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Educare/Per una nuova alleanza tra scuola e famiglia
La "formazione" ha fallito, torniamo all'educazione
IlSussidiario - Giorgio Chiosso - 21 gennaio 2017
Il recente incrociarsi del tragico assassinio di due genitori nel Ferrarese da parte del figlio e delle
proteste per le vistose distorsioni dei diritti dei docenti (a scapito di quelli degli studenti) nonché
la denuncia dell'indebolimento della funzione identitaria della scuola hanno suggerito importanti
riflessioni (Susanna Tamaro, Antonio Polito, Ernesto Galli della Loggia) su quella che, senza
scorciatoie, questi autori sono stati concordi nel definire l'emergenza educativa del nostro tempo.
Il ricorso all'espressione suggerita da Benedetto XVI merita di essere sottolineata. Esso indica
infatti nell'urgenza educativa una questione nazionale, tematica finora spesso vista come una
preoccupazione soprattutto dei cattolici. Alla presa d'atto di una condizione emergenziale è stata
spesso anteposta, come è noto, in molta parte dell'intellettualità liberal una sorta di benevola
presa d'atto dei nuovi stili di vita giovanili e il compiacimento che la parola "educazione" (troppo
forte per un mondo dai pallidi ideali) cominciasse a uscire dal vocabolario consueto e venisse
sostituita dall'espressione "formazione", più neutra, con meno regole, più plastica e flessibile.
Non sono mancate in passato anche alcune coraggiose voci laiche in controtendenza (Galimberti,
Israel), non abbastanza forti, tuttavia, da poter orientare in senso inverso quegli ambienti buonisti
ossessionati che si possa sfiorare, anche a solo a parole, la sfera dell'autonomia personale dei
ragazzi. Tutto andrebbe concesso —così pensano molti presunti maestri —perché non ci sarebbe
più bisogno dell'adulto che orienta e guida. Basterebbero le esperienze di volta in volta compiute
dai giovani per renderli "liberi". Il nomadismo esperienziale sarebbe più utile ed efficace del
viaggio pedagogico.
Qualche breve annotazione, dunque, sugli articoli di questi giorni che sembrano indicare una
inversione di tendenza.
La prima riguarda il riconoscimento che il problema educativo comincia dagli adulti, come
indica Polito. Il narcisismo cosmico nel quale essi sono spesso immersi impedisce loro, ad
esempio, di fare i padri che sono padri e non amici o fratelli. L'inosservanza di semplici regole di
vita quotidiana tollerata dai genitori (e dagli insegnanti) induce i rispettivi figli ed allievi a
ritenere che tutto sia possibile e dovuto. L'incapacità di educare la volontà dei ragazzi evitando
loro qualsiasi difficoltà (nessun compito tra sabato e domenica, nessuna interrogazione al lunedì,
scarsa vigilanza sul tempo trascorso fuori casa, paghette erogate come piccoli stipendi, ecc.)
veicola una falsa immagine del mondo adulto. Senza dire delle mamme super premurose che
diventano le serve dei figli.
La mancanza dall'adulto non produce felicità e neppure orienta verso una libertà costruttiva.
Bisogna avere il coraggio di riconoscere che i nostri ragazzi sono sempre più soli, infelici e tristi,
incollati alla televisione o agli strumenti di comunicazione, illusoriamente socializzati perché
inseriti entro qualche social network attraverso i quali si può essere "amici" senza mai
incontrarsi. Ragazzi che, alla prova dei fatti, scelgono di non crescere, destinati a diventare
consumatori famelici di gadget tecnologici, incapaci di aprire gli occhi sulla realtà.
La seconda osservazione riguarda il rilancio di quella che potremmo definire l'"alleanza
educativa" tra scuola e famiglia. Un tempo era scontato che genitori e insegnanti parlassero una
stessa lingua. Oggi non è più così e spesso — per responsabilità dell'una o dell'altra parte,
secondo i casi— famiglie e docenti ragionano e si comportano come se si trovassero su sponde
opposte. In questa prospettiva l'autonomia della scuola — anziché essere un ostacolo o un
rischio, come teme Galli della Loggia — può rappresentare invece una straordinaria risorsa
proprio per favorire l'alleanza tra scuola e famiglia. La scuola ha una grande responsabilità
nell'aiutare a ripristinare un rapporto costruttivo con le famiglie e le loro aspettative, svolgendo
nei loro confronti un'azione di proposta e di confronto.
In particolare la scuola potrebbe aiutare le famiglie a gestire il valore educativo delle regole e a
saper anche dire "no", a comprendere la natura propria dell'istituzione scolastica (che è
essenzialmente culturale e non assistenziale) e ad avanzare conseguentemente richieste coerenti.
Inutile ricordare che di fronte al comune interesse educativo lo scopo è (dovrebbe essere) quello
di compiere ogni sforzo per trovare sintonie ed evitare disarmonie.
Perché questo sia possibile —terza annotazione —occorre che la scuola stessa sia "educativa" e
non solo "formativa" e, dunque, una scuola con una sua identità culturale e una sua capacità di
testimonianza etica. Un tempo era lo Stato espressione dei valori nazionali ad assicurare
un'identità ben chiara e finalizzata e i docenti erano percepiti come figure esemplari (almeno così
erano presentati all'immaginario collettivo e spessissimo così erano nella vita quotidiana). Questa
fisionomia dell'insegnante è stata smontata nei decenni passati da una cultura utopica che
puntava a cambiare il segno della scuola "borghese" in scuola "popolare" in senso marxista. La
proletarizzazione degli insegnanti era concepita come la condizione primaria di una svolta
orientata in senso radicale.
Le cose sono andate in modo diverso: oggi ci troviamo con una scuola senza identità (tanto meno
quella nazionale, ritenuta desueta) e gestita da docenti socialmente deboli, senza grande prestigio
e senza quell'autorevolezza un tempo garantita dal ruolo non solo sociale, ma anche culturale
della scuola.
La scuola può tornare educativa costruendo non in astratto, ma attraverso la presenza di
insegnanti colti (e non solo esperti tecnologi) e autenticamente adulti (rigorosi, capaci di buone
relazioni), la propria identità intorno ai valori e alle regole di vita semplici e concrete. Queste
norme, prima ancora di essere sancite nei documenti ufficiali, come la Costituzione, tengono
insieme le nostre comunità di cui l'autonomia della scuola dovrebbe essere l'espressione:
l'appartenenza a una tradizione che si evolve nel tempo, ma non perde la sua efficacia, la lealtà
verso le istituzioni, l'esercizio concreto della solidarietà (che prima di impegnarsi in situazioni
eccezionali consiste nel far bene quello che ordinariamente dobbiamo fare), l'esperienza del
confronto di idee e opinioni che veicola anche la necessità di rispettare delle regole. Senza
l'esercizio di questi valori lo Stato stesso appare qualcosa di lontano e di estraneo.
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