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MOBBING E DANNO PSICHICO
di Raffaele Castiglioni1, Elisabetta Ceppi Ratti2,
Francesco De Ambrogi3
SOMMARIO : 1. Introduzione. - 2. Mobbing tra istituto giuridico e costrutto
psicopatologico. - 3. Effetti del mobbing sulla salute psichica e cenni sui metodi
valutativi. - 4. Aspetti medico-legali del mobbing. Consulenza tecnica. - 4.1.
Inquadramento diagnostico. - 4.2. Nesso di causa. - 4.3. Temporaneità e permanenza
del danno. - 5. Danno psichico da mobbing e formule descrittive altre di danno non
patrimoniale. - 6. Allegazioni e prova. - 6.1. Inquadramento Allegazioni. - 6.2. Prove e
onere della prova.
1. Introduzione
Avversità lavorative e mobbing –
laddove, invero in pochi casi, si
realizza – sono causa di danni,
patrimoniali e non patrimoniali. Ci
occupiamo qui di una voce
specifica
di
danno
non
patrimoniale; ossia il danno
biologico psichico.
La prima parte tratta del fenomeno
mobbing sul piano naturalistico,
tenendo conto, come chiave di
lettura, della psicopatologia del
lavoro.
la
seconda
parte
tratta
dell’allegazione e della prova, sia del
fattore, sia del danno psichico che
si pretende essere conseguenza del
fattore lesivo.
Segue la terza parte, concernente gli
aspetti medico legali.
Ci si
sofferma,
in
tema
di
inquadramento
diagnostico,
sull’uso del DSM (il Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi
mentali) e sui mal definiti confini
tra salute e malattia. Si tratta poi
del nesso di causa e della
temporaneità o della permanenza
del danno psichico.
La quarta parte tratta dei principali
effetti del mobbing sulla salute
psichica;
nonché
–
invero
brevemente – delle più comuni e
accreditate prassi valutative dei
medesimi.
Seguiranno,
da
ultimo,
considerazioni tecniche sulla natura
intercorrente tra le diverse formule
descrittive
del
danno
non
patrimoniale.
2. Mobbing tra istituto giuridico e costrutto psicopatologico
medico legale e avvocato, Milano
psicologo del lavoro, Milano
3 psicologo psicoterapeuta, Milano
1
2
2
Legislazione: c.c. 2087
Giurisprudenza: Cass. Sez. Lav. 7.09.08, n. 222858 - Cass., Sez. Lav. 7.12.10, n. 24794 - Cons.
Stato, Sez. VI. 17.02.12, n. 856
Bibliografia: Gilioli R. e coll. 2001 - Nocco 2008 - Cella 2009
Prima di trattare delle peculiari
caratteristiche del danno psichico
da
mobbing
è
necessario
circoscrivere il fenomeno in termini
definitori, dal punto di vista della
psicopatologia del lavoro. Punto di
vista al quale, anche chi ritiene
abbia
scarso
valore
nell’individuazione
della
sua
nozione giuridica, non può non
riconoscere
“…il meritorio ruolo di preparare gli
operatori del diritto alla scoperta di questa
nuova fattispecie di danno risarcibile…”
(Nocco, 2008, 398)
Resta di fatto indubbio che, ancor
prima di porsi il problema
dell’allegazione e della prova di un
eventuale danno psichico da
mobbing, ciò che risulta essenziale
è allegare e provare il fatto che si
ritiene lesivo. Tale osservazione
può apparire superflua. Per vero, in
troppe occasioni, in fase di primo
colloquio, si sentono scriteriate
espressioni quali “sono qui perché
il mio avvocato vuol sapere se si
può procedere”. Per tacere dei casi
di coinvolgimento in giudizio già
iniziato, in cui la consulenza tecnica
è stata avviata ancor prima di
concludere la fase istruttoria.
In altri termini, nella prassi
corrente, capita troppo sovente che
l’operatore
“tecnico”
venga,
impropriamente, interessato da
richieste di “accertamento di
mobbing” nell’ipotesi illusoria che
una
certificazione
di
stato
psicopatologico compatibile con
l’essere stato vittima di una
dinamica mobbizzante sia prova
provata della dinamica medesima.
Quasi a dimenticare che oggetto
d’indagine
non è il soggetto
interessato quanto piuttosto –
almeno in prima battuta –
l’ambiente lavorativo in cui il
lavoratore – e sedicente vittima –
si trova ad operare.
“In effetti in qualsiasi causa in cui
sia allegata una situazione di
mobbing …il problema decisivo
non sarà stabilire se sussista o
meno il mobbing (di per sé non
disciplinato e dunque di per sè
privo di conseguenze giuridiche),
ma se sussistano comportamenti
del datore di lavoro che
costituiscono inadempimento al
contratto di lavoro in quanto lesivi
dell’integrità
fisica
o
della
personalità morale del lavoratore
(art. 2087 c.c.) e quali conseguenze
gli stessi abbiano provocato.
Tuttavia bisogna riconoscere che
l’attenzione che altre discipline
…hanno riservato al fenomeno, se
da lato ha avuto l’effetto di
moltiplicare l’utilizzo più o meno
proprio di questo concetto in
ambito giudiziario e dunque anche
il numero delle cause, ha però
contribuito ad attirare l’attenzione
degli operatori su alcune modalità
lesive della personalità morale del
lavoratore che prima erano
sottovalutate; si è detto che il
mobbing può dunque quanto meno
costituire
un
utile
"legal
framework", una cornice legale cioè
in cui si vanno ad inserire una serie
di episodi che se considerati
atomisticamente, sminuzzati in
3
tanti
piccoli
fatterelli,
sembrerebbero privi di rilevanza,
ma che visti nel loro insieme,
unificati da questa cornice,
assumono rilievo sia ai fini di
stabilire se sia o meno esistito un
comportamento complessivamente
lesivo, sia ai fini di stabilire quanto
esso sia stato grave” (Cella 2009,
06)
Nello specifico, tra le svariate
definizioni presenti in letteratura,
piace ricordarne una storica, in
quanto prima delucidazione sul
fenomeno, comparsa su un giornale
scientifico in Italia ad opera di
Gilioli e collaboratori, ove il
costrutto è ben descritto come
“forma di violenza psicologica, ripetuta in
modo iterativo, con modalità polimorfe,
quasi sempre con intenzionalità lesiva, con
la finalità/conseguenza dell’estromissione
del soggetto vittima dal posto di lavoro”
(Gilioli e coll. 2001, 61- 69)
E’ pur vero che, parlando di
violenza morale sul luogo di lavoro,
non
sempre
è
semplice
circoscriverla. In ogni caso, anche
se
la
soggettività
nell’interpretazione degli eventi può
rendere difficile l’individuazione di
una dinamica mobbizzante è altresì
vero che esistono, come vedremo
nel dettaglio al paragrafo dedicato
alle allegazioni, “parametri” il cui
soddisfacimento
permette
di
evidenziarne la presenza.
In
definitiva,
sia
concesso
affermare, come già altre volte
sostenuto, che ciò che rende il
mobbing tale in termini di
potenziale valore lesivo è proprio la
co-presenza
di
determinate
caratteristiche “situazionali”. Che
poi esistano in ambito lavorativo
altri generi di situazioni dis-
stressogene, alcune volendo anche
più “lesive” e come tali
giuridicamente altresì rilevanti (es.
molestia
sessuale,
demansionamento, licenziamento
illegittimo,
diffamazione,
discriminazione sessuale ovvero
razziale, sovraccarichi lavorativi
disumani, mancato adempimento
delle prescrizioni della sorveglianza
sanitaria ecc. ) non vi è alcun
dubbio.
Ma non chiamiamole
mobbing, perché niente hanno a
che vedere con il costrutto in
esame. Tutt’al più lo possono
precedere, seguire o affiancare,
costituendo
importanti
“aggravanti”, che nella loro diversa
“ontologia giuridica” troveranno un
personale spazio all’interno del
ricorso.
A
conferma
di
come
la
giurisprudenza non solo di merito,
ma anche di legittimità si sia
sempre più ispirata ai dettami della
psicopatologia del lavoro nel
perimetrare le ipotesi di mobbing
vogliamo lasciare la parola ad
alcune sentenze della Suprema
Corte:
“Il mobbing …è costituito da una
condotta protratta nel tempo e diretta a
ledere il lavoratore. Caratterizzano questo
comportamento la sua protrazione nel
tempo attraverso una pluralità di atti … la
volontà che lo sorregge diretta alla
persecuzione od all'emarginazione del
dipendente, e la conseguente lesione,
attuata sul piano professionale o sessuale o
morale o psicologico o fisico”. Inoltre, Lo
specifico intento che lo sorregge e la sua
protrazione nel tempo lo distinguono da
singoli atti illegittimi quale la mera
dequalificazione. …Per la natura anche
legittima dei singoli episodi e per la
protrazione del comportamento nel
tempo, nonché per l'unitarietà dell'intento
lesivo, è necessario che da un canto si dia
rilievo ad ogni singolo elemento in cui il
comportamento si manifesta assumendo
rilievo anche la soggettiva angolazione del
4
comportamento, come costruito e
destinato ad essere percepito dal
lavoratore. D'altro canto, è necessario che i
singoli elementi siano poi oggetto d'una
valutazione non limitata al piano
atomistico, bensì elevata al fatto nella sua
articolata complessità e nella sua
strutturale unitarietà”. Infatti, “Se è vero
…che il mobbing non può realizzarsi
attraverso una condotta istantanea, è anche
vero che un periodo di sei mesi è più che
sufficiente per integrare l'idoneità lesiva
della condotta nel tempo”. (Cass. Sez. Lav.
n. 222858, 7.09.08)
“Ai fini dell’integrazione del mobbing non
è sufficiente una sola situazione
conflittuale nei rapporti interpersonali,
essendo invece necessario che vi sia una
condotta vessatoria ‘reiterata e duratura’
finalizzata all’isolamento del lavoratore nel
proprio contesto lavorativo ovvero alla sua
estromissione dall’azienda, e che l’effetto
di tali soprusi provochi nella parte lesa uno
stato di disagio psichico e l’insorgere di un
danno certo alla salute. In sostanza,
perché possa integrarsi la condotta
3.
mobbizzante occorre, in ogni caso, che la
persecuzione sia sistematica e duratura,
situazione che nella fattispecie non appare
essersi verificata, essendosi gli episodi
vessatori protratti solo per un periodo di
qualche settimana a cavallo dell’estate”
(Cass. Sez. Lav. n. 24794, 7.12.2010)
“La ricorrenza di un’ipotesi di mobbing
andrà esclusa quante volte la valutazione
complessiva dell’insieme di circostanza
addotte (ed accertate nella loro
materialità), pur se idonea a palesare in
singulatim, elementi ed episodi di conflitto
sul luogo di lavoro, non consenta di
individuare, secondo un giudizio di
ordinaria verosimiglianza, il carattere
esorbitante ed unitariamente persecutorio
e discriminante nei confronti del singolo
…. E’ in primo luogo necessaria, quindi,
che sia fornita la prova dell’esistenza di un
sovrastante disegno esecutorio, tale da
piegare alle sue dominanti finalità i singoli
atti cui viene riferito” (Cons. Stato Sez. VI.
n. 856, 17.02.2012)
Allegazioni e prova.
Ottimo memorandum il latinetto
iudex iuxta alligata et probata iudicare
debet; non tanto per il giudice,
quanto, piuttosto, per l’avvocato.
A fronte di cause bene istruite,
troppe ve ne sono con allegazioni
imprecise e mezzi di prova
inadeguati. Cause inutili, votate al
fallimento, che contribuiscono a
ingombrare la già mal funzionate
macchina della giustizia.
3.1. Allegazioni.
Legislazione: c.c. 2118 e 2119.
Bibliografia: Bianchi 2009 - Ege 2002 - Sims 2000 - Fornari 1997- Gilioli 2001 – Einarsen e
coll. 2011
Fatti di lavoro e di vita, tempi,
luoghi. Sono le carte da giocare.
Ce le fornisce il lavoratore. Basta
ascoltarlo con attenzione e con
distacco critico. Chi, suo malgrado,
si trova invischiato in vicende
lavorative avverse, non sempre è
obiettivo. Ritiene che tutti i mali
vengano da lì; anche se, magari, il
lavoro c’entra, sì, ma assai meno
rispetto ad altre contingenze di vita.
Infatti,
5
“La percezione della propria condizione
psichica è soggetta a molteplici sorgenti di
distorsione (biases). Il solo fatto di aver
subito una lesione – o di credere di averla
subita - amplifica di per sé la percezione
del proprio malessere (effetto nocebo). Se
poi la lesione è ascrivibile alla
responsabilità di altri (e quindi evitabile),
essa risulta ancor più insopportabile
(avversione alle perdite)” (Bianchi 2009)
Per questo si devono scandagliare
con attenzione fatti “di lavoro e di
vita”.
Osservazione accurata e
valutazione
empatica
dell'esperienza soggettiva, sono
validi strumenti, mutuati dalla
psicologia, per ricostruire la storia
di vita.
"Empatia come termine psichiatrico
significa letteralmente 'sentirsi nei panni di
un altro'. … Nella psicopatologia
descrittiva il concetto di empatia è uno
strumento che deve essere usato con
abilità per misurare lo stato soggettivo di
un'altra persona, impiegando come criterio
le capacità dell'osservatore di avere
esperienze emotive e cognitive” (Sims
2000, 30)
E ancora:
Comprendere è un modello che
"mette in secondo piano le classificazioni e
le categorizzazioni e privilegia l'ascolto
per cogliere dal di dentro la conflittualità e
la sofferenza umana. …[l’interlocutore] è
qui collocato in una dimensione di
intersoggettività attraverso la quale ci si
sforza di mettere su di un piano di parità la
comunicazione e la comprensione”
(Fornari 1997, 126).
Empatia e comprensione non sono
collusione. Anzi. Sentiamo una
lavoratrice, che così si lagna del suo
lavoro:
"… subisco continui
soprusi da parte dei colleghi …
alcuni mi sono penetrati in casa e
hanno portato via dei documenti
… il medico competente è
d'accordo il medico di base … tutta
una mafia … ho contattato degli
avvocati, ma nessuno è motivato a
fare qualcosa … sono stata da uno
specialista per l'ipertensione …
anche lui è stato contattato
dall'ufficio … sono implicate le
organizzazioni sindacali … il
Ministero del Lavoro … mi sono
accorta che tutto ciò che dicevo era
spiato … c'era collegamento con le
battute dei miei colleghi … una
volta ho trovato la macchina senza
i copricerchi … non so quanto sia
attribuibile al lavoro … io penso di
sì … sono segnali … anche in
strada gli sguardi della gente sono
strani … sembra sappiano di me …
sono osservata … penso che mi
mettano microspie in casa". Parole
ricche di significato. Anche qui c'è
comprensione; per il doloroso
disagio. Ma è comprensione che
porta a valutare l’opportunità di
altri sbocchi: non l'avvocato, bensì
lo psichiatra. La scelta ha duplice
vantaggio: per la lavoratrice indotta
a curare la sua persecutività
patologica; e per l’apparato
giudiziario, che non sciuperà risorse
per un’altra inutile vertenza.
Laddove non si tronchi subito il
discorso come nel caso citato, si
dovrà fare un lavoro di minuziosa
ricostruzione storica; di fatti, tempi
e luoghi, appunto.
Numerose e disparate le fattispecie
dannose. Le più comuni sono
riconducibili a questi gruppi
fondamentali:
- recesso dal contratto di lavoro,
ossia licenziamento e dimissioni
disciplinate dagli artt. 2118 e 2119
c.c. e da leggi speciali;
- dequalificazione professionale e
mancato conferimento di incarichi
e di mansioni;
- mobbing e molestie sessuali.
6
Pericoloso e fuorviante ricostruire
la storia lavorativa con il
pregiudizio di trovare elementi di
una sola fattispecie.
Tale
pregiudizio è una sorta di filtro che
lascia passare solo gli elementi che,
appunto, si sono prefigurati. Altri
elementi,
pure
importanti,
costitutivi di altre fattispecie
dannose, rischiano di essere
trascurati, a scapito, alla fine, di un
ricorso mutilo nelle allegazioni,
nelle prove e nelle domande.
Troppo sovente si cerca in primis il
“mobbing”, sorta di categoria
mitica, troppo spesso usata a
sproposito,
anche quando
nemmeno lontanamente si profila.
Eppure, poche volte ricorre.
Innanzitutto,
“è facile confondere l'insoddisfazione e la
tensione sul lavoro con il Mobbing: una
recente ricerca inglese, per esempio, ha
mostrato che la stragrande maggioranza
delle persone intervistate che si reputavano
vittime di Mobbing, in una realtà
intendevano sottolineare il loro scontento
di fronte a una condizione di lavoro
sempre più difficile. La persona dunque
può sentirsi immobilizzata, mentre in
realtà è vittima di un altro tipo di conflitto,
organizzativo, relazionale, quotidiano,
generalizzato o altro.
La corretta
identificazione del Mobbing deve quindi
essere lasciata all'esperto. Quando ci
muoviamo in un settore che sembra essere
prevalentemente basato sulla percezione,
diviene difficoltoso poter affermare o
addirittura dimostrare l'esistenza di un
fenomeno come quello del Mobbing.
Tuttavia, la cosa non è impossibile: in un
conflitto relazionale esistono, e sono
rintracciabili, caratteristiche peculiari che ci
permettono di capire se si tratta di
Mobbing o no” (Ege 2002, 46).
In generale i principali parametri
necessari
per
un
corretto
riconoscimento di una dinamica
mobbizzante sono (Gilioli 2001,
61-69; Ege 2002):
Contesto:
la
violenza
morale lamentata deve avere come
contesto l’abito occupazionale della
sedicente vittima.
Frequenza:
risulta
fondamentale che le riferite azioni
ostili si verifichino con sistematicià,
quantificabile in “almeno qualche
volta al mese”.
Durata: la violenza morale
deve essere attuata per un periodo
temporale
considerevole,
convenzionalmente definito pari ad
almeno sei mesi; in alternativa, nei
casi in cui la frequenza e l’intensità
delle azioni siano particolarmente
elevate tale criterio può essere
ridotto a tre mesi (c.d. quick
mobbing).
Dislivello di potere tra gli
antagonisti: è necessario che tra i
protagonisti del conflitto esista un
dislivello di potere, formale e/o
informale.
Intento
persecutorio,
direzionalità, intenzionalità: tra le
diverse azioni vessatorie lamentate
è necessario poter scorgere una
strategia persecutoria che le
colleghi.
Tipologia
di
azioni,
multiformità: le azioni vessatorie
subite tipicamente sono polimorfe,
ovvero devono avere natura diversa
e colpire la persona sotto aspetti
diversiAndamento secondo fasi,
escalation del fenomeno: un
meccanismo mobbizzante tende a
procedere seguendo momenti
evolutivi specifici.
Quella sopra riportata è una
possibile categorizzazione dei
criteri di giudizio. In realtà esistono
varie definizioni di mobbing,
ognuna delle quali legata a specifici
filoni di ricerca. Al di là delle
7
svariate descrizioni proposte (solo
nella tradizione nordamericana tra
il 1976 e il 2009 se ne contano ben
diciassette)
e
della
macro
spiegazione del fenomeno, la
maggior
parte
degli
autori
riconosce come fondamentale il
fatto che esista un reale, o
percepito, dislivello di potere tra
sedicente vittima e presunto
persecutore. Per contro, il fatto che
l’intenzionalità sia una caratteristica
definente il processo è ancora
3.2
dibattuto. Alcuni autori sostengono
che l’intenzionalità sia un elemento
chiave nel mobbing, altri ritengono
il contrario. Comunque sia, la
letteratura
converge
nell’evidenziare come il mobbing
abbia
molte
conseguenze
individuali come stress, problemi
psicologici e alti livelli di sintomi
psicosomatici. (Einarsen, Hoel,
Zaps, Cooper 2011, 9-22).
Prove e onere della prova.
Legislazione: c.c. 1222, 2087, 2697, 2727 e 2729, c.p.c.421
Giurisprudenza: Cass. S.U. 4.5.2004, n. 9539.
Bibliografia: Bianchetti 2001- Gaglio 1977 - Jervis 1975.
Pacifico l’attuale e prevalente
orientamento della dottrina e della
giurisprudenza a favore della
responsabilità contrattuale del
datore di lavoro, ex art. 2087 c.c. .
Gli atti lesivi dei diritti del
lavoratore sono atti di gestione del
rapporto
di
lavoro,
che,
quand’anche non facciano parte di
un disegno di deliberata e reiterata
persecuzione – come il mobbing –
trovano
diretto
riferimento
normativo nella disciplina del
rapporto di lavoro e da tale
disciplina sono sanzionati laddove
siano illeciti.
La responsabilità
datoriale va dunque ricondotta alla
violazione
degli
obblighi
contrattuali stabiliti dalle norme che
regolano il rapporto lavorativo,
indipendentemente dalla natura dei
danni subiti e dalle ripercussioni
sulla salute, che trovano tutela
specifica nell’ambito del rapporto
obbligatorio (ex multis, Cass. SU,
4.5.2004, n. 9539).
Stante la natura contrattuale della
responsabilità del datore di lavoro,
al lavoratore incombe il solo onere
di provare l'esistenza del contratto
subordinato e di allegare le
circostanze degli abusi e delle
vessazioni che ha subiti, mentre
tocca al datore di lavoro provare di
aver adempiuto diligentemente
all'obbligo di protezione o di essersi
trovato
nell'impossibilità
di
adempiere per cause a lui non
imputabili.
Eccezione alla suddetta regola sono
le obbligazioni negative – di non
fare – il cui inadempimento
consiste in un fatto positivo
compiuto appunto in violazione del
divieto (art. 1222 c.c.). In questi
casi è onere del creditore
dimostrare l'altrui inadempimento
ovvero il compimento dell'azione
vietata da parte del debitore.
Notizie raccolte dai colloqui e
documenti forniti sono materiale
grezzo, da rielaborare, per dare
forma ai fatti di causa, collocati nel
8
tempo e nello spazio e agiti dai
protagonisti – lavoratore, datore,
colleghi, familiari, con tanto di
nomi e cognomi.
Base per
allegazioni
precise
e,
di
conseguenza, per definire i mezzi di
prova.
La prova è sempre difficoltosa,
soprattutto quando si fonda solo su
testimonianze. La pericolosità del
teste è, in genere, nota. Infatti,
potenziali testi sono spesso proprio
i colleghi, che concorrono magari
ad attuare le condotte datoriali
illecite, o che, in ogni caso, sono
conniventi e restii a rivelare i fatti
per timore di ritorsioni.
Tuttavia,
“Le oggettive difficoltà nella prova del
mobbing non possono … consentire il
superamento dei precisi vincoli previsti
dall'art. 2697 c.c. per evidenti ragioni; è
invece possibile ed auspicabile che il
giudice utilizzi i poteri istruttori previsti
dall'art, 421 c.p.c. e faccia adeguato ricorso
alle prove per presunzioni previste degli
artt. 2727 e 2729 c.c.” (Bianchetti 2001,
2113)
Proprio dalle difficoltà probatorie,
per altro, potrebbe scaturire
“una interessante sinergia in favore della
vittima del mobbing: il consiglio di ‘prendere accuratamente nota di tutti gli attacchi
(verbali e non), con date, luoghi e persone
coinvolte’ con la finalità di ‘prepararsi alla
battaglia’ contro il o i mobber, oltre ad
essere un'attività particolarmente utile - se
non indispensabile - per il buon esito di
una controversia giudiziaria, costituisce
spesso un ‘punto di svolta’ per il
mobbizzato che, individuando una precisa
linea di azione, può recuperare in parte
l'autostima e superare lo smarrimento
tipico di chi si sente ‘accerchiato’ ”
(Bianchetti 2001, 2113).
Venendo ora alle presunzioni in
tema di danno psichico in caso di
mobbing, un primo fatto notorio.
Che esistano lavori interessanti,
remunerativi
e
pienamente
gratificanti, non c’è dubbio. C’è,
però, ancor meno dubbio che il
lavoro, lungi dal nobilitare, ha
spesso nociuto. Fino a qualche
decennio fa, le avversità lavorative
coinvolgevano per lo più operai
delle fabbriche.
“Le cause patogene sono precise.
Ripetitività dei gesti e parcellizzazione
operativa conducono a una riduttività della
persona; l'uomo e la donna diventano
subalterni al ciclo produttivo anziché
dominarlo. Da questa dipendenza si passa
alla perdita del significato di lavoro, sino
alla progressiva dequalificazione – più o
meno inconscia – e la difetto di identità:
l'atomizzazione della persona all'interno
del ciclo produttivo porta all'anonimato di
se stessi sino alla depersonalizzazione”.
Inoltre “Ritmi e tempi di lavoro, orari
prolungati, pendolarità, insufficienza delle
pause di recupero, e di ristoro per i pasti,
non provocano soltanto un'astenia
muscolare: sono già un fatto patologico
sia in senso psicofisico che economico”
(Gaglio 1977, 159)
Addirittura,
“il fatto che molti operai facciano delle
assenze ‘ingiustificate’ e improvvise dal
luogo di lavoro viene designato come
assenteismo: … Un medico del lavoro ha
identificato qualche anno fa molto
acutamente il problema, affermando che
non si tratta tanto di chiedersi i perché
dell’assenteismo, quanto piuttosto i perché
di un enigma psicologico opposto: il
presentismo ” (Jervis 1975, 185)
Oggi il problema si è diffuso e
riguarda operai, impiegati, quadri,
dirigenti, siano essi dipendenti
privati o funzionari di pubbliche
amministrazioni,
banche,
assicurazioni, enti pubblici, ieri
isole felici dove si percorreva
l’intera vita lavorativa senza
pensieri, sono divenuti luoghi di
9
vessazioni e fonte di patologie
lavorative.
Fra i ‘Problemi Psicosociali e
Ambientali’ che sono causa di
malattia o concorrono ad aggravare
stati patologici preesistenti, il DSM
elenca i
“Problemi Lavorativi: disoccupazione;
minaccia di perdere il lavoro; orario di
lavoro stressante; condizioni di lavoro
difficili;
insoddisfazione
lavorativa;
cambiamento di lavoro; disaccordo con il
principale o con i compagni di lavoro”
(DSM-IV-TR 2001, p. 46).
Provato un fatto illecito, dunque, è
facile
presumere
che
una
ripercussione emotiva negativa
l’abbia, con ogni probabilità, avuta.
Nei casi in cui si pretende di aver
subito anche un danno biologico di
natura psichica, si rende invece
necessario un lavoro istruttorio
supplementare; ossia la minuziosa
4.
ricerca di referti medici atti a
ricostruire una storia clinica
plausibile. Oltre all’ovvia prova
documentale, è troppo spesso
negletta, in questi casi, la prova
testimoniale. Si pensa che le carte
mediche dicano tutto e se ne
demanda
interpretazione
e
spiegazione ai consulenti tecnici.
Errore gravissimo, perché i referti
sono generalmente redatti senza
preoccupazioni
medico-legali,
appunti estemporanei, il più delle
volte approssimativi o incompleti.
Perciò i referti devono essere
accuratamente
esaminati,
con
l’ausilio del consulente di parte, per
verificarne,
appunto,
le
incompletezze.
Che potranno
essere
utilmente
colmate
chiamando a testi i medici.
Aspetti medico-legali del mobbing. Consulenza tecnica.
Legislazione: d.lgs. 23.2. 2000, n. 38 - l. 5.3. 2001, n. 57, c.c. 2059 Bibliografia: Giannini 1995 -
Aspetti medico-legali, id est
accertamento delle conseguenze e
quantificazione. L'assunto evoca la
favola del danno biologico
psichico. Giustamente s'è detto – il
detto vale ancora, dopo oltre tre
lustri – che
“il danno psichico è un po' come l'araba
fenice: che ci sia ognun lo dice, dove sia
nessun lo sa” (Giannini 1995, 107)
E' la qualificazione del danno come
"biologico" a complicare il
discorso.
Il danno biologico
consiste nella lesione dell'integrità
psicofisica
della
persona,
"suscettibile
di
accertamento
medico-legale";
con sottesa
limitazione a quello che è
"malattia". Esiste definizione di
legge – prima non c’era – a far
tempo dal 2000 (si vedano i
capostipiti, d.lgs. 23 febbraio 2000,
n. 38, art. 13 e l. 5 marzo 2001, n.
57, art. 5).
Va bene per l'organico; assai meno
per lo psichico, dove sfuggenti e
impalpabili sono i confini fra sanità
e malattia.
Se il danno biologico è malattia,
allora il danno biologico psichico è
malattia psichica.
L'actio finium
regundorum
si
rivela
qui
10
chiacchiericcio fallimentare;
e
abusivo. Abusivo, perché etichetta
come malattia forme di disagio,
anche pesante, che malattia non
sono. Stati di sofferenza psichica
non necessariamente sono malattia;
ma possono essere danno. E'
quello che il più delle volte si vede
nei casi di mobbing;
o, più
latamente,
di
controversie
lavorative.
Vigeva, un tempo, altra favola:
quella che il danno non
patrimoniale fosse solo il danno
morale; risarcibile, ex art. 2059
solo in casi di reato.
Bugiardo
corollario: il danno biologico –
fisico o psichico – era il danno
risarcibile per eccellenza e, se non
c'era danno biologico, non c'era
danno.
Allora,
per
consentire
il
risarcimento di malesseri psichici si
fingeva che fossero malattia; e,
quindi, danno biologico. Vischioso
trucco, sopravvive nel tempo. Così
il danno biologico psichico ha
avuto, troppa fortuna; e, troppo
spesso, è uscito dai confini ben più
ristretti che gli sarebbero toccati,
per comprendere, aspetti di natura
non strettamente patologica; con
quantificazioni cervellotiche.
Invece, anche forme di disagio, di
sofferenza psichica, che non hanno
dignità – ma quale dignità? – di
malattia sono danno.
La
qualificazione giuridica – morale,
esistenziale,
edonistico,
e
4.1.
quant'altro – non compete al
medico legale.
L'indagine, sul
piano clinico fenomenico, circa la
sussistenza di una condizione
psichica di disagio o di sofferenza,
che possa qualificarsi, sul piano
giuridico, come danno – biologico
o no – invece, gli compete
certamente, giacché si tratta pur
sempre di ricercare l'alterazione di
funzioni
psichiche,
il
cui
apprezzamento può farsi solo in
sede specialistica.
Scopo della consulenza tecnica,
dunque, è sì rispondere ai quesiti
del
giudice;
ma
attraverso
minutissima analisi del caso, in tutti
i particolari, senza preventivo
paraocchi selettivo dei soli –
eventuali, il più delle volte – aspetti
patologici. La letteratura delinea i
canoni
dell'indagine
forense,
insieme psichiatrica e medicolegale. Due le parti della corretta
consulenza tecnica.
Dapprima
l'indagine clinica: colloquio, esame
psichico,
approfondimento
psicodiagnostico, valutazione della
documentazione medica. Poi la
discussione medico-legale: diagnosi,
accertamento del nesso di causa,
definizione della temporaneità o
della permanenza del danno,
quantificazione.
Tralasciamo l’indagine clinica di cui
si tratterà, ci soffermiamo, invece,
sulla discussione medico-legale
delle risultanze cliniche.
Inquadramento diagnostico.
Bibliografia: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali 2001 - Bargagna e coll. 1998
- Othmer e Othmer 1999 - Fornari 1997 - Petti 1997
Accenniamo a due temi: l'uso del
DSM e l'incertezza della distinzione
fra salute e malattia psichica.
11
Per quanto riguarda il DSM – oggi
DSM-IV-TR – capita ancora
troppo spesso, da un lato, di sentir
chiedere che cosa sia; dall'altro, di
vederlo usato come una sorta di
Bibbia della psichiatria. Scopo del
DSM è
"fornire descrizioni chiare delle categorie
diagnostiche, allo scopo di consentire ai
clinici ed ai ricercatori di diagnosticare, di
comunicare, di studiare e di curare le
persone affette dai diversi disturbi
mentali". In effetti, "l'uso di tali criteri
[diagnostici] fa innalzare la concordanza
tra clinici" (DSM-IV-TR, 15).
In effetti,
"le conoscenze raccolte nel manuale DSMIV rappresentano uno strumento assai
utile al fine di un inquadramento
diagnostico rispondente alle attuali
acquisizioni della psichiatria" (Bargagna e
coll. 1998, 19).
Per altro,
"non
ha
alcun
senso
applicare
pedissequamente i vari criteri di inclusione
e di esclusione dopo la formulazione di
una diagnosi 'privata' e 'personale', quasi
un controllo 'a posteriori' per esaurire
anche questa formalità a cui si affida poca
credibilità e ancor meno capacità
esplicativa dei fenomeni psicopatologici”
(Othmer e Othmer 1999, introd. XI).
Inoltre, il DSM espressamente
avverte che
"Quando le categorie, i criteri e le
descrizioni del DSM-IV vengono utilizzate
a fini forensi, sono molti i rischi che le
informazioni
diagnostiche
vengano
utilizzate o interpretate in modo scorretto.
…Nel determinare se un individuo
soddisfa uno specifico standard legale
sono di solito necessarie più informazioni
rispetto a quelle contenute in una diagnosi
del DSM-IV” (DSM-IV-TR 2001, 11).
In effetti,
il perito che tende a "incasellare e
classificare associazioni significative
di sintomi e di segni" si appaga
"sfogliando … il rassicurante
dizionario americano (il D.S.M.
nell'ultima o penultima versione),
che tutto cataloga e numera, anche
ciò che non è possibile (i Disturbi
Non Altrimenti Specificati o
Disturbi NAS”(Fornari 1997, 126).
E lì si ferma.
Incertissimi, in psichiatria, i confini
fra salute e malattia.
Alcuni giuristi (Petti 1997, 1)
propugnano oggi il concetto –
generale – di "salute" contenuto nel
Preambolo
alla
Costituzione
dell'O.M.S.:
"La salute è uno stato di completo
benessere fisico, psichico e sociale e non
consiste soltanto in una assenza di malattia
o di infermità. Il possesso del migliore
stato di salute costituisce uno dei diritti
fondamentali di ogni essere umano".
Il DSM
mentale"
definisce il "disturbo
"come una sindrome o un modello
comportamentale
o
psicologico
clinicamente significativo, che si presenta
in un individuo, ed è associato a disagio
(es. un sintomo algico), a disabilità (es.
compromissione in una o più aree
importanti del
funzionamento), ad
aumento del rischio di morte, di dolore, di
disabilità o a una importante limitazione
di libertà". Ma anche qui, ben lungi da
statiche certezze, si ammette che "nessuna
definizione specifica adeguatamente i
confini precisi del concetto di disturbo
mentale'". Inoltre, "non vi è nessuna
presunzione che ogni categoria di disturbo
mentale sia un'entità totalmente distinta,
con confini assoluti che la separano dagli
altri disturbi mentali o dalla normalità"
(DSM-IV-TR 2001, 9).
12
In conclusione: restano labili i
confini fra normalità e patologia
psichica; il DSM può – non "deve"
– essere un utile strumento per la
diagnosi; certo, non deve essere un
repertorio di etichette diagnostiche
da usare per conferire maggiore – e
falsa – dignità scientifica a qualsiasi
caso; e, certo, non risolve il
problema della distinzione fra
norma e malattia. Invece, vige il
deleterio pregiudizio che malattia
psichica
siano
i
quadri
psicopatologici descritti nel DSM;
e normalità tutti i fenomeni fuori
dal DSM. E’ capitato di leggere in
una sentenza che la “sindrome
ansioso-depressiva
reattiva”
diagnosticata dal CTU e da lui
qualificata come danno biologico
temporaneo, tale non fosse poi
4.2.
ritenuta dal giudice, perché la
locuzione diagnostica “sindrome
ansioso-depressiva reattiva” non
ricorre nel DSM. Se il medesimo
fenomeno clinico fosse stato
etichettato
come
“Disturbo
dell’Adattamento con Ansia e
Umore Depresso Misti” il giudice
sarebbe stato appagato nel suo
pregiudizio e avrebbe accettato che
il CTU qualificasse il quadro come
danno.
Ma
“Disturbo
dell’Adattamento con Ansia e
Umore Depresso Misti” è etichetta
diagnostica
perfettamente
sovrapponibile
alla
vecchia
“sindrome
ansioso-depressiva
reattiva”. Il DSM non ha scoperto
niente di nuovo.
Nesso di causa.
Bibliografia: Arieti e Bemporad 1980 - Barbui 2000 - Bargagna e coll. 1998 - Bertalanffy,
1968 - Palmieri e Zangani 1991 - Fiori 1985 - Cazzaniga e Cattabeni 1976 - Kraepelin 1907
Questi i classici criteri medico-legali
per l'accertamento del nesso di
causalità (materiale) tra fatto illecito
e lesione, ovvero fra lesione e
postumi:
"criterio cronologico, criterio topografico,
criterio di adeguatezza lesiva, qualitativa e
quantitativa, criterio della continuità (e,
correlativamente)
della "sindrome a
ponte", criterio dell'esclusione di altre
cause" (Cazzaniga e Cattabeni 1976, 131 –
conforme Palmieri e Zangani 1991, 20).
Fiori individua nel loro ambito
"categorie diverse con ruoli differenziati",
distinguendo "due gruppi di criteri, il
primo costituito dai criteri di possibilità
scientifica (di idoneità lesiva) e di
esclusione di altre cause; il secondo dai
criteri topografico, cronologico, di
continuità fenomenologica e di sindrome a
ponte" (Fiori 1985, 29).
Per il danno psichico i criteri
funzionano quando funzionano.
Non sempre forniscono la chiave
del problema del nesso causale in
termini di certezza. In molti casi ci
si deve accontentare di un buon
grado di probabilità (come, del
resto, talvolta accade anche in tema
di danno biologico fisico).
Proprio in tema di mobbing (ma il
principio vale in tutti i casi di
danno psichico) s'è detto:
"Allorquando si fa riferimento ai motivi
che determinano l'insorgenza di sintomi di
disagio psicologico e psichiatrico si
13
utilizzano i termini di 'causa' e 'fattore di
rischio'. Per causa si intende un fattore
necessario e sufficiente alla comparsa del
disturbo. In psichiatria non si conoscono
cause che determinano le malattie. I
fattori di rischio sono tutti quegli elementi
che aumentano la probabilità di insorgenza
del disturbo. La presenza di fattori di
rischio, dunque, non sempre porta come
conseguenza il disturbo; in aggiunta, il
disturbo può verificarsi pure in assenza del
fattore in questione. In psichiatria si parla
solamente di fattori di rischio;
essi
possono aumentare la probabilità di
insorgenza di un disturbo, che quindi
prima non era presente, ma possono anche
aumentare la probabilità di una
riacutizzazione di un disturbo già presente
in passato" (Barbui 2000, 732).
Parlando di nesso di causa, si deve
toccare un altro problema:
la
preesistenza. La questione non va
confusa con quella del nesso
causale, ma vi è strettamente
connessa.
Il problema è noto fin dagli albori
della psichiatria.
Così scriveva
Kraepelin, più di cent'anni fa:
"Tanto meno un individuo è predisposto
alla pazzia, tanto maggiore deve essere
l'agente nocivo esterno che induce lo stato
morboso; viceversa, esistono individui che
divengono
pazzi
solamente
sotto
l'influenza dei piccoli eccitamenti della vita
quotidiana, perché la loro forza di
resistenza è troppo piccola per poterli
4.3.
sopportare senza profondi
(Kraepelin, 1907, 11).
disturbi"
La Guida Bargagna avverte oggi
che la patologia psichica
"più spesso … è il risultato di un insieme
articolato di fattori, esogeni ed endogeni,
con effetti di nocumento variabile da
persona a persona" (Bargagna e coll. 1998,
19).
Analogo concetto è espresso, con
più articolata argomentazione:
"Nella terminologia della teoria generale
dei sistemi, la psiche non è un sistema
chiuso, bensì un sistema aperto a influenze
continue da parte di fattori che si
verificano fuori dal sistema (Bertalanffy,
1968). Anche le strutture psicopatologiche
sono dei sistemi aperti. Esse sono degli
stati di vario grado di improbabilità,
mantenuti da un'entropia psicologica
negativa proveniente dall'esterno del
sistema originale.
Un sistema aperto
come la psiche segue il principio
dell'equifinalità; lo stato finale non è
inequivocabilmente determinato dalla
condizione iniziale. Ogni fase della vita si
trova sotto l'influenza degli stadi
precedenti, ma non in modi rigidi o
ineluttabili. Intervengono altri fattori. Le
prime
esperienze
concorrono
a
determinare la depressione soltanto
quando, insieme ad altri fattori, facilitano
lò a formazione di un'ideologia che
condurrà a modelli di vita sfavorevoli"
(Arieti e Bemporad 1980, 22).
Temporaneità e permanenza del danno.
Bibliografia: Gilioli e coll. 2001 - DSM-IV-TR 2001 - Bargagna e coll. 1998 - Castiglioni 1992
- AA. VV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali 2001-
S’è detto che
"il disturbo psichico, comunque venga
inquadrato e diagnosticato, non ha mai
carattere
di
'permanenza'
e
di
'immutabilità'" (Castiglioni 1992, 419)
In condivisibile linea, la Guida
Bargagna:
"… nella maggior parte dei casi, i disturbi
psichici insorti in correlazione con un ben
14
definito
evento psico-traumatizzante
vanno incontro a risoluzione nel tempo, in
specie con un adeguato trattamento
psicoterapeutico; per converso, quando un
disturbo è persistente nel tempo, si tratterà
verosimilmente di manifestazioni a genesi
endogena" (Bargagna e coll. 1998, 19).
Quanto, più specificamente, al
mobbing e alle avversità lavorative
"le conseguenze sulla salute che possono
derivare da una condizione di mobbing
dovrebbero essere comprese nell'insieme
definito 'Reazioni ad Eventi'. Tali reazioni
includono:
- Disturbo dell'adattamento;
- Disturbo acuto da stress;
- Disturbo post-traumatico da stress"
(Gilioli e coll. 2001, 66)
Secondo il DSM:
a)
Il Disturbo
dell'Adattamento
"inizia entro 3 mesi dall'insor-genza di un
fattore stressante, e non dura oltre 6 mesi
dopo la cessazione del fattore stressante o
delle sue conseguenze.
Se il fattore
stressante è un evento acuto (per es.,
licenziamento dal lavoro), l'insorgenza
dell'anomalia è di solito immediata (o
entro pochi giorni), e la durata è
relativamente breve (per es., non più di
pochi mesi" (DSM-IV-TR 2001, 725)
b)
Nel
Disturbo
traumatico da Stress
Post-
"… in circa la metà dei casi la remissione
completa si verifica in 3 mesi, mentre
molti altri hanno sintomi persistenti per
5.
più di 12 mesi dopo il trauma" (DSM-IVTR 2001, 500)
c)
I sintomi del Disturbo Acuto
da Stress
"… vengono sperimentati durante o
immediatamente dopo il trauma, durano
almeno 2 giorni e si risolvono nelle 4
settimane successive alla conclusione
dell'evento traumatico”
(DSM-IV-TR
2001, 505)
Esempio pratico.
In una
certificazione di malattia trasmessa
all'INAIL dalla Clinica del Lavoro
per Disturbo Post-Traumatico da
Stress occupazionale, si specifica:
"Evoluzione prevedibile della
malattia: prognosi favorevole fino
a completa guarigione, a condizione
che vengano rimosse le cause
professionali scatenanti e venga
sottoposto
ad
adeguato
trattamento". Ma si versa, qui, in
tema di infortunistica del lavoro,
dove il giudizio non è definitivo ed
è suscettibile di revisioni. Si può
così seguire l’evoluzione clinica.
Diversa
la
situazione
dell’accertamento in sede di
responsabilità civile, dove la
valutazione è una e definitiva.
Forzatura
in
spregio
alla
fenomenologia naturale dei disturbi
psichici.
Effetti del mobbing sulla salute e cenni sui metodi valutativi
Bibliografia: Buselli e coll. 2006 - Leymann 1990 e 1996 - Punzi 2007 - Brodsky 1976 - AA.
VV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali 2001 – Stracciari e coll. 2010 Gacono e Evans 2008 - Pope e coll. 2006.
Le ripercussioni del mobbing sulla
salute sono state osservate fin dai
primi
studi
sul
fenomeno
(Leymann 1990 e 1996, 119-126 e
165-184). Le costellazioni di
sintomi più comuni comprendono
15
disturbi dell’area emozionale, con
sintomatologia
ansiosa
e/o
depressiva.
L’irritabilità,
l’insofferenza,
la
variabilità
dell’umore con prevalenza di
umore depresso, la perdita di
interesse per le attività ritenute
significative, rappresentano un
generale quadro depressivo che
coinvolge anche la sfera sessuale.
Preponderante è anche la presenza
di astenia cronica: la costante
attivazione psicofisica, in risposta
alla protratta situazione stressante
conduce
all’esaurimento
dell’energia. A tale attivazione
spesso si associano disturbi del
sonno che possono incrementare le
condizioni di astenia cronica.
Le alterazioni comportamentali e
delle abitudini sono di contro
scarsamente presenti, ad eccezione
dell’irregolarità e dei disordini
nell’alimentazione come ipo e/o
iperfagia. Tutti questi sintomi sono
tipici delle reazioni da stress, ciò
che li caratterizza è che sono
cronicizzati, come cronica è la
situazione
stressante.
(Punzi
2007,267-283; Buselli e coll. 2006,
5-12).
A queste si affiancano dolori
cronici e, all’interno di un pattern
depressivo, un senso di impotenza,
un calo dell’autostima, ostilità
nervosismo, ritiro sociale e vissuti
persecutori (Brodsky 1976, 12 - 24
). Giova precisare che la
qualificazione
“cronico” di un
disturbo mentale, sta a significare
che il disturbo dura per un periodo
precisato, ovvero, oltre un certo
periodo. Disturbo “cronico” non è
sinonimo di danno “permanente”,
inteso come danno che dura a vita.
Dal punto di vista diagnostico la
diagnosi
di
Disturbo
dell’Adattamento è la più utilizzata
per i casi di patologia mobbingcorrelate (Punzi 2007, 267 - 283).
In ambito internazionale è sempre
più
messa in discussione
l’opportunità di utilizzare la
diagnosi di Disturbo PostTraumatico da Stress che si usa
spessi per la sintomatologia di
frequente riscontro nei casi di
mobbing,
caratterizzata
da
iperattivazione, pensiero ricorrente
e
intrusivo
sulle
tematiche
lavorative, con incubi notturni e
meccanismi di evitamento.
A
riguardo
delle
etichette
diagnostiche appena citate si
rimanda al paragrafo terzo per il
dettaglio “criteriologico” secondo il
Manuale Diagnostico dei Disturbi
Mentali IV Edizione, che peraltro è
noto non debba essere
“applicato meccanicisticamente”. Infatti,
“i criteri diagnostici specifici inclusi nel
DSM-IV sono intesi come linee guida da
integrare con il giudizio clinico, e non
devono essere utilizzati alla stregua di un
libro di cucina. Ad esempio il giudizio
clinico può giustificare una certa diagnosi
per un individuo anche se la presentazione
clinica non è tale da soddisfare
completamente i criteri per la diagnosi”
(DSM - IV - TR, 2001, p. 10)
Appare evidente come nell’ambito
di una valutazione di un danno
psichico da mobbing - e di qualsiai
altro danno psichico - non sia
sufficiente effettuare una diagnosi
secondo
DSM,
bensì
sia
fondamentale
integrare
la
valutazione
con
altre
fonti
informative anche di natura
psicopatologica e psicologica. In
particolare gli strumenti più
comunemente utilizzati per la
raccolta
delle
informazioni
necessarie alla descrizione del
quadro sindromico includono:
- Il colloquio. Momento centrale
16
della consulenza, consente di
ricostruire l’evento, di raccogliere i
sintomi, di tracciare la storia di vita,
prima e dopo l’evento. Quanto
all’evento:
“rappresenta il punto di partenza logico e
cronologico dal quale tutta la procedura
valutativa prende le mosse. …Molti
soggetti, forse la totalità, arrivano alla
consulenza già convinti che tutti i loro
malesseri dipendono da ciò che è loro
accaduto, a volte anni prima. Il nostro
compito [di CTU] consiste nel mettere in
questione
queste
convinzioni,
verificandone – alla luce delle conoscenze
scientifiche disponibili – l’effettiva
plausibilità” (Stracciari, Bianchi e Sartori
2010, p. 34)
- L’
esame
psichico,
ossia
registrazione analitica di segni e
sintomi, che si riscontrano all’atto
del colloquio.
- l’eventuale
approfondimento
psicodiagnostico, ossia l’uso di test.
E’, talvolta, utile complemento
all’osservazione clinica, se vi sono
aspetti da chiarire, ad esempio sulla
struttura di personalità, o se c’è
sospetto
di
simulazione
o
esagerazione.
Gli strumenti
psicodiagnostici più comunemente
utilizzati sono due: il MMPI-2 e il
test di Rorschach. Entrambi
forniscono informazioni sia sulla
struttura di personalità che sulle
manifestazioni cliniche. Inoltre
entrambi presentano la possibilità
di valutare eventuali stili di risposta
connessi a tentativi di simulazione
o di esagerazione sempre possibili
in ambito forense. (Gacono e
Evans 2008, 33 - 53). L’aspetto di
maggiore interesse, così come
nell’utilizzo dei criteri del DSM, è
che tale strumenti dovrebbero
essere utilizzati non tanto per
giungere
ad
una
etichetta
diagnostica, quanto per arricchire la
valutazione clinica. A fianco di
questi due strumenti eventualmente
ne possono essere affiancati anche
altri per la valutazioni di specifici
aspetti di particolare interesse.
6.
Danno psichico da mobbing e formule descrittive altre di danno
non patrimoniale
Legislazione: d. lgs n. 209/2005.
Giurisprudenza: Cass. S.U. n. 26972/2008 - Cass. n.14402/2011 - Cass. civ. 06 aprile 2011,
n.7884.
Bibliografia: Ziviz P. 2003, Ceppi Ratti E., De Ambrogi F. 2009 e 2012.
Ricordiamo che, secondo le c.d.
sentenze di San Martino, il danno
non patrimoniale deve essere inteso
come
“categoria unitaria non suscettiva di
suddivisione in sottocategorie tantè che il
riferimento a determinati tipi di
pregiudizio in vario modo denominati
(danno morale, danno biologico, …)
risponde a mere esigenze descrittive, ma
non implica il riconoscimento di distinte
categorie di danno. Da cui è compito del
giudice accertare l’effettiva consistenza del
pregiudizio allegato a prescindere dal
nome attribuitogli, individuando quali
ripercussioni negative sul valore uomo si
siano verificate e provvedendo alla loro
integrale riparazione” (Cass. S.U. n.
26972/2008, § 4.8)
In
altri
termini,
all’interno
dell’unitaria categoria giuridica del
17
danno non patrimoniale è possibile
enucleare, secondo la Suprema
Corte, varie formule circostanziate
quali:
- un profilo descrittivo biologico,
ossia
“figura
che
ha
avuto
espresso
riconoscimento normativo agli artt. 138 e
139 d. lgs n. 209/2005, recante il codice
delle assicurazioni private, che individuano
il danno biologico nella ‘lesione
temporanea o permanente dell’integrità
psicofisica della persona suscettibile di
accertamento medico legale che esplica un
incidenza negativa sulle attività quotidiane
e sugli aspetti dinamico relazionali della
vita del danneggiato’” (Cass. S.U. n.
26972/2008, § 2.13)
- un profilo descrittivo morale,
ossia
“pregiudizio costituito dalla sofferenza
soggettiva cagionata dal reato in sé
considerata. (Cass. S.U. n. 26972/2008, §
2.10)”; in ogni caso “deve ...trattarsi di
sofferenza soggettiva in sé considerata,
non come componente di più complesso
pregiudizio patrimoniale. Ricorre …dove
sia allegato il turbamento dell’animo, il
dolore intimo sofferti, …senza lamentare
degenerazioni patologiche della sofferenza.
Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si
rientra infatti nel danno biologico” (Cass.
S.U. n. 26972/2008, § 4.9)
- un
profilo
esistenziale,
descrittivo
“consistente nel non poter fare (ma
sarebbe meglio dire: nella sofferenza
morale determinata dal non poter fare)”,
qui “vengono in considerazione pregiudizi
che, in quanto attengono all’esistenza della
persona, per comodità di sintesi possono
essere descritti e definiti come esistenziali,
senza che tuttavia possa configurarsi un
autonoma categoria di danno” (Cass. S.U.
n. 26972/2008, § 3.4.2)
In altri termini, per usare una più
recente definizione della Suprema
Corte
il
profilo
descrittivo
esistenziale consiste in un
“pregiudizio del fare aredittuale del
soggetto determinante una modifica
peggiorativa della personalità da cui
consegue
uno
sconvolgimento
dell’esistenza, ed in particolare delle
abitudini di vita, con alterazioni del modo
di rapportarsi con gli altri nell’ambito della
comune vita di relazione .:.E’ uno
sconvolgimento, continua la Suprema
Corte, foriero di scelte di vita diverse, lo
sconvolgimento
dell’esistenza
obiettivamente accertabile” (cfr. Cass.
n.14402/2011)
Per queste ragioni è stato
ulteriormente posto in rilievo come
ai fini della liquidazione del danno
non patrimoniale debba tenersi in
considerazione la sofferenza o
patema d’animo
“non solo quando la stessa rimanga allo
stadio interiore o intimo, ma anche
allorquando si obiettivizzi degenerando in
danno biologico o in pregiudizio
prospettante profili di danno esistenziale”.
(cfr. Cass. civ. n.7884/2011)
In buona sostanza, come ben
deducibile anche dalla presa
contezza del paragrafo terzo, nella
valutazione di un danno biologico
di
natura
psichica
rilevano
unicamente le alterazioni al facere e
i
risvolti
sofferenziali
consequenziali lo stato di malattia
reattivo all’azione lesiva e non gli
stravolgimenti esistenziali e gli stati
di afflizione reattivi al fatti di causa
in se è per sé considerati.
Dimensioni queste ultime che
tuttavia potrebbero rientrare a
pieno titolo nella descrizione di un
danno non patrimoniale da
mobbing.
Si tratta nello specifico, anche
nell’ipotesi di presenza di un danno
biologico di natura psichica, di
18
dover spesso riconoscere alla
vittima di mobbing un danno alla
professionalità
inteso
come
inibizione
all’autorealizzazione
lavorativa, profilo di danno
“nominalisticamente” definito al
paragrafo 4.5 della Sentenza delle
Sezioni Unite n. 26972/08, dov’è
inteso come l’insieme delle
compromissioni dello svolgimento
della vita professionale del
lavoratore
In altri termini,
“bisogna,
constatare,
come
il
comportamento vessatorio sia suscettibile,
in quanto tale di incidere, prima che sul
piano emotivo del soggetto perseguitato,
sul vivere quotidiano del lavoratore. Ad
essere colpito in prima battuta, appare
sempre e comunque lo svolgimento della
sua
personalità
nell’ambiente
professionale, che inevitabilmente risulta
condizionato in senso negativo dalla
persecuzione. Si tratta a ben vedere di una
compromissione dell’attività lavorativa,
che risulta negativamente incisa nella sua
veste di strumento di realizzazione
dell’individuo” (Ziviz P., 2003, p. 26)
I mobbizzati, inoltre, tipicamente,
al di là di possibili pregiudizi
esistenziali o biologici soffrono
prima di tutto perché sentono lesa
la loro dignità morale di Persona,
poichè il senso dell’ingiustizia, che
fa da cornice a tutta la loro
doglianza porta ad un acutizzarsi
del turbamento e del sentimento di
offesa morale. Non a caso al
fenomeno del mobbing è stata
riconosciuta anche l’etichetta di
molestia morale.
Per altro, come dettagliatamente
riportato in altro scritto, cui si
rimanda per il dettaglio, tra le
diverse formule descrittive di
danno non patrimoniale paiono
tratteggiarsi
interconnessioni
empiriche tipiche che possono ben
orientare gli operatori del diritto
nell’istruzione della causa, senza
cadere in ipotesi di over e/o under
compensation.
In buona sostanza da un analisi
qualitativa della storia clinica di
soggetti interessati da dinamiche di
mobbing e/o di stress lavorocorrelato, si osservano le seguenti
tendenze (Ceppi Ratti E., De
Ambrogi F., in corso di stampa):
- Quanto il soggetto soffre a
causa del peggioramento del
proprio stato occupazionale (c.d.
danno esistenziale professionale
nella sua componente “morale”)
pare
spesso
direttamente
proporzionale
al
puro
deterioramento dello stesso (c.d.
danno esistenziale professionale
propriamente detto).
- L’entità del soffrire susseguente lo
stravolgimento in peius della propria
attività lavorativa (c.d. danno
esistenziale professionale nella sua
componente “morale”) pare avere
di sovente ricadute amplificatorie
sull’intensità della sofferenza legata
al sentirsi lesi come “Persona” (c.d.
danno morale puro), mentre non
paiono esserci relazioni di senso
contrario.
Il soffrire per sentirsi lesi nella
propria dignità di Persona e/o il
soffrire per la degenerazione della
propria situazione lavorativa (c.d.
danno morale puro e/o danno
esistenziale professionale nella sua
componente morale) paiono essere
importanti
concause
nella
slatentizzazione di un ulteriore
danno biologico di natura psichica
risarcibile,
mantenendo
al
contempo una loro individualità.
Quindi
da
una
prospettiva
prettamente tecnica i confini
delimitanti le diverse componenti
del danno non patrimoniale paiono
19
netti e al contempo sfumati dalle
diverse
interazioni
tra
sottocategorie, quasi a dare un
fondamento empirico alla tanto
criticata reductio ad unum operata
dalle Sentenze di San Martino.
Chiaramente, in fase istruttoria, un
posto di rilevo assumerà la
presunzione, badando, tuttavia, a
non cadere nell’ipotesi, dal nostro
Legislatore chiaramente ricusata,
del danno in re ipsa. In merito, un
possibile suggerimento valutativo
per profili di danno non
patrimoniale extra biologici in caso
di mobbing è, ad esempio, il c.d.
Metodo Ismec (Ceppi Ratti E., De
Ambrogi F., 2009), il quale si
presenta come modus operandi che si
pone appunto rispondente all’onere
del danneggiato che, nel suo
ricorrere alla prova presuntiva, è
chiamato ad allegare tutti gli
elementi che nella concreta
fattispecie, siano idonei a fornire la
serie concatenata di fatti noti che
consentano di risalire al fatto
ignoto. Nello specifico, la logica
sulla quale si fonda il metodo di
misurazione succitato è assai
semplice, ma non semplicistica. In
pratica l’entità del pregiudizio
professionale esistenziale, nella sua
natura ordinaria, è desunto come
proporzionale al c.d. “peso assoluto
del
mobbing”,
oggettivabile
attraverso l’ancoraggio a indicatori
appunto “oggettivi” quali la durata
(D), frequenza (F), multiformità (F)
delle azioni mobbizzanti e dislivello
di potere (M.C.) tra il mobbizzato e
il suo mobber i quali dovranno,
come ovvio, essere adeguatamente
allegati e provati. Diversamente, il
pregiudizio morale puro è visto
come, maggiormente, secondario
alla gravità dell’offesa e dunque,
verosimilmente, più legato all’entità
psicotraumatizzante
dell’azione
lesiva (c.d. coefficiente di rilevanza
psicotraumatizzante dello status
occupazionale lamentato) e non
solo al peso assoluto della
condizione lavorativa in sé
considerata.
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