Lettura Habitus .Bourdieu

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L’habitus
e
lo
spazio
degli
stili
di
vita
di Pierre Bourdieu
Credo che, se fossi giapponese, non approverei quasi nessuna delle cose che i non
giapponesi scrivono sul Giappone. E più di vent'anni orsono, al tempo in cui cominciavo a
interessarmi alla società francese, ho sentito vibrare nelle critiche formulate dai due
sociologi giapponesi Hiroshi Minami e Tetsuro Watsuji a proposito del famoso libro di Ruth
Benedict II crisantemo e la spada, la stessa irritazione che provavo io nel leggere i saggi
americani di etnologia della Francia. Perciò non parlerò né di «sensibilità giapponese» né di
«mistero» o «miracolo» del Giappone. Parlerò di un paese che conosco a fondo, non perché
ci sono nato e ne parlo la lingua, ma perché l'ho studiato molto, la Francia. Questo significa
che nel farlo mi confinerò nella particolarità di una società singola e non parlerò affatto del
Giappone? Non credo. Anzi sono certo che nel presentare il modello dello spazio sociale e
simbolico da me costruito a proposito del caso particolare della Francia, parlerò
continuamente del Giappone (così come, parlando altrove, parlerei degli Stati Uniti o della
Germania). E perché comprendiate pienamente questo discorso che vi concerne e che,
quando parlo dell'homo academicus francese, potrà addirittura sembrarvi irto di allusioni
personali, vorrei esortarvi e aiutarvi ad andare oltre una lettura troppo particolaristica, che
non solo può costituire un eccellente sistema di difesa contro l'analisi, ma è l'esatto
corrispettivo, sul versante della ricezione, della curiosità per le peculiarità esotiche che ha
ispirato tanti studi sul Giappone.
La mia opera, e soprattutto ha distinzione1, si presta particolarmente a una lettura di questo
genere: il modello teorico non si riveste di tutti i segni da cui abitualmente si riconosce la
«grande teoria», primo fra tutti l'assenza di ogni riferimento a qualunque realtà empirica. I
concetti di spazio sociale, spazio simbolico o classe sociale non sono mai esaminati in sé e
per sé, ma messi in opera e alla prova in una ricerca inscindibilmente teorica e empirica che,
a proposito di un oggetto determinato nel tempo e nello spazio, la società francese degli
anni Settanta, mobilita una pluralità di metodi di osservazione e misurazione, quantitativi e
qualitativi, statistici ed etnografici, macrosociologici e microsociologici (tutte antitesi prive
di significato); il resoconto della ricerca non è presentato nel linguaggio al quale ci hanno
1
P. Bourdieu, La Distinction, Paris, Éditions de Minuit, 1979, trad. it. La distinzione. Critica sociale del
gusto, Bologna, Il Mulino, 1983.
1
abituati molti sociologi, specialmente americani, e che deve la sua apparente universalità
all'indeterminatezza di un lessico impreciso e non ben distinto dall'uso corrente – mi
limiterò a un esempio: il concetto di professione. Grazie a un montaggio discorsivo che
consente di giustapporre la tabella statistica e la fotografia, il brano di conversazione, il
facsimile di documento e la lingua astratta dell'analisi, questo resoconto fa coesistere
l'astratto e il concreto, una foto del presidente della Repubblica del tempo nell'atto di
giocare a tennis o l'intervista a una fornaia con l'analisi più formale del potere generatore e
unificatore dell'habitus.
Tutto il mio progetto scientifico infatti si fonda sulla convinzione che non è dato
cogliere la logica più profonda del mondo sociale se non immergendosi nella particolarità
di una realtà empirica, storicamente situata e datata, ma solo per costruirla come «caso
particolare del possibile», secondo la formula di Gaston Bachelard, ossia come tipo di
configurazione in un universo finito di configurazioni possibili. Concretamente ciò significa
che un'analisi dello spazio sociale come quella che propongo basandomi sul caso della
Francia degli anni Settanta è una storia comparata riferita al presente o un'antropologia
comparata che prende in considerazione un'area culturale particolare prefiggendosi di
cogliere, nella variante osservata, l'invariante, la struttura.
Sono convinto che, pur con tutte le apparenze dell'etnocentrismo, il procedimento
consistente nell'applicare a un altro mondo sociale un modello costruito secondo questa
logica è sicuramente più rispettoso delle realtà storiche (e delle persone) e soprattutto
scientificamente più fecondo dell'interesse per le particolarità vistose che anima il cultore
di esotismo, il quale si concentra di preferenza sulle differenze pittoresche (nel caso del
Giappone, per esempio, penso a tutto quello che si dice e si scrive sulla «cultura del
piacere»). Lo studioso, più modesto e insieme più ambizioso del cultore di curiosità, mira a
cogliere strutture e meccanismi che – come i principi di costruzione dello spazio sociale o i
meccanismi con cui si riproduce – sfuggono tanto all'occhio indigeno che a quello estraneo,
sia pure per motivi diversi, e che egli vuole rappresentare in un modello tendente a una
validità universale. In tal modo egli può individuare le differenze reali che separano le
strutture e le disposizioni (gli habitus), il cui principio va ricercato non nella singolarità
delle nature – o delle «anime» –, ma nelle particolarità di storie collettive diverse.
1. Il reale è relazionale
Con questo spirito mi accingo a presentare il modello da me costruito in La distinzione,
tentando innanzi tutto di mettere in guardia contro una lettura «sostanzialista» di analisi che
vogliono essere strutturali, o meglio relazionali (mi riferisco qui, senza poterla esporre nei
dettagli, all'opposizione che Ernst Cassirer istituisce tra «concetti sostanziali» e «concetti
funzionali o relazionali»). Dirò per maggiore chiarezza che la lettura sostanzialista e
ingenuamente realista considera ogni pratica (per esempio quella del golf) e ogni consumo
(per esempio la cucina cinese) in sé e per sé, indipendentemente dall'universo delle pratiche
sostituibili, e vede una relazione meccanica e diretta nella corrispondenza tra le posizioni
sociali (o le classi pensate come insiemi sostanziali) e i gusti o le pratiche: in questa logica,
per citare un esempio indubbiamente un po' facile, il fatto che gli intellettuali giapponesi o
americani ostentano amore per la cucina francese mentre quelli francesi frequentano
volentieri i ristoranti cinesi o giapponesi, o anche che i negozi di lusso a Tokio o nella Fifth
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Avenue hanno spesso nomi francesi mentre quelli del faubourg Saint-Honoré esibiscono
insegne in inglese come hair dresser, può sembrare una confutazione del modello proposto.
Ma c'è un esempio che secondo me è ancora più significativo: sapete tutti che, nel caso del
Giappone, il tasso più elevato di partecipazione alle consultazioni elettorali si riscontra fra
le donne con il più basso livello di istruzione, mentre in Francia, come ho dimostrato con
un'analisi delle non-risposte ai questionari di opinione, il tasso di non-risposta – e di
indifferenza verso la politica – è particolarmente alto fra le donne e fra le persone meno
istruite e più svantaggiate economicamente e socialmente. È una falsa differenza che ne
nasconde una vera: l'«apoliticità» legata allo spossessamento degli strumenti di produzione
delle opinioni politiche, che in certi casi si esprime col semplice assenteismo, altrove si
traduce in una sorta di partecipazione apolitica. E dovremo chiederci quali condizioni
storiche, in Giappone (e qui bisognerebbe chiamare in causa tutta la storia politica del
paese), abbiano fatto sì che, attraverso forme particolari di clientelismo, proprio i partiti
conservatori traessero beneficio dalla tendenza alla delega incondizionata favorita dalla
convinzione di non detenere la competenza statutaria e tecnica necessaria per partecipare.
Il modo di pensare sostanzialista, che è quello del senso comune – e del razzismo – e
che porta a vedere nelle attività e nelle preferenze proprie di certi individui o gruppi di una
data società in un momento dato altrettante proprietà sostanziali, inscritte una volta per
tutte in una sorta di essenza biologica o culturale – il che è altrettanto grave –, produce gli
stessi errori se l'oggetto del confronto è dato non più da società diverse, ma da periodi
successivi della stessa società. Così alcuni vedranno una confutazione del modello proposto
– del quale il diagramma rappresentante la corrispondenza tra lo spazio delle classi
costruite e quello delle pratiche propone una rappresentazione figurata e sinottica2 - nel
fatto che, per esempio, il tennis e lo stesso golf oggi non siano più associati esclusivamente,
come in passato, alle posizioni dominanti. Obiezione pressappoco tanto valida quanto
quella consistente nell'osservare che gli sport nobili come l'equitazione o la scherma (o, in
Giappone, le arti marziali) non sono più appannaggio esclusivo degli aristocratici come agli
inizi... Una pratica originariamente nobile può essere abbandonata dai nobili – ed è quello
che in genere succede –, se è adottata da una quantità crescente di borghesi e di piccoli
borghesi o, addirittura, dalle classi popolari (in Francia è stato così per la boxe, che sul
finire dell'Ottocento gli aristocratici praticavano volentieri). Per contro una pratica
inizialmente popolare può essere momentaneamente ripresa dall'aristocrazia. Insomma
bisogna evitare di trasformare in proprietà necessarie e intrinseche di un gruppo qualsiasi
(la nobiltà, i samurai, oppure i borghesi o gli impiegati) le proprietà che lo caratterizzano in
un momento dato del tempo a seguito della sua posizione in uno spazio sociale determinato
e in uno stato determinato dell'offerta di beni e di pratiche possibili. Così, in ogni momento
di ogni società, ci troviamo di fronte a un insieme di posizioni sociali unito da una
relazione di omologia a un insieme di attività (la pratica del golf o del pianoforte) o di beni
(una seconda casa o un quadro d'autore) essi stessi caratterizzati in senso relazionale. Questa
formula, che può apparire astratta e oscura, enuncia la condizione prima di una lettura
adeguata dell' analisi del rapporto tra posizioni sociali (concetto relazionale), disposizioni
2
Cfr. La distinzione, cit., pp. 132-133.
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FlG. 1. Spazio delle posizioni sociali e spazio degli stili di vita (cfr. P. Bourdieu, La
distinzione, cit., figg. 4-5, pp. 132-133, qui semplificato e ridotto ad alcuni indicatori
significativi in tema di bevande, sport, strumenti musicali e giochi di società). La linea
tratteggiata indica il limite fra l'orientamento probabile verso destra o verso sinistra.
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(o habitus) e prese di posizione, «scelte» che gli agenti sociali operano nei più diversi
settori della pratica, cucina o sport, musica, politica, ecc. Essa ricorda che un confronto è
possibile solo fra sistema e sistema e che la ricerca delle equivalenze dirette fra tratti presi
singolarmente, differenti a prima vista ma «funzionalmente» o tecnicamente equivalenti
(come il Pernod e lo shóchù o il sake) o nominalmente identici (per esempio la pratica del
golf in Francia e in Giappone), rischia di produrre un'identificazione indebita di proprietà
strutturalmente diverse o ima distinzione ingiustificata fra proprietà strutturalmente
identiche. Il titolo stesso dell'opera è là a ricordarcelo: ciò che chiamano comunemente
distinzione, ossia una certa qualità, di solito ritenuta innata (si parla di «distinzione
naturale»), del comportamento e dei modi, in realtà è differenza, scarto, tratto distintivo,
insomma proprietà relazionale che esiste solo all'interno di una relazione con altre proprietà
e grazie ad essa.
L'idea di differenza, di scarto, è alla base del concetto stesso di spazio, insieme di posizioni
distinte e coesistenti, esterne le une alle altre, definite le une rispetto alle altre dalla reciproca
esteriorità e da relazioni di prossimità, vicinanza o lontananza, e anche di ordine, quali sopra,
sotto e fra; molte proprietà dei piccoli borghesi per esempio si deducono dal fatto che essi
occupano una posizione intermedia fra le due estreme senza essere oggettivamente
identificabili e soggettivamente identificati né con l'una né con l'altra.
Lo spazio sociale è costruito in modo che gli agenti o i gruppi vi si distribuiscono in
funzione della loro posizione nelle distribuzioni statistiche secondo i due principi di
differenziazione incontestabilmente più efficienti nelle società avanzate, come gli Stati
Uniti, il Giappone o la Francia: il capitale economico e il capitale culturale. Quindi gli
agenti hanno tanto più in comune quanto più sono vicini in quelle due dimensioni, tanto
meno quanto maggiore è la distanza. Le distanze spaziali sulla carta equivalgono a distanze
sociali. Più esattamente, come mostra il diagramma di La distinzione in cui ho tentato di
rappresentare lo spazio sociale, gli agenti si distribuiscono nella prima dimensione in
rapporto al volume globale del capitale posseduto nelle diverse specie, nella seconda in
rapporto alla sua struttura, ossia al peso relativo delle diverse specie di capitale, economico
e culturale, nel suo volume totale.
Perciò nella prima dimensione, sicuramente la più importante, i detentori di un volume
consistente di capitale globale, come i grossi commercianti e gli industriali, i liberi
professionisti e i docenti universitari, si oppongono globalmente a coloro che sono più
sprovvisti di capitale economico e culturale come gli operai non qualificati, ma da un altro
punto di vista, ossia rispetto al peso relativo del capitale economico e del capitale culturale
nell'insieme del patrimonio, i professori (relativamente più ricchi di capitale culturale) si
oppongono nettamente ai grossi commercianti e agli industriali (relativamente più ricchi di
capitale economico), e ciò probabilmente in Giappone come in Francia – bisognerebbe
verificare.
Come la prima, anche la seconda opposizione genera delle differenze nelle disposizioni
e, quindi, nelle prese di posizione: è il caso dell'opposizione fra intellettuali da una parte e
industriali e grossi commercianti dall'altra, o, a un livello inferiore della gerarchia sociale,
fra maestri elementari e piccoli commercianti, che, nella Francia e nel Giappone del
dopoguerra, politicamente si traduce in un'opposizione fra la sinistra e la destra (come ho
suggerito nel diagramma, la probabilità di tendere politicamente verso sinistra o verso
5
destra dipende dalla posizione nella dimensione orizzontale almeno quanto da quella nella
dimensione verticale, ossia dal peso relativo del capitale culturale e economico nel volume
complessivo non meno che dal volume stesso).
Più in generale, lo spazio delle posizioni sociali si ritraduce in uno spazio delle prese di
posizione attraverso lo spazio delle disposizioni (o habitus); in altri termini, al sistema di
scarti differenziali che definisce le diverse posizioni nelle due dimensioni principali dello
spazio sociale corrisponde un sistema di scarti differenziali nelle proprietà degli agenti (o
delle classi costruite di agenti), ossia nelle pratiche e nei beni posseduti. Ad ogni classe di
posizioni corrisponde una classe di habitus (o di gusti) prodotti dai condizionamenti sociali
associati alla condizione corrispondente e, per il tramite di questi habitus e delle loro
capacità generative, un insieme sistematico di beni e di proprietà accomunati da un'affinità
di stile.
Una delle funzioni del concetto di habitus è dare conto dell'unità di stile che accomuna
le pratiche e i beni di un singolo agente o di una classe di agenti (in Balzac o Flaubert, ciò è
suggerito attraverso descrizioni di ambiente – la pensione Vauquer in Papà Goriot, i cibi e
le bevande consumati dai vari protagonisti in L'educazione sentimentale – che sono un
modo per evocare il personaggio che lo frequenta). L'habitus è il principio generatore e
unificatore che ritraduce le caratteristiche intrinseche e relazionali di una posizione in uno
stile di vita unitario, ossia in un insieme unitario di scelte di persone, pratiche e beni.
Come le posizioni di cui sono il prodotto, gli habitus sono differenziati, ma anche
differenzianti. Separati, distinti, sono anche operatori di distinzione: mettono in atto
principi di differenziazione differenti o utilizzano diversamente i principi di
differenziazione comuni.
Gli habitus sono principi generatori di pratiche distinte e distintive – ciò che l'operaio
mangia e soprattutto il suo modo di mangiare ciò che mangia, lo sport che pratica e il suo
modo di praticarlo, le opinioni politiche che gli appartengono e il modo di esprimerle,
differiscono sistematicamente dai consumi o dalle attività corrispondenti di un industriale;
ma si tratta anche di schemi e principi di classificazione, principi di visione e divisione e
gusti differenti. Essi distinguono fra ciò che è buono e ciò che è cattivo, ciò che è bene e ciò
che è male, ciò che è distinto e ciò che è volgare, ma non nello stesso modo. Così, per
esempio, lo stesso comportamento, lo stesso bene, possono apparire distinti all'uno,
pretenziosi o troppo vistosi all'altro, volgari a un terzo.
Ma l'essenziale è che, percepite attraverso quelle categorie sociali di percezione e quei
principi di visione e divisione, le differenze nelle pratiche, nei beni posseduti e nelle
opinioni espresse diventano differenze simboliche e costituiscono un vero e proprio
linguaggio. Le differenze associate alle diverse posizioni, ossia i beni, le pratiche e
soprattutto le maniere, funzionano, in ogni società, come differenze costitutive di sistemi
simbolici, come l'insieme dei fonemi di una lingua o l'insieme dei tratti distintivi e degli
scarti differenziali che costituiscono un sistema mitico, ossia come segni distintivi.
Apro qui una parentesi per dissipare un malinteso, non meno frequente che funesto, a
proposito del titolo La distinzione. Si è creduto che il contenuto del libro si riducesse alla
tesi secondo cui il movente di tutti i comportamenti umani è la ricerca della distinzione.
Questo è insensato e per giunta non sarebbe affatto nuovo: si pensi, per esempio, a Veblen e
al suo «consumo vistoso» (conspicuous consumption). In realtà l'idea centrale è che esistere in
uno spazio, essere un punto, un individuo nello spazio, significa distinguersi, essere
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differente; ebbene, secondo la formula di Benveniste a proposito del linguaggio, «essere
distintivo equivale a essere significativo». Significativo si oppone a insignificante, nelle
diverse accezioni. Più precisamente – Benveniste corre un po' troppo... – una differenza,
una proprietà distintiva, colore di pelle bianca o nera, magrezza o obesità, Volvo o 2CV,
vino rosso o champagne, Pernod o whisky, golf o calcio, piano o fisarmonica, bridge o
belote (procedo per opposizioni perché è quasi sempre così che vanno le cose – in realtà è
più complicato), diventa una differenza visibile, percettibile, non indifferente, socialmente
pertinente solo se è percepita da qualcuno che è capace di fare la differenza – perché, in
quanto inscritto nello spazio in questione, non è indifferente ed è dotato di categorie di
percezione, di schemi classificatori, di un gusto, che gli permettono di fare delle differenze,
discernere, distinguere – fra un'oleografia e un quadro o fra Van Gogh e Gauguin. La
differenza diventa segno, e segno di distinzione (o di volgarità) solo se vi si applica un
principio di visione e di divisione che, in quanto prodotto dall'incorporazione della struttura
delle differenze oggettive (per esempio la struttura della distribuzione, nello spazio sociale,
del piano o della fisarmonica o dei cultori dell'uno o dell'altra), è presente in tutti gli agenti,
proprietari di un piano o suonatori dilettanti di fisarmonica, e struttura la percezione che
essi hanno dei proprietari o dei suonatori di pianoforte o di fisarmonica (sarebbe opportuno
approfondire questa analisi della logica – quella della violenza simbolica – in virtù della
quale l'arte di vivere dei dominati è quasi sempre percepita dagli stessi detentori secondo
l'ottica distruttiva e riduttiva dell'estetica dominante).
Fonte: P. Bourdieu, ragioni pratiche Bologna, Il Mulino, 1995
Allegato al volume Progetto Sociologia – Guida all’immaginazione sociologica
© Pearson Italia SpA
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