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Prendersi cura: un retaggio antico
dell’umanità
Fra scienza e rito - Le considerazioni antropologiche sul ruolo della medicina tra le
culture secondo l’antropologo ticinese Andrea Jacot Descombes
/ 19.12.2016
di Roberta Nicolò
Nella storia dell’uomo, la medicina ha sempre avuto un ruolo importante. La cura delle malattie, ma
anche degli infortuni, sono un retaggio antico dell’umanità. Medici, ma anche uomini medicina,
sciamani si trasmettono da secoli conoscenze e ritualità codificate all’interno della cultura di
appartenenza. Sono tradizioni antiche, ma ancora presenti ai nostri giorni, spiega l’antropologo
ticinese Andrea Jacot Descombes.
Signor Jacot Descombes cosa ha spinto l’uomo alla ricerca di soluzioni in campo medico?
Ci sono più elementi che hanno a che fare con la dimensione antropologica ma anche con aspetti
fisiologici. L’uomo ha preso coscienza fin da subito del fatto che la sua vita, dal punto di vista
biologico, non era infinita e ha dovuto imparare a convivere con il decadimento, la sofferenza e con
la morte. L’essere umano ha reagito in primo luogo costruendo un sistema di credenze rispetto
all’esistenza di una vita dopo la morte, poi tentando di eliminare o arginare il dolore, i disturbi fisici
e psichici per prolungare la sua permanenza in vita.
Qual è la differenza, oggi, tra scienza e rito?
Inizialmente la distinzione era piuttosto labile, tant’è vero che gli sciamani o i guaritori di molte
società si situavano, e per certi versi si situano ancora, a cavallo tra magia, religione e scienza.
Anche nella nostra società, fino al diciannovesimo secolo, quella che noi chiamiamo scienza era
pervasa da elementi religiosi, magici e di superstizione. È stato solo con l’avvento del Rinascimento
e, soprattutto, con l’Illuminismo e il Positivismo, che la scienza ha cominciato a imporsi con il
pensiero razionale, allontanandosi dal rito, nel quale permaneva un alone di mistero. La differenza è
che la scienza si pone come obiettivo di dare una spiegazione razionale a un fenomeno. Il rito accetta
che, in alcune delle sue fasi, sussista qualcosa che non si svela con il pensiero razionale umano. Va
comunque sottolineato che scienza e rito non sono mai separati del tutto. È importante osservare
che anche un fenomeno apparentemente ordinario come andare dal medico può nascondere in sé
una dimensione rituale. Si va dal dottore, si discute con lui e di colpo il nostro malessere ha un nome
e una cura. Per chi non è del mestiere il funzionamento della medicina, seppur basato su fondamenti
scientifici e razionali, presenta comunque una certa dimensione magica e quindi rituale.
In che cosa l’antropologia ha saputo, e sa ancora, avere un ruolo in ambito sanitario?
Si dà molta importanza allo stare bene. L’uomo, oggi, è più mobile, per questo si incontrano persone
con una diversa provenienza culturale che percepiscono in maniera differente principi quali
benessere, malattia e salute. L’antropologia, grazie al suo bagaglio epistemologico, può fornire le
chiavi di lettura per spiegare come i diversi sguardi possano entrare in relazione. L’antropologia,
occupandosi dello studio delle culture, può mediare la comunicazione medico-paziente affinché essa
risulti efficace. Anche una persona nata e cresciuta in Svizzera che va dal dottore potrebbe avere
difficoltà nel comprendere il linguaggio medico, questo perché non ne condivide il lessico. Il dottore
tende a utilizzare termini tecnici, è un esperto e potremmo dire che anche in questo caso sono a
confronto due differenti appartenenze culturali. Da ultimo, sottolineo il tema dell’accesso alle cure
nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. L’antropologia permette di comprendere il contesto
socioculturale nel quale si vuole intervenire e può fornire elementi utilissimi al successo di progetti
di cooperazione allo sviluppo.
Si può dire che alcuni rami della medicina moderna siano un ritorno alle origini?
Credo che, più di un ritorno alle origini, si dovrebbe parlare di un nuovo equilibrio tra queste due
componenti. Il sapere scientifico e quello spirituale non si sono mai scissi del tutto, ma hanno
continuato a mantenere un legame. La visione meno razionale era poco valorizzata e, pertanto,
relegata in secondo piano. Oggi invece, non si ha più paura dell’interazione tra visione scientifica
della malattia e componente spirituale. In un certo senso, ci si è aperti molto di più alla visione che
hanno altre forme di medicina, come per esempio quella orientale. L’uomo entra in contatto con
molte altre culture e da esse apprende. Credo sia per questo motivo che la visione della medicina
stia cambiando. La medicina del futuro probabilmente cercherà di fondere in maniera virtuosa il
progresso scientifico e tecnologico con l’attenzione alla sfera spirituale.
Qual è, da un punto di vista antropologico e sociale, il futuro della medicina nella società
contemporanea?
La medicina continuerà ad avere il ruolo fondamentale che ha avuto sinora e anzi, le sfide che le si
presenteranno davanti saranno ancora più grandi, dal momento che il tema del benessere e della
salute diventa sempre più centrale nel pensiero umano. Questo è sicuramente un fattore che darà
alla medicina un ruolo ancora più significativo. Ritengo che la medicina si muoverà, per certi versi,
in un campo nuovo e difficile: quello della sua legittimazione. Fino a pochi decenni fa nessuno
metteva in discussione il ruolo del medico come esperto, oggi grazie al web, c’è un accesso
incontrollato all’informazione. Risulta difficile distinguere l’informazione scientificamente fondata da
quella priva di fondamento, con il rischio di produrre confusione.
La medicina dovrà prestare attenzione a quella che è ormai una tendenza sociale, cioè la ricerca
quasi spasmodica dell’informazione ad ogni costo, alfine di porsi come interlocutrice di una società
che ha sempre più bisogno di rassicurazioni sulle proprie condizioni di salute.
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