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domenica
1° maggio
Note di sala
ORE 10.30 – VILLA LAGARINA, PALAZZO LIBERA
[MUSICA DA UN’ALTRA CAMERA]
DUO GRANATO
Cristian Battaglioli, saxofono | Marco Rinaudo, pianoforte
Quale cibo o vino verrà abbinato al concerto di oggi? Ai palati più sottili potrebbe sorgere un’altra domanda, forse
più spinosa: quale tipo di sax verrà abbinato alla degustazione di oggi?
Il sax è nato quasi l’altro ieri. Nella storia della liuteria più tradizionale, in rapporto ad altri strumenti, è un ingrediente
completamente nuovo, un grado zero della cucina, con delle ricette (dunque un repertorio) praticamente da
inventare. D’altronde stiamo parlando di un’invenzione vera e propria: nata in Belgio intorno alla metà del 1800
dal genio di Adolphe Sax, questa bizzarra «pipa di nichel» (parole di Jean Cocteau!) è figlia della modernità, ha una
giovane età anagrafica ma i suoi connotati sono in continua trasformazione. Stravinskij definì il sax un «delinquente
minorenne dal coltello facile»: un adolescente in continuo cambiamento, un po’ lunatico, capace di passare con
duttilità da un estremo all’altro (da un genere all’altro); insomma, alla ricerca costante di una propria identità.
È una storia in cui recitano vari attori: interpreti e compositori sono i principali protagonisti “ai fornelli”, ma secondo
dinamiche sempre diverse. A proposito di anagrafe: Giuseppe Guttoveggio, americano, figlio di siciliani emigrati a New
York, non sopportava che il proprio nome e cognome venisse sempre pronunciato male, per cui decise di cambiarlo
in quello di Paul Creston. Di professione assicuratore, musicista-pianista autodidatta, conobbe accidentalmente
Cecil Leeson, uno dei pionieri del sax negli Stati Uniti, dalla cui collaborazione nacque la Sonata op. 19 per sax
contralto e pianoforte (1939), forse il brano più inciso all’interno del repertorio per questo organico. Il primo (With
vigor) e il terzo movimento (With gaiety) risentono a livello ritmico delle esperienze di Creston come pianista di una
compagnia di danza; il secondo (With tranquillity) è probabilmente una delle pagine più liriche concepite per saxofono.
Da un simile tipo di collaborazione tra compositore e interprete nacque anche la Sonata op. 29 (1970-72) di
Robert Muczynski per lo stesso organico. Ancora un cambio anagrafico: inizialmente chiamata Desert Sketches,
avvenne che Trent Kynaston, il saxofonista che gli aveva commissionato l’opera, consigliò al compositore di
intitolarla Sonata, nonostante l’articolazione in due movimenti (Andante maestoso; Allegro energico), poiché
con ciò l’opera avrebbe probabilmente assunto un’aura più “colta” e avrebbe maggiormente attratto i potenziali
interpreti. Aneddoto, quest’ultimo, significativo riguardo al processo di emancipazione (ancora in corso) del sax,
costantemente alla ricerca di una propria identità a cavallo tra due mondi e tra due grandi categorie (musica ‘colta’
e non). Dire che questa composizione risente di echi gerswhiniani, dunque per certi aspetti jazzistici (ancora dal
punto di vista ritmico e armonico), potrebbe risultare un po’ superato: è innegabile che musica ‘colta’ e jazz si
siano influenzati a vicenda, spesso fondendosi, creando una commistione originale di cui il sax, forse più di tutti,
ne incarna benissimo l’essenza.
La sofferta conquista di una propria dignità artistica è un processo simile a quello avvenuto per il tango, un genere
talmente argentino che lo strumento che oggi più lo rappresenta è di origine tedesca (il bandoneon)! Dal modo
in cui ci viene raccontato in musica da Astor Piazzolla ne Histoire du Tango (1986), di cui oggi ascolteremo i
movimenti centrali (Cafè 1930 e Nightclub 1960), emerge ancor meglio il fatto che sax e tango siano accomunati
da un background comune: aver fatto gavetta nei bordelli – in cui la musica ha una funzione ben precisa –
ed essersi successivamente emancipati fino ad arrivare nelle sale da concerto in giacca e cravatta. Nel caso
dell’Histoire, però, i cuochi della ricetta sax davanti ai “fornelli” sono stati diversi: non si parla più di compositori
e interpreti, ma di interpreti-trascrittori (nella fattispecie il giapponese Nobuya Sugawa). Gli interpreti, in ogni
epoca, si sono adoperati per far crescere quantitativamente (oltre che qualitativamente) il repertorio per il
proprio strumento. Piazzolla ha concepito l‘Histoire per flauto e chitarra, ma l’arte della trascrizione esiste da
sempre, figurarsi se non per il sax, strumento nato “dal nulla” e dunque con un repertorio tutto da inventare.
È una storia simile, di nome e di fatto, a quella delle Histoires (1922) di Jacques Ibert. Pensate inizialmente per
pianoforte solo, furono trascritte per sax e piano nel 1939 da Marcel Mule, figura cruciale nella storia della «pipa
di nichel»: grande interprete, dedicatario di numerosissime opere per sax, pietra miliare della didattica. Egli si
pone come l’ideale prosecutore della strada tracciata da Adolphe Sax, in quanto artefice della riapertura della
classe di saxofono presso il Conservatorio di Parigi, dopo un lungo periodo di interruzione dovuto alla scomparsa
di Sax stesso, fino ad allora unico docente ad aver ricoperto quell’incarico presso l’istituzione parigina. A Mule e
al tedesco Sigurd Raschèr va riconosciuta l’importanza di aver stimolato alcuni tra i grandi compositori del tempo
(ad esempio Hindemith, Milhaud) ed aver formato generazioni di grandi interpreti grazie a cui questo meccanismo
di collaborazione strumentista-compositore non si è più disinnescato.
Fortunati e sempre meno rari sono anche i casi in cui la figura dell’interprete coincide con quella del compositore,
come nel caso del compianto Claudio Ceschini, saxofonista e docente italiano, che in Felliniana mescola
sapientemente le colonne sonore dei film Amarcord, Otto e mezzo e La strada, musiche composte da Nino Rota.
Dagli schermi italiani ai palcoscenici di Broadway, il passo è breve ancora una volta grazie ad una trascrizione:
in questo caso il sax recupera la propria «delinquenza» e, in duo con il pianoforte, racconta le risse tra bande di
strada newyorkesi, quelle messe in scena in West Side Story, le cui musiche furono composte da Leonard Berntein.
In soli 150 anni di storia, il sax ha così affondato il coltello (da cucina) un po’ dappertutto. Le sue caratteristiche
organologiche lo hanno fatto diventare un ingrediente a cui difficilmente, oggi, si può rinunciare. Christian Lauba,
compositore francese vivente, ne ha sviscerato alcuni retrogusti timbrici importanti, ad esempio nei Neuf Etudes
puor saxophone. Jean Marie Londeix, l’erede spirituale di Marcel Mule, ha detto in proposito che «Lauba sta al
saxofono come Chopin lo è stato al pianoforte»; dichiarazione di un certo peso. Ma il compositore franco-tunisino
ha talmente colto l’essenza diabolica di questo strumento che ha persino composto The Devil’s Rag sotto lo
pseudonimo di Jean Matitia. Tutto sembrerebbe tornare così alla storia iniziale: cambi di nome, di genere, di abito...
Chi, dopo queste righe, ha maturato una certa indecisione sugli abbinamenti enogastro-musicali, potrebbe essere
giustificato. Ma chi osa dire che il sax non è «né carne, né pesce», forse commette un errore: non ne ha colto la
sua natura più intima, che è camaleontica. E anche un po’ trasformista.
Giulio Gianì
In collaborazione con:
CONSERVATORIO DI
MUSICA F.A. BONPORTI
Trento e Riva del Garda
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