calcio i nerostellati del Casale sono ormai vincitori del
girone finale del campionato del nord. A due giornate dal termine, hanno 4
punti di vantaggio sul Genoa. A nessuno interessa sapere che la Lazio ha
strapazzato l’Internazionale di Napoli nella finale dell’Italia centro-
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meridionale, conquistando il diritto a farsi asfaltare dal Casale a luglio.
Per concludere, i motori. Il 24 e 25 maggio si tiene in Sicilia la nona
edizione della Targa Florio, 1.050 chilometri in due tappe. Vince Ernesto
Ceirano su una SCAT in poco meno di 17 ore alla media di 62,3 km/h. La
SCAT (Società Ceirano Automobili Torino) era un’azienda automobilistica
fondata nel 1906 da Giovanni Ceirano. Aveva già vinto la Targa Florio nel
1911 e 1912. L’azienda durerà fino alla crisi economica del 1929 quando
venne assorbita dalla FIAT.
Il coraggio di Mariano Barbato
La mafia non esiste. Di tanto in tanto arrivano notizie dalla Sicilia di strani
omicidi, che vengono classificati come regolamenti di conti paesani, delitti di
onore, faide familiari. Ci sono già stati morti eccellenti. Il sindaco di Palermo,
Emanuele Notarbartolo, era stato assassinato a coltellate nel 1893. Il primo
maxiprocesso del maggio 1901 contro il racket mafioso nel palermitano fu
istruito dal questore Sangiorgi ma si concluse con un nulla di fatto, per la
forza dei legami tra mafia e politica. Omicidi ed intimidazioni si ripeterono
nel novecento a misura che cresceva la forza dei socialisti nelle campagne
sicule.
In maggio, a Piana degli Albanesi ci si prepara alle elezioni amministrative.
Al potere ci sono i soliti notabili capitanati dal sindaco Paolo Sirchia,
prestanome del capomafia Francesco Ciuccia. I socialisti sono in grande
ascesa. Li guida Nicolò Barbato, storico leader dei fasci siciliani, “istigatore
dell’odio sociale” secondo i rapporti dei carabinieri, più volte imprigionato per
la sua militanza politica. Suo principale collaboratore, Mariano Barbato,
anche lui noto “pregiudicato” per motivi politici.
Il 17 maggio Mariano Barbato, nel corso di un comizio a San Giuseppe
Jato, aveva detto “Chi non è con noi è un vigliacco! Abbasso la mafia!
Abbasso la camorra!”
Tre giorni dopo, alle sette e trenta del mattino, Mariano Barbato era a
lavorare in campagna insieme a Giorgio Pecoraro e Vito Ciulla. Tre uomini
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sconosciuti si avvicinano, li salutano, probabilmente per identificarli, poi
estraggono i fucili. Un’esecuzione perfetta. Barbaro e Pecoraro cadono. Si
salva solo Ciulla, che non c’entra nulla e di cui è facile immaginare il terrore a
rivelare alcunché.
Il duplice assassinio scuote gli ambienti socialisti anche fuori dell’isola. Per
il partito è evidentemente la matrice politica. Nicola Barbato dichiara al
giudice “È notorio che io sono a capo al movimento di questo locale partito
socialista (...) e quei pochi che hanno fin’ora avuto il potere non vedono di
buon occhio la loro prossima probabile caduta.” Barbato indica nel sindaco
Sirchia il mandante morale dell’omicidio, ma nessuno lo ascolterà e l’inchiesta
verrà rapidamente archiviata senza alcun indiziato. Successivamente in
giugno i socialisti vincono le elezioni comunali.
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GIUGNO 1914
Quando c’erano le vere stagioni.
A giugno inizia a far caldo. Gli italiani partono per la villeggiatura. Niente
esodi. Niente file ai caselli. Siamo nel 1914 e solo in pochi possono
permettersi una vacanza. Operai ed impiegati non sanno cosa siano le ferie
pagate (appariranno solo nel 1927) e comunque con i miseri salari non si
potrebbero permettersi neppure una pensione senza stelle. E i contadini,
ovvero la gran parte degli italiani, se lasciano la terra muoiono di
fame. L’unico viaggio che fanno è quello per emigrare in America.
La Sardegna è ancora una terra incognita. Ostia è una zona appena
sottratta alle paludi malariche. Chi può andare in vacanza, oltre alla
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tradizionale campagna, si dirige verso la costa adriatica, sul Lido di Venezia,
dove vanno anche parecchi scrittori ed artisti stranieri, in Versilia, a Viareggio,
dove sorgono i primi stabilimenti con tanto di ombrelloni. Chi va in montagna
sceglie Courmayeur, Madonna di Campiglio oppure Cortina d’Ampezzo.
Villa Ada
Nel frattempo il re Vittorio Emanuele III si è trasferito a Villa Ada,
praticamente in campagna, visto che la capitale del regno va poco oltre le
mura aureliane. Il re non sopporta il Quirinale, non certo perché pensi che sia
un errore vivere nella ex residenza papale, ma perché è in fondo un uomo
semplice, a disagio con la pompa e gli eventi ufficiali. Del resto 153 centimetri
di re sollevano facilmente il ridicolo. Vittorio Emanuele vivrebbe molto più
felicemente dedicandosi alle monete e all’adorata moglie montenegrina Elena.
È una persona su cui si potrebbe stendere un trattato psichiatrico sui guasti di
certa educazione. Cresciuto senza affetti, ha sviluppato un carattere schivo,
sospettoso, abbastanza arido, piuttosto formalista. A Villa Ada Vittorio
Emanuele realizza la casa dei suoi desideri, fa dei cambiamenti, installa i
termosifoni. Non ama lo sfarzo, i giardini e la natura pettinata. Lascia la
proprietà semiselvatica. Va a raccogliere personalmente la frutta dai suoi
alberi e fiori per Elena. Ogni mattina parte per il Quirinale come fosse un
impiegato. Torna a pranzo, fa un riposo pomeridiano, riparte nel pomeriggio.
È metodico e burocratico, cosciente dei suoi doveri. Lavora il giusto, per il
resto si dedica alle sue attività, le monete e i libri. Non sarebbe un cattivo re,
rispetto al padre Umberto abbiamo fato grandi passi avanti. Vittorio
Emanuele, diversamente dal padre, è attentissimo al rispetto delle forme
costituzionali, anche se non cede i poteri che lo Statuto Albertino gli
conferisce, il comando dell’esercito e la politica estera, armi e diplomatici, nel
solco della tradizione dello Stato-nazione. Per ora, Vittorio Emanuele non si
immischia molto negli affari correnti. Ama semplicemente restare informato e
per questo ogni mattina legge i rapporti dei regi ambasciatori, con cui
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comunica direttamente.
Il furto della Gioconda
Il 5 giugno si conclude presso il tribunale di Firenze il processo contro
Vincenzo Peruggia, il ladro della Gioconda. Due giorni di dibattimento,
pochissimo pubblico in aula, nonostante si tratti della conclusione di un
avvenimento che ha tenuto col fiato sorpreso il mondo per quasi tre anni. Il
capolavoro di Leonardo era scomparso nel nulla nell’agosto 1911. In
mancanza di migliori indizi, la polizia francese aveva accusato del furto
anche Picasso ed Apollinaire. Invece il responsabile del furto era stato un
umile operaio italiano incaricato di sistemare i vetri al Louvre.
Nell’attesa della sentenza, Peruggia parla con i giornalisti. Racconta di
essere stato suggestionato da un libro in cui si parlava delle spoliazioni fatte da
Napoleone e di aver voluto restituire il quadro all’Italia. (In realtà la Gioconda
fu portata in Francia da Leonardo stesso). Peruggia scelse la Gioconda non
per il suo valore ma perché era facile da portar via. Resta convinto di aver
fatto una buona azione. Ricorda gongolando di come riuscì ad ingannare la
polizia francese durante la perquisizione in casa sua, nascondendo l’opera
sotto il tappeto. Il ladro restò in compagnia della Gioconda per due anni,
finché nel dicembre 1913 non tentò di venderla ad un antiquario fiorentino
che allertò la polizia.
Il pubblico ministero ha chiesto tre anni. Il giudice gli infligge 1 anno e 15
giorni con le attenuanti. Alla fine Peruggia sconterà solo sette mesi. questa
vicenda consacra definitivamente la leggenda della Gioconda nella coscienza
collettiva.
Giovani artisti.
Un simpaticissimo sedicenne frequenta i teatrini del rione Sanità a Napoli.
Si esibisce con lo pseudonimo di Clerment imitando la mimica e le mosse da
burattino di Gustavo De Marco, un attore napoletano all’epoca in gran voga.
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È figlio illegittimo del marchese De Curtis. Poco studioso, la madre lo voleva
sacerdote. Ecco come Totò ricorda quegli anni. “Sono nato in rione Sanità, il
più famoso di Napoli, Quel rione ha nome, in verità, Stella, e sta intorno alla
stazione, ma per le buone arie lo chiamano tutti Sanità. La domenica
pomeriggio le famiglie napoletane usavano riunirsi nelle case dell’una o
dell’altra, e là chi suonava la chitarra, chi diceva la poesia, e chi cantava.
Erano riunioni per bene, niente pomiciamenti. I giovanotti guardavano le
ragazze, gli tenevano la mano, si innamoravano. Non le schifezze di oggi. E
così si passava il tempo, divagandosi. Io facevo scenette comiche, per gioco. Fu
in quel modo che cominciai.”
Probabile che già in quel periodo Totò abbia conosciuto Eduardo De
Filippo, che stava muovendo anche lui i primi passi nella compagnia di
Vincenzo Scarpetta, suo fratellastro, figlio legittimo di Eduardo Scarpetta, che
seminò di figli vari, oltre che di commedie, mezza Napoli.
Tra i giovani artisti che si stanno conquistando uno spazio importante a
Parigi c’è Giorgio De Chirico. In giugno finisce di dipingere Canto d’amore,
considerato uno dei suoi capolavori. Enigmatico, metafisico, comunica
sconcerto e solitudine: una piazza italiana deserta, una grande testa di Apollo,
un guanto rosso inchiodato al muro, una sfera verde. Il titolo riprende una
poesia di Apollinaire.
Il pedale e la pedata.
Finalmente finisce. Il 7 giugno si chiude un Giro d’Italia da incubo. I
sopravvissuti possono stare tutti sul podio: otto su ottantuno partenti. Ha
vinto Pierino Albini ma l’albo d’oro registra un altro nome, quello di Alfonso
Calzolari. Cos’è capitato?
Ci eravamo lasciati in maggio con le prime quattro tappe. A guidare la
classifica c’è Calzolari, incalzato da uno scatenato Azzini. Nella quinta
frazione (Avellino-Bari, appena 328km) vince Azzini con più di un’ora di
distacco su Calzolari. È una tappa corsa su strade devastate dalle buche e
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dalla pioggia. I ciclisti sbandano da una parte all’altra in cerca di una striscia
pianeggiante. Poco prima di Salerno Girardengo si accascia su un mucchio di
ghiaia e si ritira.
Due giorni dopo, la carovana, sempre più sottile, trasmigra da Bari all’Aquila (428km). Partono a mezzanotte attraversando i paesi della Puglia
sotto il cielo stellato. L’andatura è da passeggio, intorno ai 22km orari, ma su
strade infernali e di notte cosa si può pretendere? Gerbi, il diavolo rosso, si
ritira a Lucera per problemi al ginocchio. Continua il duello tra Azzini e
Calzolari tra buche e rotture. Ogni ciclista è meccanico di se stesso. C’è chi
ripara la pedivella a sassate. C’è chi all’ennesima foratura lascia perdere e sale
sull’auto dei giornalisti. La tappa la vince Luccotti, mentre Calzolari viene
beccato a farsi trainare in salita. L’UVI (Unione Velocipedista Italiana) ne
chiede la cacciata. La giuria della Gazzetta gli infligge tre ore di
penalizzazione, per cui Calzolari può continuare a pedalare fino a Milano.
Alle undici di sera nessuna traccia di Azzini. Lo troveranno il mattino dopo,
disteso sulla paglia di un granaio con la bici al fianco, distrutto dalla salita del
Macerone, un colle che sovrasta Isernia e punto classico di passaggio dei Giri
eroici.
Nelle ultime due tappe, L’Aquila-Lugo (429,1km) e Lugo-Milano
(420,3km) vince Pierino Albini. La corsa corsa è di Calzolari che ha staccato
Albini di quasi due ore, un altro record mai più ripetuto. Per l’UVI invece il
legittimo vincitore del Giro è Albini. Per decidere chi sia il vincitore, nasce
l’abituale commissione d’inchiesta all’italiana che delibererà solo nel 1915.
Calzolari viene riconosciuto vincitore ma intanto è scoppiata la guerra e fino
al 1919 nessuno penserà più al Giro.
Il 14 giugno termina il campionato di calcio del Norditalia, vinto dal
Casale. Resta solo la formalità della finale con la Lazio, vincitrice nel centrosud. Il Casale si conferma squadra solida. Del resto l’anno prima fu la prima
squadra italiana a sconfiggere una squadra professionistica inglese, battendo il
Reading col punteggio di 2-1.
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Pochi giorni prima a Roma era stato fondato il CONI, che sostituisce le
precedenti organizzazioni. In quell’anno delle 16 federazioni sportive
nazionali, 12 hanno la loro sede nelle regioni settentrionali e solo 4 a Roma,
specchio della preminenza del nord nello sport tricolore. Primo presidente è il
marchese Carlo Compans de Brichanteau, deputato. Sport, politica ed
aristocrazia. Ci vorrà il fascismo per rendere lo sport di massa.
Italiani alla guerra.
Mentre ci si prepara alle future guerre, in Libia gli italiani continuano la
loro faticosissima impresa di dissodare il deserto dai beduini e stabilire la pax
romana. Le cronache dell’epoca sono abbastanza scarne. Gli italiani devono
leggere tra le righe per capire cosa accade veramente. La Stampa racconta
che in giugno l’esercito non ha esitato a dare una dura lezione ai ribelli,
sequestrando i greggi di pecore e distruggendo i campi di grano e orzo, poco
prima del raccolto, così da gettare le popolazioni nella fame. Una tattica
atroce ma efficace. Alcune tribù si sottomettono ma altre continuano la
resistenza alimentata dai turchi.
Altra crisi vicina è in Albania. La posizione del principe Guglielmo di Wied
si regge sulle potenze. Gli intrighi continuano: Austria, Italia, Grecia e Serbia,
ciascuno ha le sue mire. I ribelli mussulmani non vogliono un re cristiano che
comunque non regna oltre le mura del suo palazzo. Il paese è nelle mani dei
signorotti locali, molti dei quali rimpiangono l’Impero ottomano. Parte un
contrattacco lealista che si risolve solo in decine di morti senza concludere
nulla. Gli italiani hanno un drappello di marinai a Durazzo, la capitale
albanese, ma non hanno troppa voglia di farsi risucchiare in questo conflitto
incomprensibile.
La settimana rossa.
Mentre Giolitti se ne sta buono buono in Piemonte, il governicchio
Salandra affronta le prime serie prove. Il 5 giugno inizia la battaglia alla
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Camera su alcune modeste proposte di riforma della scuola media e
sull’aumento delle tasse per finanziare il disavanzo statale, a sua volta frutto
delle accresciute spese militari. Repubblicani e socialisti fanno ostruzionismo.
La battaglia andrà avanti per tutto il mese di giugno. Alla fine sarà una
vittoria per il governo che aumenterà le tasse senza attuare la riforma
tributaria chiesta dall’opposizione.
I giornali commentano che la XXIV legislatura si sta distinguendo per
l’inattività, l’assenza del governo, le sedute con pochi deputati che si
preoccupano solo di far approvare leggine di loro interesse e per il linguaggio
da mercati. Del resto, se la maggioranza parlamentare si regge sui duecento
deputati meridionali eletti a suon di brogli prefettizi, è impossibile pretendere
un comportamento da signori. Il caos parlamentare non è invenzione
recente. Maggioranza e opposizione si scambiano insulti pesanti. “L’on.
Chiesa abbatte le urne e dopo una zuffa è portato via dall’aula”. Alla fine, i
partiti stanno solo facendo campagna elettorale in vista delle amministrative.
Si vota il 14 giugno.
L’apparente pacifico tran-tran della vita nazionale viene spazzato via dalla
Settimana rossa, una delle più sconvolgenti jacquerie prima della guerra,
destinata a lasciare una memoria profonda, sia in chi la fomentò che in chi ne
venne spaventato.
Le tensioni covano in Italia. Troppi i capipopolo che agitano le braci
ardenti della disuguaglianza, della disoccupazione e delle ingiustizie in cui
vive la maggior parte degli italiani. Una sorda ostilità delle masse fermenta
contro la classe dirigente, identificata con lo stato militarista e repressore dei
carabinieri e degli eccidi proletari.
Breve quadro dell’Estrema Sinistra: l’opposizione più organizzata è quella
dei socialisti rivoluzionari di Lazzari e Mussolini, controbilanciati dal più
moderato gruppo parlamentare socialista; vengono poi i repubblicani eredi
della tradizione mazziniana, con Pietro Nenni tra i suoi leader, forti
soprattutto in Romagna e nelle Marche. Infine, gli anarchici di Enrico
41
Malatesta, il cui capoluogo era Ancona. Questi gruppi hanno in comune tre
cose: le teste calde, l’ostilità alla monarchia e l’antimilitarismo. Manca solo
l’occasione per accendere le micce.
Domenica 7 giugno, festa dello Statuto Albertino. I repubblicani
organizzano un comizio antimilitarista a Villa Rossa ad Ancona. Dopo aver
ascoltato i discorsi di Nenni e Malatesta, seicento manifestanti si dirigono
verso Piazza Roma, dove è in corso il concerto ufficiale della banda militare.
Forza pubblica e anarchici si scontrano violentemente, mentre la gente lancia
pietre e mattoni dalle finestre. Partono le rivoltellate dei carabinieri: muoiono
in tre, ventidue restano feriti. Ecco la miccia che accende il combustile della
rabbia popolare. Nelle Marche, in Romagna, in Toscana le notizie degli
scontri scatenano la rivolta delle masse, vengono proclamati scioperi
spontanei, mentre manifestazioni di minore gravità dilagano un po’ ovunque,
nelle grandi città industriali del nord come a Firenze, Roma, Bari e Napoli.
Gli insorti disarmano carabinieri e truppa, occupano le città, bloccano i treni,
devastano i simboli dell’autorità reale.
La rivolta prende di sorpresa i socialisti, che da anni predicano la
rivoluzione ma non sono mai pronti quando è il momento. La sera del 7 la
direzione del PSI è deserta. Mussolini è isolato a Milano. Le comunicazioni
con le zone in rivolta sono interrotte dal ministero dell’interno. Nella riunione
dell’8 la direzione del PSI chiede al sindacato di proclamare uno sciopero
generale di protesta in tutta Italia. Quella era la risposta tipica ai cosiddetti
“eccidi proletari” che accadevano un po’ troppo spesso in Italia. La CGdL è
dubbiosa ma si conforma. Lo sciopero inizia il 9 mentre le violenze
aumentano. I rivoltosi si muovono in bicicletta, ci sono anche i
cosiddetti “ciclisti rossi” già attivi da un paio d’anni nel nord Italia. Le
violenze continuano mentre il governo fa affluire centomila militari per
riportare l’ordine. Tra i rivoltosi si distingue il futuro ras fascista Italo Balbo
che “fu visto lasciare Ferrara alla testa di una banda armata di ciclisti per
foemntare quanto più disordine possibile, con indosso la camicia rossa
42
garibaldina.”
Il 10 i ferrovieri incrociano le braccia ma già il giorno dopo la CGdL
proclama la fine dello sciopero, in contrasto con il PSI che vorrebbe
continuare l’azione rivoluzionaria sulla quale, però, non ha alcun controllo.
Salandra respinge una mozione di sfiducia del deputato socialista Calda con
254 voti contrari, 112 favorevoli e 1 astenuto.
Anche Nenni si rende conto che la rivolta non ha alcuna speranza, priva di
leader e di una meta chiara. Dopo una settimana di scontri, la situazione
torna alla normalità. Alla fine si contano 14 morti, di cui solo uno tra la forza
pubblica, e decine di feriti.
Nenni viene arrestato il 23 giugno. Malatesta fugge di nuovo a
Londra. Vestito da ricco signore in vacanza, prende un treno da Ancona e
ripara in Svizzera. Poi trasmette a Mussolini un biglietto col suo nuovo
indirizzo londinese. La Settimana Rossa scatena la resa dei conti in casa
socialista. Dalle colonne dell’Avanti! Mussolini accusa il leader sindacale
Rigola di codardia. Rigola viene difeso unanimemente dalla CGdL e dal
gruppo parlamentare del PSI. La direzione del partito difende Mussolini. Il
contrasto tra riformisti e rivoluzionari si conclude con un nulla di fatto ed
ognuno resta sulle sue posizioni, ma nel frattempo il fallimento della
Settimana Rossa dimostra che la rivoluzione non è matura e che lo stato
sabaudo è nettamente più forte.
Politica interna ed estera.
La settimana successiva alla rivolta si tengono le amministrative in un
clima surriscaldato. Tutto sommato vanno bene, senza gravi incidenti. I
socialisti vincono a Bologna e a Milano con solo 3000 voti di scarto sui
liberali. I socialisti issano la bandiera rossa su Palazzo Marino. Il nuovo
sindaco è Emilio Caldara che resterà in carica fino al 1920 con una politica
pragmatica che gli attirerà parecchia ostilità dai compagni di partito
massimalisti. Milano si conferma capitale del movimento socialista. Mussolini,
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eletto in consiglio comunale, rivendica il carattere progressista e repubblicano
della nuova amministrazione affermando che se “Sua Maestà Vittorio di
Savoia (sic) avesse l’idea di venire a Milano troverà il portone di Palazzo
Marino solidamente sprangato.”
A Roma il blocco democratico nathaniano si scontra con quello cattolicoliberale, guidato dal principe Prospero di Colonna, già sindaco di Roma fino
al 1904, quando si dimise per aver prima accettato di organizzare le
Olimpiadi nel 1908, salvo scoprire di non aver in cassa un centesimo. Squadre
di ciclisti delle due parti (e qualche automobile) vanno in giro per la capitale a
incoraggiare gli elettori. Si vedono parecchi preti ai seggi. Forte affluenza nei
quartieri popolari e periferici dove il blocco democratico ha organizzato
concerti per attirare gli elettori. Alla fine vincono i conservatori e i romani si
ritrovano di nuovo sindaco il principe Colonna. È la fine dell’esperimento
democratico della giunta popolare di Nathan, ebreo, mazziniano, radicale,
che era riuscito a portare una serie di cambiamenti significativi nella caotica
Roma di inizio secolo. Nathan fu il primo a stabilire un piano regolatore
municipale. Per rivedere un sindaco di sinistra a Roma bisognerà aspettare il
1976.
Un’altra battaglia politica infuria per il seggio suppletivo di deputato a
Torino, per la morte del deputato socialista Gay. I socialisti torinesi avevano
prima pensato a Salvemini, Salvemini aveva proposto Mussolini e alla fine
Mussolini aveva rinunciato non avendo l’appoggio convinto del partito. Si
sfidano il candidato dell’ordine (Bevione) e quello socialista (Bonetto). Il 17
giugno Mussolini è a Torino per sostenere un contraddittorio con Bevione.
Mussolini dichiara che l’internazionale non è una chimera ma sarà presto la
realtà. “La democrazia non ha le nostre tenerezze. Noi siamo antidemocratici.
La democrazia è oggi una ditta commerciale, con cui la borghesia, aiutata
dalla massoneria, cerca di fare i suoi buoni affari. È un equivoco, che noi
socialisti rivoluzionari, combattiamo con tutte le nostre forse, perché non fa
che intorbidire le situazioni nette, ed allontanare il giorno della chiara resa dei
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conti”. Bevione perderà col candidato liberale per 67 voti.
Un’altra resa dei conti sta per cominciare, quella tra Austria e Serbia. Il 28
giugno Gavrilo Princip, studente serbo di 19 anni, uccide a Sarajevo
l’arciduca ereditario d’Austria, Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia di
Hohenberg. L’emozione in Europa è fortissima. Tutti si rendono conto che
nella delicatissima situazione dei Balcani, quei colpi di pistola potrebbero
avere echi molto più vasti. Ma in fondo nessuno pensa che la nuova crisi sarà
diversa dalle altre che hanno infestato l’Europa negli ultimi anni e che sono
state tutte brillantemente superate.
45
LUGLIO 1914
In bilico
I colpi di Sarajevo hanno avuto un’eco lunga decenni. Ma all’inizio di
luglio, passata l’emozione, seppelliti solennemente i due reali austriaci, sembra
che la razionalità debba tornare. L’Europa ha già vissuto gravi crisi in questo
tumultuoso inizio del ventesimo secolo. Una guerra europea non interessa a
nessuno. I monarchi europei sono tutti imparentati tra loro. La diplomazia e
gli eserciti sono retti da aristocratici che formano un’unica famiglia. Potrebbe
esserci una guerra in famiglia?
Le cancellerie diplomatiche lavorano per ricucire la terribile ferita aperta a
Sarajevo. Sul Danubio, sull’asse Vienna-Belgrado, si consumano i destini del
continente. Le trattative e i complotti vanno avanti di nascosto, com’era
costume in quell’epoca. La superficie è increspata dagli strilli dei nazionalisti
slavi ed austriaci. Che strillino, sembrano dire gli aristocratici che governano
le capitali europee. Ma sotto la superficie cova il desiderio di Vienna di
chiudere una volta per tutte la pratica serba, che minaccia l’esistenza
dell’Impero austro-ungarico. Berlino la incoraggia con il famoso “assegno in
bianco”. Il più clamoroso errore di valutazione della storia. La Germania dice
all’Austria fa quello che vuoi purché sia presto, in modo da mettere l’Europa
davanti al fatto compiuto. La guerra contro la Serbia deve restare localizzata,
come se fosse possibile tenere buona la Russia. Silenzio con tutti, anche con
l’Italia, il triplice alleato, di cui i tedeschi un po’ non si fidano, e un po’ non
hanno voglia di spartire con lei le spoglie dei Balcani. Era davvero un’altra
epoca. I diritti dei popoli sarebbero nati nelle trincee della guerra.
I tedeschi ci conoscono.
L’Italia, la più piccola delle grandi potenze, è governata da una dinastia,
quella dei Savoia, che si è barcamenata per secoli tra vicini più forti,
tradendoli a turno tutti. Un’eccellente strategia di sopravvivenza. Il presidente
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del consiglio Salandra e l’abile ministro degli esteri, San Giuliano, sono
conservatori, triplicisti convinti e realisti. Di una guerra nei Balcani non ne
abbiamo bisogno, non abbiamo alcuna voglia di morire per Vienna e Berlino,
ma se dovessimo essere trascinati nel conflitto siamo pronti a reclamare la
nostra parte.
Quello che sembra un bieco mercanteggiare sulla pelle dei popoli è, da un
altro punto di vista, un esempio di quella realpolitik che tutti praticavano e che
in qualche modo aveva però mantenuto l’equilibrio in Europa. E che l’Italia
non ignora. Prima di tutto, va considerata la forza dell’esercito. Si usa la forza
quando si è sicuri di vincere. E l’Italia non è sicura di avere un esercito pronto.
La guerra in Libia ci ha logorato, mancano ufficiali, artiglieria e munizioni, il
bilancio dello stato è in rosso. I nostri interessi sono inoltre molto limitati,
vogliamo guadagnare posizioni nei Balcani, attendiamo pazientemente
l’inevitabile dissoluzione dell’Austria che per il momento è ancora
militarmente temibile. A metà luglio, l’ambasciatore a Berlino Riccardo
Bollati e il ministro degli esteri San Giuliano si scambiano idee. Il nostro
ministro afferma che “Io non escludo affatto la probabilità dell’uscita nostra
dalla Triplice Alleanza tra qualche anno, per unirci ad altro aggruppamento o
restare neutrali. Ma oggi considererei grave e pericoloso indebolire senza
assoluta necessità i vincoli reciproci tra noi e i nostri alleati.”
Tutti al mare!
Non possiamo seguire tutte le contorsioni diplomatiche che dall’attentato
di Sarajevo porteranno alla prima guerra mondiale. Anche in Italia, passata
l’emozione, torniamo ad occuparci del nostro ombelico.
La camera dei deputati continua nella sua scabrosa attività fino alle
vacanze. A giugno il governo ha tentato di far passare un aumento delle tasse
facendola passare come riforma tributaria, i socialisti hanno fiutato la trappola
e scatenato un ostruzionismo feroce che ha impedito l’approvazione dei
provvedimenti. Si teme che il parlamento dovrà restare aperto in luglio
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inoltrato. Per fortuna un oscuro deputato ha una trovata geniale che salva il
governo e le vacanze dei deputati. Articolo unico: delega fiscale al governo.
Salandra è autorizzato ad alzare le tasse fino a giugno 1915 in cambio di una
vaga promessa di realizzare una riforma tributaria. La camera abdica al suo
ruolo e 5 luglio chiude. C’è il tempo per qualche provvedimento per i
ferrovieri ma non per discutere una legge contro le sofisticazioni dei vini,
nonostante le proteste dei deputati meridionali. Se ne riparlerà fra mesi. La
camera non riaprirà infatti che a dicembre.
Subito dopo riprendono voce i corifei del sindacato ferrovieri. All’epoca la
vita del macchinista era dura. Dentro una locomotiva a vapore, esposto alle
intemperie, pagato poco. Il sindacato non è contento delle concessioni
strappate, tenta di proclamare lo sciopero ma si scontra con la stanchezza dei
suoi iscritti. Il governo ne approfitta per mettere la sordina al sindacato e
punire i lavoratori che avevano scioperato in passato.
Qualche giorno dopo Alfredo Rocco, futuro fascistissimo ministro della
giustizia, commentando i fatti della Settimana Rossa, scrive l’epitaffio della
democrazia. “Il parlamentarismo è morto e il giolittismo, che gli è successo,
prova che è morto ben definitivamente. E con lui è finito tutto quel piccolo
mondo arcadico e sentimentale, a cui non è possibile pensare senza rimpianti,
perché aveva la sua bellezza e la sua poesia: il culto della ragione, il rispetto
della libertà, la fede nella giustizia (…) Noi riteniamo che il parlamentarismo
abbia ormai assolto il suo compito; che cosa verrà dopo di esso? Nessuno può
dirlo. Il giolittismo non è che un momento della grande evoluzione, da cui
uscirà il nuovo regime politico di domani.”
Per molti versi il 5 luglio 1914 il parlamento liberale prende l’ultima vera
decisione prima del buio della guerra e del fascismo.
Cronaca tricolore.
Anche nel 1914 le notizie principali erano quelle di cronaca nera e rosa.
Il primo luglio muore a Torino per una crisi cardiaca il capo di stato
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maggiore Alberto Pollio, triplicista convinto. Si è parlato di un complotto per
sostituirlo con un generale meno filotedesco. In Italia nessuno muore perché
sta male. Al suo posto viene nominato il 10 luglio il generale Cadorna. È
stimato ma forse è rimasto un po’ indietro. Cadorna è diventato generale
senza mai vedere un campo di battaglia. Il che, viste le catastrofi belliche
subite dall’Italia, è quasi un merito. Cadorna ha una concezione della guerra
di tipo tradizionale, “Avanti Savoia!” Tutti all’assalto e vinca il migliore. Non
conosce flessibilità tattica né l’importanza dell’artiglieria nella guerra
moderna. Ma viene considerato un onesto e discreto organizzatore.
Il 5 luglio il Casale batte la Lazio 7 a 1 in casa. La Lazio è coraggiosa ma
manca di tecnica, astuzia e abilità. Ha un gioco molto semplice e scoperto,
“bambino” secondo La Stampa. I giocatori sono individualisti, manca la
squadra. Bravissimo il portiere laziale Serventi che resiste per 26 minuti agli
attacchi piemontesi. Il primo tempo finisce 1-0 ed è un gran successo per i
romani. Nel secondo tempo il Casale dilaga e infila sei volte la porta di
Serventi. Il 12 la partita di ritorno a Roma. Pur schierando una squadra
incompleta, il Casale vince 2 a 0 e si prende il suo primo ed unico tricolore.
Può una donna essere iscritta all’albo dei ragionieri? Il collegio dei
ragioneri romani aveva iscritto all’albo Pierina Pavoni in Marconi,
considerandola qualificata. Inoltre, pur essendo sposata, aveva ricevuto dal
marito “un’ampia e generica autorizzazione” a svolgere le sue attività. Il
Procuratore generale si oppone. Ne nasce un caso giudiziario che approda alla
Corte d’Appello di Roma. L’11 luglio la sentenza, a favore di Pierina, la prima
ragioniera italiana. La corte afferma che i ragionieri non svolgono funzioni
afferenti alla sovranità dello stato, che sono precluse alle donne. Insomma, per
alzare le donne al livello dei ragionieri, si abbassano i ragionieri al livello di
piccoli funzionari. È comunque un’altra piccola vittoria per le sparute file
delle femministe italiane. Poi ci penserà la guerra a riportare le donne al loro
ruolo abituale. Per vedere la prima avvocata, notaia e magistrato dovremmo
aspettare la Repubblica.
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Il 12 luglio avviene il richiamo alle armi della classe 1891. La motivazione
ufficiale è molto vaga. Il governo afferma di aver bisogno di truppe già
addestrate, per lasciare alla truppa il tempo di terminare l’istruzione militare.
Molti pensano che si tratti di un preludio per un intervento italiano in
Albania, dove continua l’insurrezione contro il derelitto principe Guglielmo
Le grandi potenze meditano di sostituirlo. Altri sostengono invece che il
governo si prepara a nuove insurrezioni anarco-sindacal-socialista, come
avvenuto nella Settimana Rossa di giugno. Nessuno pensa che l’Italia si stia
preparando a muovere con l’Austria contro la Serbia.
La strage della Val Brembana.
Il 13 luglio Simone Pianetti uccide sette persone a Camerata Cornello, Val
Brembana, provincia di Bergamo. Nel nord profondo, gretto e bigotto.
Pianetti non era un poco di buono. Era un uomo di principi, destinato a
trovare poco spazio nella realtà del piccolo villaggio. Aveva trascorso lunghi
anni in America dove si era trovato a combattere contro la mafia. Nel paese ,
a causa delle sue idee libertarie, aveva incontrato l’ostilità del parroco che
lanciato un’anatema sulla sua taverna, fino a farlo chiudere. Il povero Pianetti
non ebbe migliore fortuna neppure con il mulino che impiantò nel paese
vicino. Il suo prodotto veniva chiamata “la farina del diavolo”.
La mattina del 13 Pianetti scatena la furia omicida. In poche ore uccide il
medico condotto, il segretario comunale e la figlia, il calzolaio, il messo
comunale, l’odiato parroco e una donna che l’aveva trascinato in tribunale.
Dell’autorità costituita si salvò solo il sindaco. Terminata l’opera, Pianetti
fugge tra le montagne. Parte una massiccia caccia all’uomo ma l’assassino non
verrà mai più trovato.
Qualche giorno più avanti scoppia lo scandalo dell’ingegner Ulivi di
Firenze. Nei mesi precedenti questo curioso personaggio, degno
rappresentante della mai perduta abilità italica per la truffa, si era esibito in
varie parti d’Italia con un apparecchio radio-balistico, un accrocco in grado di
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far esplodere ordigni esplosivi a distanza. Un’arma fenomenale, su cui aveva
messo gli occhi l’esercito che la vuole testare. Il giorno prima dell’esperimento
finale, rinviato più volte con molte scuse, l’Ulivi scompare, portandosi dietro
80.000 lire raccolte in sottoscrizioni e la figlia diciannovenne di un
ammiraglio.
Il 22 luglio la squadra del Torino, guidata dall’allenatore Vittorio Pozzo,
arriva a Genova da dove parte in nave alla volta del Brasile per una tournée
calcistica di due mesi.
Il Vate d’Italia
Mentre i diplomatici tessono trame di pergamena e polvere da sparo, il
grande debitore d’Italia, il sommo poeta esagitato, sogna la guerra. Il 16 luglio
Gabriele D’Annunzio scrive all’ambasciatore francese a Pietroburgo, Maurice
Paléologue “viviamo in un’epoca infame, sotto il dominio della moltitudine e
la tirannia della plabe (…) Mai prima d’ora il genio latino era caduto così in
basso; esso ha totalmente perduto il senso delle energie altere e delle virtù
eroiche; si trascina nel fango, si compiace nell’umiliazione (…) La guerra, una
grande guerra nazionale, è l’ultima speranza di salvezza che gli resta. E’ solo
attraverso la guerra che i popoli imbastarditi si arrestano nel loro declino,
poiché essa dona loro infallibilmente o la gloria o la morte (…) Perciò questa
prossima guerra che voi sembrate temere, io l’invoco con tutte le forze
dell’anima!”
Verrà accontentato. E nel frattempo D’Annunzio verrà anche liberato dai
suoi debiti. Il suo grande amico Luigi Albertini lo informa che la sua
situazione finanziaria è definitivamente sistemata. Albertini non aveva lesinato
sforzi per tappare le falle della follia spendacciona dell’esteta abruzzese. La
bella notizia significa che D’Annunzio è libero di tornare in Italia quando
vuole. Ma il ritorno deve essere coreograficamente sublime, spettacolare,
altrimenti a che serve vivere?
Nel frattempo l’arte italiana passa attraverso le pagine de “Lacerba” che da
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Firenze, con gusto polemico e futurista, cerca di svecchiare il paese delle belle
lettere e della noia accademica. Il primo luglio la rivista fiorentina racconta
dei due fratelli De Chirico, soprattutto di Giorgio, facendo presente la sua
capacità di agire individualmente in una città convulsa e piena di fermenti
come Parigi. “Giorgio De Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto la
malinconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città
italiana, dove in fondo c’è una piazza solitaria. Oltre lo scenario delle logge,
dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno,
staziona un camion di un gran magazzino o fuma una ciminiera altissima nel
cielo senza nuvole.”
L’11 luglio viene pubblicato il manifesto dell’architettura futurista scritto da
Boccioni e Sant’Elia, uno degli ultimi geniali spin-off di un movimento che sta
ormai esaurendo la sua forza innovativa.
Verso la guerra.
E arriviamo al 23 luglio. Pomeriggio. Il governo austroungarico consegna
l’ultimatum a quello serbo. Quarantotto ore per rispondere. E’ stato scritto
con l’intenzione di suscitare due sentimenti: o la capitolazione incondizionata
oppure uno scatto di dignità. Ne provoca un terzo: i serbi chiedono aiuto ai
russi e cercano di placare l’Austria senza perdere troppo la faccia.
L’Italia viene informata dell’ultimatum solo la mattina del 24, come tutte le
altre potenze europee. Un bello sgarbo all’alleata mediterranea. San Giuliano
è a Fiuggi per curarsi la gotta, di cui è già da tempo parecchio malato. Viene
immediatamente raggiunto da Salandra e dall’ambasciatore tedesco Flotow. I
tre uomini hanno uno scontro furibondo, almeno per gli standard dell’epoca,
immaginiamo abbiamo fatto cozzare le coppe di champagne. San Giuliano
conferma che l’Italia non parteciperà ad azioni offensive insieme all’Austria.
Ricorda che il trattato della Triplice Alleanza è solo difensivo. Lancia i suoi
ambasciatori per cercare di mediare, appoggiando anche gli sforzi inglesi per
una conferenza di pace, incoraggia i serbi a mostrarsi accondiscendenti con
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l’Austria. Potrebbe denunciare la Triplice ma non lo fa. Del resto, San
Giuliano è filotedesco e non ama la Francia, né è pensabile gettare a mare
un’alleanza trentennale senza un progetto alternativo.
Il giorno dopo San Giuliano riferisce al re con una nota con cui delinea la
nostra strategia. L’Italia non sosterrà l’Austria a difendersi dalla Russia, se la
Russia accorrerà in soccorso della Serbia. Il trattato non ci obbliga in questo
caso. L’opinione pubblica non accetterà una guerra a favore dell’Austria ma
non escludiamo di partecipare, purché ci siano riconosciuti adeguati
compensi, alias il Trentino. In ogni caso, ci riserviamo il diritto di scegliere
cosa fare, sulla base dei nostri interessi. È una dichiarazione programmatica
che ci porterà fino al maggio 1915. Realpolitik pura che però sembra un po’
miope. L’Italia avrebbe potuto esercitare una maggiore e convinta influenza
moderatrice sull’Austria, come aveva già fatto due volte nel 1913. All’epoca
c’era il buon Giolitti.
Il 25 luglio l’Avanti! di Mussolini strilla “Abbasso la guerra!” Neutralità
assoluta di fronte ad ogni guerra, strappiamo l’alleanza con la Triplice “Non
un uomo! Né un soldo!” Ma i socialisti vengono scavalcati dall’incalzare degli
eventi, non solo in Italia. Ovunque i partiti socialisti abbandonano
l’internazionalismo e la solidarietà operaia per votare i crediti di guerra ai
rispettivi governi. Mussolini ha chiara la situazione ma la direzione del PSI
non si riunisce fino al 3 agosto quando è tardi. L’unica iniziativa è quella del
gruppo parlamentare che il 27 luglio chiede una convocazione straordinaria
della Camera, senza ottenerla. Anche i repubblicani, pur vicini agli
irredentisti e fedeli al principio di nazionalità, non vogliono la guerra,
qualunque guerra, tantomeno insieme all’Austria.
Ma è troppo tardi. L’infernale macchina delle mobilitazioni si è già
messa in moto. Ogni stato cerca di battere in velocità l’altro creando un effetto
valanga che nessuno saprà più controllare.
La sera del 28, ritenendo la risposta serba all’ultimatum non soddisfacente,
Vienna dichiara guerra alla Serbia. Il giorno dopo la Russia avvia una
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parziale mobilitazione sulle frontiere austriache. La Germania mobilita le sue
truppe e invita la Russia e la Francia a non intervenire. Il 29 luglio Cadorna
consegna al ministro Grandi un piano operativo legato agli impegni italiani
nella Triplice Alleanza e propone di inviare in Germania fino a 9 corpi
d’armata, più di quanto previsto dai patti. Il 30 la Russia avvia la
mobilitazione generale a cui segue un ultimatum tedesco che viene
consegnato la sera del 31 a San Pietroburgo e contemporaneamente a Parigi.
I tedeschi non intendono trattare. Per evitare la morsa della Francia da
occidente e della Russia da oriente devono attaccare per primi. Il giorno dopo
l’Europa intera è in fiamme.
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AGOSTO 1914
La guerra è bella anche se fa male
Dopo anni di schermaglie, di scontri indiretti e di rivalità mascherate sotto
la patina della cortesia diplomatica, l'Europa è in guerra. Gli storici
discuteranno in futuro di chi sia stata la responsabilità ma in questi primi
giorni di agosto del 1914 l’entusiasmo è alle stelle. È la resa dei conti finale. La
Francia non può permettersi di perdere di nuovo. La Gran Bretagna deve
contrastare l’ascesa della Germania a potenza egemone. La Germania ha
bisogno di spazio vitale. L’Austria deve espandersi per nascondere il suo
irreparabile declino. La Russia cerca i mari caldi. La Serbia aspira ad unire i
popoli slavi dei Balcani. Il vincitore dominerà il continente, e quindi il mondo,
per decenni.
L’augurio è che tutto finisca presto. Gli scontri di agosto vedono gli
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austriaci prenderle dai serbi. I russi, contrariamente alle aspettative, si
muovono rapidamente mettendo in fuga tedeschi ed austriaci, mentre sul
fronte occidentale le truppe di Guglielmo II devono faticare non poco per
vincere l’accanita resistenza dei belgi e solo fine agosto si presentano alle porte
di Parigi.
Italo Svevo, cittadino austriaco, in quelle settimane lascia Trieste per un
viaggio d’affari. Da tempo ha abbandonato la letteratura, dopo l’insuccesso
dei suoi primi due romanzi (Una vita e Senilità). Sposato con Livia, vive una
tranquilla vita di commerciante nella fabbrica di vernici sottomarine del
suocero. “Per impedirsi di pensare alla letteratura, dedicava le ore libere al
violino.” È spesso in viaggio. In agosto parte per Mulheim nella Ruhr dove
resterà per più di un mese. Osserva i tedeschi, ne apprezza la calma e la
disciplina nonostante emergano le prime difficoltà nella vita quotidiana. Svevo
non ha dubbi sulla vittoria finale dei tedeschi.
La giovine Italia
In mezzo a questo trambusto c’è l'Italia. Voglia di guerra non ce n'è. I
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socialisti sono contrari per principio a prendere le armi contro altri proletari
per la guerra della borghesia imperialista. Saranno gli unici in Europa a
mantenersi coerenti a questa impostazione fino alla fine. Nel resto del
continente i partiti socialisti voteranno disciplinatamente i crediti di guerra
senza eccezioni. I cattolici soffrono. Il papa Pio X non benedice le armi. I
cappellani militari sì. Non ci sono scomuniche per l’empia commistione tra
eserciti e religione. Il papa è preoccupato per la sua amata Austria, l’ultima
potenza cattolica rimasta in Europa. I liberali aspettano ordini dal loro capo,
Giovanni Giolitti.
Il nuovo capo di stato maggiore, generale Cadorna, ricorda al governo che
l’esercito manca di tutto: equipaggiamenti invernali, bombe a mano, mezzi di
trasporto, mitragliatrici, cesoie. Servono almeno altri 14 mila ufficiali.
Aggiungiamo che l’esercito è esausto dall’interminabile campagna libica, il
paese non ha grano a sufficienza, non possiede carbone (il 90% viene
dall’Inghilterra), ferro, gomma, materie prime. Come si fa ad andare in
guerra? Il governo esita ma non può confessare apertamente la verità: non
solo il paese non vuole la guerra, ma non ci sarebbero i mezzi per farla.
Il re, rientrato rapidamente dalle vacanze, il presidente del consiglio
Salandra e il ministro degli esteri San Giuliano sono d’accordo su una cosa:
aspettiamo gli eventi. A norma di diritto internazionale, non siamo tenuti a
seguire Austria e Germania in una guerra offensiva della quale non siamo mai
stati nemmeno consultati. Questa è la loro guerra. Se fossimo in tempo meno
educati potremmo dire ai nostri alleati “fottetevi e lasciateci in pace”.
Purtroppo l’Italia non può restarsene tranquilla. Non siamo la Spagna,
potenza periferica e addormentata. Siamo una penisola in mezzo al
Mediterraneo, tra la Francia, l’Austria, in faccia ai Balcani. Siamo una piccola
potenza con grande appetito che ama stare al tavolo dei grandi. Abbiamo
qualche interesse da difendere nei Balcani e nel Mediterraneo e l’inazione è
pericolosa quanto l’entrare in un conflitto senza sapere cosa potremmo
ottenere. La guerra cambierà gli equilibri europei e noi rischiamo grosso,
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chiunque vinca, almeno così pensano i nostri dirigenti. Con la Germania
abbiamo meno motivi di conflitto anzi, la nostra classe dirigente, poco liberale
e democratica, è risolutamente guglielmina. Il Resto del Carlino, il Mattino
sono a favore della Germania, come lo è anche un influente intellettuale come
Benedetto Croce. Ma difficilmente l’Italia può schierarsi a favore degli imperi
centrali. Con l’Austria siamo divisi da interessi geopolitici conflittuali. Non
solo a causa delle regioni italiane degli Asburgo ma anche per la rivalità
sull’Adriatico. Non possiamo permettere che l’Austria si espanda nei Balcani
senza avere delle contropartite ma neppure siamo del tutto felici che la Serbia
cresca e raggiunga il mare, prendendosi la Dalmazia, dove vive una
consistente minoranza italiana. C'è poi il problema dell’Albania, che continua
ad essere devastata dalla guerra civile.
Per tutti questi motivi il 2 agosto il governo Salandra proclama la
neutralità, anche se tutti si rendono conto che l’Italia non potrà restare
lontana a lungo dal conflitto. Né ci piacerebbe restare lontani dall’arena,
magari arrivando per ultimi, quando si saprà il vincitore. Avviamo subito
contatti con le potenze per vedere chi è disposto ad offrirci i migliori
compensi. In tutto ciò i nostri dirigenti non si preoccupano affatto né
dell’opinione pubblica né del parlamento. Il re, Salandra, il ministro degli
esteri Di San Giuliano ragionano con una mentalità ottocentesca. La politica
estera è prerogativa di pochi. Morti, feriti e mutilati sono danni collaterali. I
socialisti chiedono la convocazione del Parlamento ma il governo lo lascia in
vacanza fino a dicembre. In pratica assume i pieni poteri. Il paese approva. In
un’editoriale La Stampa, che pure sarà neutralista fino all’ultimo, dice che il
governo deve essere lasciato libero di prendere le decisioni più razionali senza
le influenze nefaste dell’opinione pubblica.
Il 2 agosto Vittorio Emanuele III manda un telegramma di cordiale
amicizia a Francesco Giuseppe. Un secondo parte per Berlino, diretto al
vulcanico Kaiser. È un piccolo capolavoro di doppiezza e di perfidia, una
piccola vendetta del re sciaboletta che per anni ha sfigurato di fronte
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all’imperatore all’acido prussico. In sostanza Vittorio Emanuele gli racconta
che lui è dalla parte della Germania ma che non può scendere in campo senza
promesse di compensi, altrimenti sarebbe scoppiata la rivoluzione. In più
confessa di non avere abbastanza potere. Guglielmo II scriverà a margine del
telegramma una serie di insulti “menzogna, furfante, impudente.” Come non
dargli torto. La storiella del pericolo rivoluzionario ha qualche fondamento
ma non per i motivi che dice il Savoia e sarà ricorrente da qui a maggio 1915,
ma è un’atroce balla. A giugno la Settimana Rossa ha spaventato i nostri
vertici, ma ha anche dimostrato che nessuno è in grado di fare la rivoluzione.
Nella migliore tradizione italica, tra fine luglio e inizio agosto c’è
comunque confusione tra monarchia, governo ed esercito. Cadorna,
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prudentemente e attenendosi alla lettera del trattato della Triplice Alleanza,
invia truppe al confine francese e si prepara ad inviare nove corpi d’armata sul
Reno, come previsto dai protocolli militari firmati pochi mesi con la
Germania. Salandra, di tutto questo, non sa nulla. Cadorna non sa
dell’esistenza di un patto segreto di non aggressione con la Francia siglato nel
1902. Gira voce che il ministro degli esteri voglia comunque attaccare
l’Austria. Londra gli avrebbe promesso in cambio Trieste.
La Germania, che conosce bene la storica doppiezza dei Savoia, prova a
trascinarci in guerra. L’Austria però non vuole mollare il Trentino. Allora il re
si rivolge all’altra parte. Il 12 agosto l’ambasciatore a Londra Guglielmo
Imperali di Francavilla sonda delicatamente il Foreign Office e comunica le
preoccupazioni italiane su possibili sviluppi a suo svantaggio della guerra. In
caso di passaggio di campo, però, la nostra richiesta comprende non solo
Trento ma anche Trieste. Per il momento non se ne fa nulla. L’offensiva
tedesca è in grande sviluppo. Qui appare una costante della nostra politica
estera fino alla successiva primavera. Ad ogni offensiva tedesca, ci
riavviciniamo alle nostre due antiche alleate. Ad ogni sconfitta della Triplice,
andiamo a sondare il campo avverso.
La nascita delle ideologie
Fino a luglio era l’ottocento, la cavalleria, le grandi decisioni prese nei
ricevimenti della nobiltà. Da agosto è il novecento, la guerra, la
meccanizzazione della violenza, lo scontro delle ideologie. Un cozzo di civiltà,
di razze, di sistemi politici e sociali. La brutale invasione del Belgio ha scosso
le coscienze. L’Intesa, né migliore né peggiore degli imperi centrali, può
rivendicare di combattere per difendere i diritti dei popoli contro
l’imperialismo. Perfino l’autocrate zar Nicola II promette ai polacchi la
restituzione della loro autonomia alla fine della guerra. Si vedrà a Versailles
cosa resterà di tutte queste promesse.
In Italia alcune piccole minoranze molto rumorose iniziano ad agitarsi in
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favore della Francia repubblicana. Già la sera del primo agosto, a Parigi, gli
italiani si riuniscono in assemblea per creare una legione italiana. L’11 agosto
Peppino Garibaldi inizia a raccogliere volontari italiani in favore della
Francia. “O sui campi di Borgogna per la sorella latina o a Trento e Trieste”.
Il giorno dopo, Cesare Battisti, deputato socialista moderato a Vienna, si
trasferisce in Italia con il progetto di convincere la sinistra italiana a lanciare
la guerra in favore delle terre irridenti. Pagherà con la vita.
I socialisti, riunita tardivamente la direzione il 3 agosto, segno della loro
futura incapacità di governare gli eventi, annunciano una politica di neutralità
assoluta. Niente guerra tra proletari, neppure se si tratta di difendere la libertà
e la democrazia dei popoli. È una lettura delle cose molto limitata, anche se
riflette da vicino i sentimenti del paese. Mussolini, direttore dell’Avanti!,
sostiene la linea intransigente del partito, sebbene simpatizzi apertamente per
i belgi, con strali feroci contro il militarismo tedesco. Mussolini difende Hervé,
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l’antimilitarista francese arruolatosi volontario nell’esercito francese. “Non è
un guerrafondaio... così come non è un delinquente il pacifico cittadino che
deve d’un tratto ricorrere alla browning per difendersi dall’attacco del
bandito”. Non dimentichiamo che Mussolini non è un pacifista. Ama la forza,
l’ira, è un futurista romagnolo che vorrebbe risolvere i problemi a fucilate.
La guerra scuote. A sinistra nasce il filone dell’interventismo democratico,
in polemica con l’imperialismo e il nazionalismo. Salvemini, sull’Unità del 7
agosto, proclama che “la neutralità assoluta... non è in alcun modo sostenibile,
né dal punto di vista teorico, né da quello pratico.” Ma Salvemini ne ha anche
con i nazionalisti che vogliono l’espansione dell’Italia, affermando che
l’obiettivo nazionale sono solo le terre austriache a grande maggioranza
italiana e non quelle altrui, Trento ma non l’Alto Adige, il Friuli ma non
Trieste e l’Istria, dove vivono molti slavi. Qualche giorno dopo il partito
repubblicano, richiamandosi al patriottismo risorgimentale e antiaustriaco, si
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dichiara favorevole all’ingresso in guerra al fianco della Francia. È il primo
smottamento del fronte antimilitarista. Pure Nenni si schiera per l’intervento.
“Fra tutte le possibili soluzioni la neutralità era quella che mi faceva più
orrore.” Più prevedibile l’atteggiamento dei socialisti riformisti di Bissolati (che
si arruola volontariamente a 50 anni come alpino semplice) che sono da subito
per preparare il proletariato alla guerra contro l’Austria, per distruggere la
“grande gabbia dei popoli”.
La guerra costringe a fare scelte. Il 18 agosto il sindacalista rivoluzionario
Alceste De Ambris, durante un discorso tenuto a Milano si schiera con la
Francia. “Se domani la grande lotta richiedesse il nostro intervento per
impedire il trionfo della reazione feudale, militarista, pangermanica, potremo
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noi rifiutarlo? (…) Compagni! Io pongo la domanda: Che faremo qualora la
civiltà occidentale fosse minacciata d’esser soffocata dall’imperialismo tedesco
e solo il nostro intervento potesse salvarla? A voi la risposta!”
Nel frattempo i futuristi Marinetti e Russolo si arruolano nel Battaglione
Lombardo volontari ciclisti. Nazionalisti e futuristi vogliono la guerra per la
guerra, contro chiunque, purché si sparga sangue. Occorre risanare l’Italia
dalla muffa della sua storia. Non vogliono un paese che viva di turismo e di
musei. L’Italia deve affermarsi come grande potenza. Dalla loro parte artisti,
giovani maschi pieni di testosterone, studenti, figli della borghesia. Contadini
ed operai restano refrattari a qualsiasi discorso di potenza. Hanno troppo
daffare per mettere insieme il pranzo e la cena.
Bissolati
La guerra divide le persone.
Toscanini, reduce da vari trionfi a New York, si trova nell’agosto del 1914 a
Viareggio insieme alla famiglia Puccini. La figlia Wally Toscanini racconta che
“Puccini era un germanofilo, mentre papà odiava i tedeschi (…) Un giorno
Puccini si lamentava dicendo che tutto andava male in Italia, che non c’era
ordine, che tutti imbrogliavano, che le autorità facevano i propri interessi, che
i poveri avevano sempre la peggio. Puccini terminò il suo discorso dicendo
‘speriamo che vengano i tedeschi a mettere le cose a posto.’ Papà diventò una
belva. Scattò in piedi e si chiuse in casa. Disse che non sarebbe più uscito
perché se avesse incontrato Puccini lo avrebbe preso a schiaffi (…) Dopo una
settimana però si riconciliarono.”
Puccini e Toscanini alla Fanciulla del West
Anche la neutralità costa.
Giolitti approva la scelta di neutralità. È l’unico a conoscere bene la
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debolezza dell’esercito, della burocrazia e del paese. In una lettera a San
Giuliano del 5 agosto scrive “Ritengo che ora più che mai dobbiamo coltivare
i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e far quanto ci è possibile per limitare
o abbreviare le conseguenze del conflitto. Come ritengo pure che dobbiamo
tenerci militarmente pronti.” Sarebbe una politica di grande saggezza.
Gettare il peso dell’Italia come onesto mediatore tra le parti, che forse ci
avrebbe dato qualche significativo beneficio. Il nostro governo non tentò mai
di esplorare questa strada, schiavo della politica di potenza, e nel frattempo
rimanendo alla finestra a guardare.
Un tipo di passività che costa cara.
Dall’inizio di agosto migliaia di italiani sono costretti a rimpatriare da
Francia e Germania. Hanno perso tutto. Giungono su treni stracarichi. Alcuni
bambini muoiono nella calca. A migliaia si rifugiano a Basilea dove sono
assistiti dalle organizzazioni umanitarie svizzere. Molti si mettono in cammino
a piedi per superare il Piccolo San Bernardo portando a mano i pochi averi.
La pioggia insistente e il freddo mietono vittime. Il governo italiano si mobilita
per alleviare la situazione. Allestisce treni speciali per trasportare i migranti ai
loro paesi di provenienza dove li aspetta un gramo destino di miseria e
disoccupazione, distribuisce sussidi, generi di conforto. Poca cosa di fronte a
questa tragedia collettiva. Alla fine saranno quasi quattrocentomila i
rimpatriati, che si portano dietro vite spezzate.
La grande battaglia chiude i mercati internazionali. I prezzi degli alimenti
salgono immediatamente. L’economia, che aveva appena ripreso vita dopo la
recessione del 1913, rischia di ripiombare in una nuova crisi. L’Italia non ha
sufficiente grano per sfamarsi, carbone per le industrie, risorse pubbliche per
stabilizzare la produzione. Il governo emana dei modesti provvedimenti per
alleviare la crisi: vengono bloccate le esportazioni di beni alimentari, sperando
nel frattempo nell’arrivo del grano americano. L’Inghilterra promette di
mantenere i rifornimenti di carbone, nonostante le difficoltà di navigazione.
Le industrie chiedono deroghe al rigido regime di autarchia. Alla fine il
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governo cede, permettendo l’esportazione dei prodotti non indispensabili alla
difesa e al mercato interno. La FIAT potrà quindi esportare le automobili di
lusso ma non i camion necessari all’esercito.
La guerra si fa sentire da vicino. Nell’Adriatico le squadre navali francoinglesi ricacciano gli austriaci nei porti e sostengono con vigore il Montenegro
dal mare. L’Albania, ostaggio delle mire delle grandi potenze, è in crisi
terminale. Gli insorti mussulmani dilagano. Si moltiplicano gli arresti di
presunte spie, soprattutto austriache e tedesche. Circolano voci incontrollate
di mobilitazione in Veneto e in Trentino e i governi italiano e austriaco
ribadiscono fermamente i loro intenti non ostili, ma i sospetti dall’una e
dall’altra parte aumentano.
La guerra fa la prima vittima illustre
Il 17 agosto si ammala il papa Pio X che ha tentato in ogni modo di
fermare la follia della guerra, senza ricevere alcuna considerazione.
L’Imperatore Francesco Giuseppe aveva chiesto addirittura una benedizione
speciale per le sue armi. Pio X si era rifiutato. L’agonia del papa è breve. A
mezzogiorno del 19 riceve l’estrema unzione mentre una folla enorme si
raduna in Piazza San Pietro. Muore all’1.35 del 20 agosto di pericardite, di
dolore se vogliamo usare un altro termine. Viene ricordato soprattutto per
aver aperto ai cattolici la possibilità di partecipare alla politica nazionale in
funzione antisocialista. Il conclave inizia il 31 agosto non senza
preoccupazioni per la situazione bellica. Il governo italiano si premura di
assicurare a tutti i cardinali libero passaggio verso Roma.
Mentre le armi si incrociano in tutta Europa, alcuni cercano di continuare
la loro vita. Sibilla Aleramo, la maggiore personalità femminile dell'epoca,
continua con i suoi amori disperati. Stavolta è invaghita del giovane pittore
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Michele Cascella con cui convive ad Ischia. Lei 38 anni, lui 22 anni e una
lunga carriera davanti. Il 29 agosto si trovano al foro di Pompei. Scrive.
“Michele dipinge. Un guardiano, seduto sui gradini, legge da solo ad alta
voce, gestendo ampio, il giornale coi resoconti delle disfatte francesi. Sulle
lastre di marmo corrono formiche. Cielo grave d’acqua. Vesuvio turchino con
enorme pennacchio sfumante. Farfalline bianche. Neppure un visitatore. Pino
di smeraldo sopra le arcate rossicce.”
Un ultimo momento di serenità prima dell’arrivo dell’autunno.
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SETTEMBRE 1914
Quanto durerà la guerra?
Forse finirà prima dell’inverno. I tedeschi sono stati fermati sulla Marna e
si sono ritirati. Il mito dell’invicibilità prussiana è spezzata. Gli austriaci le
stanno prendendo sonoramente dai russi in Galizia e dai serbo-montenegrini
in Bosnia. Per gli imperi centrali l’unica nota positiva è la vittoria contro i
russi in Prussia orientale. Nel frattempo gli inglesi stanno spazzando via le
colonie tedesche in Africa e Oceania, con un piccolo aiuto dei giapponesi.
Francia, Gran Bretagna e Russia si impegnano a non firmare una pace
separata. È una dichiarazione di guerra ad oltranza, fino all’esaurimento. Nel
corso della battaglia di settembre, i tedeschi distruggono la cattedrale gotica di
Reims, dando così una grande arma propagandistica in favore dell’Intesa. Un
gruppo di intellettuali europei, tra cui il nostro Leoncavallo e l’immancabile
D’Annunzio, firmano un manifesto antitedesco. La guerra è feroce e nutrita
da ideologie contrapposte. A zero le speranze di pace.
Dopo la morte di Pio X, il nuovo papa è Giacomo Della Chiesa,
arcivescovo di Bologna, divenuto cardinale solo in maggio. Non è mai
avvenuto che un cardinale di fresca nomina fosse eletto al soglio di Pietro. A
giocare per la sua elezione contribuisce sicuramente la situazione
internazionale. Benedetto XV si pone come primo ed unico obiettivo quello
di riportare la pace in Europa. La sua prima enciclica contro la guerra viene
pubblicata pochissimi giorni dopo la sua elezione. Resterà inascoltata.
La neutralità non fa bene all’Italia. I serbi avanzano contro gli austriaci in Bosnia e ciò ci rende inquieti. Non
rischiamo di lasciare agli slavi Trieste e la Dalmazia? Nel frattempo lo stato
albanese si disintegra. Il 3 settembre il principe di Albania, Guglielmo di
Wied, abbandona il trono su una nave italiana. Il suo regno è durato
pochissimi mesi: ritorna nell’anonimato da dove era venuto. A Roma
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Salandra si preoccupa che la Turchia, sempre più vicina alla Triplice, possa
riprendersi il Paese delle aquile. Siamo pronti ad occupare Valona, dove
abbiamo grossi interessi. Gli inglesi ci incoraggiano.
L’Adriatico sta diventando un mare pericoloso. Le squadre anglofrancesi
hanno rinchiuso la marina austriaca nelle sue basi. Gli austriaci, dal canto
loro, seminano le coste di mine e qualcuna arriva fino in Italia, facendo strage.
A fine settembre il peschereccio Alfredo P. di Fano, mentre si trova in
prossimità della costa, viene distrutto da una mina. Muoiono diversi pescatori.
Il governo ferma la navigazione civile e manda una protesta a Vienna. La
marina va a ripulire l’Adriatico. Il giorno dopo un trabaccolo di Cattolica
salta su una mina. Muoiono in nove, nessun superstite. Nel frattempo, come se
non bastasse, si notano febbrili movimenti al confine austriaco. Ufficialmente
siamo ancora alleati con Berlino e Vienna ma, tanto per evitare sorprese, gli
austriaci si fortificano e scavano trincee in montagna. Preveggenza.
La crisi morde.
Con i mercati stranieri chiusi o quasi, le esportazioni autorizzate dal
governo sono troppo limitate per sostenere la produzione industriale. Si
cercano nuovi mercati di sbocco ma, in un mondo dove tre quarti delle terre
sono colonie europee, a chi ci si può rivolgere? A settembre è tempo di
vendemmia. Il vino costituisce una componente essenziale dell’agricoltura e
quindi dell’economia nazionale. Si promette un’annata generosa in quantità e
qualità; manca però il credito e contadini e produttori rischiano il
fallimento. Tra i lamentosi, ci sono anche i produttori cinematografici che
chiedono l’autorizzazione a produrre film riguardanti la guerra, molto
richiesti dal pubblico. Il governo si oppone, temendo che questo possa
generare manifestazioni nazionalistiche contro l’Austria. I produttori
propongono di proiettare questi film solo nelle sale più care, dove la clientela è
selezionata.
La guerra continua anche in Libia. Le azioni militari proseguono per
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tenere sotto controllo le tribù arabe in rivolta. Il 9-10 settembre l’esercito
infligge una dura sconfitta agli insorti trincerati nel campo di Kaulan.
Nonostante le perdite, gli arabi continuano a colpire le carovane civili e
militari ovunque se ne presenti l’occasione.
Insomma, chi decide la guerra o la pace?
Tre persone: il re, il presidente del consiglio Salandra e il ministro degli
esteri San Giuliano. Il parlamento è chiuso. Giolitti, che guida la delegazione
liberale che sostiene il governo, è in ritiro in Piemonte e si fa sentire poco. San
Giuliano sta sempre peggio: gli attacchi di gotta si ripetono con frequenza
preoccupante, costringendo il ministro a restare chiuso nel suo appartamento
alla Consulta, l’allora sede del ministero degli esteri. Filtrano finte notizie
tranquillizzanti: il ministro continua a lavorare febbrilmente e a vedere gli
ambasciatori stranieri ma non partecipa ai consigli dei ministri e non può
vedere Vittorio Emanuele III quando i ministri vanno al Quirinale a portargli
alla firma i decreti. La malattia del ministro scatena le consuete chiacchiere
romane su possibili cambiamenti della squadra governativa. Si sussurra di una
possibile sostituzione di Salandra.
Il 19 settembre si tiene il primo Consiglio dei ministri dopo le vacanze.
Dura ben tre ore e lo scarno comunicato finale afferma che si è parlato della
situazione internazionale, confermando la neutralità dell’Italia e la necessità
di continuare la preparazione militare. In più il governo emana
qualche provvedimento per favorire l’imminente vendemmia e per finanziare
opere pubbliche per combattere la disoccupazione. Ben poca cosa rispetto alla
gravità della crisi.
E, tanto per fugare ogni dubbio che Salandra non mollerà la poltrona, il 30
settembre un gruppo di deputati liberali conservatori vota all’unanimità una
dichiarazione di fiducia nel governo. Salandra, dal canto suo, si commuove e
chiede libertà di azione perché il governo non può dire tutto e quindi chi è
fuori del governo non può avere tutte le informazioni per fare una scelta
70
consapevole. Il governo farà parlare i fatti, evitando dichiarazioni inutili.
“Parlare poco insomma ed agire, se necessario. L’esercito è pronto.”
Parlamento, stampa ed opinione pubblica discutano se vogliono ma siccome
non sanno nulla, è meglio che non si impiccino. Così si ragiona all’epoca e per
tutti era la normalità.
L’esercito non è affatto pronto. Il generale Cadorna comunica nuovamente
a Salandra l’impreparazione delle forze armate ad affrontare un conflitto. Il re
è sovraffaticato e soffre di una grave forma di depressione nervosa dovuta alla
crisi e, soprattutto, alla preoccupazione per le sorti della dinastia. Sa che
l’esercito è in pessimo stato e ha timore di essere considerato un Savoia che
manca alla parola data. San Giuliano suggerisce a Salandra, in una lettera del
24 settembre, di rinviare la decisione sull’entrata in guerra alla primavera. Le
decisioni irrevocabili sono rinviate. Del resto, ancora nessuno ci ha offerto
qualcosa di tangibile.
Repubblicani, nazionalisti, futuristi alla guerra.
Mentre gli Amleti d’Italia esitano, aspettano e tramano, le piazze
cominciano ad agitarsi per l’intervento. Comincia D’Annunzio dalla Francia.
Storico capobanda delle fanfare e della fanfaronate nazionaliste, lancia a fine
settembre un appello agli italiani a scendere in guerra contro l’Austria, il
nemico senz’anima, per la rinascita delle “razze latine”, una sua fissazione.
“Siamo in piena invasione dei Barbari”. Fuori della grecità e della
romanità “non c’è che barbarie.” Il poeta insulta un impero tra i cui cittadini
troviamo Freud, Kafka, Klimt, Schnitzler, Musil, tanto per fare qualche
nome. Da Parigi D’Annunzio manda esaltate corrispondenze di guerra. A
metà settembre, dopo molte insistenze, i comandi francesi si rassegnano a
fargli visitare il fronte della Marna. Racconta il bombardamento della
cattedrale di Reims come se ci fosse stato. Non vede sofferenze, distruzioni,
orrori. Vede solo Idee con la lettera maiuscola, eroi mitologici, i buoni soldati
francesi che combattono nel cuore profondo della Francia. Vede razze, non
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persone. I suoi articoli rimbombano di descrizioni liriche e sonanti, descrive
una messa solenne in una chiesa di campagna con i militari che cantano in
perfetta unità con le donne e i bambini ma la realtà non è la sua realtà.
Gli interventisti si dividono in esaltati nazionalisti come D’Annunzio e
Federzoni e in democratici come Salvemini. I primi amano la guerra come
strumento di virile affermazione della nazione. I secondi vogliono la guerra
per finire tutte le guerre. In una cartolina alla moglie di Cesare Battisti,
Ernesta, Salvemini dice “Certo, se usciamo dalla neutralità, usciremo contro
l’Austria. Ma ne usciremo? I formaggiai e i socialisti di Milano non vogliono
saperne di guerra. Non capiscono che la guerra è oggi il solo modo per fare la
pace e per diminuire in seguito le spese militari.”
Il 5 settembre il sindacalista rivoluzionario Filippo Corridoni viene
rilasciato. “La guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario” dice. Il suo
sindacato, l’USI, si spacca. Il 13 la corrente maggioritaria approva una
mozione antimilitarista. Per reazione gli interventisti, capitanati da Amilcare e
Alceste De Ambris e da Filippo Corridoni, abbandonano l’organizzazione e
fondano l’Unione italiana del lavoro. I socialisti riformisti di Bissolati
assumono posizione in favore dell’intervento in guerra al fianco della Francia
con un ordine del giorno della direzione e del gruppo parlamentare.
Vestiti antineutrali?
L’11 settembre l’artista futurista Balla pubblica il manifesto “Il vestito
antineutrale”. Vuole sostituire il vecchio, cupo e soffocante abbigliamento
maschile con uno più dinamico e colorato, asimmetrico e colorato, che rompa
con la tradizione e si adegui al concetto futurista di modernità e progresso, e
rendere l’uomo più aggressivo e bellicoso.
Lo stesso giorno, domenica, avvengono le prime manifestazioni a Roma
contro la neutralità, a cui partecipano socialisti riformisti, repubblicani e
nazionalisti. Una bella congrega. Le dimostrazioni cominciano al Quirinale al
momento del cambio della guardia e proseguono, controllate a fatica dalla
72
polizia, per il centro. I manifestanti gridano “Viva l’esercito! Viva Trento!
Viva Trieste!” Il governo ricorda ai prefetti di impedire ogni tipo di
manifestazione, anche patriottica.
I socialisti si rifugiano nell’intransigenza. Il giovane sindacalista
rivoluzionario Sergio Panunzio scrive un articolo per il quindicinale di
Mussolini “Utopia” dal titolo “Guerra e socialismo”: “Chi sostiene la causa
della pace sostiene inconsciamente la causa della conservazione del
capitalismo”. Panunzio ha intuito il carattere rivoluzionario della guerra, che
indebolirà la borghesia e gli stati liberali. Panunzio, amico di Mussolini,
diventerà uno dei massimi sostenitori del fascismo. Mussolini è pieno di dubbi.
Si rende conto che in molti ambienti, soprattutto tra i giovani, la posizione di
neutralità assoluta è scarsamente compresa. “Sono triste e scoraggiato” scrive
all’amica anarchica futurista Leda Rafanelli, con cui il futuro duce ci sta
provando da tempo senza esito. “Gli ubriachi aumentano. Ne incontro di
quelli che non bevevano, eppure… Ancora qualche giorno e diffiderò di voi,
di me stesso…” Mussolini si rifugia nell’intransigenza assoluta. Il 13 Mussolini
risponde a Panunzio sull’Avanti! con un articolo intitolato “Contro le
inversioni e le manifestazioni del sovversivismo guerrafondaio – Proletari
italiani, chi vi spinge alla guerra vi tradisce.”
Sintesi futurista della guerra. Concepita a San Vittore.
Passano un paio di giorni e i futuristi organizzano clamorose chiassate
antiaustriache a Milano. Il 15 settembre appaiono nel Teatro Del Verme
rigurgitante di pubblico durante la rappresentazione della Fanciulla del West
di Puccini. “Palchi gallerie loggione scatenano 6000 mani applaudenti che
sembrano 3000 becchi agitatissimi di oche selvagge. Forbiciano la musica di
Puccini: straschichi arpeggiati, lasagne scodinzolanti nervi isterici violinati e
zuccherifilati rosa.” Dopo il primo atto Marinetti urla “Abbasso l’Austria!”.
Boccioni estrae una bandiera austriaca. Un altro futurista gli dà fuoco. “Un
lembo vampante cade sulla crema dei décolletés in poltrona.” 73
Il giorno dopo i futuristi si ripetono nella Galleria e in Piazza Duomo. “La
sera dopo dovevamo trovarci in 30. Eravamo soltanto 11. La Galleria gonfia
di folla. Tepore autunnale. Tutti i tavolini fuori. Gioia pacifica di grasse
famiglie intorno ai gelati centellinati.” Bruciano altre bandiere austriache,
mentre la polizia cerca di acchiapparli. “Fendiamo come torpediniere il mare
di tavolini e rovesciamo a destra e sinistra ondate di madri di padri impazziti,
schiuma di bambini calpestati.” Alla fine sono tutti arrestati: Marinetti, Carrà,
Piatti, Russolo e Boccioni, passeranno cinque giorni a San Vittore. Dal
carcere produrranno il manifesto “Sintesi futurista della guerra”.
Altre sceneggiate a Roma in occasione delle celebrazioni per il XX
Settembre. Secondo La Stampa sono almeno 50.000 persone tra cui ci sono
nazionalisti, repubblicani, garibaldini in giubbe rosse, studenti con berretti
goliardico e molte signore e popolane. Il corteo sfila per la città tra canti
patriottici e grida di Viva Trento e Viva la guerra. Il corteo prova ad
avvicinarsi al consolato austriaco ma viene respinto duramente dalla celere
dell’epoca. Poi si reca dai consoli belga, inglese e russo. Federzoni appende
una corona triestina su Porta Pia, sfidando la questura.
I socialisti provano a riprendere l’iniziativa. Il 22 sull’“Avanti!” viene
pubblicato un manifesto unitario dei socialisti contro la guerra, firmato da
Turati, Mussolini e Prampolini. Ideologicamente perfetta, riflette l’isolamento
internazionale del partito ed è priva di una strategia di lotta. Riconosce però
la differenza tra i due schieramenti, con l’accenno iniziale al “Belgio eroico e
pacifico che ha dovuto subire l’invasione vandalica degli eserciti tedeschi.”
Turati e Mussolini sono per l’ultima volta dalla stessa parte. Anche la
compagna di Turati, Anna Kuliscioff, ha dubbi e gli scrive lucidamente “Che
rabbia che fa in questo momento l’impotenza dei socialisti. Eppure forse
ancora sarebbe più onesto e leale di confessare questa debolezza, anziché
lanciare minacce in forma di ordini del giorno che annunziano la resistenza
alla mobilitazione “con tutti i mezzi” per non fare poi nulla, o peggio ancora
spingere in qualche luogo ad azioni che aggiungeranno nuove vittime a tanta
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gioventù già consacrata al macello?”
Pochi giorni dopo, sollecitato da Mussolini sull’Avanti!, si svolge un
referendum popolare indetto dai socialisti, che approva la linea neutralista
intransigente, mentre i cattolici lombardi, riuniti a Milano, si dichiarano a
favore della neutralità.
Ma le voci di saggezza sono sommerse già in settembre da altre più
appassionate personalità. Cesare Battisti, deputato socialista austriaco, gira
l’Italia per promuovere la liberazione delle terre irredente. Il 27 settembre
appare sulla Stampa una sua lettera al deputato socialista Morgari. Invoca la
distruzione definitiva dell’Austria, feudale, militarista e clericale, per far
rinascere le nazioni oppresse e liberare gli italiani di Trento e Trieste. La
distruzione dell’Austria “rappresenta la sconfitta di un covo d’infezione nel
cuore d’Europa.”
Lo stesso giorno la squadra di calcio del Torino ritorna dalla sua tournée
sudamericana durante la quale ha battuto 2-0 la nazionale argentina. Il calcio
è già saldamente nel cuore degli italiani. Fra pochi giorni comincerà il
campionato. Una salutare distrazione dai tristi pensieri della guerra.
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OTTOBRE 1914
Cupe vampe
Le cupe vampe della guerra si allungano sul continente ma l’Italia cerca
ancora di vivere la sua bella estate. Questo mese comincia con qualche nota
allegra. Il 5 ottobre il Quirinale annuncia che la regina Elena è incinta del suo
quinto figlio. La nascita è prevista per gennaio.
Domenica 4 riprende finalmente il campionato di calcio. Edizione
maggiorenne, la diciottesima. Edizione maggiorata, con ben 36 squadre divise
in sei giorni eliminatori nel torneo maggiore della Pianura padana, l’unico che
conti. Favorite le solite piemontesi, la Juventus, il Torino reduce da una bella
tournée in America Latina, il Casale scudettato, il Pro Vercelli, poi Genoa,
Milan e Internazionale. Non c’è altro. Emilia e Veneto hanno poca roba. A
sud del Po è il deserto pallonaro, 15 squadrette toscane, romane e napoletane
si affronteranno per il titolo di campione centro-sud, da cui uscirà la
contendente al titolo finale con la vincitrice del torneo settentrionale. La
prima fase è scontata. Passano il turno le prime due di ogni girone e le quattro
migliori terze. Le grandi sono seccate di questa fase inutile in cui si giocano
partite senza storia e i campioni rischiano un infortunio. All’esordio il Genoa
travolge l’Acqui 16-0, la Juventus batte il Valenzana 9-0, il Milan fa a pezzi
l’Audax Modena 13-0 e così via. Fino a Natale ci sarà poco da divertirsi. Il 25
ottobre si tiene il derby di Torino, già all’epoca caratterizzato da grande
animosità. L’ultima volta, nel febbraio 1913, era finita 8-6 per il Torino.
Stavolta è un pareggio con un gol per parte.
I grandi campioni del ciclismo sono tutti al fronte: Trousselier, Lapize,
Faber. Nell’ultima prova dell’anno, il Giro di Lombardia, che si tiene
domenica 25, ci sono solo corridori italiani. La scarsità di campioni non
convince le masse ad affollarsi alle cinque di una mattina fredda e nebbiosa
per assistere alla punzonatura davanti al ristorante “Sempioncino” di Milano.
Alla partenza alle 7.15 ci sono solo 48 ciclisti, tra cui Costante Girardengo
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con la maglia tricolore conquistata la settimana prima. Vince in volata, al
termine di più di 7 ore di corsa, il rovighese Lauro Bordin davanti a Giuseppe
Azzini, per tre quarti di ruota. Girardengo arriva solo sesto.
E’ impossibile sfuggire alla guerra.
Siamo circondati e chiunque può rendersi conto che sarà impossibile per
l’Italia tenersi fuori dal conflitto. Posto che i nostri capi lo vogliano davvero. In
ottobre i tedeschi occupano Anversa. Il Belgio saluta il novero delle nazioni
indipendenti. Il fronte occidentale si va stabilizzando dal Canale della Manica
alla frontiera svizzera ma resta ancora alta l’illusione che la guerra non durerà
a lungo. Ad est c’è più movimento ma l’offensiva tedesca si ferma sulla
Vistola. I russi tengono meglio del previsto. Gli austro-ungarici sono indeboliti
dalle divisioni nazionali ed etniche. La guerra si avvicina all’Italia. Si
moltiplicano gli arresti di presunte spie austriache, colte con appunti su
caserme, fortificazioni, porti. I russi cercano di coinvolgerci proponendo di
spedire in Italia i prigionieri di guerra austriaci di origine italiana. Una bella
proposta avvelenata che ci metterebbe in una pessima posizione nei confronti
di Vienna.
Ad est dell’Italia, l’Albania non ha pace. Il paese è dilaniato dalle bande. A
sud i greco ortodossi che vogliono l’annessione alla Grecia fanno strage di
mussulmani che fuggono verso Valona. L’Italia vorrebbe tanto non farsi
risucchiare dal gorgo albanese ma Valona è la chiave d’ingresso dell’Adriatico.
Dopo giorni di tentennamenti, il 26 ottobre sbarca a Valona una spedizione
“sanitaria” come si chiamavano allora gli interventi militari, con lo scopo
ufficiale di aiutare i profughi in fuga dall’Epiro. E’ una formula ambigua, per
rispettare formalmente la sovranità albanese. Pochi giorni dopo il tricolore
sventola sull’isola di Sasseno che chiude il porto di Valona. L’operazione
occupa in complesso sei navi militari e 1200 uomini.
Anche la quarta sponda è in difficoltà. Nonostante la campagna di
repressione dell’estate, la ribellione araba in Libia continua. Il bel suol d’amor
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è la tomba di tanti giovani. Il 13 ottobre una carovana che trasporta
rifornimenti per la guarnigione di Agedabia in Cirenaica viene attaccata dai
ribelli: 26 morti tra gli italiani, 15 tra le truppe indigene, più 25 feriti. Un’altra
carovana viene assalita il 20. Lasciamo 6 morti ed 8 feriti. La ribellione libica
continua ad essere alimentata dalla Turchia che scivola sempre più verso la
guerra a favore degli Imperi centrali. A fine ottobre i turchi lanciano
improvvisi attacchi contro le basi russe senza dichiarazione di guerra. La
situazione strategica nel Mediterraneo cambia e noi ci troviamo con la guerra
praticamente in casa. La Gran Bretagna deve proteggere l’Egitto e il Canale
di Suez. La Grecia non potrà restare inerte di fronte al ritorno della Turchia.
Bulgaria e Romania non resteranno ferme. L’Italia però non è
pronta. Salandra aspetta. Fa bene.
Il sacro egoismo
Sul piano politico il mese di ottobre è un momento decisivo. Già a
settembre si erano rincorse le voci di un rimpasto di governo, se non di una
sostituzione di Salandra. Solo Giolitti, che fa il gentiluomo nel suo Piemonte,
ha il potere di dividere Salandra dalla poltrona. E allora Salandra ne
approfitta: trasforma le crisi di ottobre in altrettante occasioni per consolidare
la sua posizione. La prima crisi si stende il 10 ottobre quando il ministro della
guerra, generale Grandi, si dimette in contrasto con Cadorna, Capo di Stato
Maggiore, che pretende 600 milioni di lire per l’esercito. Lo sostituisce il
generale Zupelli, fedele al testardo Cadorna.
Il 16 muore di gotta il ministro degli esteri San Giuliano. Salandra prende
l’interim mentre agita una caramella al suo sodale Sydney Sonnino che esita.
Interessante il discorso che Salandra compie il 18 ottobre al palazzo della
Consulta, allora sede del Ministero degli esteri, ai diplomatici italiani, in cui
afferma che deciderà il miglior corso “…con animo scevro da ogni
preconcetto, da ogni pregiudizio, da ogni sentimento che non sia quello
dell’esclusiva e illimitata devozione alla Patria nostra, del sacro egoismo per
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l’Italia.” Questa frase resterà il simbolo del cinismo di un’intera classe
dirigente.
Pochi giorni dopo una nuova crisi spacca la compagine governativa. Il
Ministro del tesoro Rubini, di tendenza neutralista, contrario all’aumento
delle spese militari, si dimette dopo un tempestoso consiglio dei ministri.
Salandra sale dal re a rimettere il mandato, sapendo bene che nessun altro
potrà prendere il suo posto.
Dov’è il sottomarino?
La mattina di sabato 3 il sottomarino numero 43 lascia il cantiere navale
FITA-San Giorgio di La Spezia per un normale collaudo. I sedici membri
dell’equipaggio non hanno alcuna idea di cosa abbia deciso di fare il loro
comandante, l’ex capitano di vascello ingegnere Angelo Belloni, geniale e
folle. A sera il mezzo non è ancora rientrato. Si teme una disgrazia. Nessuno
può immaginare la pensata di Belloni.
. Nell’ufficio di Belloni i colleghi trovano un suo messaggio alla madre che
dice che sta per partire per una destinazione ignota per fare una strage. Tre
giorni dopo il sottomarino appare in Corsica. Belloni si è presentato a Bastia
per farsi consegnare dai francesi i siluri per lanciare una guerra personale
contro l’Austria nell’Adriatico. I francesi lo acchiappano e lo rispediscono il in
manette in Italia. Nel clima iperneutralista queste provocazioni sono mal viste.
Belloni rischia una pesante sentenza e lunghi anni di carcere. Finirà
all’italiana, qualche mese dopo.
In un altro settore, Giovanni Caproni riesce finalmente a realizzare e far
volare il prototipo di un bombardiere a tre motori, il Ca.31. Caproni godeva
dell’aiuto di Giulio Douhet, comandante del Battaglione Aviatori, che aveva
già capito l’importanza del dominio dell’aria, e della convinta ostilità
dell’ispettore dell’Aeronautica Maurizio Moris che riteneva completamente
sbagliato il progetto. Tanto sbagliato che l’aereo fu utilizzato durante la guerra
dall’aviazione italiana, francese, britannica e americana.
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Agitati in agitazione
“Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra
è spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e
distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi” così scrive
Papini su Lacerba del primo ottobre. Gli interventisti di ogni risma si agitano.
Sono pochi e rumorosi, con obiettivi diversi. Chi vuole la guerra per la
democrazia, la rivoluzione, l’autodeterminazione. Chi vuole la guerra come
sola igiene del mondo.. Per questi ultimi la paura è di arrivare troppo tardi, a
cose fatte, quando non potremo reclamare la parte del bottino dei vincitori.
Lunedì 5 ottobre appare il manifesto del Fascio rivoluzionario d’azione
internazionalista, che nasce dagli ambienti del sindacalismo rivoluzionario e
che segna la prima saldatura tra istanze rivoluzionarie e nazionalismo,
l’humus in cui prospererà il fascismo dopo la guerra. Al comitato promotore
aderiscono nomi come Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Angelo Oliviero
Olivetti, Libero Tancredi, tutte personalità rilevanti nel successivo regime
mussoliniano.
Prosegue la campagna personale del socialista Cesare Battisti nel nord
Italia in favore dell’intervento. Salvemini avverte Ernesta Battisti affinché il
marito non si mescoli con i nazionalisti. “La campagna di Battisti deve
conservare carattere democratico. Battisti non deve lasciarsi sequestrare dai
nazionalisti. Se si presenta in compagnia dei nazionalisti, indispone quegli
elementi democratici e socialisti, che possono essere ancora conquistati, e si
prende tutti i tumulti diretti contro i nazionalisti.” Gli austriaci spiccano un
mandato di cattura contro il traditore e lo fanno seguire da spie.
Ma tutti questi movimenti sono poca cosa rispetto a quello che sta
maturando nella mente inquieta, rozza e geniale di Mussolini, probabilmente
uno dei leader politici più temuti ed amati dell’epoca. Lo scoppio della guerra
l’ha messo in crisi. Per uno spirito combustibile come il suo, la neutralità è uno
spreco di energie. Gli interventisti più accesi lo sollecitano a passare dalla loro
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parte. In ottobre cominciano ad apparire pettegolezzi e voci sulle oscillazioni
di Mussolini. Il 4 ottobre un articolo sul “Giornale d’Italia” di Lombardo
Radice attacca le esitazioni di Mussolini, pur senza nominarlo. Il 7 ottobre sul
Resto del Carlino Libero Tancredi attacca la doppiezza di Mussolini, che
vorrebbe la guerra ma spera che sia il governo a proclamarla. Mussolini nelle
risposte dichiara le sue simpatie per la Francia e la sua ostilità per l’Austria,
cercando di non saltare il fosso, difendendosi con arditi equilibrismi “sono
venuto a valutare l’eventualità di un intervento italiano nella conflagrazione
europea da un punto di vista puramente e semplicemente nazionale. Il che
non esclude che sia proletario.”
Salvemini colse molti anni più tardi questo momento. “Un giornalista deve
avere al momento buono un’opinione pronta per qualsiasi avvenimento, e
deve esprimere tale opinione anche prima di averci pensato su. La disgrazia di
Mussolini derivò dal fatto che la sua natura egocentrica e violenta non gli
permise di mostrare al pubblico quei dubbi che si andavano insinuando nel
suo animo folle. Continuò a brandire la sua penna come si usa una spada,
senza accettare di venire mai contraddetto su quanto scriveva, mentre in cuor
suo non era affatto sicuro di quello che avrebbe pensato il giorno dopo.”
Mussolini rompe gli indugi il giorno che si apre la Direzione del PSI. Il 18
ottobre l’Avanti! pubblica un suo editoriale che si intitola molto chiaramente
“Dalla neutralità assoluta a quella attiva e operante”. Mussolini smonta
l’impossibile tesi assolutistica del partito proponendo una neutralità a favore
dell’Intesa contro l’Austria. Il ragionamento è basato sul rifiuto
dell’immobilismo del partito e sul ruolo che l’Italia potrebbe avere per
accelerare la conclusione del conflitto e in favore della rivoluzione proletaria.
“Vogliamo essere – come uomini e come socialisti – gli spettatori inerti di
questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne – in qualche modo e in
qualche senso – i protagonisti?” Emerge la personalità convulsa, l’ansia di
protagonismo, la voglia di primeggiare e di essere dalla parte di chi vince.
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La cacciata.
Se Mussolini spera di portare dalla sua il partito con un tipico gesto di
audace rottura, ha fatto male i calcoli. La direzione del PSI lo sconfessa
all’unanimità. Mussolini scrive il 20 il suo ultimo articolo per L’Avanti! e si
dimette. La presa di posizione di Mussolini suscita un forte dibattito che la
direzione del PSI si sforza di soffocare. Costringe i socialisti a porsi il
problema della guerra e della sua posizione nella politica italiana. Il PSI deve
avere una politica e sporcarsi le mani oppure deve attendere in una posizione
moralmente ineccepibile ma sterile? Molti, tra cui il sindaco socialista di
Milano, chiedono un congresso straordinario. La sera del 21 Mussolini si
presenta ad un’assemblea dei socialisti milanesi in cui viene acclamato proprio
per le sue posizioni interventiste. In questo momento Mussolini non pensa a
lasciare il partito.
Molti giovani socialisti sono istintivamente dalla parte di Mussolini. A
Torino, due studenti di scarsi mezzi si interrogano sul futuro del partito. Il 31
ottobre Gramsci pubblica uno dei suoi primi articoli su “Il Grido del Popolo”
dal titolo “Neutralità attiva ed operante” che, pur non sostenendo Mussolini,
sosteneva la tesi che il partito e il proletariato dovevano riprendere l’iniziativa
altrimenti l’avrebbero lasciata alla classe dominante. Gramsci critica “la
comoda posizione della neutralità assoluta”. Il giovane sardo, prima della
pubblicazione, fece vedere l’articolo a Togliatti che, interventista democratico,
lo approvò senza riserve.
Gramsci ha 23 anni. Conduce una vita grama da studente di lettere in una
misera stanza in un quartiere popolare. Campa con una borsa di studio di 70
lire al mese più 15-20 lire mandati dal padre irregolarmente. I soldi non
bastano mai. Oltre alle tasse universitarie, deve pagare 25 lire al mese per
l’affitto della stanza, la luce, la pulizia, i pasti, la legna e il carbone per il
riscaldamento. Gli manca anche il cappotto. “La preoccupazione del freddo
non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i
piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima
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gelata”. Il 1914 è stato un anno durissimo. Povero, psicologicamente fragile,
cerca di mantenersi al pari con gli esami per non perdere la borsa di studio
ma lo sforzo lo debilita. Il suo isolamento è rotto dall’iscrizione al partito
socialista verso la fine del 1913. Frequenta i giovani compagni di partito, fra i
quali erano Tasca, Togliatti, Terracini: “uscivamo spesso dalle riunioni di
partito [...] mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci [...]
continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di
scroscianti risate, di galoppate nel regno dell’impossibile e del sogno”. Per
questi ragazzi di Torino è l’inizio di una carriera politica che farà la storia
d’Italia.
Anche questo accadeva nell’anno prima della guerra.
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NOVEMBRE 1914
Oltre l’ombelico italiano.
Se questa Europa ci lasciasse in pace… pensavano i nostri governanti cento
anni fa. Anche allora a Bruxelles comandavano i tedeschi, non con la
Bundesbank ma con gli stivaloni prussiani. Le pianure delle Fiandre si
bagnano di sangue. In tre mesi il Regno Unito ha perso 57.000 uomini,
l’Impero germanico 125.000 e la Repubblica francese una cifra di poco
inferiore. E non è che l’inizio: mancano ancora quattro anni pieni di
massacri insensati.
Anche la Turchia si butta nella mischia. C’è l’ha con la Gran Bretagna che
controlla l’Egitto, vuole riprendersi la Libia dagli italiani, vuole
raddrizzare qualche conto con il secolare nemico russo. Il sultano Maometto
V lancia la guerra santa, che però è guerra turca, visto che i turchi sono alleati
dei cristianissimi austriaci e tedeschi. Rispondono con gusto all’appello i
beduini libici che gli italiani a casa loro non li vogliono. Detto con il senno di
oggi, c’hanno pure ragione. Ma con il senno di allora a noi non sta tanto
bene.
La nave senza nocchiere? Insomma, gran bordello in Europa. E l’Italia? La nave in gran tempesta è
senza nocchiere. Nell’ultimo consiglio dei ministri di ottobre il ministro del
tesoro Rubini e il presidente del consiglio Salandra sono venuti alle
metaforiche mani per 400 milioni di spese militari che Rubini non voleva
autorizzare. Salandra fa finta di dimettersi per rafforzare la sua presa sul
governo. Non sia mai che i contabili della Ragioneria generale dello stato si
mettano di traverso.
Il due novembre al Quirinale cominciano le consultazioni. Il re sa già che
confermerà Salandra, fa finta di parlare con i presidenti di Camera e Senato e
con altri politici ma un solo colloquio è importante, quello con Giolitti che il
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primo novembre, accompagnato da prefetti, autorità e assessori, sale sul
diretto delle 20.20 da Torino per Roma. Il giorno dopo si incontra con il re.
Giolitti ha il grimaldello del governo. Se vuole, l’incarico è suo, addio
Salandra e addio tricolore sventolante sui monti del Trentino. Ma Giolitti non
vuole. Gli sta bene Salandra. Forse non ha voglia di mettersi in gioco in una
situazione così complicata. Forse spera che la guerra finirà prima che
Salandra combini qualche guaio.
A sera Vittorio Emanuele restituisce il posto a Salandra che può quindi
rifare il gabinetto a sua immagine e somiglianza. Agli esteri si assetta l’amico
Sydney Sonnino, conservatore, liberale in economia, comproprietaro insieme
a Salandra del “Giornale d’Italia”, Sonnino era stato uno dei promotori
dell’impresa libica. In agosto era stato favorevole ad un intervento con gli
antichi alleati ma ora è più interessato a gettare le armi nel campo del miglior
offerente. Al tesoro, al posto di Rubini, va Paolo Carcano, ex garibaldino nella
spedizione dei Mille, un risorgimentale con attributi, non certo amico
dell’Austria. Alla guerra resta Zupelli, in buoni rapporti con l’ostico Capo di
Stato Maggiore Cadorna.
Il cinque il nuovo ministero giura nelle mani del re. Lo Statuto albertino
non prevede la fiducia ma un passaggio in Parlamento è previsto dalla prassi.
Salandra non ha fretta di riaprire Montecitorio, di cui nessuno sente la
mancanza, a parte i socialisti che vorrebbero costringere il governo ad
impegnarsi più chiaramente a mantenere la neutralità italiana.
Il governo tace. Non intende rivelare le sue intenzioni. Vuole tenere le
mani libere. Non ritiene che l’opinione pubblica sia in grado di capire le
sofisticate convulsioni della diplomazia. È un sentimento comune. Salandra
riceve il pieno appoggio dalla stampa dell’epoca che ritiene normale il riserbo
dell’esecutivo; il popolo italiano non ha diritto di dire la sua di fronte alla più
distruttiva guerra della storia europea.
Il governo lavora sulle “comunicazioni”, unico punto all’ordine del giorno
quando riaprirà il parlamento il 2 dicembre. La nazione saprà qualcosa allora,
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non prima, e solo quello che l’esecutivo riterrà opportuno rivelare.
Il passaggio di novembre apparentemente è solo un italico rimpasto di
governo. In realtà il gran pastaio, Salandra, con l’appoggio del suo sodale
Sonnino e l’occhio mai troppo assonnato del re, stanno preparando
l’intervento. Salandra, che il 14 si ha approvare dal diligente Consiglio dei
Ministri l’aumento delle spese militari per 400 milioni di lire, può cominciare
a guardarsi in giro con maggiore fiducia, in cerca del migliore offerente a cui
regalare il sangue italiano. Intanto, per rastrellare soldi, Salandra impone una
tassa anche sui biglietti del cinema.
Come dice Silvio Bertoldi nella sua biografia su Vittorio Emanuele III,
furono in tre i responsabili della guerra, contro la volontà del paese e del
parlamento: Salandra, Sonnino e il re. “La vollero, la prepararono, la
sottoscrissero segretamente in proprio, come se si trattasse di un contratto
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d’affitto. La condussero in porto eliminando tutto quanto di opponeva ai loro
disegni: maggioranza parlamentare, volontà popolare, voci dei partiti,
impegni internazionali, rapporti diplomatici, ogni cosa. Il loro, non fu un
piano di preveggenza storica, ma un gioco d’azzardo. Una scelta personale del
possibile cavallo vincente su cui puntare e, dopo, una puntata eseguita
segretamente, senza avvertire nessuno, a costo di rischi incalcolabili.”
Tutto ciò comincia a novembre. A Berlino fiutano subito che l’aria è
cambiata e che si rischia di avere un nuovo nemico. Si parla di sostituire
l’Ambasciatore Von Flotow con Von Bülow, che conosce bene l’Italia.
L’agitato scatolone di sabbia.
La proclamazione della guerra santa eccita gli animi in Libia. I ribelli
ripartono all’offensiva, aumentando le scorrerie, attaccando le postazioni
isolate, costringendo i comandi a ripiegare su posizioni più difendibili. Le
notizie che arrivano sulla stampa sono frammentarie ma la situazione è
critica. Anche se la Turchia vuole evitare lo scontro con l’Italia, suoi agenti
circolano in Libia. L’obiettivo è quello di preparare un duplice attacco
sull’Egitto e il Canale di Suez da due lati (Palestina e Libia).
Il 28 novembre contingenti arabi attaccarono i presidi di Sebha e di Ubari,
nel Fezzan. Il presidio di Sebha è annientato; quello di Ubari, assediato da
forze nemiche, non può ritirarsi.
La colonia italiana a Beirut ha paura della guerra santa. Il 27 novembre
una nostra nave militare, la Calabria, viene spedita sulle coste siriane, pronta
ad intervenire, caso mai la Turchia avesse idee strane.
La vita è bella. O quasi.
I prezzi degli alimenti crescono ma per fortuna un bastimento è in viaggio
verso la penisola carico di grano americano. I trasporti via Atlantico non sono
sicuri: i sottomarini tedeschi hanno il grilletto facile e gli assicuratori chiedono
premi altissimi. Le forti piogge che in novembre devastano il nord Italia, con
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allagamenti e straripamenti, lasciando morte e distruzione, cento anni fa come
allora.
In questo mese esce un altro dei capolavori del cinema italiano anteguerra.
Si tratta di Julius Caesar, firmato da Enrico Guazzoni, antesignano del
peplum. 86 minuti di drammone in costume con Vercingetorige, Bruto,
Cleopatra, Catone e Marcantonio. Attori protagonisti Amleto Novelli nei
panni di Cesare, uno dei maggiori interpreti dell’epoca e Pina Menichelli,
ormai proiettata tra le dive del cinema, in quelli di Cleopatra.
Nel frattempo a Firenze si aggira come un barbone il poeta Dino
Campana. Pochi mesi prima ha pubblicato a sue spese una raccolta di poesie,
i “Canti Orfici” col sottotitolo: “La tragedia dell’ultimo germano in Italia,
dedicato a Gugliemo II.” Come dire, il libro giusto al momento giusto.
Campana va per Firenze proponendo i suoi versi con scarsi risultati. Pare che
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strappi la pagina con la dedica all’imperatorino fumino di Berlino. Da anni
conduce una vita errante per il mondo, già con vari segni di squilibrio. I canti
hanno una storia incredibile. Campana aveva sottoposto il manoscritto
originale a fine 1913 al duo Papini-Soffici per una pubblicazione su Lacerba.
Soffici lo ricorda come “tarchiato, statura media, sciatto nell’aspetto e rude nei
modi, capelli biondo-rame, aria dionisiaca, occhi celesti, faccia rosea, vestito
malissimo, di pelli di capra, scarpe scalcagnate, pantaloni di mussolina troppo
corti, giaccone pastorale di mezzalana dalle tasche ampie, pieni di carta”.
Soffici smarrisce il manoscritto e non vuole perder tempo a cercarlo. Lo
ritroverà nel 1971 frugando fra le sue carte. Campana lo riscrive basandosi
sulla memoria. Resterà ancora poco a Firenze e continuerà la sua vita
vagabonda, vivendo di espedienti, lavoretti e mense popolari. Durante la
guerra avrà una breve intensa storia d’amore con Sibilla Aleramo, la prima
femminista italiana, poi sarò solo il manicomio fino alla morte.
Un appassionato di astronomia ritrae a modo suo un raro fenomeno che
avviene il 7 novembre, ossia il passaggio di Mercurio sul Sole. Giacomo Balla
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si attarda al telescopio e cerca di restituire con linee e colori quello che ha
visto. Il 1914 è stato un anno molto produttivo per Balla, in cui porterà a
termine vari progetti, come la serie delle “Compenetrazioni iridescenti” e
“Mercurio passa davanti al sole” ispirata dall’eclissi di sole del 7 novembre
1914, vista personalmente dal pittore.
Vaticano fuori dal mondo.
Benedetto XV continua la sua azione solitaria contro la guerra. Nella sua
prima enciclica, pubblicata il primo novembre, “Ad beatissimi
apostolorum”, il papa invoca la pace con un richiamo etico ai principi del
cristianesimo. Se la prende col materialismo e il socialismo e, come se non
bastasse, protesta per la scomparsa dello Stato pontificio. Fa un po’ di
minestrone di idee antiquate, destinate per questo a restare tutte inascoltate.
Ecco un passo. “Invero, da quando si è lasciato di osservare nell’ordinamento
statale le norme e le pratiche della cristiana saggezza, le quali garantivano esse
sole la stabilità e la quiete delle istituzioni, gli Stati hanno cominciato
necessariamente a vacillare nelle loro basi, e ne è seguito nelle idee e nei
costumi tale cambiamento che, se Iddio presto non provvede, sembra già
imminente lo sfacelo dell’umano consorzio. I disordini che scorgiamo sono
questi: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo dell’autorità,
l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale fatto unico
obiettivo dell’attività dell’uomo, come se non vi fossero altri beni, e molto
migliori, da raggiungere. Sono questi a Nostro parere, i quattro fattori della
lotta, che mette così gravemente a soqquadro il mondo. Bisogna dunque
diligentemente adoperarsi per eliminare tali disordini, richiamando in vigore i
princìpi del cristianesimo, se si ha veramente intenzione di sedare ogni
conflitto e di mettere in assetto la società.”
11 novembre, quarantacinque anni per re sciaboletta.
Grandi feste per Regno e colonie, tranne che a Bologna e Milano dove le
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amministrazioni socialiste non imbandierano i municipi. Chi vuole
festeggiare, è libero di farlo, dice il sindaco di Bologna. Salandra vorrebbe
punire l’affronto ma scopre che non esistono leggi per farlo.
Lo stesso giorno Gramsci riesce finalmente a dare un esame dopo mesi in
cui ha sofferto di esaurimento nervoso. Prende 27/30 in Letterature neolatine.
Ciò non gli impedirà di perdere la borsa per quattro mesi, mettendolo in
gravissime difficoltà economiche.
Il 19 novembre a L’Aquila inizia il processo per la Settimana rossa. Nenni è
fra gli imputati. Di fronte ai giudici si definisce “repubblicano e
rivoluzionario”. I repubblicani manifestano per la liberazione dei rivoltosi.
Podisti e pedate.
Lo sport è confinato all’Italia. Alla 100 chilometri di marcia, organizzata
dalla Gazzetta dello Sport, che si tiene il 15 novembre, partecipano solo
italiani, molti dei quali arruolati nell’esercito. Si parte poco prima delle tre del
mattino da Sesto San Giovanni. La giornata vive un tempo perfetto. Vince il
favorito, Donato Pavesi, in poco meno di dieci ore (9 ore 59 minuti 48
secondi). Pavesi, venticinquenne, era già un noto marciatore. Vinse moltissime
gare in Italia e all’estero e al suo palmares mancherà solo una
medaglia olimpica che avrebbe meritato. Squalificato nella tre e nella dieci
chilometri ad Anversa, giunse solo quarto a Parigi nel 1924.
Diamo un’occhiata anche ai campi di calcio del nord. Sta per concludersi
la prima fase con i gironi eliminatori. Alla penultima giornata tutte le squadre
maggiori sono già qualificate per il turno successivo. Il 29 novembre si tiene il
secondo derby torinese, una delle poche partite interessanti di questa lunga e
barbosa fase eliminatoria. Finisce 7-2 per il Torino. Altri tempi. La supersfida
tra Casale e Pro Vercelli viene invece rimandata per nebbia. Alla fine la
partita non verrà mai disputata per rinuncia della Pro Vercelli che ha già vinto
il suo girone e non ha interesse a perdere tempo.
Il 16 novembre un giovane cronista sedicenne si presenta nello stadio di
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Modena per scrivere una cronaca per la Gazzetta dello sport della partita con
l’Inter. È il primo articolo sportivo di Enzo Ferrari che è ancora indeciso se
diventare cantante d’opera, pilota automobilistico o giornalista sportivo. Nel
frattempo è la disperazione del padre. Poca voglia di studiare ma un grande
amore per i motori.
Interventismo.
Il 5 novembre viene fondato il movimento politico dei Fasci d’Azione
Internazionalista, con Michele Bianchi come segretario. Bianchi sarà un
futuro quadrumviro nella marcia su Roma e primo segretario del partito
fascista. Nazionalismo, azione, gioventù, violenza, comincia quella simpatica
fusione di parole e gesti da cui scaturiranno i fasci littori, di cui sarà la
suprema levatrice il mascellone ingrugnito del focoso forlivese, il professor
Mussolini, come lo chiamano i giornali.
Il salto di Mussolini all’altra sponda bellica ha traumatizzato il partito
socialista e scosso la politica nazionale. Il 15 novembre Mussolini fonda a
Milano il giornale “Il Popolo d’Italia – Quotidiano socialista”. Il uso primo
editoriale è chiarissimo. Contrappone l’Italia dei vivi a quella dei morti
(Giolitti, socialisti) e così si avvicina ai nazionalisti, a Salandra, anche se
ancora da una prospettiva rivoluzionaria. “Gridare: noi vogliamo la guerra!
Non potrebbe essere – allo stato dei fatti – molto più rivoluzionario che
gridare abbasso!”
Prima tiratura 30.000 copie, destinate a crescere nei mesi successivi. Il
futuro “Testa di Morto in bombetta, poi Emiro col fez e col
pennacchio” (Gadda) realizza il suo nuovo giornale a tempo di record.
Sponsor del lieto evento è Filippo Naldi, direttore del Resto del Carlino, uomo
di fiducia del defunto ministro degli esteri San Giuliano, nonché portavoce di
gruppi economici e finanziari interventisti, legati all’incremento delle forniture
militari (Fiat, Edison, Unione Zuccheri, Ansaldo ed armatori). Naldi è uno dei
più spregevoli voltagabbana della storia patria. Nell’ordine fu
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giolittiano poi fascista. Coinvolto nel delitto Matteotti, riparò in Francia come
faccendiere petrolifero. Ricomparve nel 1943 al fianco di Badoglio.
Insomma Mussolini si fece pagare dai suoi nemici storici. E lo mise in
chiaro subito. Il 19 novembre L’Avanti! attacca Mussolini come traditore “Chi
paga?” Mussolini risponde dicendo che “Io dichiaro che non un centesimo
dell’oro straniero è entrato o entrerà nel mio giornale. Il denaro del giornale è
italiano, italianissimo e borghese. Il capitale è sempre borghese.”
Mussolini non nota alcuna contraddizione, anzi replica pubblicamente
che “non esiste capitale proletario” affermazione abbastanza singolare per l’ex
leader del socialismo intransigente italiano. Più avanti, comunque, non esiterà
ad accettare anche i denari francesi. Il che spiega chiaramente chi è
Mussolini: un opportunista violento con un unico saldo principio di fondo:
faccio quello che mi pare. Con le donne, i compagni, i camerati, e con l’Italia.
Il partito socialista non è tenero con il suo ex leader. Il 24 Mussolini viene
espulso dalla sezione di Milano. La risoluzione viene assunta a Milano nel
Teatro del Popolo. Impossibile la difesa. Tra fischi e boati, Mussolini non
riesce quasi a parlare. “Voi credete di perdermi. Voi vi illudete. Voi mi odiate
perché mi amate ancora. Sono e rimarrò un socialista.” Il giorno dopo
l’espulsione Mussolini scrive un editoriale contro “la congrega che pretende
stoltamente di fermare il corso della storia”, per illuminare il proletariato e per
il socialismo. Il tono è incoerente, rabbioso e minaccioso. “Il caso Mussolini
non è finito come voi pensate. Incomincia. Si complica. Assume proporzioni
più vaste.” Un vero profeta.
La sera dopo si tiene una riunione di socialisti milanesi favorevoli a
Mussolini. Gramsci e Togliatti stracciano la tessera socialista. Mussolini
incoraggia Tasca a compagni a collaborare al suo giornale. Gramsci gli
manda un articolo sui contadini sardi che Mussolini non pubblicherà, pur
invitandolo a mandare altro. Il 29 la direzione ratifica l’espulsione di
Mussolini, non solo per indisciplina ma anche mettendo in dubbio la sua
moralità a causa della vicenda dei finanziamenti per il Popolo d’Italia.
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Prezzolini e Lombardo Radice inviano un telegramma a Mussolini: “Partito
socialista ti espelle. Italia ti accoglie.”
94
DICEMBRE 1914
Che ne sanno le donne della guerra?
Che sanno della vita, della realtà? Esseri poco razionali, prigioniere del
ciclo, ottenebrate dai sentimenti, poco più di bambini, che hanno bisogno di
un tutore legale. Già abbiamo aperto alle ragioniere. Adesso ci sono quelle che
vorrebbero fare le avvocate. Non sono capaci di badare a loro stesse e
vorrebbero difendere gli altri? Una follia degna di questo folle secolo. A
Torino le laureate in giurisprudenza inviano una petizione per chiedere
l’accesso alla professione di avvocato. Tra di loro c’è Lidia Poët, la prima
laureata in legge in Italia. Sta aspettando dal 1881. Le trombe femminili
squillano a Torino, il l’Ordine degli avvocati di Roma risponde con un
categorico no. Come tutto nel nostro paese, il dibattito sui diritti delle donne
va avanti da almeno trent’anni. Bisognerà aspettare la fine della guerra. Lidia
diventerà avvocato nel 1920, all’età di 65 anni.
Il primo dicembre viene fondata a Bologna la Società Anonima Officine
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Alfieri Maserati che all’inizio si occupa, con solo cinque dipendenti, di
sviluppare auto da gara per la Isotta Fraschini. Il 5 dicembre avviene un grave
incidente ferroviario sulla linea Roma-Napoli: 11 morti e 50 feriti. Il
6 dicembre si conclude la prima fase del campionato di calcio nel nord Italia.
Tutte le grandi sono promosse: Genoa, Pro Vercelli, Casale, Juventus, Milan,
Inter, Torino e poi altre squadre come Alessandria, Andrea Doria (Genova),
Vigor (Torino), Novara, Juventus Italia (Milano), Como, Vicenza, Hellas e
Venezia. Si ricomincerà a gennaio con quattro gironi semifinali di quattro
squadre.
Cronache dall’inferno
Il macello industrializzato di milioni di uomini è di una violenza mai vista.
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Chi era partito alla guerra con entusiasmo sotto il sole d’agosto, oggi si ritrova
in una trincea fangosa, con i piedi gelati nell’acqua, esposto al continuo fuoco
nemico, al terrore di morire in un momento, senza pace, senza possibilità di
riposare. Ad ovest il fronte si è ormai stabilizzato dalla Manica alle Alpi. I
soldati dei due schieramenti iniziano una lunga e terrificante guerra di
logoramento. I tedeschi hanno trasferito truppe sul fronte orientale dove
sperano di sfondare le linee russe. Riescono a prendere Lodz ma non vanno
molto più avanti, mentre gli austriaci le prendono dai russi sui Carpazi. Il due
dicembre l’esercito austrungarico occupa Belgrado, che i serbi riconquistano il
quindici, a prezzo di enormi perdite, sia militari che civili. Russia e Turchia
sono impegnate tra i ghiacci del Caucaso. Il Regno Unito impone il
protettorato sull’Egitto, abolendo la finzione della sovranità ottomana. Le
Isole Falkland sono testimoni di una delle poche battaglie navali della guerra:
vincono gli inglesi che affondano quattro navi tedesche e catturano la quinta. I
comandi sono fiduciosi che a primavera la guerra sarà finita.
La legione di Peppino Garibaldi.
Gli italiani in guerra, per il momento, appartengono a due categorie: nella
prima troviamo le truppe regolari che devono fronteggiare la rivolta araba in
Libia. L’aggressività dei legittimi abitanti libici ci costringe ad un graduale
abbandono delle posizioni avanzate nel deserto verso la costa. Il governo
vigila che non giungano alle orecchie dell’opinione pubblica notizie
sfavorevoli, che dimostrerebbero l’impopolarità del dominio italiano e la
nostra impreparazione militare.
Nella seconda categoria troviamo i volontari della legione italiana agli
ordini di Peppino Garibaldi, nipote di Giuseppe, già noto combattente in
Venezuela, Grecia e Messico. La legione nasce dopo non pochi travagli. Il
governo italiano non vedeva di buon occhio la presenza di nostri combattenti
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in Francia, che minacciavano la neutralità dell’Italia. Si trattava, tra l’altro, di
pericolosi repubblicani, come se non bastasse guidati da un pericolosissimo
Garibaldi. All’inizio anche la Francia è perplessa. Sono 2500 uomini, tra cui
anche molti non italiani, con una divisa francese che nasconde la camicia
rossa. Dopo un lungo addestramento, il 21 dicembre la Legione riceve il
battesimo del fuoco tra le colline dell’Argonne. Nella prima giornata cadono a
dozzine. Il 26 dicembre muore anche Bruno, il fratello di Peppino.
Il mistero Salandra
Il presidente del consiglio continua a tenere il paese all’oscuro delle sue
intenzioni. E il paese, diligentemente, lascia fare, senza porre domande. Si fida
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ciecamente. Gli unici che vorrebbero capire sono i socialisti. Resteremo
neutrali? Cosa stiamo dicendo nelle capitali europee? Perché l’aumento delle
spese militari? Dal governo nessuna risposta. Dal lato opposto gli interventisti
premono per spingere Salandra a dichiarare la fine della neutralità. Ma
insomma, nell’ora suprema della storia europea, l’Italia vuole restare fuori?
Quando diventeremo grandi? Crediamo davvero che l’Austria ci regalerà
Trento e Trieste senza combattere? Nessuna risposta dal governo.
La grande maggioranza governativa, formata da deputati ignavi,
giornalisti, industriali e banchieri, si piazza al centro del dibattito e soffoca
ogni discussione seria. Il governo sa, il governo ha le informazioni, il riserbo è
essenziale, le trattative sono delicate, la diplomazia si conduce con discrezione,
non nelle aule parlamentari. I giornali commentino, se vogliono, c’è libertà di
stampa, ma lascino fare. Quanto alle masse, il governo sta lavorando per loro,
per dargli un’Italia più grande e più bella. Per la nostra epoca tutto ciò è
inconcepibile ma questa era la normalità nel 1914 e non solo a Roma. Una
delle cose che la Grande Guerra seppellirà sarà proprio la segretezza della
diplomazia. Le guerre non sono cessate da allora, purtroppo, ma almeno
99
sappiamo perché sono vengono scatenate.
Per cui, quando il 3 dicembre riapre il Parlamento dopo cinque mesi di
vacanza, l’obiettivo della maggioranza è quello di evitare dibattiti,
imbavagliare l’opposizione e richiudere la Camera appena possibile. Il
governo ha esercitato discrete pressioni affinché i deputati iscritti a parlare
rinuncino. Il popolo italiano ha il dovere di morire per la grandezza d’Italia
ma non il diritto di chiedere perché.
Il giorno della riapertura della Camera una gran folla assiepa la spianata di
Montecitorio. Eleganti signore sfoggiano i vestiti alla moda dalle tribune
riservate al pubblico. Ci sono magistrati, militari, membri della dinastia. Tutti
i deputati sono presenti alle 14 quando il presidente della Camera Giuseppe
Marcora apre la seduta. Dopo cinque minuti entra Salandra, seguito dai suoi
ministri, tutti in redingote nera, l’abito delle occasioni solenni. Nell’aula
chiacchierona piomba il silenzio. Si sa che le comunicazioni del governo
saranno brevissime. Salandra non delude le attese. Il suo discorso dura in tutto
venti minuti e sostanzialmente dice una sola cosa, decido io quello che è giusto
per l’Italia. Quale sia l’interesse nazionale, Salandra non lo dice. Il governo
non pone obiettivi, non spiega come ottenerli, non ritiene che gli italiani
debbano essere motivati ad accettare una decisione. Le parole chiavi sono
neutralità operosa e guardinga, armata, pronta ad ogni evenienza. “Ove cessi
l’impero del diritto” resta solo la forza. L’Italia è pronta.
In mezzo al discorso accade però che Giuseppe De Felice, deputato
catanese del gruppo dei socialisti riformisti, favorevoli alla guerra contro
l’Austria, gridi “Viva Trieste italiana!” seguito da moltissimi deputati.
Salandra e ministri rispondono col gelo. Ecco il tipo di scena che rischia di
creare inutili problemi con l’Austria. Alle 14.30 Salandra ha finito. Si appella
all’unità del paese e alla concordia nazionale, scatenando un tripudio di
entusiastiche grida di “Viva l’Italia”. Fragorose invocazioni in favore del
Belgio. I deputati si alzano in piedi. Tutti, tranne i socialisti. Anche Giovanni
Giolitti resta seduto ma applaude. Al vecchio notabile piemontese tutti questi
100
sfoghi patriottardi devono sembrare fuori luogo. Forse perché lui è uno dei
pochi a sapere che l’Italia non è pronta ad una guerra. E in mente ha una
piccola mossa che potrebbe scatenare la Camera.
Due giorni dopo, Giolitti si iscrive a sorpresa a parlare. Racconta che nel
luglio 1913 il governo italiano aveva impedito all’Austria di lanciare una
guerra preventiva contro la Serbia. La rivelazione ha un effetto dirompente.
Con poche parole Giolitti ricorda a Salandra (che non era stato informato
dell’iniziativa) chi comanda in Parlamento, critica implicitamente Salandra
per non aver agito con uguale vigore in luglio per impedire l’aggressione.
Inoltre, mette in mora l’Austria. Vienna non si può lamentare che l’Italia sia
rimasta neutrale. Anche tra le grandi potenze le scorrettezze si pagano.
La Camera approva a larghissima maggioranza (493 a 49, contrari solo i
socialisti) un ordine del giorno che conferisce al governo piena libertà
d’azione. Così facendo, la Camera abiura alle proprie responsabilità. La
radice dell’intervento imposto contro il volere della nazione comincia qui. Il
10 i deputati approvano l’esercizio provvisorio fino al 30 giugno 1915 e il
giorno successivo votano a favore dell’aumento delle spese militari: 1,2
miliardi di lire. Quanti soldi sono? Proviamo a capirlo. Il bilancio dello stato
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nel 1914 era di 4,5 miliardi di lire. La spesa per la difesa, già la principale voce
di spesa, passa al 46%.
Subito dopo (12 dicembre), esausto per lo strenuo lavoro, la Camera va in
vacanza. I deputati si danno appuntamento al febbraio 1915. Inutile il
tentativo dei socialisti di continuare i lavori.
Discreti sondaggi diplomatici.
Rinfrancato dal successo parlamentare, Salandra può ripresentarsi a
Vienna col cappello in mano. Il 9 dicembre riprendiamo le trattative. La
situazione nei Balcani è cambiata. Con l’occupazione di Belgrado e la
probabile sconfitta della Serbia, potremmo invocare la clausola del trattato
della Triplice Alleanza, a cui siamo formalmente ancora legati, che prevede
compensi per l’Italia in caso di espansione dell’Austria. I nostri dirigenti si
muovono nel mondo della diplomazia col puntiglio dell’Azzeccagarbugli e la
volgarità di un parvenu. Vienna, comprensibilmente, recalcitra. Volete
Trento? State pazziando! E non vi basta! Volete pure Trieste, il porto
dell’Impero?
A Berlino, però, sentono odore di bruciato. Sanno benissimo con chi
hanno a che fare: i Savoia non hanno mai rispettato la parola data. La
Germania non ha motivi di attrito con l’Italia. La sua influenza commerciale
e finanziaria è forte, le élite italiane sono legate a quelle tedesche, ma capisce
che se l’Austria non cede qualcosa, l’Italia rischia di passare al campo
avversario. Per questo Gugliemo II decide di sostituire l’ambasciatore a Roma,
richiamando dalla sua dorata pensione il principe Bernhard Von Bülow.
Breve descrizione di Von Bülow. Ex ambasciatore a Roma, poi ministro
degli esteri e cancelliere imperiale, sposato con la principessa Maria Anna
Beccardelli, fu uno dei responsabili della politica di riarmo di inizio secolo che
portò la Germania verso un pericoloso militarismo nutrito dalla retorica. A
102
riposo dal 1909, venne richiamato per una missione di cui fu chiara fin
dall’inizio la natura: impedire l’intervento dell’Italia convincendo l’Austria a
cedere alcuni territori all’Italia.
La missione Von Bülow è un punto decisivo dei complessi passaggi
diplomatici che portarono all’intervento. Il diplomatico parte dalla Germania
con un treno speciale imperiale, accompagnato dalla moglie e da dieci
persone di servizio. Si ferma alla stazione di Milano dove ordina la cena.
Arriva la mattina del 17 a Roma, va a vivere a Villa Malta, una sua proprietà
nel cuore di Roma. Il 18 vede Sonnino che gli dice che l’Italia sarebbe rimasta
neutrale solo con la cessione del Trentino e di Trieste. Il giorno dopo
incontra Salandra. Von Bülow confessa l’impossibiltà per l’Austria di cedere
Trieste. In quel momento Salandra non ha ancora avviato formali contatti
con l’Intesa e ritiene di poter ottenere ingrandimenti territoriali senza
combattere. Ma Vienna non intende cedere.
Nel frattempo prosegue la campagna interventista. L’11 si costituisce a
Milano il fascio intervenzionista. Ci sono De Ambris, Mussolini, Michele
Bianchi, Aurelio Galassi. Mussolini iracondo: “vogliamo l’intervento
immediato. Il signor Bulow arriva col Trentino in tasca. No, noi non
patteggiamo la viltà. Basta con questa aspettativa sorniona!” Mussolini forgia
la frase ad effetto “guerra oppure rivoluzione”, minaccia che sarà abilmente
usata dal governo Salandra nei mesi successivi, per giustificare l’inevitabilità
dell’intervento. Mussolini stringe amicizia con un altro futuro amichetto del
fascio tricolore e rinnovatore dei fasti d’Italia: Italo Balbo, già comparso
durante la Settimana Rossa, che farà da guardia del corpo a Cesare Battisti.
L’altro invasato dell’epoca, Gabriele D’Annunzio, invece, è ancora a Parigi.
Freme per tornare in Italia ma aspetta il momento giusto. Nel frattempo,
sempre con i soldi degli altri, cambia casa. Si sposta nel vecchio ed elegante
quartiere del Marais. “Cinque stanze, splendidamente arredato, con boiseries,
una collezione d’armi, una di strumenti musicali, una biblioteca musicale, una
serie di statuette riproducenti divinità orientali.” Spende ancora un mucchio
103
di denari non suoi per riempirla di tendaggi e addobbi. Al suo servizio ci sono
la vecchia cuoca Victoire e la giovane cameriera Amélie-Aélis, che non si
limita a rassettargli le lenzuola.
C’è anche chi ragiona. Aldo Palazzeschi rompe con futuristi, interventisti e
nazionalisti. Su Lacerba appare un suo articolo in cui lo scrittore denuncia il
militarismo. “Mi offrite una guerra che ha per mezzo la morte e per fine la
vita, io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita e per fine la morte.”
Natale con i tuoi e con gli altri.
A Natale truppe italiane sbarcano a Valona minacciata dall’insurrezione
filoturca. I soldati italiani passano da 300 a 6.800. Decisione del re e
Sonnino, un modo per acquistare territori e aiutare i parenti montenegrini.
Cadorna critica la decisione, errata dal punto di vista militare perché disperde
le forze.
Il 7 dicembre Papa Benedetto XV propone una tregua natalizia. All’inizio
sono favorevoli Inghilterra, Belgio, Germania ed Austria. La Turchia risponde
positivamente. La Russia propone che la tregua si estenda al Natale
ortodosso. La Francia anticlericale e invasa dai tedeschi non ci sta. Il tentativo
fallisce. In compenso, in molti settori del fronte, a cavallo del Natale, i soldati
francesi, inglesi e tedeschi osservano una tregua informale, con scambio di
auguri e di piccoli doni, e perfino alcune partite di calcio, di cui sono rimaste
alcune foto. Una cosa che verrà duramente osteggiata dai comandi e che non
si ripeté.
Sperduti nel buio
In questi giorni freddi e piovosi è il momento giusto per andare al cinema.
Purtroppo solo in pochi staccano il biglietto per la nuova pellicola di Nino
Martoglio “Sperduti nel buio” con Giovanni Grasso e Virginia Balistrieri.
Eppure questo è un film che fa parte della storia del cinema italiano. Di che
104
parla? E’ una vicenda strappacuore, un confronto tra miseria e nobilità.
Paolina è la figlia illegittima del Duca di Venezia. Vita grama, di espedienti, a
contatto con la malavita, ma ovviamente illibata ed onesta. Paolina conosce
Nunzio, suonatore cieco sfruttato, che la difende da lenoni e poliziotti, finché i
due non decidono di scappare assieme, mentre il Duca cerca inutilmente,
pentito, la figlia scomparsa. In contrasto con la produzione di commediole,
drammoni borghesi e peplum storici, “Sperduti nel buio” è considerata la
prima opera del neorealismo italiano. Purtroppo del film si trovano solo dei
fotogrammi, perché l’unica copia conservata a Cinecittà andò perduta
durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi trafugarono le
attrezzature cinematografiche da Roma per portarle nella Repubblica di
Salò. Questa piccola storia è narrata in un documentario e in un sitoweb.
Il 26 dicembre nasce Maria Francesca Anna Romana di Savoia, quinta ed
ultima figlia del re, che non lascerà grandi tracce nella storia. Grazie a questo
atto, il re promulga un’amnistia di cui beneficiano i ferrovieri scioperanti della
scorsa estate e quasi tutti i partecipanti alla Settimana Rossa. Restano esclusi
solo gli omicidi e i recidivi. Pietro Nenni esce dal carcere e subito riprende
l’attività sovversiva sul giornale “Lucifero”, da lui diretto, stavolta per invocare
l’intervento contro Austria e Germania.
Il 28 dicembre ricorre il sesto anniversario del terremoto di Messina. La
ricostruzione della città non è neppure cominciata. Messina è ancora
un’immensa baraccopoli, formata da quartieri di legno costruiti dalle
istituzioni, nazioni o persone che l’avevano edificati (il quartiere svizzero,
il Regina Elena, l’americano). A fine 1911 le autorità avevano emanato il
nuovo piano regolatore ma i lavori non erano partiti per problemi burocratici
e mancanza di fondi. La guerra bloccherà tutto. La ricostruzione terminerà
solo poco prima della seconda guerra mondiale. Le baracche ci sono ancora e
vi abitano i discendenti dei superstiti, cento anni dopo in condizioni penose.
L’anno si chiude con la nomina di un gruppo di senatori, tra cui Guglielmo
105
Marconi.
106
GENNAIO 1915
L’inverno non arresta le operazioni militari. Si continua a combattere nelle
trincee fangose delle Fiandre. Il 19 gennaio gli zeppellin tedeschi compiono i
primi e sconclusionati bombardamenti aerei della storia dell’umanità,
scatenando un’inutile ma sanguinosa tempesta di bombe sulla cittadina di
Great Yarmouth. Sono i primi venti morti civili, che alimentano solo
sentimenti di riprovazione verso la Germania. I tedeschi iniziano anche la
guerra sottomarina con lo scopo di affamare l’Inghilterra. Sul fronte
occidentale si susseguono scontri di limitata importanza, nell’attesa del bel
tempo. Anche il fronte orientale è statico, mentre più ad est i russi infliggono
perdite considerevoli agli ottomani sul Caucaso. I turchi attaccano sul canale
di Suez ma non riescono a superare le linee inglesi. Dal punto di vista italiano
le rinnovate pressioni di Austria e Germania sulla Romania, i movimenti della
Bulgaria e i continui disordini in Albania fomentati da Austria e Ottomani
mettono in difficoltà la nostra posizione nel Mediterraneo orientale.
L’Adriatico è un mare pericoloso per la navigazione. All’inizio di gennaio il
piroscafo Varese urta una mina e affonda nelle acque intorno a Pola. Dei venti
uomini dell’equipaggio se ne salva solo uno. In Libia fronteggiamo a fatica la
rivolta araba. Non ci si può fidare neppure delle truppe locali. Nella zona di
Socna (Fezzan) un gruppo di truppe libiche diserta, seguono duri scontri che
portano all’uccisione di 100 ribelli e a 16 feriti italiani. Ma la posizione
italiana nell’interno è sempre più precaria.
Stare fuori dalla guerra è sempre più difficile.
Non aiuta la poca chiarezza negli obiettivi del re e del governo. Cosa
vorremmo dall’Austria in cambio della neutralità? Sicuramente il Trentino ma
dove collocare la frontiera? Il Brennero è il confine naturale ma ciò
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significherebbe annettere territori in maggioranza tedesca. Che fare di
Trieste? Impossibile che l’Austria se ne privi. Difficile anche mettere le mani
sulla costa dalmata, dove la presenza italiana è limitata a poche città, a meno
di non alienarci la Serbia. Ad ogni modo, nonostante le abili
manovre dell’ambasciatore tedesco a Roma Von Bülow. l’Austria non intende
trattare. Tedeschi ed austriaci hanno interesse a prolungare quanto più
possibile le trattative con l’Italia, in modo da arrivare in primavera quando si
spera di lanciare l’offensiva finale contro la Francia.
Il 9 gennaio il Barone Alliotti, ambasciatore in Albania, giunge a Roma per
conferire sulla situazione nel paese delle aquile. L’Italia ha occupato a Natale
la città di Valona e sostiene il primo ministro Essad Pascià nel suo sforzo di
riprendere il controllo del paese dai ribelli filoturchi che controllano Tirana e
premono su Durazzo e dalle bande filogreche che scorrazzano nel sud. L’Italia
cerca un’intesa con la Grecia i cui rapporti con la Turchia vanno peggiorando.
Le linee di frattura nel Mediterraneo orientale sono abbastanza chiare e
spingono sempre più l’Italia nel campo dell’Intesa. Non siamo pronti né
militarmente né diplomaticamente a rompere con l’Austria. Il gioco
diplomatico è delicatissimo. Ci vorrebbero persone all’altezza ma siamo
governati da gente mediocre.
Il primo dei mediocri è il sabaudo inquilino del Quirinale.
Papini rischia il vilipendio al re con questo velenoso ritratto di Vittorio
Emanuele pubblicato su Lacerba di gennaio. “Povero Vittorio! Basso di
statura e sempre in bassa tenuta da generale, par fatto apposta per
rammentare la mediocrità e la miseria del paese dove regna (…) Oggi il nostro
re è più infelice che mai. Alle noie dell’etichetta, ai mille doveri di cerimoniale,
all’isolamento morale da cui lo salva appena la più vicina famiglia, alla fatica
di dover leggere e conoscere un’infinità di cose di cui farebbe volentieri a
meno, alle preoccupazioni per il malcontento del paese che ogni tanto
minaccia di mettere in pericolo il suo posto, alle difficoltà di raccapezzarsi fra
uomini, partiti e correnti di opinione, sono venuti ad aggiungersi altri più
108
lancinanti pensieri.” E’ un’analisi feroce. Papini ha azzeccato che l’unica
preoccupazione di Vittorio Emanuele è la salvezza della dinastia, a costo di
mettere a rischio l’Italia. Una politica che il Vittorio seguirà da oggi fino al
1943.
Nel frattempo la legione garibaldina viene schierata per la seconda volta
nelle Argonne. Il 5 gennaio le truppe attaccano con valore i tedeschi a Fourde-Paris, subendo gravi perdite tra cui un altro fratello di Peppino Garibaldi,
Costante. Il rientro della salma di Bruno Garibaldi in Italia, caduto nel giorno
di Santo Stefano, è occasione per gli interventisti per fare propaganda contro
la neutralità. Il Ministero dell’interno sorveglia e proibisce ogni
manifestazione.
I divertimenti italiani
Si ride poco in Italia. Il governo vigila che non si parli troppo di neutralità
ed interventismo, soprattutto negli spettacoli popolari. L’8 gennaio la
commissione censura del ministero dell’interno vieta la rappresentazione dei
film con Fantomas e Roncabole. Vallo a capire perché. Forse per non fornire
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alle masse modelli criminali? Contemporaneamente si proibisce di utilizzare
negli spettacoli le divise francesi. In precedenza erano state proibite le
uniformi italiane.
In pieno inverno di divertimenti ce ne sono pochi. A gennaio riprende il
campionato di calcio con i gironi semifinali dell’Alta Italia. Sedici squadre
divise in quattro gironi. Accede al girone finale unico la prima di ogni gruppo.
Al termine delle prime tre giornate sono in testa a punteggio pieno Genoa e
Torino, che stanno dominando (il Genoa ha stritolato la Juventus per 4-0). Il
Milan è a punteggio pieno ma non convince troppo, mentre l’Internazionale,
dopo un avvio scoppiettante (16-0 al Vicenza) ha rovinato tutto a Genova
perdendo 4-3 con l’Andrea Doria. Il risultato è che il girone D è incerto, con
tre squadre ancora in corsa: Inter, Juventus Italia e Andrea Doria.
Un altro disastro naturale
Sulle montagne abruzzesi l’inverno è normalmente lungo e gelido. Anche
nella fertile piana del Fucino, che sta vivendo un boom agricolo ed industriale
dopo il prosciugamento del lago. Con una posizione eccellente, ben collegata
con Roma e Pescara da buone strade e ferrovia, Avezzano è una delle poche
città del mezzogiorno in crescita. Il censimento del 1911 ha contato 15.233
abitanti, più del doppio rispetto al momento dell’Unità. Le case sono state
costruite in fretta, senza badare ai materiali, con cementi scadenti, per
alloggiare i molti coloni venuti dalle Marche e dalla Puglia. Alle 7,48 del 13
gennaio la terra trema. È uno dei peggiori terremoti della storia italiana,
secondo per intensità solo a quello di Reggio e Messina del 1908. Raggiunge
l’undicesimo grado della scala Mercalli o 7 nella scala Richter. Colpisce in
pieno Avezzano e i paesi intorno, fino al Lazio meridionale. Provoca danni
anche a Roma. In pochi secondi le gracili strutture di Avezzano sono spazzate
via, seppellendo sotto cumuli di macerie migliaia di persone.
Le notizie del disastro arrivano lentamente nella capitale a causa
dell’interruzione del telegrafo. Il governo non si rende conto della gravità della
110
situazione ma delibera già nella mattina i primi limitati soccorsi che
arriveranno solo all’alba del 14. Nonostante la catastrofe del 1908, lo stato
non ha strutture per gestire simili emergenze. Ci si affida all’esercito ma, come
al solito, senza dotarli di mezzi. I soldati hanno fucili e baionette ma neanche
una vanga e una pala. Le prime essenziali 24 ore passano invano. La città è
stata completamente rasa al suo suolo: sparite le chiese, il castello, le
fabbriche. L’inviato de La Stampa nota che “una casa sola si è salvata
interamente, senza una crepa; è un edificio nuovo di cemento armato (…)
Oltre a questa piccola casa, tutto il rimanente si è sfasciato. Avezzano è, ora,
senza case e senza strade. Le case sono precipitate nelle strade e le hanno
colmate come d’un diluvio pietrificato (…) Sembra che il disastro si sia
compiuto perché la calce si è disfatta, si è polverizzata. Le grosse pietre di cui
la città era costruita, rimaste senza legamento, all’urto della mia lieve forza
sono crollate. Il tragico prodigio non pare sia stato quello della formidabile
furia che ha squassato la città, ma del malvagio incantamento che ha reso
polvere la calce che cementava le case. Così ne è avvenuta come una
liquefazione dell’intera città (…)”
Oltre a gran parte della popolazione, sono state annientate le istituzioni;
muoiono autorità civili, carabinieri, soldati. Pochi superstiti si aggirano tra le
rovine al freddo, senza cibo, acqua, assistenza. I sepolti vivi gridano disperati
da sotto le macerie. Il 14 mattina il re giunge ad Avezzano con un treno
speciale, cerca di portare conforto e qualche aiuto ai superstiti che lo
accolgono con affetto. Si porterà indietro con il treno 40 feriti gravi, una
goccia nel mare del bisogno di questi giorni. Nel pomeriggio arrivano altri
soldati con migliori attrezzature ma sempre insufficienti. Sono passate 36 ore
dal sisma. I comuni circostanti al capoluogo restano senza soccorsi per giorni.
I giornali sono pieni di giuste critiche per l’impreparazione dello stato. Si
sottolinea che Avezzano è una città ben collegata al resto d’Italia, a tre ore di
auto e treno da Roma. Si segnalano deficienze di ogni tipo: i soldati fermi sui
binari delle stazioni per far passare i treni delle autorità, la mancanza di
111
mezzi, tende, viveri, legname per costruire le baracche. I soldati di leva si
distinguono per abnegazione. Anche i medici sopravvissuti si sforzano di
aiutare i feriti, nel gelo pungente dell’inverno.
Se lo stato è deficiente, non manca la solidarietà nazionale. È gara tra i
cittadini e i comuni italiani per offrire soccorso agli abruzzesi. Le
sottoscrizioni dei giornali raccolgono in pochi giorni molte centinaia di
migliaia di lire. Arrivano volontari da tutta Italia. Il 17 le lampade a petrolio
offerte dal comune di Roma tornano ad illuminare le rovine di Avezzano. Si
moltiplicano le iniziative di solidarietà, le serate di beneficenza, gli spettacoli
proterremotati. Il governo respinge però le offerte di aiuto provenienti dagli
USA, accampando la scusa della situazione politica attuale. Non si capisce il
motivo, a meno che non si tratti di malcelato orgoglio nazionale.
Dopo 4 giorni viene salvata Esterina Sorgi che ha partorito tra le macerie,
dopo essere precipitata dal quarto piano alla cantina. Ha fatto tutto da sola,
tagliando il cordone ombelicale con i denti, tenendo il bambino nudo
attaccato a sé per scaldarlo, pur non potendolo nutrire. Quando i soldati
arrivano da lei, le chiedono di passare il bambino ma lei rifiuta e pretende di
essere estratta insieme a lui.
Dal 21 le condizioni peggiorano. Una bufera di neve investe l’Abruzzo,
ostacolando per giorni gli spostamenti, interrompendo le comunicazioni
telegrafiche. I mezzi disposti non sono sufficienti. La costruzione delle
baracche va a rilento. La fame spinge i lupi a valle. Alcuni si spingono fino al
municipio provvisorio di Avezzano. Un gruppo di deputati vorrebbe parlare
con Salandra per dare qualche suggerimento al governo ma Salandra li fa
aspettare per 24 ore e non manca di fare inutile polemica. Né nei giorni
successivi lo stato mostra maggiore sensibilità. Stanzia 30 milioni per le città
colpite e silura il Direttore generale delle ferrovie statali, comm. Bianchi,
unica vittima sacrificale dei problemi avuti con le ferrovie dopo il terremoto.
Alla fine i morti saranno quasi 30 mila, 9.238 vittime solo ad Avezzano. Chi
visita oggi la città, trova una pianta regolare con case ad un solo piano, senza
112
alcun edificio antico.
Pane e lavoro!
Invece di pensare ad una guerra complicata, Salandra potrebbe occuparsi
delle deficienze dell’economia italiana. Come in altri paesi europei, il pane
continua a rincarare a causa della guerra e della speculazione eppure,
sottolinea La Stampa, in Italia il suo prezzo cresce più velocemente che
altrove. Un quintale di grano costa 33 lire a Marsiglia e 38 lire a Genova.
Perché queste 5 lire di differenza? Secondo il quotidiano torinese, 3 lire sono il
dazio, ridotto solo in parte nei mesi scorsi per evitare di danneggiare i
latifondisti meridionali sostenitori di Salandra, ma le altre 2 lire sono causate
dall’inefficienza dei trasporti. Il porto di Genova è congestionato,
l’organizzazione è carente in ogni settore. Il governo prende provvedimenti
più seri solo quando cominciano le prime manifestazioni di piazza, prima a
Catania, dove ci scappa un morto, poi in altre località della Sicilia e della
Puglia, a Siena, Firenze e Bergamo.
Il consiglio dei ministri del 30 abolisce il dazio sul grano, almeno fino al 30
giugno. Vengono ridotti i noli marittimi e ferroviari e disposte altre misure per
facilitare lo stoccaggio del grano nei depositi statali. Nonostante l’ottimismo
del governo, le incognite sono molte. Mancano ancora 600mila tonnellate per
arrivare all’estate.
C’è chi vuole la guerra
Il Popolo d’Italia di Mussolini si va affermando nel paese come la rivista
dell’interventismo. Mussolini rompe con Filippo Naldi, il direttore del Resto
del Carlino, che lo aveva aiutato a reperire i fondi iniziali. Pare che Mussolini
abbia trovato altre fonti di finanziamento, stavolta in Francia. Ad ogni modo il
giornale va bene, anche se rimane confinato alle zone urbane e al nord
d’Italia. Nelle campagne e nel mezzogiorno, la sua influenza è zero.
Cesare Battisti continua il suo tour pro terre irridente. Il 13 gennaio è a
113
Milano in cui tiene un discorso intitolato “L’italianità del Trentino e
l’irredentismo italiano”. Il 18 il PSI vota a Firenze una mozione a favore della
neutralità italiana nel conflitto europeo, che viene appoggiato dalla CGdL. Il
problema, però, è cosa fare in caso di intervento dell’Italia? Appoggiare,
sabotare o stare zitti? I radicali chiedono lo sciopero generale ma i più saggi,
come Turati, fanno capire che il partito non avrebbe le forze per impedire la
guerra e che si rischierebbe di consegnare l’Italia agli austriaci. Turati fa
queste importanti dichiarazioni di presa della realtà il 28 a Milano.
Il 24 si tiene il primo congresso dei Fasci interventisti. Mussolini è presente
con il suo solito discorso pieno di foga. L’ordine del giorno finale chiede al
governo di denunciare immediatamente la Triplice Alleanza.
Addio alle armi (calcistiche)
Domenica 31 si svolge la prima e purtroppo ultima partita della nazionale
prima della guerra. E’ rimasta solo la Svizzera a svolgere attività sportiva
internazionale. Si gioca a Torino, in una giornata soleggiata ma gelida. Lo
stadio non è pieno come in altre occasioni. Il freddo ha tenuto lontane molte
persone. Il campo è gelato e cumuli di neve appena spalata sono accumulati
appena fuori del rettangolo di gioco. In compenso alle 15, quando si
comincia, splende il sole. In rosso con croce bianca gli svizzeri, in azzurro gli
italiani. Arbitra Pasteur, francese, abbastanza corretto, dato che sbaglia sia a
favore dell’una che dell’altra squadra. Alla prima azione italiana, il difensore
Duriaux manda la palla nella porta svizzera. Al 10ʹ′ un fortissimo tiro di
Compte s’insacca nella rete senza che il portiere del Brescia Trivellini possa
fare nulla. Dopo un alternarsi di azioni delle due squadre, al 40ʹ′ di nuovo
Duriaux commette un fallo sanzionato con la massima punizione. Segna Luigi
Cevenini (Inter) all’esordio tra gli azzurri. Il fratello Aldo Cevenini (Inter)
segna di testa il terzo gol. Meritata vittoria italiana, cresciuta in ogni reparto
nei pochi anni della sua storia. Per rivedere gli azzurri, però, bisognerà
aspettare la fine della guerra.
114
FEBBRAIO 1915
Guerra in terra, in aria, sotto il mare.
Nessuno può chiamarsi fuori dalla guerra. Anche i civili devono dare il loro
contributo di dolore. La marina britannica impone il blocco navale per
affamare i tedeschi, mentre la Germania scatena un’indiscriminata guerra
sottomarina per bloccare i rifornimenti alle isole britanniche. In una giornata
gli U-boot di Guglielmo II affondano cinque mercantili inglesi. Led Zeppellin
e aerei solcano gli orizzonti, aprendo nuovi campi di battaglia, ma il peso della
guerra ricade sulla fanteria a cui spetta l’orribile compito di districarsi tra i
campi minati e i reticolati per raggiungere le trincee nemiche. Il fronte
occidentale è statico, mentre in quello orientale i tedeschi passano all’offensiva
nel pieno di una tempesta di neve il 7 febbraio. Avanzano di quasi cento
chilometri in una settimana senza però distruggere la capacità di resistenza
dei russi. Francesi e inglesi si preparano a forzare i Dardanelli, attraverso i
quali potrebbero stabilire un collegamento diretto con la Russia ed infliggere
un colpo strategico decisivo agli Imperi centrali. I bombardamenti navali
iniziati il 17 febbraio distruggono i forti di accesso agli stretti turchi,
permettendo lo sbarco a gruppi di marines inglesi ma il brutto tempo
impedisce grandi progressi. L’Italia invece continua ad essere duramente
impegnata in Libia. Le notizie che filtrano sui giornali sono preoccupanti. Il
nuovo governatore della Tripolitania, generale Tassoni, dà l’ordine alle basi
interne di ripiegare verso la costa. Le colonne italiane sono esposte a durissimi
attacchi da parte dei ribelli. Nel mese di febbraio l’aeronautica militare
diventa una vera e propria arma, distinta da tutte le altre.
Chiacchiere e manovre politiche.
A metà dicembre 1914 il governo aveva avviato trattative segrete con
Vienna per ottenere i “compensi” previsti dal Trattato della Triplice Alleanza.
In pratica, se l’Austria si espandeva nei Balcani, l’Italia aveva diritto di
115
reclamare alcuni territori a compensazione. I tedeschi premono sugli alleati
austriaci affinché si dimostrino concilianti. A metà febbraio l’Italia non ha
ancora ottenuto una risposta chiara da Vienna. Le trattative diplomatiche
sono segretissime, il governo tace e in questa atmosfera di silenzio, trionfano le
chiacchiere. Qualche notizia filtra sui giornali, astutamente manipolati dai
governi per cercare di mettere pressione sugli altri con il gioco dell’oltraggio
all’opinione pubblica.
Mentre Salandra tace, Giolitti, che non è a conoscenza delle trame del
trittico Salandra-Sonnino-Vittorio Emanuele espone pubblicamente il suo
pensiero che, almeno in questa fase, è allineato a quello del governo. È un
incoraggiamento ad andare avanti con le trattative con l’Austria. Si tratta di
una lettera inviata il 24 gennaio da Giolitti ad un amico, il deputato Camillo
Peano, che l’influente giornale La Tribuna pubblica il 2 febbraio, che avrà un
enorme eco. “Io considero la guerra non come una fortuna, ma come una disgrazia, la
quale si deve affrontare solo quando sia necessario per l’onore e i grandi
interessi del Paese.” La guerra non si fa per aiutare gli altri popoli, “non credo
sia lecito portare il Paese alla guerra per un sentimentalismo verso gli altri
popoli. Per sentimento, ognuno può gettare la propria vita, non quella del
proprio Paese.” Ma allora, quando sarebbe lecito e necessario entrare in
guerra? “Quando necessario, non esiterei ad affrontare la guerra e l’ho
provato.” E poi la frase che tante critiche gli valsero dagli ambienti
nazionalisti, “potrebbe essere e non apparirebbe improbabile che nelle attuali
condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra.” Cosa
significhi questo parecchio Giolitti non lo dice ma è sufficiente per marchiarlo
come un infame mercante dell’onore italico.
L’Italia barcolla tra “il sacro egoismo” e il “parecchio”. Non molto
esaltante per una grande potenza ma le idee di Giolitti sono ispirate ad un
sano realismo.
Essendo questa l’Italia, dopo la polemica si fa dietrologia. Giolitti parla per
116
sé o a nome di Salandra?
I giornali prendono posizione. Accanto al Corriere della Sera, interventista
della prima ora, ci sono il Resto del Carlino e molti altri giornali liberali,
mentre La Stampa, già vicina a Giolitti, si schiera apertamente con i
neutralisti. La Stampa contesta la tesi che un’Italia neutrale resterebbe isolata
nella futura Europa e sostiene che un paese giovane come l’Italia debba
entrare nella guerra dei popoli, la più terribile della storia, solo per difendere i
suoi interessi vitali. Un’Italia neutrale, con le forze intatte, potrebbe trovarsi in
una posizione di maggiore forza rispetto agli altri stati spossati dalla guerra. Il
13 febbraio il Giornale d’Italia, organo vicinissimo a Sonnino e Salandra
passa all’interventismo. Afferma che a primavera ci sarà lo scontro finale e
l’Italia non può restare indefinitivamente in questa situazione. “L’inerzia è la
morte, l’azione è la vita.” Nessuno può sapere che questo redazionale cade in
un momento chiave dell’azione politica di Salandra e Sonnino.
I negoziati.
Alla vigilia della ripresa dei lavori parlamentari il 18 febbraio in molti si
rendono conto che le prossime settimane saranno decisive per l’Italia. Si
moltiplicano i segnali di una possibile “irrevocabile decisione”. Un articolo
della Neue Freie Press di Vienna dice che il progetto tedesco di convincere
l’Austria a cedere territori all’Italia in cambio del non intervento è fallito.
Pochi conoscono la realtà delle cose, meno di tutti il Parlamento.
Gli austriaci non intendono cedere alcun territorio, tantomeno prima della
conclusione della guerra. I tedeschi sono più flessibili. Il 12 febbraio il ministro
degli esteri Sonnino scrive agli ambasciatori a Berlino e Vienna per
interrompere le trattative e minacciare l’Austria di conseguenze gravi in caso
di azione nei Balcani. Von Bülow va a trovare Sonnino che gli fa un quadro
molto chiaro della situazione. La monarchia dei Savoia si regge solo sul
117
nazionalismo italiano. Se non si dà soddisfazione al nazionalismo il paese
rischia la rivoluzione. L’alternativa è la guerra per ottenere i giusti
obiettivi nazionali. La neutralità non è più un’opzione. Con occhi odierni (ma
anche con quelli dell’epoca, pensiamo a quello che aveva appena scritto
Giolitti) si tratta di un ragionamento senza alcun fondamento. Nessuna
persona sana di mente crede ad una rivoluzione in Italia, il fallimento della
Settimana Rossa ha già dimostrato l’impotenza dei socialisti; i gruppi
nazionalisti sono assolutamente minoritari; ma il governo ha bisogno di creare
un alibi propagandistico per giustificare la futura entrata in guerra.
Pochi giorni dopo, il 16 febbraio, Sonnino autorizza l’ambasciatore a
Londra a riprendere formalmente i contatti con l’Intesa. L’Italia non si
accontenta; chiede agli inglesi il Trentino, Trieste, il Tirolo cisalpino, buona
parte della Dalmazia con le isole, una porzione dell’Impero ottomano, un
trattamento equo nella distribuzione delle colonie. Una politica imperialista
che non tiene in alcun conto della situazione politica nei Balcani né del
principio di nazionalità. Né del parere negativo di Cadorna sull’utilità militare
della Dalmazia, una costa montuosa di impossibile difesa. Non tiene conto
della logica: vogliamo distruggere l’Austria? Ci conviene far scomparire la
monarchia danubiana per ritrovarci faccia a faccia con i serbi?
Inoltre, non va dimenticato che i trentini non hanno alcun interesse
all’annessione all’Italia. Pochi mesi prima Alcide De Gasperi, deputato al
parlamento asburgico per il Trentino, aveva dichiarato all’ambasciatore
austriaco a Roma Von Macchio che se i trentini avessero potuto votare,
avrebbero scelto al 90% di restare con l’Austria. Lo si vedrà chiaramente al
momento dello scoppio della guerra. Su 60.000 trentini richiamati, solo in 700
fuggiranno per arruolarsi sotto il tricolore.
La prima poesia di Ungaretti. Il paesaggio di Alessandria d’Egitto.
La verdura estenuata dal sole.
Il bove bendato prosegue il suo giro
118
Accompagna il congegno tondo stridente.
Si ferma alle pause regolari.
L’acqua mesciuta si distende barcollante.
Si risotterra durante il viaggio.
Le gocciole attimo di gioia trattenuto
brillano sulla verdura rasserenata.
Il fellà è accoccolato nell’antro
del sicomoro ritto sulle proboscidi
che escono di terra come vermi mostruosi
col moto uguale di anelli in su e giù
stese verso terra come le braccia di Gesù.
Il fellà canta
gorgoglio di passione di piccione innamorato
nenia noiosa delizia
- Anatra vieni.
- E chi se ne frega.
- Al letto di seta colore di sfumature di poesia.
- E chi se ne frega.
- T’insegnerò la frescura di tramonto delle astuzie.
- E chi se ne frega.
- Lo possiedo duro grande e grosso.
- E chi se ne frega.
Il mio silenzio di vagabondo indolente.
Lo scrittore piemontese Pietro Jahier, responsabile de La Voce, pubblica il
romanzo “Resultanze in merito alla vita ed al carattere di Gino Bianchi“,una
satira del burocrate medio. “Ora, dunque essendo spuntato il giorno della
riforma burocratica inevitabile, fu constatato che vi erano dieci Direzioni,
dieci Divisioni, dieci Sezioni: e che le dieci Sezioni facevano il lavoro, e le dieci
Divisioni rifacevano il lavoro e le dieci Direzioni vigilavano a che le dieci
119
Divisioni rifacessero il lavoro che le dieci Sezioni facevano. Perché essendo le
dieci Divisioni risultate inutili, furon chiamate: Sezioni Principali.”
Pane duro e freddo
Sembra incredibile l’incompetenza del governo nazionale. La penuria di
carbone e grano si fa sentire ovunque. Soffrono le industrie, si lamentano i
proletari che vedono crescere il prezzo del pane, loro principale alimento. Il
governo aveva rifiutato pochi mesi prima di acquistare il grano a 27 lire il
quintale. Oggi costa 40 lire. Le importazioni di materiali ferrosi sono crollate.
La crescita dei noli marittimi causati dal pericolo bellico, la mancanza di navi
mercantili e il congestionamento del porto di Genova rendono difficili gli
approvvigionamenti di carbone. Salandra e i suoi emanano nuovi palliativi. A
partire dall’8 sono vietate quasi tutte le esportazioni di prodotti alimentari.
Restano fuori solo quelli deperibili come frutta, burro, latte, che è difficile
immagazzinare. Si fanno esperimenti nel panificio militare per produrre pane
anche con altri cereali, mais e riso. I deputati vengono invitati ad una
dimostrazione. Il pane è ottimo, dichiarano.
Il maltempo colpisce l’Italia in ogni regione. È inverno e a quell’epoca non
si parlava di “emergenza freddo”. E faceva davvero freddo. La neve
abbondante che cade sulle Alpi era pericolosa come oggi. La notte del 12
febbraio una valanga si abbatte su un villaggio temporaneo di operai a San
Dalmazzo di Tenda, in provincia di Cuneo. Si contano decine di morti.
Centinaia di persone e di soldati spalano la neve in cerca di superstiti. Tra
gli operai c’è Alfredo Ransi, l’unico sopravvissuto della sua famiglia al
terremoto di Avezzano. Emigrato al nord in cerca di lavoro, la sua vita si
spezza sotto un cumulo di neve. Negli stessi giorni Roma viene allagata da
una forte piena del Tevere che esonda nel quartiere Prati, nel Borgo Vaticano
(dove oggi c’è Viale della Conciliazione) e nel Testaccio.
Lo sport.
120
Gli sport invernali dominano il cartellone con i campionati di sci a
Courmayer. Ma l’attrazione del pubblico è sicuramente il campionato di
calcio giunto nel nord Italia alla fase decisiva. Nella quarta giornata dei gironi
semifinali il Torino strapazza il Pro Vercelli per 3-0 davanti a ben 4.000
spettatori, mentre il Genoa detronizza i campioni del Casale con un secco 3-0.
A fine mese, con una sola giornata rimasta, a meno di clamorose sorprese,
sono ormai qualificati Genoa, Milan, Torino ed Inter.
La riapertura del parlamento.
Dopo quasi due mesi di vacanza, il 18 riapre la Camera dei deputati. Gli
interventisti si concentrano in Piazza Montecitorio per accogliere degnamente
i deputati ma vengono rapidamente dispersi da carabinieri, polizia e
bersaglieri. La polizia ha l’ordine di reprimere qualsiasi manifestazione pro
guerra o favore alla neutralità. Marinetti, che proprio in quei giorni stava
completando insieme a Bruno Settimelli e Bruno Corra il “Manifesto del
teatro sintetico futurista” (qualunque cosa esso sia), viene arrestato e poi
rilasciato subito dopo.
La seduta a Montecitorio inizia alle due di pomeriggio, e trascorre a
ricordare i morti del terremoto marsicano, i parlamentari defunti negli ultimi
due mesi e i caduti della legione garibaldina in Francia. Si passa poi alla
conversione dei decreti legge che si erano ammucchiati a prendere polvere. Il
governo risponde a qualche interrogazione minore. Si nota una differenza di
tono rispetto a dicembre. Generale contegno, riservatezza, meno ostentato
patriottismo. Il governo ha blindato i lavori. Il giorno dopo, quando socialisti e
repubblicani tentano di forzare la mano per discutere di politica estera, il
governo si oppone col sostegno della sua maggioranza. Il socialista Marangoni
chiede di discutere del bilancio del Ministero degli esteri ma la proposta è
respinta. Chiesa, per il gruppo repubblicano, presenta una mozione
chiedendo al governo di informare il parlamento di cosa intende fare di fronte
alla guerra. Salandra si oppone, affermando che se la mozione non verrà
121
ritirata, la risposta arriverà comunque fra molto tempo.
Gli interventisti non smettono di farsi sentire. Il leader degli esagitati
debitori, D’Annunzio, fa un discorso al banchetto interventista organizzato
dalla “Revue Hebdomadaire” di Parigi ma in quei giorni lo assillano di più i
suoi problemi finanziari. Il vate continua a spendere molto di più di quello che
riceve dal direttore del Corrierone Luigi Albertini, da Treves e dal gruppo
americano Hearst. I rivoluzionari cercano di provocare un casus belli con
l’Austria. Corridoni, Mussolini e altri complottano, in un denso sottobosco di
diplomatici, contatti segreti, di cui l’Ambasciata austriaca e Salandra sono
bene al corrente.
Domenica 21 viene indetta una “giornata di propaganda socialista”. Si
svolgono delle manifestazioni in tutto il paese contro la guerra che attirano
una folle numerosa, nettamente maggioritaria rispetto alle opposte
dimostrazioni a favore della guerra. Gli interventisti attaccano
sistematicamente le manifestazioni neutraliste. Alla Casa del popolo di Roma,
presente il segretario socialista Lazzari, le due fazioni vengono alle mani. Si
scatena una feroce battaglia a forza di sedie in testa e pugni. Sono
quarantacinque minuti di guerra che lasciano 15 feriti. Incidenti anche a
Milano con venti feriti ma le manifestazioni neutraliste sono nettamente più
affollate di quelle nazionaliste. A Firenze il comizio del nazionalista Alfredo
Rocco raccoglie un 300 persone, una minoranza rispetto ai 1400 presenti nel
campo socialista. Anche qui scontri con una decina di arresti. Stesse scene a
Venezia, Ancora, Catania, Napoli.
Le manifestazioni proseguono nei giorni seguenti. Gli incidenti più gravi
avvengono il 25 a Reggio Emilia. Cesare Battisti va a chiedere la guerra per le
terre irredente proprio nel cuore del neutralismo socialista. La tensione monta
in città già dalla mattina. Studenti interventisti ed operai neutralisti sono
pronti a darsele. Le autorità impongono il numero chiuso a teatro dove si terrà
il discorso: si entra solo per invito e a pagamento. Il popolo resta fuori
dall’edificio. Nella serata avvengono i primi duri scontri davanti al teatro, poi
122
qualcuno estrae le armi. I colpi di fucili seminano il panico. Due ragazzi
restano uccisi e moltissimi sono i feriti. I socialisti proclamano lo sciopero e il
lutto proletario. Come reazione, il 26 il consiglio dei ministri dà ai prefetti la
facoltà di vietare i comizi, anche privati, pericolosi per l’ordine
pubblico. Inutili le proteste dei parlamentari socialisti. Su questo punto
Salandra non esita a chiedere il voto di fiducia che gli viene accordato a
grande maggioranza (314 a 44). Se qualcuno voleva usare la piazza per
imporre leggi restrittive, c’è riuscito in pieno. Protestano anche i nazionalisti
per motivi opposti.
Qualche giorno dopo Battisti è a Napoli. Matilde Serao gli riserva parole di
“rara perfidia” affermando che il discorso di Battisti cade nell’indifferenza
generale, e non riesce a smuovere il pubblico, tranne “una diecina di studenti
imberbi, riformati per deficienza toracica alla visita di leva”. Battisti viene
definito “di nessuna autorità politica e morale, irresponsabile commesso
viaggiatore della più losca idea guerrafondaia, che va facendo, della sua
relativa italianità, insana e funestissima speculazione.”
Un altro animo infuocato, il futuro duce, tra un veemente articolo
interventista e qualche amorazzo fugace, schiaffeggia l’avvocato Merlino nel
corso di un processo per diffamazione. Merlino aveva accusato Mussolini
sull’Avanti! di incitare i nazionalisti senza farsi mai vedere. Come si usava
allora tra gentiluomini, il 25 mattina i due sono pronti a sfidarsi a duello. La
polizia, che tiene entrambi d’occhio, glielo impedisce. I due riescono a
scontrarsi a mezzogiorno a suon di sciabolate. Tre assalti, conclusi con una
ferita al braccio destro per entrambi. I padrini, sentiti i medici, decidono la
conclusione dello contro. La questione si conclude con la riconciliazione tra i
due.
123
MARZO1915
Ricordate il caso Belloni? Il salgariano capitano di vascello che nell’ottobre
1914 aveva rubato un sottomarino per scatenare una guerra privata contro
l’Austria? Finito a processo con accuse gravissime di mettere in pericolo la
sicurezza dello Stato, il primo marzo arriva la sentenza. Flaiano stesso non
avrebbe saputo trovare una conclusione più in linea con l’atmosfera farsesca
della penisola. I severissimi giudici di Sarzana, con baffoni a manubrio e toghe
solenni, lo rinviano a giudizio per esportazione di sommergibili senza
autorizzazione. E basta. Come dire, svaligio una salumeria e vengo
condannato per aver mangiato per strada. Il 24 marzo viene assolto anche da
quest’ultimo reato.
Torna la primavera, tornano le rondini e le offensive.
L’imminente ritorno della primavera lascia immaginare una ripresa in
grande stile della guerra sul fronte occidentale, dove poco o nulla si è mosso in
questi mesi invernali. Politici e militari sono convinti che il conflitto terminerà
nei prossimi mesi. La guerra moderna, con le sue immense perdite di vite e
materiali, non è sostenibile a lungo. O no? Il blocco navale imposto
dall’Inghilterra alla Germania infligge ai civili un duro regime di
razionamento. Gli inglesi non se la cavano meglio, con le navi mercantili
affondate a ripetizione dagli U-boot imperiali. In oriente gli austriaci
continuano a prenderle dai russi, che conquistano la fortezza di Przemysl nei
Carpazi e avanzano verso l’Ungheria. La battaglia decisiva si combatte nei
Dardanelli. Continua la violenta offensiva delle marine francesi e britanniche
contro i forti turchi disposti negli stretti. La Turchia non sembra in grado di
resistere. Il controllo degli Stretti darebbe un vantaggio strategico decisivo
all’Intesa, forse affrettando la conclusione della guerra.
Sydney & Antonio
124
Salandra & Sonnino, il duo del neo-opportunismo italiano, con
condimento sabaudo, cominciano ad avere fretta. Sarà mica che arriveremo
ultimi alla spartizione del bottino? L’attacco nei Dardanelli sembra destinato a
far cadere la Turchia. Anche i tedeschi hanno fretta di concludere un accordo
con noi. Ci conoscono bene, sanno quanto sono infidi i Savoia. E cercano di
smuovere l’ostinata intransigenza dell’anziana sorda monarchia austriaca:
“date qualcosa agli italiani per evitare di trovarceli nemici”.
Pochissime persone sono informate dei fatti. L’opinione pubblica brancola
nel buio. I giornali pubblicano notizie false che devono servire a spostare il
pubblico in una direzione o l’altra. Neutralità o intervento. La nostra stampa
riprende le notizie pubblicate a Berlino e Vienna, a loro volta ispirate da quel
politico disposto all’accordo con l’Italia o da una fazione oltranzista. È un
fiorire di voci e di fantasie. Chi non sa, parla. Chi sa non parla. Salandra
rifiuta di spiegarsi in Parlamento, respinge le interpellanze delle opposizioni
che vorrebbero inchiodarlo a dichiarare i suoi obiettivi. L’apparato statale ed
ideologico si chiude a riccio intorno a Salandra. Le classi dirigenti italiane,
liberali e conservatrici, non contemplano la possibilità che il Parlamento
esprima un’opinione. Il governo va lasciato libero. Una delle decisioni più
importanti della storia italiana resta nelle mani di tre persone senza alcun
legame con il popolo italiano.
Continuo a trovare stupefacente come cento anni fa tutto ciò fosse
normale.
Il primo marzo il governo propone un disegno di legge per combattere lo
spionaggio e il contrabbando. La penisola è infatti diventata il teatro di
operazioni segrete. Si lamenta l’eccessiva tolleranza verso gli stranieri,
l’indolenza “quasi mussulmana”, gli ufficiali italiani che si sposano con belle
straniere, dimenticandosi dei doveri patriottici. I fatti di Reggio Emilia del
mese scorso mostrano che sono all’opera “influenze esterne”. Ottimo pretesto
per il governo per limitare ulteriormente le libertà costituzionali. Si stringe la
censura sulle notizie militari. Nello stesso momento entra in vigore il decreto
125
approvato in febbraio che proibisce i comizi politici pubblici.
Nei boudoir diplomatici
Oggi sappiamo cosa accadde. Giovedì 4 marzo l’ambasciatore a Londra
Imperiali di Francavilla si presenta al ministro degli esteri inglese Edward
Grey con le condizioni italiane per un passaggio alla Triplice Intesa. Il
sibilo di una sola italica filtra a Berlino e Vienna. L’ambasciatore tedesco a
Roma, principe Von Bülow, sa che il tempo della sua missione sta per scadere.
Capisce che l’Italia non scenderà in campo con gli Imperi centrali ma che va
tenuta fuori dal conflitto con un’offerta generosa da parte austriaca. Lunedì 8
marzo, dopo due mesi di ostinato rifiuto, sottoposta alle forti pressioni
tedesche, l’Austria accetta finalmente di iniziare a discutere i compensi
all’Italia previsti dall’articolo 7 del trattato della Triplice Alleanza. Eppure la
posizione di Vienna si è solo marginalmente ammorbidita. E’ disponibile a
cedere alcuni territori trentini, ma solo a conclusione della guerra. Gli
austriaci non considerano neppure la possibilità di discutere lo status di
Trieste, il porto dell’Impero.
Nella giornata dell’otto marzo circolano a Roma le notizie più incredibili.
Intanto tutti sanno che al palazzo della Consulta, sede del ministero degli
esteri, Sonnino sta ricevendo Von Bülow. I giornali speculano su possibili
trattative con l’Austria. Giustamente. Ma i risultati dell’incontro sono avvolti
nel più assoluto riserbo. Allora non si tenevano conferenze stampe. Subito
dopo, però, la notizia della convocazione in serata di un consiglio dei ministri
straordinario scatena un altro tornado di voci. Si parla di mobilitazione
generale, anche perché contemporaneamente stanno rientrando in Italia i
volontari della legione garibaldina, sciolta due giorni prima. La realtà più
prosaica è che la legione non è di grande utilità per la Francia e la mette in
serio imbarazzo con il governo italiano.
L’altra notizia esplosiva del giorno è l’incontro Salandra-Giolitti. E’ un
fatto di grandissima importanza politica, una specie di patto del Nazareno (o
126
della crostata) di cento anni fa. Salandra, forse spinto dal re, va a rendere
conto del suo operato a Giolitti, capo della maggioranza parlamentare, il
quale nelle settimane precedenti aveva reso noto il suo pensiero con la famosa
lettera a Peano: ottenere il massimo dalle trattative e la guerra solo come
ultima estrema risorsa. Salandra sa bene che basterebbe un segnale di Giolitti
per farlo saltare. Per il conservatore Salandra una guerra dalla parte giusta,
breve e vittoriosa, è quello che ci vuole per rafforzare il prestigio della
nazione, del re e il suo potere personale. Ma nel frattempo Salandra deve
neutralizzare in qualche modo Giolitti, compito mica facile.
Nulla si sa dei contenuti dell’incontro. I giornali guardano alle forme. È
stato Salandra a chiedere la riunione, il presidente del consiglio si è recato a
piedi nell’abitazione romana di Giolitti in Via Cavour, un segnale di
deferenza. Dai successivi resoconti storici, sappiamo che Salandra racconta a
Giolitti solo una mezza verità. Afferma che sono in corso trattative con
l’Austria e concorda con Giolitti che la guerra va tenuta solo come extrema
ratio. Non dice nulla sui negoziati avviati a Londra. Un inganno bello e
buono. Giolitti ci casca? Oppure vuole crederci, pensando che ha ancora la
possibilità di controllare Salandra? Qualunque sia la risposta, in questo
incontro Giolitti perde l’iniziativa politica e quando dovrà mettersi di traverso
contro Salandra, sarà troppo tardi. Il vero contenuto dell’incontro apparirà
evidente qualche giorno dopo, quando il 22 marzo la Camera viene
aggiornata con l’adesione dei deputati giolittiani e nonostante la vana
opposizione dei socialisti. Chiudere il Parlamento lascia al governo campo
libero. A cosa serve del resto chiacchierare quando ci sono problemi così
importanti per il destino della patria? La Camera riaprirà solo il 20 maggio.
La giornata dell’8 marzo si conclude con il Consiglio dei ministri. La
riunione dura tre ore e termina poco prima di mezzanotte. Anche qui un altro
inganno. Salandra speiga agli altri ministri che sono in corso trattative con
l’Austria ma tace sulla realtà, ovvero che Sonnino ha avviato negoziati con gli
inglesi. Neppure il Ministro della difesa deve sapere cosa si sta preparando.
127
L’Italia all’asta
Il giorno dopo, alla Camera, si presenta Martini, il ministro delle colonie
per riferire sulla situazione in Libia. Afferma che non ci siamo ritirati dal
Fezzan verso la costa di fronte alla ribellione, bensì abbiamo distribuito meglio
le forze, con criteri di economicità. Eufemismi. Racconta che le truppe
costano 12 milioni di lire l’anno. Si devono risparmiare le forze. Ammette
l’errore di un dispiegamento troppo rapido e profondo, l’influenza della
guerra santa lanciata dai turchi, gli errori nel trattare le popolazioni locali, la
disorganizzazione del governo coloniale. Alla fine di tutte queste chiacchiere
resta il semplice fatto che ci stiamo ritirando verso la costa. Lo facciamo in
modo ordinato ma non mancano sanguinosi combattimenti con i ribelli
senussiti.
Il 10 marzo Von Bülow va da Salandra per parlare dei famosi compensi
austriaci. Anche in questo caso, nulla filtra sui giornali. Vienna sembra
disposta a cedere il Trentino, forse parte del Tirolo. Sonnino chiede all’Austria
anche Bolzano e Gorizia, mentre Trieste sarebbe diventata città libera
nell’Impero. Sono richieste impossibili per la duplice monarchia. Del
resto Salandra non ha davvero intenzione di negoziare. L’Inghilterra ci
prospetta condizioni più succulente: non solo il Trentino, ma anche l’Alto
Adige, Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia. In pratica, tutte le zone italiane
più le frontiere naturali. E qualcosa di più. Non viene mai menzionata Fiume
che Sonnino era disposto a lasciare ai serbi nella futura sistemazione dell’area.
Ad ogni modo, Salandra decide di lasciar cadere alcune richieste in modo da
accelerare la conclusione delle trattative ed evitare di trovarsi in una posizione
sfavorevole ora che la Turchia sembra prossima a cadere.
Uno scambio di lettere tra Sonnino e Salandra illumina il loro pensiero
sulla guerra. La prima lettera è dell’11: Salandra scrive a Sonnino. Informa
che la guerra è ormai probabile e vicina. “Noi due soli dovremmo decidere
quando giocare la terribile carta”. Il re non ha ancora dato l’assenso alla
128
guerra ma non avrebbe creato difficoltà. Parlamento e opinione pubblica sono
contrari, ma il loro dissenso non è importante. Conferma, dopo aver sentito
Cadorna, che l’esercito non sarà pronto fino alla fine di aprile. Nel frattempo
si può continuare la finzione delle trattative con Vienna. Sonnino replica il 16
marzo. Spera ancora di convincere l’Austria ed evitare la guerra. Dice di voler
continuare le trattative con entrambi. Ma è fondamentale affrettarsi prima
che la Turchia si arrenda e l’Intesa riduca il prezzo disposta a pagare all’Italia.
È una completa rottura dell’ordine costituzionale parlamentare e monarchico.
Se vogliamo anche della logica. Il paese sta già soffrendo di mancanza di
grano e carbone, abbiamo frontiere sfavorevoli con l’Austria, che intanto le ha
fortificate, un esercito scadente e una popolazione poco motivata, e pensiamo
di infilarci in una guerra che ha già dimostrato i suoi orrori? A forza di
chiacchiere e di grida patriottiche?
Lo sappiamo, l’Italia è il paese della retorica. E dei grandi annunci, salvo
scoprire subito dopo di non aver pane e cannoni.
Nel frattempo si tengono manifestazioni di vario genere, dei vari illusi che
credono di influenzare il governo. L’11 marzo vengono arrestati Balla, Corra,
Marinetti, Settimelli e Mussolini in una manifestazione interventista. Lo stesso
giorno, Balla e Depero pubblicano la “Ricostruzione futurista dell’universo”.
Dare scheletro all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile,
all’impercettibile. Trovare equivalenti astratti di forme e elementi
dell’universo, combinarli secondo i capricci dell’ispirazione “per formare dei
complessi plastici che metteremo in moto”.
Cioè?
Anche i socialisti tentano di riprendere l’iniziativa politica ma loro azione è
sterile. Il popolo, dal canto suo, manifesta dal Veneto alla Sicilia per l’aumento
del prezzo del pane. E il governo risponde. Domenica 7 marzo viene
pubblicato il decreto sul pane unico. Da ora in poi i fornai potranno produrre
solo una pagnotta da 500 grammi, composta per l’80% di macinato di grano,
il resto può essere qualunque cosa. Serve per risparmiare il grano fino al
129
prossimo raccolto. Anche alla tavola del re si serve il pane scuro unico. Il
principe Umberto afferma “questo è il pane dei soldati”.
Segniamoci questa data. Il 16 marzo il sindaco di Genova invita
ufficialmente D’Annunzio, ancora “esule” per debiti in Francia, a venire il 5
maggio a Quarto per inaugurare un monumento ai Mille. Si pensa ad usare
questa occasione per spingere l’Italia all’intervento o per fare la rivoluzione.
L’idea iniziale è quella di uno sbarco di garibaldini insieme all’inaugurazione
del monumento e al discorso di D’Annunzio. Il vate nazionale pensa alla
gloria e nel frattempo cerca soldi dai soliti amici. Luigi Albertini gli spedisce
4850 franchi. Il supremo poeta debitore ne aveva chiesti 5000. A metà aprile li
ha già finiti.
Il 31 si svolge a Milano una grande manifestazione della sinistra
interventista, a cui si contrappone una dimostrazione neutralista. Vengono
arrestate 236 persone. In un’altra zona di Milano, ad arringare la folla
interventista c’è anche Mussolini. Anche lui deve pensare ai soldi. Il suo
Popolo d’Italia, per quanto in crescita di copie e di influenza, non naviga in
buone acque. Pochi abbonati e scarsa pubblicità. Sono finiti i finanziamenti
delle Messaggerie italiane di Filippo Naldi, direttore del Resto del
Carlino. Mussolini deve rivolgersi da altre parti. Li troverà in Francia ma solo
a partire da giugno. Intanto il 29 marzo si scontra alla spada con il deputato
socialista Treves, ex direttore dell’Avanti!, neutralista, che gli ha scatenato una
violenta campagna con insulti personali. Il duello al calor bianco dura ben
venticinque minuti e si conclude solo per l’intervento dei medici. I due non si
riconciliano.
A proposito di estrema sinistra. Cosa dice Nenni della guerra? “Solo se si
identifica la nostra nazione con quella massa caotica di contadini o di
lavoratori analfabeti ed ignoranti (non per colpa loro ma per colpa dei
governanti) si può affermare che l’Italia è per la neutralità. Ma se si tiene
conto dei cittadini che hanno un cervello e l’adoperano, che non sono né servi
di preti né di socialisti, che non sono invigliacchiti né dai vizi né dalle
130
privazioni, allora appare chiaro a chiunque che l’Italia è interventista.”
Verso le finali nazionali
Nel frattempo avvengono anche cose più leggere. Il match-clou dei gironi
di semifinale si tiene a Vercelli il 7 marzo tra il Torino e il Pro Vercelli. Un
treno speciale porta da Torino un foltissimo gruppo di tifosi granata (400) che
vengono inizialmente ben accolti dai locali. La partita finisce al 43° del
secondo tempo con uno splendido gol del granata Mosso I su servizio in
rovesciata di D’Auria. I vercellesi non ci stanno a perdere e, mentre dalle
tribune si applaude sportivamente, dai posti popolari partono le
invettive contro l’arbitro, un gruppetto invade il campo e devono intervenire i
carabinieri. Parapiglia! Confusione! Titola La Stampa. Alla fine però i
carabinieri sono sufficienti per riportare la calma e i tifosi torinesi si avviano
verso la stazione senza bisogno di una scorta armata. Il 28 marzo si giocano le
ultime partite. Alla finale del nord Italia accedono, oltre al Torino, il Genoa, il
Milan e l’Inter. Domenica 28 si tiene la nona edizione della Milano-Sanremo, al cui nastro
di partenza sono presenti tutti i campioni italiani: Girardengo, Azzini, Ganna,
Durando, Corlaita, Galetti e Calzolari, ma nessuno straniero. Si parte alle
5.30 sotto un cielo plumbeo. La fuga decisiva avviene sul mare. Nei pressi
di Imperia, che allora si chiamava Porto Maurizio, si vedono in cinque sotto
un tempo pessimo: Girardengo, Galetti, Azzini, Corlaita e Lucotti. Pochi
minuti più tardi, al traguardo di Sanremo arriva Costante Girardengo,
incrostato di fango ma freschissimo, con ben cinque minuti di vantaggio su
Corlaita. Subito viene presentato un reclamo. Pare che il campione, a Porto
Maurizio, non abbia seguito le frecce che costeggiavano la cittadina, ma abbia
proseguito diritto, guadagnando un vantaggio considerevole. Alla fine
Girardengo viene squalificato e la vittoria passa ad Enzo Corlaita.
Chiudiamo il mese con un po’ d’amore. Giacomo Puccini continua la sua
131
storia d’amore con Josephine Von Stengel, baronessa tedesca, trentaduenne,
divorziata e madre di due bambine. In marzo Josephine gli scrive una lettera
appassionata. “Adoro te in tutto. Adoro l’arte tua, la musica tua, il tuo grande
sapere in tutto e amo sopra tutto – malgrado tu non mostri come sei grande –
la tua modestia e la semplicità d’ogni cosa tua! Sei adorabile davvero! (…)
Come ero felice quel giorno a Viareggio, quando venisti al bosco per cenare
con me, alla lampada rossa! Come mi faceva piacere e come godevo nel
preparare la tavola per te! E poi a casa tua, io mi sentivo a casa mia! Che
belle, indimenticabili ore!” Puccini è meno focoso. La vecchiaia incombente e
un declino lo legano sempre più alla sua ansiosa gelosa e meno impegnativa e
protettiva legittima consorte. La loro storia durerà fino al 1917.
132
APRILE 1915
Rivergaro, provincia di Piacenza. Un telegramma ufficiale proveniente da
Roma annuncia lo scioglimento del consiglio comunale e l’arrivo del
commissario regio. Il paese entra in agitazione. Si puliscono strade, si
adornano aiuole, si mettono fiori a lato dei lampioni a gas. La mattina del
primo aprile il sindaco si reca a ricevere l’illustre ospite in stazione
accompagnato da consiglieri, carabinieri e banda municipale. Dal treno
scenderà un pesce gigante.
La guerra in aprile
Si scherza ancora in Italia, ma la guerra è ben presente. Sul fronte
occidentale la primavera non porta nuovi amori ma la ripresa del massacro,
con la prima assoluta dei gas asfissianti. Ad Ypres muoiono diecimila soldati
francesi e un congruo gruppo di tedeschi, investiti dalla nube di ritorno a base
di cloro. Per il resto è solo logorante guerra di trincea. Sul fronte orientale la
spinta russa si esaurisce sui Carpazi ma neppure austriaci e tedeschi riescono
a sfondare le linee russe. Nei Dardanelli l’attacco navale anglofrancese
incontra un’ostinata resistenza turca. Il 25 sbarcano le truppe dell’Impero
britannico, tra cui soldati australiani e neozelandesi. E’ lo sbarco di Gallipoli
celebrato in un bellissimo film di Peter Weir. I turchi inchiodano gli
anglosassoni sulla spiaggia. Al largo di Santa Maria di Leuca, il sommergibile
austriaco U5 silura l’incrociatore francese Léon Gambetta. Gli italiani salvano
138 uomini su 725. Il comandante Deperierè rifiuta di salire sulle scialuppe:
rimane a bordo e si uccide con un colpo alla testa. Sempre i tedeschi
trasformano il parlamento di Bruxelles in un dormitorio per le truppe. Sul
piano diplomatico, Bulgaria e Romania sono contese tra i due blocchi con
allettanti offerte. Ma il boccone più grosso resta l’Italia.
Dilettanti allo sbaraglio. E cinici.
133
Costante della diplomazia italiana è quella di negoziare con entrambi i
contendenti cercando di strappare il massimo, sempre con l’idea che qualsiasi
impegno preso possa essere poi rinnegato con qualche pretesto. Anche nella
realpolitik dell’epoca, è un gioco cinico e disonorevole, segretissimo, condotto
da Salandra, Sonnino e dagli ambasciatori a Londra, Parigi e Pietrogrado,
con la complicità del Re. Per chi ha voglia, sono istruttivi i documenti
pubblicati dal Ministero degli esteri on line.
Proviamo a seguire i due filoni di trattative, senza pretendere di essere
esaurienti. A Vienna, la corte imperiale è disposta a poche concessioni. Il 2
aprile comunica che è disposta a cedere solo parte del Trentino italiano e
comunque non prima della conclusione della guerra. Troppo poco per i nostri
appetiti. A Londra, l’ambasciatore Imperiali si districa in una trattativa
complicatissima. L’Italia invoca il principio di nazionalità quando le fa
comodo e se ne dimentica se si tratta di slavi e albanesi. Inglesi e francesi sono
pronti a darci tutti i pezzi dell’Austria che vogliamo, mentre fanno i taccagni
quando si parla di Mediterraneo e di colonie. Il nostro scopo principale è
ottenere il controllo assoluto dell’Adriatico, che si scontra con le ansie
liberatrici dei serbi sostenuti dai russi. La questione è ben presente
all’opinione pubblica. Lo stesso Mussolini, ancora nel filone dell’interventismo
democratico, afferma il 6 sul Popolo d’Italia, che non si può liquidare il
nemico austriaco per crearne uno nuovo, la Serbia, escludendola
dall’Adriatico. La difesa dell’italianità passa attraverso un’intesa con serbi e
croati.
Il futuro duce, solo due giorni dopo, ricorda alla monarchia che la sua
esistenza è in pericolo. Se si lancia la guerra, tutti gli italiani si stringeranno
intorno in un’unione sacra. Altrimenti, se si farà una guerra a metà
(qualunque cosa essa sia), oppure si continuerà con la politica del “parecchio”,
“la nazione insorgerà contro il tradimento e la monarchia avrà – nelle more
della neutralità – tessuto il suo lenzuolo funebre.” Riappare il mito del popolo
risorgimentale talmente voglioso di combattere contro l’antica nemica al
134
punto di rovesciare i Savoia. Una cinica invenzione che sarà astutamente
sfruttata dal duo Salandra-Sonnino per ricattare gli altri paesi e creare una
risibile giustificazione per una guerra non voluta da nessuno. E mal pensata.
Esatto, perché se è senz’altro vero che la posizione internazionale dell’Italia è
difficilissima, i nostri leader non hanno alcuna idea di quali siano i nostri veri
interessi nazionali. Siamo sicuri di voler lottare contro l’Austria, sapendo che
la Germania, con cui non abbiamo alcun motivo di rivalsa, si schiererà in suo
favore? Vogliamo davvero ridimensionare l’Austria a prezzo di far aumentare
il peso degli slavi? Negli ultimi trent’anni con chi abbiamo avuto forti rivalità,
con la Francia o con la Germania?
Fatto sta che l’8 aprile Sonnino invia un progetto di trattato in undici
articoli all’Austria che è un’autentica provocazione. Chiediamo l’immediata
cessione del Trentino con Bolzano, varie isole lungo la costa dalmata, uno
spostamento del confine orientale italiano che includa Gorizia, la creazione di
uno stato autonomo di Trieste, la rinuncia austriaca a ogni pretesa
135
sull’Albania. Le impressioni a Vienna e Berlino sono di assoluta
costernazione. Si tratta di proposte inaccettabili per la duplice monarchia, che
segnerebbero la sua fine come grande potenza. Il ministro degli esteri tedesco
Jagow afferma che “il governo italiano non vuole la riuscita dei negoziati e
mira ad una rottura con i suoi alleati”.
Nel frattempo continuiamo i non facili negoziati a Londra per il patto che
ci legherà a Francia, Inghilterra e Russia.
Neutralisti contro interventisti
I socialisti continuano nella loro risoluta opposizione alla guerra ma sono
privi di iniziativa politica. Come sempre, a sinistra ci si divide. Anche in casa.
Turati e la sua compagna Anna Kuliscioff la vedono diversamente. Turati è
sempre per il neutralismo anche se dilaniato dal pensiero che possa vincere la
Germania o, peggio, l’odiata Russia zarista. La compagna Anna Kuliscioff è
ormai per l’intervento contro l’Austria e rifiuta il mercanteggiare, “un’onta
morale”. Turati le risponde “La tua ossessione sta in questo: nel credere che la
guerra possa salvarci o difenderci. La guerra è come la malattia: può uccidere,
può indebolire, niente altro.”
Turati non è neutralista per spirito socialista ma da patriota. Conosce
l’impreparazione dell’Italia. Ma allo stesso tempo non intende scatenare lo
sciopero generale per fermare la guerra. Così paralizzando ancora di più il
PSI, già incapace di agire.
Il 10 D’Annunzio accetta l’invito a ritornare in Italia in occasione
dell’inaugurazione del monumento alla spedizione dei Mille, che avverrà il 5
maggio a Quarto. Una delegazione del comune di Genova parte pochi giorni
dopo per Roma per invitare ufficialmente il Re.
L’11 vi sono delle manifestazioni degli interventisti a Milano e Roma. A
Roma Piazza della Pilotta (vicino al Quirinale) è presidiata militarmente. Chi
si avvicina viene fatto sgomberare. Mussolini e circa 4-5000 persone si
accalcano intorno alla Fontana di Trevi, il capopopolo si alza sulla balaustra
136
ma non ha detto due parole che viene fatto scendere dalla polizia. Il corteo si
sposta, distruggendo per strada le vetrine del Lloyd. Prima carica della polizia.
La cavalleria carica una seconda volta i dimostranti a Piazza Barberini per
bloccare il discorso di Mussolini, che vene arrestato. Avvengono incidenti
meno gravi e qualche arresto nel comizio neutralista a Piazza Esedra.
Incidenti e rivoltellate anche nel quartiere di San Frediano a Firenze. Scontri
ed arresti anche a Torino, Ancona, Verona, Parma e Napoli. A Milano, la
polizia disperde un comizio socialista. Nel parapiglia l’operaio Marcora, 28
anni, riceve un colpo di bastone alla nuca. Di notte si sente male e muore
poche ore dopo. I sindacati proclamano lo sciopero generale per il 14, che
riesce pienamente. 150.000 persone partecipano ai funerali di Marcora.
Manifestanti e polizia si scontrano anche in quest’occasione.
Gramsci sostiene il 13 aprile quello che sarà il suo ultimo esame
all’Università; il suo impegno politico cresce durante queste settimane e con il
suo ingresso nella redazione torinese dell’Avanti!
Eppure si muove. Le timide concessioni austriache.
La stampa è unanime nel ritenere che le questioni di politica estera non
debbano essere discusse dal parlamento, nemmeno dal Consiglio dei ministri e
neppure dai militari. È normalissimo, anzi necessario, che queste scelte siano
riservate al Re, al presidente del consiglio e al ministro degli esteri.
Le posizioni dell’Italia rispetto all’Inghilterra e alla Russia si vanno
avvicinando. Lo scoglio resta sempre l’Adriatico. Il 14 Sonnino telegrafa a
Londra accantonando alcune richieste sulle isole dalmate in cambio di un
sostanziale protettorato sull’Albania. Lo stesso giorno il ministro degli esteri
austriaco Jagow, preoccupato della piega degli avvenimenti, propone a
Sonnino un incontro segreto, che viene rifiutato dal nostro.
Non mancano i dubbi tra i protagonisti di questi giorni. L’ambasciatore a
Berlino Bollati scrive il 14 aprile al suo collega ed intimo amico a Vienna,
duca Avarna. Il diplomatico è costernato dal tenore delle proposte fatte
137
all’Austria. Sono le condizioni imposte a un nemico vinto non proposte
ragionevoli per restare neutrali, a cui comunque saremmo tenuti dall’onore e
da un accordo di alleanza vecchio di trent’anni. Bollati è stupefatto che
Salandra e Sonnino considerino la distruzione dell’Austria vantaggiosa per
l’Italia; per noi sarebbe più utile mantenere la duplice monarchia come
baluardo contro gli slavi e gli anglofrancesi nell’Adriatico. Bollati si lamenta
che questa semplice verità sia scomparsa dal dibattito pubblico. Scrive con
penna feroce. “E così si lascia far tutto ad un volgare parlamentarucolo, ad un
dottrinario intestardito, e a un militare tronfio e vanitoso all’opera dei quali
sarà dovuto se l’Italia compirà l’atto più ignominioso che la Storia abbia mai
registrato, e si esporrà – anche nella migliore delle ipotesi – ad orrori e disastri
senza fine.” Bollati, consapevole di essere strumento e complice di una politica
da condannare, si chiede se “non sarebbe invece nostro dovere di
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abbandonare ogni scrupolo e di dire senza riserva tutto ciò che sentiamo,
cominciando a rivolgerci direttamente al Re… Non temere, non muoverei
nessun passo senza di te, e poi – forse non farei niente in nessun caso, perché
anch’io… non ho il coraggio.”
Sono parole che suonano di condanna per un’intera classe dirigente
mediocre e irresponsabile. Avarna risponderà il 20 con una risposta pilatesca.
Afferma che entrambi hanno sempre detto la verità. “Delle nostre parole non
essendosi tenuto alcun conto, la nostra responsabilità personale di funzionari
pubblici è interamente al coperto e non ci resta altro da fare che di eseguire,
sia pure a malincuore, gli ordini che ci vengono impartiti quali siano le
conseguenze che ne deriveranno pel nostro Paese.”
Il 16 l’Austria respinge ufficialmente le proposte italiane senza però
rompere. A Berlino non perdono la speranza di impedire la deriva italiana.
Motivi di inimicizia con la Germania non ve ne sono. L’ambasciatore tedesco
a Roma Von Bülow scatena tutte le sue amicizie romane per cercare di influire
sulla testa di Salandra e Sonnino. Il 17 il senatore Riccardo Carafa D’Andria,
neutralista, si fa portavoce di Von Bülow con Salandra che lo riceve
spazientito. Carafa riferisce al presidente del consiglio che il Senato è in
larghissima parte per la neutralità. I particolari dell’incontro filtrano sulla
stampa, generando un piccolo scandalo. Carafa sarà uno dei senatori a non
votare l’intervento in Senato il 21 maggio.
Parliamo anche di altre cose.
Il 10 aprile esce a Roma un altro melodrammone di grande successo della
tagione cinematografica, Fior di male, di Carmine Gallone, con la divina
Lyda Borelli. Parla di una donna con una durissima esistenza e del figlio
abbandonato, poi di un impossibile riscatto grazie alla sua bonta d’animo, per
finire al classico tragico epilogo in cui sarà proprio il figlio ad uccidere ignaro
la madre con una coltellata. Vabbé.
Domenica 18 inizia il girone finale dell’Alta Italia che deciderà il futuro
139
campione di calcio. Si comincia con due pareggi. Inter-Torino 2-2. Match
non esaltante per tecnica, ma veloce ed emozionante. Il Torino va in
vantaggio per 2-0. Attacca molto ma senza avere grandi idee sulle conclusioni.
L’Inter regge, segna prima della fine del primo tempo e pareggia
meritatamente al 30° del secondo. Nell’altra partita il Milan non solo
neutralizza l’offensiva del Genoa, superiore per tecnica, ma lo surclassa
andando in vantaggio dopo pochi minuti. Il Genoa pareggia con un gol
fantasma, vivacemente contestato dal pubblico.
Lunedì 19 prima rappresentazione al teatro Manzoni di Milano di “Se non
è così”, poi rinominato La ragione degli altri di Luigi Pirandello.
Le intese con l’Intesa
Martedì 20 Salandra scrive a Sonnino in vista del consiglio dei ministri
fissato per il giorno dopo. Tra le altre cose, dice che si potrebbero “informare i
ministri delle conclusioni reali a cui sono giunte le trattative con gli Imperi
centrali. Bisogna che essi pure si persuadano che la soluzione pacifica non è
resa impossibile dalla durezza di noi due, o particolarmente tua, come vanno
insinuando i corifei del connubio Giolitti-Bülow.”
Così accade. Salandra e Sonnino continuano ad ingannare i colleghi. I
ministri vengono informati dei negoziati con l’Austria ma non di quelli con
l’Intesa. Lo stesso giorno il presidente del consiglio riceve i rapporti segreti dei
prefetti sull’atteggiamento della popolazione verso la guerra. Il paese è in gran
parte contrario anche se rassegnato a nord e indifferente nel centrosud. Pochi
gruppi sono chiaramente favorevoli quasi unicamente borghesi o piccoloborghesi. In ogni caso il popolo obbedirà al re e al governo. Nello stesso
consiglio il governo vieta i comizi e i cortei in vista del 1° maggio.
I giornali non hanno idea di cosa stia realmente accadendo. Si rincorrono
le voci più diverse. In alcuni momenti si parla di rottura, in altri di accordi
imminenti. Alcune voci parlano di un’Austria disposta a cedere tutte le terre
irredente tranne Fiume, con compensazioni territoriali dalla Germania. Altre
140
fonti danno per certa l’adesione dell’Italia all’Intesa. Ma sono frutto di
fantasie e di voci alimentate ad arte. D’Annunzio fa sapere, tramite un amico,
che se l’Italia non scenderà in guerra farà karakiri (sic). Auspica di salire a
bordo di una nave per assistere ad una battaglia navale che lavi l’onta di Lissa.
“Qual miglior morte per me che affondare nell’Adriatico? Così deve finire un
poeta!”
I negoziati a Londra entrano nella stretta finale. Il 21 gli inglesi chiedono
agli italiani di chiudere le trattative evitando di aprire nuove
questioni. Sonnino cede anche perché è ormai imminente l’attacco finale
contro la Turchia e non vogliamo arrivare tardi alla spartizione del bottino.
Il 23 una nuova lettera di Avarna a Bollati. Dopo la rottura delle trattative
con l’Austria, ormai è la guerra. “Speriamo che questa sciagurata guerra non
produca spiacevoli sorprese, ma essa è una triste e grave avventura a cui il
governo spinge il paese con tanta leggerezza.”
Il 26, dopo ulteriori negoziati dell’ultimo minuto, e dopo che il re ha dato
la sua approvazione, avviene la firma del trattato di Londra. I militari non
sono consultati. Anche se segreto, indiscrezioni sul patto filtrano all’opinione
pubblico. La notizia appare sulla stampa francese già il 26 e viene ripresa nei
giorni successivi dalla stampa italiana. Si dice che ormai il patto con gli inglesi
sia stato firmato e che il negoziato con l’Austria sia stato interrotto. La censura
agisce per impedire altre fughe di notizie.
Il patto prevede per l’Italia molte concessioni a danno dell’AustriaUngheria: il Trentino e il Tirolo cisalpino fino al Brennero (abitato da
popolazione tedesca), ma anche Trieste, Gorizia, l’Istria, gran parte della
Dalmazia, il protettorato sull’Albania e il possesso sulla città di Valona, il
riconoscimento della sovranità sulle isole del Dodecaneso, il bacino
carbonifero di Adalia, in Asia Minore, e benevola considerazione in caso di
spartizione delle colonie e dei possedimenti turchi. Chiediamo anche
l’esclusione del Vaticano da ogni negoziato di pace. Il Regno Unito ci
concederà un prestito di almeno 50 milioni di sterline. In cambio ci
141
impegniamo ad entrare in guerra entro un mese contro gli Imperi centrali,
cioé contro Austria, Germania e Turchia e a non concludere pace separata.
Il dado è tratto. Il re e compagnia hanno un mese di tempo per costringere
il paese alla guerra. Dal punto di vista costituzionale il re è sovrano per la
firma dei trattati internazionali e la dichiarazione di guerra, ma il parlamento
deve concedere i crediti di guerra, senza i quali non si va molto lontano. Dal
26 aprile, fatto inusitato, siamo contemporaneamente alleati dell’Intesa e degli
Imperi centrali.
La lotta nelle piazze e negli stadi
La domenica sportiva del 25 è caratterizzata dalla vittoria di Girardengo
nella Milano-Torino e nella seconda giornata del girone finale. Il Genoa batte
l’Inter 5-3 e si porta in testa con 3 punti. Seguono Milan e Torino a due punti
dopo il pareggio per 1-1.
Ormai gli italiani capiscono che sta per maturare qualcosa di grave. Un
manifesto del PSI invita i lavoratori a partecipare alle manifestazioni per il 1°
maggio, dando loro un significato pacifista. Il 27 si svolge a Milano il
Consiglio nazionale della CGdL, che approva una risoluzione contro la
guerra. Il 29 Mussolini annuncia “Non è più questione di mesi, né di
settimane, ma di giorni.” D’Annunzio rilascia sul Corriere della Sera con due
ardenti articoli di delirio patriottico, scritti originariamente per Figaro e La
Petite Gironde. Proclama la rinascita della razza italica contro i tedeschi.
L’Adriatico, il polmone sinistro dell’Italia, è nostro. In questi giorni si
moltiplicano le agitazioni studentesche, sia all’università che nelle scuole
superiori a favore dell’intervento contro l’Austria. Gli studenti sono tutti di
provenienza agiata.
Il 30 aprile Sonnino informa Cadorna del patto siglato senza fargli vedere
il contenuto. Il capo di stato maggiore annuncia che l’esercito potrà muoversi
il 12 maggio con 240mila uomini. Iniziano i colloqui con i nuovi alleati
per una convenzione militare ed una navale per definire la conduzione della
142
guerra. I negoziati non si presentano facili. Nel frattempo da Berlino e Vienna
vengono nuove avances di discussione per evitare la guerra.
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MAGGIO 1915
Gli avvenimenti del mese meritano di essere seguiti in ordine cronologico.
Ma va tenuto conto che in realtà non accade nulla. I giochi sono fatti. La
decisione è presa. Ci saranno inganni e proclami ma la realtà delle cose non
cambierà, a meno di una crisi dinastica di portata imprevedibile. Vediamo che
succede.
Sabato primo maggio trascorre tranquillamente. Sindacati e partito
socialista si oppongono alla guerra con sterili dichiarazioni di principio.
Cresce intanto la campagna interventista. In prima fila ci sono il Corriere
della Sera di Albertini, il Popolo d’Italia di Mussolini, il Resto del Carlino di
Naldi, la Gazzetta del Popolo, l’ultraministeriale Giornale d’Italia. Dei grandi
giornali, solo La Stampa di Torino di Frassati resta convintamente neutralista.
Si attende con ansia il cinque, giorno dell’inaugurazione a Quarto di un
monumento all’impresa dei Mille. Saranno presenti il re e D’Annunzio. Si
pensa che in tale occasione ci sarà l’annuncio della guerra. Nel massimo
silenzio e con piglio piemontese, Cadorna si è messo a fare piani di guerra.
Deve essersi messo le mani nei capelli di fronte al compito impossibile. L’Italia
deve attaccare, risalendo le valli sotto le fortezze che nel frattempo l’Austria ha
piazzato sulle alture. Deve mobilitare l’esercito in gran segreto per non
avvertire il nemico.
Domenica due maggio Cadorna chiede ufficialmente alla Russia di
attaccare l’Austria in contemporanea con l’intervento italiano. Avverte che i
nostri avanzeranno lentamente a causa della preparazione difensiva austriaca.
C’è ancora spazio per notizie più piacevoli. Nella terza giornata del girone
finale il Torino strapazza Genoa 6-1, mentre l’Inter vince il derby della
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Madonnina per 3-1 nel derby. Il Torino guida la classifica con 4 punti,
seguono Genoa ed Inter a 3, chiude il Milan a 2. La lotta è apertissima.
Lunedì 3 il consiglio dei ministri blocca la partecipazione del re e dei
ministri alla cerimonia di Quarto a causa della situazione internazionale. La
vera ragione è che oggi l’Italia denuncia segretamente il trattato della Triplice
alleanza con l’Austria, dietro il pretesto dell’impossibilità di raggiungere un
accordo territoriale. L’Italia non denuncia invece l’alleanza con la Germania,
come avrebbe dovuto, nell’illusione di poter evitare la guerra contro il Kaiser,
con cui non ci sono motivi di attrito. I tedeschi fanno immediatamente sapere
che scenderanno in campo per difendere l’Austria dall’Italia.
In serata D’Annunzio parte in treno da Parigi. Lascia la sua amante,
Nathalie de Goloubeff, che non si rassegna ad essere abbandonata, dopo aver
finanziato per anni il gaudente poetastro. La donna finirà male, morirà sola e
alcolizzata nel 1941. Il vate d’Italia arriva a Bardonecchia la mattina del 4 tra
molti simpatizzanti. Il corrispondente de La Stampa gli chiede “Resterà molto
in Italia?” “Dipenderà dagli avvenimenti. Se si farà la guerra, resterò; se non
si farà, riprenderò la via dell’esilio.” Esilio dorato a carico degli amici e delle
amanti. Arriva nella sera a Genova, già riempita di gente proveniente da tutta
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Italia, soprattutto studenti e professori universitari. D’Annunzio fa un primo
discorso davanti all’Hotel Eden Palace. Riempie la folla di paroloni: dovere,
giovinezza rigeneratrice, eroe, patria, obbedisco, bronzo. D’Annunzio inizia a
seminare l’Italia di dichiarazioni rimbombanti, clangore di tamburi e chiarine
che stordiscono, e che lette oggi fanno semplicemente ridere. Ma allora erano
prese molto sul serio. Questo era il nostro poeta più celebre.
La realtà è diversa. In questi nove mesi non abbiamo risolto le carenze
strutturali dell’esercito: mezzi, uomini e cervelli. Scarsa artiglieria, pochi
mitragliatrici. Mancano gli ufficiali. I generali non sono all’altezza. Solo la
marina è decente. Salandra vuole fare la guerra con poca spesa, né si è
preoccupato di avere aiuti finanziari e materiali dagli alleati. La realtà delle
trincee era evidente a tutti da mesi ma a Roma, con il tipico idealismo da
irresponsabili di cui è costellata la storia patria, si crede che basteranno poche
migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace. Mercoledì 5 è il giorno del
discorso di Quarto. L’atmosfera si è un po’ sgonfiata dopo la rinuncia del re e
delle autorità nazionali. C’è un’atmosfera caciarona ed anarchica, ma non
avvengono incidenti. D’Annunzio pronuncia un discorso, come al solito,
incomprensibile, erudito e narcisistico. Lo sentono solo i più vicini perché la
confusione è enorme, tra le sirene delle navi e le salve di cannone. Ecco le frasi
conclusive, “Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, o voi datele alla
fiammeggiante Italia! O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare,
più potranno ardere. Beati quelli che hanno vent’anni, una mente casta, un
corpo temprato, una madre animosa. Beati quelli che aspettando e
confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono nella disciplina
del guerriero. Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per esser vergini a
questo primo e ultimo amore.”
Poteva sbattere due pentole ed ottenere lo stesso effetto. Protesta
l’Osservatore romano per l’uso blasfemo del Vangelo. A Montecitorio si
commenta favorevolmente ma senza gran trasporto. Quando lascia Genova,
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D’Annunzio lascia il conto dell’albergo al Comune per se e altre due signore
sue amiche.
Giovedì 6 giungono nuove offerte territoriali. L’Austria è disposta a cedere
la parte italiana del Trentino e della Venezia Giulia, a concedere un’ampia
autonomia a Trieste e a lasciare mano libera in Albania. La consegna dei
territori dopo la guerra con garanzia della Germania.
Il giorno dopo comincia il rimpatrio degli italiani da Austria e Germania.
Il gabinetto governativo viene finalmente informato del patto di Londra.
Sonnino comunica le ultime offerte austriache. Dopo un lungo dibattito il
consiglio approva la scelta dell’intervento e si impegna a dimettersi nel caso di
un voto contrario della Camera. Salandra non è sicuro di avere la
maggioranza alla Camera, le cui chiavi risiedono nel neutralista Giolitti. Il re
è nervoso: ha dato la sua parola d’onore ai nuovi amichetti dell’Intesa. Come
uscire da questo pasticcio? Per guadagnare tempo si rinvia la riapertura del
parlamento al 20 maggio. Nel primo pomeriggio Von Bülow si reca dal re
portando una lettera del Kaiser. Non abbiamo alcun contrasto con la
Germania, tutt’altro. Nel frattempo giunge notizia che un sottomarino tedesco
ha affondato il transatlantico Lusitania. Muoiono 1201 persone. A bordo
doveva esserci Toscanini, che aveva litigato con gli americani e aveva deciso di
tornare in Italia.
Nella mattina di sabato 8 Salandra e Sonnino discutono della situazione
con il re a Villa Ada. Il re è pronto ad abdicare nel caso in cui la Camera
respinga l’ingresso in guerra. In serata Giolitti parte per Roma in vagone letto.
Alla stazione di Torino viene contestato da un piccolo gruppo di interventisti.
“Cosa volete?” chiede lo statista. “Vogliamo la guerra!” “Chi di voi si è
arruolato?” risponde senza perdere la calma.
Lettera di Salandra a Sonnino. Si parla delle difficoltà di concludere la
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convenzione militare e navale con i neoalleati, per cui il presidente del
consiglio suggerisce di tenersi le mani libere ordinando la mobilitazione ma
senza dichiarare guerra. Un altro esempio della superficialità del duo. La
mattina successiva Giolitti arriva a Roma. Nel tragitto dalla stazione a casa,
che compie a piedi, Giolitti viene contestato dagli interventisti, tenuti a bada
dalla polizia. All’ennesimo “Abbasso!” Giolitti, che non si è mai scomposto, si
rivolge ai manifestanti dicendo “E adesso almeno gridate con me una volta
Viva l’Italia!” Confessa a Olindo Malagodi, direttore della Tribuna, “La gente
che è al governo meriterebbe di essere fucilata. Vogliono portare l’Italia alla
guerra, per gli altri, senza bisogno; quando già sono state fatte concessioni
adeguate. È un’idea fissa di Sonnino, di fare la guerra per salvare la
monarchia, che non è affatto in pericolo.”
Salandra spedisce il ministro del tesoro Carcano a sondare Giolitti. Nelle
sue memorie Giolitti afferma di aver ricevuto soltanto indicazioni generiche e
di non essere stato informato del trattato già firmato e delle relative clausole.
Ciò sembra plausibile alla luce degli avvenimenti successivi.
Nel pomeriggio si svolge la quarta giornata del torneo finale. Genoa-Milan
3-0. Inter-Torino 2-1. Genoa ed Inter in testa con 5 punti. Torino segue con 4
punti. Milan ormai fuori dai giochi ultimo con solo 2 punti.
L’arrivo di Giolitti mette in subbuglio la politica romana. Lunedì 10 è un
turbine di incontri al vertice. Nella mattina Giolitti espone apertamente al re
le sue ragioni contro la guerra. Il paese e l’esercito non sono pronti. Ritiene
che si possa ottenere ancora molto dai negoziati con l’Austria. Ma, ed è qui la
debolezza della sua posizione, non intende tornare al governo e promette di
sostenere Salandra nel suo obiettivo di liberarsi dagli obblighi dell’Intesa. Il re,
astuto manovratore, non gli dice nulla del Patto di Londra e lo manda a
sentire Salandra. I due uomini si vedono nel pomeriggio. Giolitti ricorda che “Salandra mi rispose che il Governo aveva ormai presa la deliberazione di
entrare in guerra; che gli era impossibile tornare indietro, e che se non avesse
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potuto dichiarare la guerra per ostacoli da parte del Parlamento, avrebbe
dovuto dimettersi. Egli era informato della quantità di adesioni che i deputati
avevano espresso al mio punto di vista, donde desumeva la possibilità che il
Parlamento potesse votargli contro.” Nel frattempo a Parigi si conclude la
Convenzione navale per le operazioni nell’Adriatico.
Martedì 11 una nota congiunta Macchio-Von Bülow a Sonnino formalizza
pubblicamente le offerte austriache già preannunciate nei giorni precedenti: il
Trentino, tutto il Tirolo italiano, Trieste come città libera e la riva occidentale
dell’Isonzo. Col senno di poi è quasi quello che otterremo con seicentomila
morti. Sonnino risponde che le proposte sono ancora troppo vaghe. Di sera gli
interventisti milanesi inscenano una violenta dimostrazione sotto il consolato
germanico. Mussolini arringa la folla. “Sembra che, complice Giovanni
Giolitti, si mercanteggi nel modo più abbietto l’avvenire d’Italia. (…) Se
l’Italia non avrà la guerra alla frontiera, essa avrà fatalmente, inevitabilmente,
la guerra interna!” Gli avvenimenti incalzano. Giolitti non prende l’iniziativa
contro Salandra nonostante 320 deputati e un centinaio di senatori lascino a
casa sua il proprio biglietto di visita per sottolineare pubblicamente la loro
adesione alla linea neutralista.
Nella sera del 12 arriva a Roma D’Annunzio accolto da una grande folla.
Il poeta accende le passioni. La massa urlante lo accompagna in corteo fino
all’albergo Regina in via Veneto. Discorso dal balcone con inni bellicosi
“Com’è romano forti cose operare e patire, così è romano vincere e vivere
nella vita eterna della Patria.” E’ la guerra per la guerra. D’Annunzio non
sarebbe capace di spiegare cosa vuole dalla guerra. In una lettera, Salandra
confessa a Sonnino di temere di non farcela. Si mostra sicuro con
l’ambasciatore russo che vuole una data per la mobilitazione. Sonnino teme
che l’Intesa manovri per far precipitare la situazione rapidamente prima della
riapertura del parlamento.
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E finalmente è crisi. All’ora di cena di giovedì 13 Salandra si dimette. Si
tratta di un’abile e rischiosissima manovra per costringere Giolitti a venire
pubblicamente allo scoperto. Gli interventisti sono costernati e si
abbandonano a tumulti e proteste in giro per Roma. Già nella mattinata
squadracce di esaltati assalgono i rivenditori dei giornali neutralisti,
minacciano uomini politici come gli ex ministri Bertolini e Facta. Di sera,
dopo aver seminato il caos nel centro, gli interventisti convergono all’Hotel
Regina. D’Annunzio si scatena con un violentissimo discorso contro Giolitti,
definito il “mestatore di Dronero” e “il vecchio boia labbrone”.
“Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di
concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come crimine
l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine.”
Non vi ricorda nulla questa frase? La userà Benito nel 1925.
D’Annunzio accusa Giolitti di tradimento, che vuole svilire la patria con
bieche trattative mercantili, ovvero quelle che ha fatto Salandra senza alcuna
vergogna. Afferma “Le nostre sorti non si misurano con la spanna del
merciaio, ma con la spada lunga. Però con bastone e col ceffone, con la
pedata e col pugno si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i
leccazampe dell’ex-cancelliere tedesco che sopra un colle quirite fa il grosso
Giove trasformandosi a volta a volta in bue tenero e in pioggia d’oro.”
Cosa significhino il bue tenero e la pioggia d’oro lo lascio ad altri.
Più interessante sapere cosa dice della nostra classe politica il
nostro ambasciatore a Vienna Avarna in una lettera al collega Bollati a
Berlino. “Nella mia lunga carriera non ho mai visto condurre la nostra
politica estera in modo così bestiale e così poco leale come è stata condotta
dacché Sonnino è alla Consulta.”
Si illudono il vate pelato, il duce futurista e gli altri guerrafondai che le loro
parole abbiano un peso. Il re ha già deciso cosa fare. Non ci pensa affatto ad
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abdicare e vuole rimettere Salandra al suo posto. Venerdì 14 il re tiene le
consultazioni. Comincia con Giolitti che propone i nomi del presidente della
camera Marcora e del ministro del tesoro Carcano, entrambi convinti
interventisti, per un governo autorevole che prosegua le trattative con
l’Austria. Perché Giolitti non sostituisce Salandra? Probabilmente non se la
sente di mettere la faccia in un momento in cui le piazze sono agitate e forse si
illude che mandar via Salandra sia sufficiente per fermare la guerra. Ma
dietro Salandra c’è il re, che manovra con rara astuzia. La Stampa continua,
isolata, ad invocare la ragione contro i propositi bellici. “A non voler la guerra
sono tutti i ministri di Stato, tutti gli ex ministri che si sono succeduti al
Governo del Paese da venti anni a questa parte senza distinzione di parte
politica. Tutti, nessuno escluso: contraria la grande maggioranza della
Camera, contrario il Senato. Ma chi dunque ha il diritto di rappresentare
l’Italia? Ma chi ha il diritto di curare le sue sorti, di essere vigili sui suoi destini
se non la maggioranza di costoro?” Inutili appelli alla ragione. A Roma
scoppiano disordini causati dagli interventisti contro i giolittiani. Nella mattina
una folla di studenti partiti dall’università irrompe dentro Montecitorio, un
atto senza precedenti. È uno strano episodio in quanto il centro della città è
presidiato militarmente in ogni angolo. Salvemini fa un discorso incendiario
alla Sapienza davanti a gruppi di studenti. Si scaglia contro Giolitti e anche
contro il re che deve scegliere la via della dignità e dell’onore della nazione,
“se no, di lui non sappiamo che farcene!”
D’Annunzio non smette di concionare. “Udite. Udite. Gravissime cose io vi
dirò, da voi non conosciute. State in silenzio. Ascoltatemi. Poi balzerete in
piedi, tutti.” Racconta che l’Italia ha denunciato il trattato della Triplice
alleanza, accusa Giolitti di tradimento, quando semmai era stata l’Italia ad
ingannare e poi abbandonare l’alleata di trent’anni, dopo aver mercanteggiato
con chiunque. Non sono discorsi razionali. Sono immagini, suoni, emozioni,
violenza condensata in parole. Usa parole mistico-religiose per imbonire la
folla, farle credere di far parte di un popolo eletto: la Nazione, la Razza, il
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Diritto divino. D’Annunzio è l’utile idiota della monarchia, per creare quel
caos che serve al governo per giustificare la guerra.
Sabato 15 è la giornata decisiva. Sia Marcora che Carcano rifiutano
l’incarico. A Roma gli interventisti sono padroni delle piazze. Anche gli
impiegati dei ministeri si schierano per la guerra. Il rettore della Sapienza
Tonelli tiene un discorso patriottico a varie migliaia di studenti delle scuole e
dell’università. Gli impiegati del ministero delle finanze e del tesoro inscenano
una manifestazione spontanea per Carcano e Salandra. Altre dimostrazioni
simili all’Agricoltura e alla Guerra. Gli avvocati romani si schierano per
l’intervento e contro Giolitti, dichiarato servo degli stranieri. Un paese schiavo
della retorica e del conformismo. Le voci dissidenti sono messe a tacere.
Fallisce lo sciopero generale neutralista a Milano. Incidenti a Napoli. Gruppi
di interventisti lanciano pietre contro Il Mattino. Manifestazioni pro e contro
la guerra anche a Torino e in altre città.
Domenica 16 a Torino viene proclamato uno sciopero generale per lunedì
contro la guerra e gli interventisti. Ma è troppo tardi per cambiare gli eventi.
Alle 15 giunge l’annuncio che il re ha rifiutato le dimissioni di Salandra.
Duecentomila romani gremiscono Piazza del Popolo festeggiando la certezza
della guerra. Giolitti ha fallito, non ha avuto il coraggio, è stato ingannato.
Uomo d’ordine, non avrebbe mai messo a repentaglio la monarchia.
Nel pomeriggio, tra squadre già falcidiate dai richiami militari, si svolge la
quinta giornata del torneo finale di calcio. Nello scontro diretto, prevale il
Genoa sull’Inter per 3-1, mentre il Torino non va oltre il pareggio 1-1 col
Milan. Genoa in testa con 7 punti. Inter e Torino a 5. Milan a 3. Sono le
ultime partite. Ormai è questione di giorni prima che parli il cannone.
Lunedì 17 il consiglio dei ministri del redivivo Salandra prepara la
riapertura della Camera per il 20. Un unico punto all’ordine del giorno
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“comunicazioni del governo”. Sul colle del Campidogliosi svolge una grande
manifestazione. D’Annunzio riceve la spada di Nino Bixio. Il lubrico poetante
innalza un altro incomprensibile inno alla guerra, a Roma all’Italia. “Sonate
la Campana a stormo! Oggi il Campidoglio è vostro come quando il popolo
se ne fece padrone, or è otto secoli, v’istituì il suo parlamento. O Romani, è
questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra.
Sonate la Campana!”
Editoriale di Mussolini. “La terribile settimana di passione dell’Italia, si è
chiusa con la vittoria del Popolo (…) Non si hanno più notizie del cav. Giolitti.
E’ forse fuggito ancora una volta a Berlino? Anche il giolittismo versa in
condizioni disperate. È latitante. I suoi partigiani scivolano via e tacciono.” Ha ragione Mussolini. Giolitti ritorna oggi in Piemonte, consapevole della
sconfitta. I neutralisti hanno perso. In quei giorni si svolge a Bologna una
riunione dei dirigenti del PSI e della CGL, durante il quale viene approvata la
formula del “né aderire né sabotare”, che non significa nulla. A Torino lo
sciopero generale si conclude con incidenti, arresti e un morto. Le truppe
occupano la Camera del Lavoro. Tanta forza non fu mai usata contro gli
interventisti.
Prima a Torino di “Assunta Spina” con Francesca Bertini, da una storia di
Salvatore Di Giacomo. Regia di Gustavo Serena. La Bertini viene considerata
come co-regista in virtù del contributo essenziale dato alla messa in scena del
film. È una storia strappalacrime di amori, galera e tradimenti. La Bertini
mette in scena una grande interpretazione di realismo e duttilità espressiva
che rendono il film uno dei più grandi del cinema muto e nettamente
superiore all’enfatico e celebrato Cabiria.
A Roma Von Bülow e Macchio non nutrono più speranze. Eppure
quest’ultimo vuole fare l’ultimo tentativo il 18 maggio con ulteriori proposte
migliorative per un accordo.
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Mercoledì 19 Cadorna emana una rigida circolare sulla disciplina nel
periodo di guerra. Salandra, con una circolare “riservatissima urgente” ai
prefetti delle città principali di formare uffici per la revisione preventiva della
stampa. D’Annunzio viene ricevuto dal re a Villa Savoia. Tre quarti d’ora a
passeggio per il parco. Non si sa cosa si siano detti. Il cancelliere tedesco
Bethmann presenta le ultime offerte, che prevedono una rapida consegna dei
territori austriaci.
Giovedì 20 alle 14 riapre il parlamento di fronte a tribune gremite. Ci sono
gli ambasciatori di Gran Bretagna, Francia e Russia. Compostezza ma anche
generale entusiasmo. D’Annunzio viene portato a dorso di folla nell’unico
posto rimasto libero. I socialisti restano seduti in silenzio tra grida di “Viva
l’Italia! Viva la guerra! Viva Trento e Trieste!” Salandra fa un discorso da
imbonitore, che maschera la guerra di aggressione che l’Italia intende
scatenare contro l’ex alleata, in cui nemmeno una volta dichiara cosa vuole
l’Italia e perché dovrebbe prenderselo con la forza. Afferma comicamente che
l’alleanza con l’Austria è stata violata dall’ultimatum alla Serbia. Ce ne
accorgiamo dopo nove mesi? Dopo aver chiesto all’Austria compensi
territoriali? Sono affermazioni pubbliche che farebbero arrossire persone in
grado di ragionare. “Il Governo del Re si vide costretto a notificare al Governo imperiale e
reale dell’Austria-Ungheria, il giorno 4 di questo mese, il ritiro di ogni sua
proposta di accordo, la denuncia del trattato d’alleanza e la dichiarazione
della propria libertà d’azione. Né, d’altra parte, era più possibile lasciar l’Italia
in un isolamento senza sicurtà e senza prestigio proprio nel momento in cui la
storia del mondo sta attraversando una fase decisiva.”
Salandra mente. Non dice che lui ha impegnato l’Italia con il Patto di
Londra. Chiede i pieni poteri “in caso di guerra”, un’altra piccola meschina
ipocrisia. Turati parla a nome del gruppo socialista tra continue interruzioni.
Ricorda che fino ad una settimana fa la maggioranza del parlamento,
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interprete del sentimento popolare, era contro la guerra, ed oggi ha cambiato
bandiera nonostante non vi fossero fatti nuovi; denuncia la campagna di
intimidazioni e di denigrazione degli interventisti contro i politici contrari alla
guerra; chiede che siano le classi agiate a pagate il prezzo della guerra e non il
popolo. La Camera è chiamata a votare a scrutinio segreto la concessione dei
pieni poteri. Alle 18.30 la proclamazione dei risultati: 407 voti a favore, 74
contrari, molti di più dei 41 socialisti. Nei giorni successivi si scatenerà la
ricerca dei cosiddetti traditori. La seduta si conclude tra applausi, canti
patriottici, inni al re e a D’Annunzio. Una collettiva manifestazione di
irresponsabilità.
Il giorno dopo i primi segnali di ostilità al confine. L’Austria ritira i
doganieri, respinge la posta italiana e rimuove le rotaie ferroviarie. Anche il
Senato concede i pieni poteri al governo Salandra con 282 voti favorevoli e
solo 2 contrari. Nel pomeriggio il ministro degli esteri austriaco Burian
consegna una nota di accusa della doppiezza e dell’ipocrisia del governo
italiano. Non si può dar torto a Vienna. Il re appare ad un balcone del
Quirinale per rivolgersi direttamente al popolo romano, vestito in uniforme
grigio-verde, con la regina Elena, i principini e il sindaco di Roma. È la prima
volta che accade durante il suo regno.
Sabato sera 22 viene decretata la mobilitazione generale. Termina le
pubblicazioni della rivista “Lacerba”. Lo scopo della rivista è raggiunto.
Papini scrive “Abbiamo vinto!” Nel pomeriggio si recano alla consulta, per
l’ultimo colloquio, Von Bülow e Macchio. I due imperi non vogliono dare
all’Italia la soddisfazione di dichiararle guerra. Facciamolo noi, se ne abbiamo
coraggio. Il consiglio dei ministri approva la dichiarazione di guerra
all’Austria che viene spedito per telegramma a Vienna alle 17.20. La consegna
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effettiva il giorno dopo alle 16.15.
A Trieste scoppiano domenica 23 gravi incidenti antiitaliani. La sede de Il
Piccolo viene incendiata. Viene sospeso anche il campionato. Invece di
fischiare l’inizio delle partite, gli arbitri leggono ai giocatori già in campo il
comunicato FIGC che ordina la sospensione di ogni gara. Protesta il Genoa e
anche il Torino. La FIGC crede che la guerra finirà presto. Bisognerà
aspettare il 1919 per la consegna dello scudetto al Genoa. Non molti genoani
sopravviveranno alla guerra.
Lunedì 24 maggio le prime truppe italiane varcano il confine dell’Isonzo,
dove si intende condurre l’offensiva con l’obiettivo di prendere Trieste
rapidamente. Ma i nostri soldati sono ancora pochi. Alle 2 del mattino muore
il primo italiano, l’alpino udinese Riccardo Giusto. Ferroviere di 19 anni,
viene colpito alla nuca. Morì in pochi minuti dopo aver chiamato la madre.
E’ il primo dei seicentomila soldati e marinai che moriranno nei tre anni e
mezzo della più terribile guerra combattuta sul suolo italiano. A cui si
dovranno aggiungere quasi altri seicentomila vittime civili. In totale, il
3,5% della popolazione, senza dimenticare i 430mila morti per l’influenza
spagnola, diretta conseguenza della guerra. Tutto questo per
strappare territori che avremmo ottenuto anche senza le armi e che non
volevano far parte di un regno arretrato come quello dei Savoia. Tutto questo
per soddisfare la vanità di un piccolo monarca provinciale e di altrettante
mediocri figure coinvolte in un gioco ben più grande di loro.
156
CONCLUSIONE
157
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A cura di Stefano Zuffì. La Storia dell'Arte. Volume 17. Le Avanguardie.
Mondadori Electa 2006.
Dati RGS: http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/
Pubblicazioni/Studi-e-do/La-spesa-dello-stato/
La_spesa_dello_Stato_dall_unit_d_Italia.pdf
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